Archivi categoria: Stagione 2021/2022

ROCK-ISH: il nuovo evento alternative rock allo sPAZIO211

Sabato 23 aprile si è tenuta la prima serata di Rock-ish, rassegna organizzata dall’etichetta Pan Music in collaborazione con lo sPAZIO211, locale di Torino in cui si è svolto l’evento. Si tratta di un nuovo appuntamento per gli appassionati di musica dal vivo che mette al centro il rock alternativo e che avrà cadenza costante nei prossimi mesi.

L’evento si articola in due parti: la prima dedicata alla musica live, la seconda ad un dj set. Il primo appuntamento ha visto salire sul palco tre band del territorio torinese: Domani Martina, Carthago e The Unikorni, seguite dal dj set degli Emo Sucks, arrivati direttamente da Milano per l’occasione.

Sono le 21:30 quando il pubblico si riversa all’interno del locale per proteggersi dalla battente pioggia. A dare il via alla serata ci pensano i Domani Martina, che portano sul palco inediti indie rock. Il ritmo travolgente fa muovere gli spettatori, che, grazie alle chitarre distorte, dimenticano in fretta il tempaccio fuori dal club. Tra la platea c’è anche chi nota una certa somiglianza tra il timbro vocale del frontman e quello di Giuliano Sangiorgi.

Domani Martina [© Martina Caratozzolo]

Il pubblico continua a scatenarsi anche quando a salire sul palco è la band successiva: i Carthago. I loro brani – che fondono in maniera originale alternative rock, rap e metal – si distinguono per la voglia di rivalsa che emerge dai testi, come se per loro suonare fosse una missione personale. I più coraggiosi si lanciano nella mischia a pogare, creando un momento di sinergia con la band, che spinge ancora di più sui pedali.

Carthago [© Martina Caratozzolo]

I decibel si alzano ulteriormente quando si esibiscono The Unikorni, il duo «colorato e grunge»: un binomio impensabile per molti, ma non per loro. A colpi di batteria e di riff incalzanti chiudono in bellezza la prima parte della serata, scendendo anche tra i fan per incitarli ancora di più.

The Unikorni [© Martina Caratozzolo]

Gli spettatori prendono una boccata d’aria fuori dal club per commentare quanto visto sul palco, ma vengono subito riattratti all’interno dal dj set degli Emo Sucks. I dj milanesi chiudono la serata, facendo cantare e ballare brani emo, pop punk, metalcore e alternative fino a tarda notte.

Gli amanti dell’alternative rock sono avvisati: a Torino ha preso vita un nuovo evento da tenere d’occhio anche per le prossime date se si vuole passare una serata all’insegna del divertimento e della musica dal vivo.

A cura di Martina Caratozzolo

Motta alle OGR: il racconto del live

Lo scorso 19 aprile Motta ha radunato alle OGR un pubblico che non si è lasciato fermare dai festeggiamenti di Pasquetta del giorno precedente, ma che, al contrario, era prontissimo a scatenarsi ad un concerto.

Il cantautore toscano sta girando l’Italia in tour, fresco della pubblicazione del nuovo singolo “Caro fottutissimo amico” – canzone nata dalla collaborazione con gli Zen Circus -. Il fatto che il suo ultimo album Semplice sia uscito circa un anno fa permette a Motta di sperimentare e spaziare tra la sua discografia, portando al pubblico brani che non suonava live da tempo.

All’apertura dei cancelli i fan di Motta si sono diretti di corsa verso la transenna per ottenere un posto tra le prime file. Una volta giunti sottopalco gli spettatori aspettano con trepidazione l’inizio del live. Le luci si tingono di rosso, il cantautore sale sul palco e l’atmosfera inizia a scaldarsi.

