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COLLISIONI – presentata la quindicesima edizione del festival agrirock

Un festival per i giovani: Geolier, Lazza e Sfera Ebbasta sono le punte di diamante di un evento musicale che, con oltre 40.000 spettatori nelle scorse edizioni, unisce cultura e intrattenimento con un approccio moderno e glocal.

Martedì 20 giugno si è tenuta la conferenza stampa della prossima edizione di Collisioni Festival nella Sala Trasparenza del Grattacielo della Regione. A tenere le fila della discussione è stato il direttore artistico Filippo Taricco che, da subito, ha sottolineato la volontà di dedicare ai più giovani l’intero evento. La demografica dei presenti in sala tuttavia non era dello stesso parere, vista l’assoluta assenza di under 30; ed è stato lo stesso Taricco, scegliendo di omettere del tutto la presentazione del cast, a ironizzare: «Tanto in questa sala siete tutti vecchi, non conoscete nessuno di questi nomi e pensate solo al buffet». Per fortuna, però, la programmazione delle serate mantiene la promessa.

In piazza Medford il 7, l’8 e il 9 luglio la città di Alba ospiterà alcuni tra gli artisti più apprezzati della scena musicale italiana attuale. Dall’attesissimo Lazza a Sethu, il festival conferma nuovamente una line up contemporanea che negli ultimi anni lo ha contraddistinto e ringiovanito.

Un pensiero anche per i più nostalgici e per la vecchia generazione per i quali Collisioni ha previsto l’unica data piemontese degli Articolo 31, domenica 9 luglio e l’esibizione di Checco Zalone, domenica 16 luglio. Da quest’anno, grazie ai fondi della compagnia SanPaolo, il festival espande il suo intervento con la riqualificazione della zona del Parco Tanaro e la creazione di un palco permanente da lasciare in eredità: «Perché i giovani di oggi non siano costretti a sopportare la fatica e le tribolazioni che abbiamo subito quando abbiamo creato Collisioni» commenta Taricco. Un regalo ai posteri, ma soprattutto alle nuove leve.

Il nuovo spazio pronto all’uso, sarà a disposizione di chiunque voglia creare un evento. Verrà inaugurato il 20 luglio con il concerto di Mr. Rain e utilizzato nuovamente in conclusione del festival, con Diodato il 30 luglio.

COLLISIONI FESTIVAL – PIAZZA MEDFORD

VENERDÌ 7 LUGLIO
Ernia + Geolier
LAZZA

SABATO 8 LUGLIO
Giuse The Lizia + Sethu + Tony Boy
Shiva
SFERA EBBASTA

DOMENICA 9 LUGLIO
FESTA ANNI 90 con ARTICOLO 31 + DeejayTime

DOMENICA 16 LUGLIO
CHECCO ZALONE – Amore + Iva

COLLISIONI FESTIVAL – ARENA PARCO TANARO

Giovedì 20 LUGLIO
MR RAIN

Domenica 30 LUGLIO
DIODATO

Maggiori informazioni al link: https://www.collisioni.it/

A cura di Aurora Colla

Le paure e le verità degli Atlante a sPAZIO211

C’è una Torino fatta di stadi, palazzetti e teatri e una Torino di piccoli locali storici: sPAZIO211 è senza dubbio uno di questi. Una realtà senza transenne, senza lunghe code per entrare e senza stress da parcheggio. Una realtà intima dove puoi scambiare qualche chiacchiera con l’artista prima che salga sul palco o scorgere tra il pubblico il membro di una band che avevi visto live qualche settimana prima. Lo sanno bene i fan degli Atlante, che non sono di certo mancati al ritorno live della rock band il 28 aprile scorso, quasi un anno dopo dall’ultimo concerto torinese. Il trio composto da Claudio Lo Russo (voce e chitarra), Andrea Abbrancati (basso) e Stefano Prezzi (batteria) ha dato il benvenuto a Luca de Maria, chitarrista che aveva già collaborato e suonato con la band, ma che da ora in poi sarà una presenza fissa sul palco.

Andiamo con ordine: ad aprire le danze ci pensano gli Est-Egò, band torinese che aveva suonato all’Eurovillage al Parco del Valentino in occasione della scorsa edizione dell’Eurovision Song Contest. Dall’allora, però, tante cose sono cambiate per la band, che si presenta sul palco con una formazione nuova, ma con lo stesso sound onirico e psichedelico di sempre. Basta una manciata di brani, per lo più strumentali, per scaldare il pubblico, che timidamente si appresta sottopalco.

Gli Est-Egò (credits foto: Martina Caratozzolo)

È il momento degli Atlante: il frontman imbraccia la chitarra e suona le prime note distorte di “Materia”, che i fan riconoscono in pochi secondi e iniziano a cantare a colpi di headbanging. Il loro marchio di fabbrica sono le sonorità rock, fatte di riff energetici, combinate a sonorità elettroniche, che Lo Russo propone egregiamente al synth, in linea con il suo progetto solista Lorusso.

Claudio Lo Russo (credits foto: Martina Caratozzolo)

La scaletta è un susseguirsi dei brani di paure/verità, l’ultimo album pubblicato dagli Atlante a fine 2021 firmato Pan Music Production. Non mancano, però, altri brani come “Atlas” e “Bivio” dagli album precedenti e lo spazio per un brano inedito.