Motta e Francesco Chimenti (bassista) [© Martina Caratozzolo]

Motta stupisce aprendo il live con “Prenditi quello che vuoi”, uno dei brani meno noti dell’album di debutto La Fine Dei Vent’anni (2016). Il polistrumentista si mostra di poche parole tra un pezzo e l’altro, ma avvisa i presenti che il concerto durerà a lungo: «Le facciamo tutte, sarà un sequestro di persona», afferma tra le risate generali. I fan gioiscono per le numerose canzoni che si susseguono e apprezzano il sound alternative rock, a tratti elettronico, dei musicisti che lo accompagnano.

Motta [ © Martina Caratozzolo]

Motta è un animale da palcoscenico: salta da una parte all’altra, scuote la chioma riccia mentre percuote i tamburi con le bacchette, incita il pubblico a cantare ancora più forte, si inginocchia per lasciarsi andare durante le parti strumentali dei brani. Ogni centimetro di palco viene calpestato dal cantautore, che, quando non si scatena, imbraccia la chitarra e suona in acustico, creando un’atmosfera raccolta, impreziosita dai testi introspettivi delle sue canzoni. Due dei momenti più memorabili del live sono quando invita i fan a sedersi per terra per ascoltare con ancora più trasporto il brano “La Fine Dei Vent’anni” e quando sorprende con “Fango”, un brano dei Criminal Jokers, la sua band precedente all’esperienza solista, che solo i fan più affezionati ricordano.

Il pubblico alle OGR durante il live di Motta [© Martina Caratozzolo]

A concerto finito, un emozionato Motta ringrazia e promette al pubblico torinese di tornare presto, lasciando intendere ai più attenti che potrebbe annunciare a breve un tour estivo. Il cantautore lascia il palco tra gli applausi degli spettatori, che escono dal locale con il passo lento di chi vorrebbe che il live ricominciasse da capo per rivivere ogni emozione.

A cura di Martina Caratozzolo

Don Giovanni al Conservatorio

Nel pomeriggio di mercoledì 13 aprile è andato in scena al Conservatorio di Torino lo spettacolo Don Giovanni: Libertà e libertinismo, curato dalle classi di canto lirico, regia e arte scenica, con la supervisione di Paolo Ricagno e dell’aiuto regista Giulia Rivetti.

Jun Yong Gregorio Park (Don Giovanni) e Felipe Tavolaro (Don Ottavio). Fotografia di Giulia Rivetti

Riccardo Ruggeri e Jun-Yong Gregorio Park hanno puntato su un Don Giovanni erotico e scanzonato, accantonando le letture romantiche che ne hanno fatto l’eroe della Sehnsucht e della tensione frustrata verso l’Infinito. La rappresentazione nel complesso è stata molto godibile: il taglio ragionato di alcune sezioni l’ha resa ancora più dinamica, anche grazie alla fluida e abile mano della pianista accompagnatrice Stefania Visalli.

Park è riuscito in una grande impresa, lavorando alla regia dell’opera e interpretandone al tempo stesso il protagonista: vero e proprio demone del movimento, onnipresente in scena, il suo Don Giovanni si è divertito a manovrare gli altri personaggi come fossero burattini, brandendo una lunga matassa di elastici bianchi che lo ha reso il deus ex machina dello spettacolo.

Molto efficace la scenografia minimal, dominata da un grande telo su cui sono stati proiettati interessanti giochi di ombre, e la rappresentativa alternanza tra momenti di buio e di illuminazione, realizzata grazie alla gestione delle luci di Cecilia Conte. I cantanti, vestiti semplicemente di nero, si sono aggirati anch’essi sul palco come ombre; il frequente cambio di voci ha rafforzato il ruolo protagonistico di Don Giovanni, quello vicario del suo servo Leporello, l’imponenza del Commendatore (che abbiamo intravisto solo attraverso l’oscurità del telo) e la natura marionettistica di tutti gli altri personaggi.