La serata avanza e l’atmosfera è calorosa: ci sono cartelloni con dediche, sguardi d’intesa e momenti di pogo. La band lascia il palco, ma il pubblico non è ancora soddisfatto. Difatti, non è ancora finita: mancano tre brani, tra i quali “Venere”, il più apprezzato dai fan, che chiude la scaletta tra gli applausi.

Gli Atlante (credits foto: Martina Caratozzolo)

A concerto finito, ritornando alla normalità, si ha la sensazione che il live sia durato il tempo sufficiente per farti venire voglia di ascoltare gli Atlante in nuove occasioni, in attesa di nuova musica. Gli Atlante sono una delle band emergenti torinesi più note e l’entusiasmo vissuto a sPAZIO211 è la prova dell’affetto che Torino nutre per loro.  

A cura di Martina Caratozzolo

Jazz is Dead! 2023: gli Irreversible Entanglements al Cinema Massimo

La sera del 3 giugno nella sala 1 del Cinema Massimo si è tenuto lo spettacolo Irreversible Entanglements: Men at Work, evento nato dalla collaborazione tra il festival Jazz is Dead! e il Museo Nazionale del Cinema. Dopo l’anteprima al Cap10100 e le serate del 26, 27 e 28 maggio al Bunker, la sesta edizione del festival torinese è proseguita con una produzione volta a valorizzare una parte del Fondo Vittorio Zumaglino dedicata al lavoro nella Torino degli anni ’30 e ’40, con l’accompagnamento musicale del collettivo free jazz americano Irreversible Entanglements.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Solo un paio di riflettori e la luce dello schermo del cinema illuminano la band, che inizia a suonare quasi in punta di piedi mentre viene proiettato il montaggio delle immagini di Vittorio Zumaglino curato da Nadia Zanellato: l’intensità della performance aumenta gradualmente e segue pari passo lo sviluppo del montaggio, che più diventa serrato e più porta la musica a creare un’atmosfera ipnotica e affascinante, dando vita a percorsi sonori apparentemente infiniti.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Gli Irreversible Entanglements portano sul palco testi dedicati alla centralità dell’amore nella nostra vita e all’importanza delle proprie radici, rivolgendo inoltre uno sguardo al futuro: le parole vengono pronunciate dalla voce perentoria e decisa di Moor Mother, leader del gruppo, che con un piglio da predicatrice si rivolge al pubblico e si lascia andare ai suoni del resto del collettivo, formato da Luke Stewart, Keir Neuringer, Aquiles Navarro e Tcheser Holmes.

Al termine dell’esibizione, gli organizzatori dell’evento, con il sostegno del pubblico, chiedono un piccolo bis, immediatamente concesso: Moor Mother chiede di pronunciare con lei la frase “We can be free”, e su queste quattro parole si chiude ufficialmente lo spettacolo della band.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Si conclude tra gli applausi del pubblico e anche alcuni gridi di approvazione l’iniziativa extra del Jazz is Dead! 2023, che è riuscita a creare un paesaggio sonoro assolutamente inedito unendo l’immagine di una Torino lontana e a noi sconosciuta a suoni appartenenti ad un altro mondo e ad un’altra epoca, ancora poco familiari nel mainstream italiano odierno. Sicuramente, coloro che hanno avuto modo di vedere gli Irreversible Entanglements all’opera non potranno fare a meno di desiderare di immergersi ancora una volta nel loro mondo: un’occasione perfetta per farlo sarà l’uscita del loro nuovo progetto a settembre, annunciato in esclusiva proprio durante la serata.

Foto in evidenza di Elisabetta Ghignone.

A cura di Giulia Barge

Jazz is Dead, serata finale: il Bunker nel segno della musica

Terzo appuntamento del Jazz is Dead, pomeriggio del 28 maggio: il clima decisamente instabile, fatto di rannuvolamenti e piogge passeggere, non scoraggia i presenti, accorsi all’evento gratuito per godersi l’ennesima giornata di musica. Teatro della kermesse, giunta ormai alla sesta edizione, è il Bunker; la line-up è molto variegata, in accordo con le giornate precedenti e lo spirito del festival (la tematica di quest’anno ragiona sull’identità: “Chi sei?”). Tantissimi gli artisti coinvolti, così come le proposte, i generi, addirittura gli strumenti che figurano sui diversi palchi. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, come sottolinea nei suoi interventi il direttore artistico della rassegna, Alessandro Gambo.

Ad aprire le danze all’interno del tendone, primo di due scenari, è l’orchestra Pietra Tonale. Le temperature, elevate in quello che è uno spazio ristretto e stracolmo di gente, non impediscono di godersi lo spettacolo: l’ensemble porta in scena una musica che combina i suoni della tradizione orchestrale con la sperimentazione moderna e contemporanea. Grande enfasi sulla componente ritmica (le batterie sono ben due) e sulla genesi sonora, che culmina in momenti di notevole apertura melodica. L’esibizione è apprezzabile sia per l’originalità dei contenuti che per l’atmosfera creata, a un tempo raccolta e suggestiva, con la proiezione sullo sfondo di immagini vagamente psichedeliche.

Pietra Tonale. Foto: Amalia Fucarino

È dunque il turno del trio del trombettista Gabriele Mitelli, accompagnato dal contrabbassista John Edwards e dal batterista Mark Sanders. Sempre all’interno del tendone, il jazz eclettico dei musicisti incontra sonorità sintetiche ed elettroniche; da questa combinazione traspare la volontà precisa di esplorare, in senso letterale, ogni possibilità esecutiva offerta dalla strumentazione. E soprattutto, di divertirsi nel farlo. Piatti suonati con l’archetto, corde pizzicate sopra e sotto il ponticello, trombe stridenti e trasfigurate, voci solo accennate, quasi suggerite; tutto indirizza a una ricerca condotta sul suono, e lo sviluppo dei brani pare descrivere un vero e proprio flusso di coscienza, intrigante e imprevedibile.

Da sinistra: Gabriele Mitelli, John Edwards, Mark Sanders. Foto: Roberto Remondino

Ci spostiamo poi all’interno del club, ovvero lo spazio interno del Bunker, dove si esibisce Brandon Seabrook, chitarrista e banjoista americano, accompagnato da due musicisti d’eccezione quali il batterista Gerard Cleaver e il pianista e compositore Cooper-Moore. Quest’ultimo è impegnato con uno strumento molto particolare, ovvero il diddley bow, monocordo originario dell’Africa. Gli intrecci melodico-armonici, spesso rapidi e frenetici, sono i protagonisti assoluti dello show: ne risultano suoni singolari, talvolta aspri, insoliti, apprezzabili anche per il carattere sperimentale e improvvisativo. A farla da padrone sono la grana sonora – materica – delle corde e un dialogo musicale a dir poco acceso, soddisfacente da vedere e ascoltare.

Da sinistra: Cooper-Moore, Gerard Cleaver e Brandon Seabrook. Foto: Amalia Fucarino

I quarti artisti della serata sono i Moin, progetto musicale che vede la collaborazione tra la band londinese Raime e la batterista pugliese Valentina Magaletti. Con i Moin si entra in un terreno del tutto nuovo, lasciandosi alle spalle quasi ogni cenno del jazz finora suonato, così come di quello citato nel nome del festival: il marchio di fabbrica del complesso è un sound elettronico cupo, dove il sintetizzatore si unisce a chitarre distorte e a potenti riff di basso e batteria, con sembianze di matrice post-rock e post-punk. Interessante – anche un po’ inquietante – l’ingresso sul palco del gruppo, con alcune basi di voce registrata in loop; il prosieguo dell’esibizione sviluppa la scaletta sul suddetto mood, muovendo spesso verso un’atmosfera satura di suono e marcando uno stile definito, quasi ritagliato su misura.

Moin. Foto: Roberto Remondino

Ultimo gruppo in programma sono i giapponesi Boris, band attiva da più di trent’anni, che infiamma l’evento in modo definitivo. Protagonisti di una fusione musicale che accosta il metal a generi quali ambient, noise rock e hardcore punk, i musicisti esprimono da subito la loro natura di animali da palcoscenico. Il bassista e chitarrista Takeshi Ōtani sfoggia entrambi gli strumenti in uno, a doppio manico, il che già di per sé ruba la scena; dietro la batteria si staglia un grandioso gong, percosso spesso e volentieri dal batterista nella successione di ritmi serratissimi; il cantante, Atsuo Mizuno, si scatena senza soluzione di continuità, coinvolgendo il pubblico in modo costante e facendosi addirittura portare in trionfo dalla folla a più riprese. A completare la formazione è la chitarrista Wata, la quale si occupa anche delle tastiere, in particolare in “[not] Last Song”. Neanche a dirlo, i presenti si abbandonano a un folle pogo lungo tutta la durata del concerto, facendo sentire il loro entusiasmo specie in pezzi come “Question 1” oppure “Loveless”. Il climax giusto per chiudere la serata e la rassegna.

Boris. Foto: Amalia Fucarino

Il Jazz is Dead si conclude col botto, confermandosi un’importante realtà della scena torinese, aperta più che mai all’incontro tra generi differenti, alla ricerca e alla sperimentazione artistica, dal respiro e dalla portata a tutti gli effetti internazionale. Un appuntamento da non perdere, insomma, che fa dell’inclusione e dell’accessibilità i suoi punti di forza, suggellando il tutto con un’interessante selezione musicale.

A cura di Carlo Cerrato

Lucio Corsi: artista, alieno, necessario

Un viaggio intergalattico annaffiato nella birra: il racconto del live all’Hiroshima Mon Amour

Per due ore di un venerdì fradicio di maggio l’Hiroshima Mon Amour è l’astronave di Lucio Corsi. Un pianoforte, una tastiera, chitarre, maracas, una valigetta di cuoio e due Tuborg pericolosamente in bilico sul bordo del palco: è un rebus ancora da svelare, il mondo live di questo alieno gentile mutaforma. Così lontano, così terrestre, italiano, toscano. E pure i suoi musicisti sembrano assolutamente fuori posto, assortiti in maniera bizzarra, nell’accezione più positiva del concetto.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Mentre scintillano i riflettori veloci nella sala Majakovskij, sembra di scorgere quell’Iggy Pop del ‘72, che si contorce a torso nudo, tutine attillate e scarponcini di vernice che pestano i cavi. Ma Lucio Corsi non gioca a fare la rockstar. È un alieno gentile, animalesco, timido, nascosto dietro i capelli lunghi e una spennellata di cerone. La sua verità è lì da qualche parte, tra una sensibilità musicale raffinata, dalle liriche, agli arrangiamenti, alle costruzioni armoniche. È avvolto da un candore inafferrabile, una purezza tutta da preservare, prima che rimanga incastrata tra le grinfie di qualche salotto Rai.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Corsi si lancia in lunghi assoli elettrici senza mai sfociare nel virtuosismo vuoto, sale e scende dal palco, cambia outfit, suona cover di Dalla e Battisti, legge poesie. Ma nonostante tutto, lo spettacolo non c’è. Non c’è spazio per il cabaret, le frasi trite da animali da palcoscenico: Corsi sul palco sembra che ci sia appena atterrato da chissà dove. Tra un pezzo e l’altro accorda le chitarre, non sa che dire, improvvisa qualche spiegazione impacciata priva di qualsiasi irritante snobismo pretenzioso. E chi non ha pensato ad un certo cantautorato indie italiano scagli la prima pietra.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Quello che rimane, sotto il cerone sciolto e le birre rovesciate sulla scaletta, è un solenne e totale rispetto per la musica, che è suonata, è vissuta, è costruita in studio con uno sforzo collettivo, è la reale protagonista del tutto. Ancora più di Lucio Corsi stesso, che non c’è dubbio eserciti un naturale fascino magnetico sul suo pubblico e sui suoi fan, ma che non si mette mai davanti alle sue canzoni. Che sia il delicato universo fiabesco di Bestiario musicale, la dolcezza di Cosa faremo da grandi? o il più maturo La gente che sogna, l’ultimo album uscito lo scorso 21 aprile, Corsi ti parla del vento, della luna, della ragazza trasparente, del ragazzo altalena, delle stelle e le navi spaziali; disegna quadri impressionisti intimi e lontani, con un occhio un po’ bambino, che osserva la vita e le cose del mondo scoprendole per la prima volta.

La canzone italiana riparta da Lucio Corsi, dalle sue astronavi giradisco, che suonano musica aliena che non è mai stata così reale, così umana.

Premio Buscaglione, finale: Torino celebra la musica emergente italiana

La finale della settima edizione del Premio Buscaglione è arrivata: dopo essere stati allo sPAZIO211 e all’Off Topic, il 6 maggio siamo sulle sponde del Po, al CAP10100, in una sera fresca ma gradevole. Il concorso ha visto arrivare a Torino diverse band da tutta Italia (sei gli artisti per ciascuna serata, e questa non fa certo eccezione), a contendersi il plauso della critica e a mostrarsi ai presenti, affamati di musica nuova di zecca; è giunto il momento di decretare quale, tra le tante proposte, conquisterà la prestigiosa posta in palio.

Quest’anno i presentatori sono la speaker radiofonica Claudia Losini e l’autore televisivo Sebastiano Pucciarelli, che introducono la serata con un programma leggermente diverso dalle precedenti: se in queste, infatti, le band emergenti a esibirsi erano cinque, seguite da un ospite (Post Nebbia il 4 maggio e Yosh Whale il 5), nella finale si sfidano le due band selezionate in ciascuna serata, per un totale di quattro progetti emergenti. A chiudere l’evento, fuori concorso, ci saranno il cantautore emiliano Dente e i corregionali Gazebo Penguins.

UFO BLU. Foto: Elisabetta Ghignone

I primi a salire sul palco sono i bergamaschi UFO BLU, originale quartetto caratterizzato da un sound ibrido, che fonde elementi di rock e funk, con qualche richiamo più o meno esplicito al dream pop. Il frontman si muove sul palco scanzonato, e canta i suoi versi con tono ironico ed autoironico, avvolto nel suo look anni ’70 (impossibile non menzionare la sua canotta bianca e soprattutto quei baffi). I musicisti, tutti giovani studenti di ingegneria, ottengono l’apprezzamento e le simpatie dei presenti; come da prassi, reinterpretano inoltre un brano dell’artista cui il premio è dedicato, ovvero “Una sigaretta”. Tra gli inediti, è di sicuro da segnalare il primo brano “Cresci bambino”; l’esibizione, complice la breve durata dei pezzi, termina rapidamente, ma lascia il segno per la carica trasmessa in apertura dell’evento.

Hey!Himalaya. Foto: Elisabetta Ghignone

È poi il turno degli Hey!Himalaya, un gruppo di ragazzi lecchesi ritrovatisi a Bologna, i quali propongono un intreccio musicale eterogeneo. I loro pezzi si muovono tra il folk rock e l’elettronica – anche qui sono presenti suggestioni dream pop – marcando subito una cifra stilistica propria, oltre a evidenziare una certa maturità artistica ed esecutiva. Anche l’immagine fa la sua parte: il cantante sfida le temperature indossando un dolcevita; il tastierista ci tiene invece a suonare rigorosamente a piedi scalzi. Il finale, con le atmosfere cangianti della loro “Cantilena violenta”, corona l’esibizione nel migliore dei modi; la cover di Buscaglione in questo caso è “Lontano da te”, che viene resa quasi irriconoscibile, a testimonianza della grande inventiva dei musicisti.

Miglio. Foto: Elisabetta Ghignone

Ad andare in scena è in seguito la bresciana Miglio, e subito le vibrazioni della serata slittano verso il pop e l’elettronica vera e propria, che assume spesso sfumature più cupe; la cantautrice si presenta in duo con un polistrumentista, il quale alterna i sintetizzatori e il basso, occupandosi anche delle basi dei pezzi. Il punto di forza dell’artista, oltre che nella qualità dell’interpretazione e della voce, risiede nei testi, dove si percepisce un’autorialità ben delineata: la sua scrittura, come peraltro riferito da Losini nella breve intervista post-esibizione, combina infatti serie di immagini a tratti evocative, a tratti vivide e sensuali (l’esempio perfetto è “Techno Pastorale”). Il brano di Buscaglione stavolta è “Buonasera signorina”, con sola voce e chitarra; una performance di livello, condotta con grande personalità e consapevolezza dei propri mezzi lirici e musicali.

Candra. Foto: Elisabetta Ghignone

Ultimo finalista è Candra, artista proveniente da Livorno, che riporta la piega dello show nella sfera del rock. Con una vocalità graffiante, il cantautore alterna brani più distesi, in cui chitarra elettrica e piano sono spesso gli unici strumenti accompagnatori, a una cover dal piglio quasi sognante (“Che bella cosa sei”), per poi arrivare al gran finale, con “Zitti”. Il pezzo inizia quasi in sordina, per poi liberare le sue sembianze punk nel potente e orecchiabile ritornello, uno di quelli che rimangono in testa per davvero. Candra si distingue per il modo genuino e convincente col quale mette in musica tematiche delicate, trattate con testi che colgono nel segno e ne evidenziano il peso e la portata personale.

Dente. Foto: Elisabetta Ghignone

È ora la volta del primo dei due artisti fuori gara: Losini, Pucciarelli e Gigi Giancursi, ex membro dei Perturbazione, introducono sul palco Dente, cui viene consegnata la Targa Gran Torino, destinata a un autore che abbia, citando Pucciarelli, «incarnato la natura migliore del cantautorato italiano». L’artista originario di Fidenza si esibisce in solitaria con la sua chitarra acustica: il primo pezzo suonato è “Saldati”, ormai di lunga data, mentre “Allegria del tempo che passa” è una nuova e frizzante uscita. Tra le canzoni, tutte ammantate di una piacevole leggerezza, scappa qualche fugace scambio di battute col pubblico; l’omaggio a Buscaglione non lo salta neppure lui, e la sua versione di “Guarda che luna” – tra le più celebri ballads dello showman torinese – conquista tutti i presenti, forse anche per la spontaneità informale restituita.

Gazebo Penguins. Foto: Elisabetta Ghignone

Ospiti d’eccezione, a chiudere questa lunga traversata, i Gazebo Penguins. Il quartetto di Correggio si presenta al culmine dell’attesa dei numerosi fan: adesso è il momento di scatenarsi. La musica spazia tra l’emo, il punk e soprattutto l’hardcore, anche se non mancano nemmeno qui i sentori elettronici; la scaletta è naturalmente più estesa delle precedenti, e il pubblico più caldo coglie l’occasione per darsi a un pogo forsennato durante la maggior parte dei brani (come in “Soffrire non è utile” o “Cpr14”, per citarne qualcuna). I riff aggressivi, le parti vocali cantate in coppia e il muro sonoro, generato anche grazie a un’importante quantità di amplificatori, caratterizzano un concerto grintoso, che chiude sulle note di una delle canzoni più conosciute del gruppo: “Senza di te”.

La premiazione ha così luogo dopo una sostanziosa scorpacciata musicale: a vincere la settima edizione del Premio Buscaglione sono gli Hey!Himalaya, i quali si aggiudicano il titolo di Next Big Thing italiana. Loro anche il Premio Booster; a Miglio vanno invece il Premio della Critica, il Premio Sold-Out e il Premio Riflettori. È la degna conclusione di una rassegna scoppiettante, piena zeppa di talenti che hanno saputo mettersi in mostra, farsi conoscere e soprattutto divertirsi, illuminando per tre serate consecutive la scena torinese e tagliando l’ennesimo nastro della nuova musica italiana.

A cura di Carlo Cerrato

Niccolò Fabi incanta il pubblico torinese al Teatro Colosseo

Al Teatro Colosseo, San Salvario, c’è tanta gente. È il 28 aprile, una di quelle serate in cui fa piacere uscire di casa vestiti più leggeri del solito. C’è una fila lunga, per quanto scorrevole, composta da persone di generazioni differenti. E c’è un evento per il quale probabilmente è da un po’ di tempo che si aspetta, che si fa il conto alla rovescia: Niccolò Fabi approda a Torino con il suo Meno per meno Tour, il ciclo di concerti che celebra l’omonimo album, uscito lo scorso 2 dicembre, in cui figurano diversi brani inediti, oltre alla reinterpretazione in chiave orchestrale di numerose canzoni dal repertorio dell’artista.

Il cantautore romano, che festeggia i 25 anni di carriera, fa il suo ingresso in solitaria, introducendo lo show con un breve discorso: è evidente il desiderio di creare un’atmosfera raccolta, quasi volesse partire per un viaggio, al tempo stesso intimo e condiviso, da compiere insieme ai presenti (scherza: «in questi momenti mi sento un po’ un assistente di volo»). Fabi ha bisogno di immergersi nella dimensione giusta, per familiarizzare con il palco, coabitare lo spazio con il pubblico (il concerto, neanche a dirlo, è andato sold out) ed esprimersi al meglio delle sue possibilità; si percepisce da subito il rispetto della platea per la sua volontà, attraverso un ascolto devoto e – almeno all’inizio – del tutto silenzioso. La prima canzone è “Tradizione e tradimento”, che dà il titolo al disco del 2019.

Ci sono solo lui e la sua chitarra – anzi, le sue chitarre: ne alterna almeno un paio; la scaletta annovera brani del passato più recente (come “Una somma di piccole cose”, 2016) così come i successi degli esordi, tra cui “Rosso” (1997). Partono qui rapide digressioni, in cui Fabi sorride del mood danzereccio del pezzo, che faceva scatenare gli spettatori negli anni Novanta, e del suo contenuto (parla di un sogno in cui lui è morto, e la sua amata al funerale non è vestita a lutto, ma indossa appunto un abito rosso). “Facciamo finta”, annunciata da poche parole che ne suggeriscono l’importanza, lascia una commozione amara, originata da un atroce lutto personale, effuso qui in forma d’arte. L’artista suona anche il pianoforte, accompagnando pezzi quali “Meraviglia” e “Ora e qui”.

Tra un brano e l’altro, Fabi continua a parlare in modo semplice, con tono delicato, verrebbe da dire confidenziale. La finestra aperta sul suo vissuto, sul disagio di stare al centro dell’attenzione (di cui racconta in una recente intervista a Sky TG24), sull’animo sensibile che traspare dai suoi versi, è il risultato di una ricerca continua, che corona il lavoro di un autore – e soprattutto di un uomo – più che maturo. Con “Lontano da me” si chiude la prima parte dell’esibizione, e gli strumenti in ombra sul palco infine si animano.

Niccolò Fabi
Niccolò Fabi – foto dal suo profilo instagram

Oltre a musicisti quali Roberto Angelini alle chitarre, Alberto Bianco al basso – anche loro cantautori – e Filippo Cornaglia alla batteria, collaboratori stabili di Fabi, ad andare in scena è ora l’Orchestra Notturna Clandestina, protagonista dei brani di Meno per meno, arrangiati dal suo fondatore Enrico Melozzi. La prima canzone suonata in questa veste è “Andare oltre”, presente tra gli inediti dell’album. L’altissimo livello della musica sposa la profondità dei testi, e allo spettacolo partecipa l’intero contesto del teatro e della platea, che pian piano inizia – senza entusiasmi eccessivi – a lasciarsi andare.

Il prosieguo del concerto attinge in primis dagli ultimi album (ad esempio con “A prescindere da me”), dando nuova linfa ai pezzi proposti: “Ha perso la città” è da citare come uno degli esempi più riusciti di riarrangiamento. Da Meno per meno è tratta anche “Al di fuori dell’amore”, con la sua toccante riflessione sulle possibilità di «fare la vita che abbiamo scelto»; subito dopo c’è “Filosofia agricola” (da Una somma di piccole cose), a ricordarci la nostra natura di esseri umani, spesso attaccata alle memorie, ai periodi, alle persone, mentre tutto cambia e fluisce.

Ci si avvia poi verso la conclusione, e non può che essere un crescendo. Fabi torna al piano con “Una mano sugli occhi”, prima di eseguire il brano che forse più di tutti racchiude la sua poetica e le sue peculiarità di artista: “Costruire” mette in musica il ruolo chiave della pazienza e dell’imperfezione nella vita di ognuno, dove a contare non sono le destinazioni, ma i percorsi. “Una buona idea” è il penultimo pezzo, e qua sì: si canta a squarciagola – dulcis in fundo – e qualcuno si alza in piedi, colto dalla sua contagiosa orecchiabilità. A chiudere, una canzone che «proprio non vi potete immaginare»: il grande classico “Lasciarsi un giorno a Roma”, che andò a Sanremo nel ’98, lo intonano proprio tutti, anche quelli che addirittura accennano a un ballo, nei limiti e nelle possibilità dello spazio; tutti hanno lasciato la sedia e battono le mani, giunti forse alla meta, dopo un paio d’ore, di quel viaggio voluto, cercato e ottenuto da Fabi. Un finale da standing ovation, che libera tutto l’apprezzamento e l’affetto dei presenti: questo viene raccolto e onorato dal cantautore, il quale saluta e ringrazia Torino insieme a tutti gli altri interpreti.

L’evento ripaga l’attesa e conferma in pieno le elevate aspettative. La sensazione è quella di aver assistito al concerto di un autore eclettico, capace di riscoprirsi in ogni nuova opera, di unire il gusto e l’esperienza musicale a una particolare qualità dell’animo: quella di sapersi ascoltare, per poi entrare in contatto con chi è in grado di cogliere il frutto di tanto lavoro, che sia nel quotidiano o in occasioni come questa.

A cura di Carlo Cerrato

Da Let Go a Love Sux: 20 anni di Avril Lavigne al Mediolanum Forum

Un filmato celebrativo e la silhouette della cantante con dei palloncini in mano: così si è aperta la data milanese del Love Sux Tour di Avril Lavigne il 24 aprile, secondo spettacolo italiano del tour che ha portato sui palcoscenici d’Europa l’ultimo lavoro dell’artista (l’album Love Sux, uscito a febbraio 2022), senza tralasciare i singoli di maggior successo della sua carriera.

L’emozione del pubblico era già evidente nel momento in cui i musicisti hanno iniziato a suonare “Bite Me”, primo singolo estratto dall’ultimo album. La vera esaltazione si è però raggiunta quando Avril Lavigne ha iniziato a cantare: da quel punto si è creata una non scontata intesa tra l’artista e il pubblico, che ogni volta che veniva chiamato a cantare i cori o intere strofe dei brani non si faceva trovare impreparato e rispondeva con sempre più forza e vigore.

Foto di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.

Il concerto è proseguito saltando nel passato, e indubbiamente le hit della Avril Lavigne dei primi anni 2000 sono quelle che più hanno entusiasmato gli spettatori: da “Complicated” a “When You’re Gone”, passando per “Girlfriend”, era impossibile trovare qualcuno all’interno del Mediolanum Forum che rimanesse impassibile di fronte a quei versi che hanno accompagnato la nostra infanzia e/o adolescenza.

E se per gli spettatori è stato come viaggiare su una macchina del tempo per un’ora e mezza, per Avril Lavigne stessa il tempo sembra non essere mai passato: vista da lontano sembra la stessa di venti anni fa, una principessa pop punk appassionata ed energica. Suona la chitarra e la batteria, spara coriandoli, calcia palloni giganti tra il pubblico e dà vita anche ad un simpatico siparietto a metà concerto in cui beve il Limoncello insieme alla sua band e agli artisti di apertura, Phem e i Girlfriends, mentre propongono una cover di “All The Small Things” dei Blink-182.

Foto di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.

Tra i momenti più memorabili del concerto ci sono una performance speciale di “Nobody’s Home”, singolo del 2004 che non veniva cantato dal vivo da ben nove anni, ma eseguito solamente nelle date italiane del tour in corso, e la conclusione sulle note di “I’m With You”, brano estratto dall’album d’esordio Let Go che ha visto il palazzetto accendersi e cantare il ritornello a ripetizione.

Una volta riaccese le luci, il pubblico lascia soddisfatto l’arena e a sentire i commenti è chiaro che l’obbiettivo di Avril Lavigne sia stato centrato: ricordare al pubblico chi è stata e quanto la sua musica degli esordi abbia lasciato un’impronta non indifferente (del resto è stata una delle maggiori esponenti del pop punk, genere ritornato con prepotenza negli ultimi anni), ma che ha ancora i suoi assi nella manica e tanto da offrire, come dimostrano le reazioni degli spettatori ai suoi brani più recenti. Sul palco ha dichiarato di star già lavorando al suo prossimo album, augurandoci che sia un’ulteriore occasione per riportarla in Italia e vivere ancora una sera la magia della Sk8er Girl per eccellenza.

Immagine in evidenza di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.

A cura di Giulia Barge

Eugenio Finardi, Raffaele Casarano e Mirko Signorile in un’ “Euphonia” al teatro Colosseo

Euphonia Suite nasce nell’ ottobre 2022 dalla collaborazione tra Eugenio Finardi, Mirko Singorile e Raffaele Casarano. Già dallo scorso dicembre, i tre artisti stanno girando l’Italia in un tour dedicato − Euphonia Suite Tour − che ha visto la sua conclusione il 19 aprile al Teatro Colosseo di Torino, città molto cara all’artista milanese, come lui stesso ribadisce durante la serata.

Bisogna fare un passo indietro per entrare al meglio nello spirito della serata: il punto di partenza riguarda l’ascolto dell’album. Non c’è da aspettarsi l’energia rock dei lavori più famosi di Finardi, farlo significherebbe non apprezzare interamente il lavoro, ma soprattutto perdersi tutta la bellezza contenuta in questi nuovi arrangiamenti. L’incontro (frutto di un progetto ormai decennale) si realizza tra la voce calma e distesa di Finardi, il virtuosismo di Signorile al pianoforte e l’accompagnamento pastoso e suadente del sax di Casarano. Tutto si fonde in un unicum musicale che racconta perfettamente quel concetto di “vita lenta”, come in una lava lamp in cui il risultato è un amalgama omogena.

Foto: Alessia Sabetta

Tutti gli stadi di tranquillità percepiti ascoltando l’album ritornano nell’esibizione dal vivo. Tanto per iniziare la scenografia è spoglia: solo le quinte, nere e gli spot che illuminano il telone attribuendo un colore diverso a ogni brano. Sul palco seduti in riga i tre musicisti vestiti di nero (ognuno con il proprio stile, che in qualche modo rispecchia anche la propria musica), che quasi per tutta la durata del concerto non si spostano dal loro posto. Insomma, un’asciuttezza che catalizza tutta l’attenzione sulla musica. Gli spettatori, immersi in un’atmosfera irreale, come fluttuante, sono persino in dubbio sul momento in cui applaudire per non spezzare l’incanto, e si infastidiscono quando il clic compulsivo degli scatti dei fotografi in sala rompe il silenzio.

Il live (che riprende il concetto alla base della produzione, ovvero la suite) si srotola brano per brano senza interruzioni: nella maggior parte dei casi il collegamento viene creato musicalmente da Signorile, nei restanti si fa giusto una pausa prima di riprendere. Finardi, centrale, si passa il microfono da una mano all’altra e con quella libera crea dei giochi di movimento con cui accompagna la sua voce o le melodie dei due colleghi. Sorride al pubblico quando ne percepisce maggiormente il calore e prova a enfatizzare i momenti in cui Casarano e Singorile si liberano in assoli che non sconfinano mai nell’esuberanza.

Foto: Alessia Sabetta

Regala, oltre al consueto bis in cui introduce al pianoforte la celebre “Extraterrestre” mentre gli altri due utilizzano la coda come fossero delle percussioni, un tris.Infatti, dopo essere usciti di scena per la seconda volta, mentre il pubblico in sala è intento a rivestirsi per lasciare il teatro, rientrano tutti e tre e concedono la scelta ai fan che prontamente richiedono “Musica ribelle”. Lui esita un momento, ma dopo essersi giustificato sulla natura musicale del brano nato per un certo tipo di strumentazione, si lascia trasportare e inizia a cantare. Tra intere strofe dimenticate su cui ride di sé stesso e un ritornello in chiave mozartiana riesce a guadagnarsi un nuovo fragoroso applauso del pubblico che si alza per cantare con lui.

a cura di Alessia Sabetta

Paolo Vaccaro, Margot e Pascal: la musica risuona nei giardini della Reggia

L’8 aprile, sotto un sole accecante e tra lo schiamazzare dei bambini, è apparso nell’orto di Levante dei giardini della Reggia di Venaria un totem autoalimentato, centro del progetto portato avanti da Open Stage e The Goodness Factory: nove artisti emergenti si sarebbero esibiti fino al 10 aprile, suddivisi in 3 gruppi, per presentare al pubblico i loro progetti.

L’evento si inserisce tra le iniziative della manifestazione “Venaria Reggia Aperta”, un insieme di attività realizzate in occasione delle feste pasquali da The Goodness Factory all’insegna della sostenibilità: infatti, gli spettacoli, organizzati sono quasi ad impatto zero in termini di consumo dell’energia elettrica. La collaborazione con Open Stage ha permesso di mettere in luce il lavoro di nuovi artisti, e a dare il via a questa serie di esibizioni sono stati Paolo Vaccaro, Margot e Pascal.

Paolo Vaccaro, musicista originario del Veneto, ha avuto la responsabilità di essere non solo il primo della giornata, ma anche di questa sezione della manifestazione: durante la mezz’ora a lui dedicata ha intrattenuto il pubblico con la sua chitarra e un repertorio di brani in italiano ed in inglese dalle influenze blues e folk, raccontando di canzone in canzone ciò che lo ispira a scrivere. A un mondo folkloristico di marinai e cowboy si alternano sprazzi di quotidianità, e la sua voce inizia ad attirare un consistente gruppetto di visitatori della Reggia.

Paolo Vaccaro (dal profilo Instagram: @paolovaccaromusic)

A seguire Margot, cantante torinese accompagnata dal piano digitale di Sara Sibona e dalla chitarra di Denis Chiatellino, che si è occupato anche dei cori. Una voce potente ma allo stesso tempo pulita, che passa da momenti di aggressività e sicurezza a giochi di note delicate, quasi sussurrate; gli arrangiamenti, sinuosi e a tratti cupi, donano una maggiore profondità al timbro della cantante. I pezzi suonati vengono accolti positivamente dai passanti, che alla fine di ogni pezzo applaudono con entusiasmo.

Margot (dal profilo Instagram: @margott.ig)

Arriva infine il turno di Pascal, musicista toscano che con la sua chitarra suona la conclusione della prima giornata dell’evento: canta di Sarajevo sotto il sole primaverile e presenta una canzone di protesta che usa per coinvolgere il pubblico, invitandolo ad accompagnarlo mentre canta un’ultima volta il ritornello. Il suo approccio intimo e rilassato rende il suo set l’ideale colonna sonora per un tardo pomeriggio tra i giardini della residenza.

Pascal (dal profilo Instagram: @iosonopascal)

Il progetto che Open Stage e The Goodness Factory realizzano a Venaria mette a segno diversi obbiettivi: portare in scena uno spettacolo con impatto ambientale minimo, fornire una vetrina interessante per giovani artisti ed arricchire con buona musica l’esperienza dei visitatori. Un’occasione che dopo queste tre giornate, ci auguriamo possa tornare con più frequenza.

Immagine in evidenza dal profilo Instagram @openstage.it.

A cura di Giulia Barge