XinTian Thomas Huang, tenore leggero, ha dato una sfumatura tenera e delicata al suo Don Ottavio, mentre Felipe Tavolaro gli ha conferito una potenza drammatica insolita ma di grandissima efficacia. La Donna Anna di Kim Kyu Won è stata grintosa e credibile, mentre Li Lingtong le ha regalato una sfumatura brunita molto affascinante: è stato un peccato ascoltarla così poco. Lo stesso si potrebbe dire della Donna Elvira di Lisa Hambrecht: una voce dolcissima ed estrosa che avrebbe meritato più attenzione. Nello stesso ruolo ho trovato molto efficace l’interpretazione vocale e mimica di Judith Hopfhauer, che ne ha mostrato il carattere più collerico e vendicativo; Ana Spataru, invece, con la sua intensità e una voce meravigliosa ha commosso il pubblico, cantando il brano più difficile della serata: “In quali eccessi, oh numi”. Brillante e sensuale la Zerlina di Francesca Idini, che ha fatto risuonare per tutto il salone la frizzante “Batti, batti”, mentre XingYao Chen ha interpretato il personaggio in modo più morbido e languido.

Specchio del suo padrone e catalogo vivente delle sue conquiste, Leporello è stato impersonificato da un eccezionale Elia Colombotto. Con la sua interpretazione di “Madamina” ha dimostrato doti vocali e attoriali altissime, dando il via a una serie di applausi interrottisi solo a fine spettacolo. Molto apprezzata anche la tonante voce di Cui Pengzi nei panni del Commendatore, che infine ha trascinato il protagonista con sé negli Inferi, sorretto dal canto e dalle ombre di un ipnotizzante coro di Baccanti.

Elia Colombotto (Leporello). Fotografia di Giulia Rivetti

A sorpresa, il concerto non si è interrotto sulle note del finale d’opera. La morale recitata dai nemici di Don Giovanni in “Questo è il fin”, infatti, è stata sostituita dal più celebre frammento tratto dalla festa del I atto: un «Viva la libertà!» che ha coinvolto il cast intero e che ha sottolineato con grandissima efficacia l’interpretazione giocosa e libertina data alla vicenda.

Unica pecca: la proiezione di alcuni power point teorici nel corso dello spettacolo. Il pubblico non è riuscito a seguirli né a leggerli, avendo rivolto tutta l’attenzione alla musica di Mozart e alle voci dei cantanti. Sono stati invece molto apprezzati i giochi di luci realizzati da Marco Cappa e l’intermezzo recitato tratto dal Don Juan di Molière a opera di Giulia Rivetti (“Donna Juana”) e Riccardo Ruggeri (un povero).

Trailer a cura di Giulia Rivetti
  • Musica: Wolfgang Amadeus Mozart
  • Libretto: Lorenzo Da Ponte
  • Supervisione: Paolo Ricagno
  • Interpreti: Jun Yong Gregorio Park (Don Giovanni), Elia Colombotto (Leporello), PengZi “Michele Panini” Cui (Il Commendatore), XinTian Thomas Huang e Felipe Tavolaro (Don Ottavio), Lisa Hambrecht, Judith Hopfhauer e Ana Spataru  (Donna Elvira), Kyu Won Kim e Li Lingtong (Donna Anna), Francesca Idini e XingYao Chen (Zerlina)
  • Attori: Giulia Rivetti (Donna Juana), Riccardo Ruggeri (un povero)
  • Regia: Riccardo Ruggeri e Jun Yong Gregorio Park
  • Assistente alla regia: Giulia Rivetti
  • Luci: Cecilia Conte
  • Collaboratori: Martina Baroni, Marco Cappa
  • Maestra accompagnatrice: Stefania Visalli

Emozioni al teatro regio: Le 8 stagioni

Il Teatro Regio, in collaborazione con il socio fondatore Iren prosegue con il ciclo In famiglia, il cartellone dedicato a bambini e ragazzi. Sabato 9 aprile 2022 si è tenuto il concerto Le 8 stagioni, con l’Orchestra d’Archi del Teatro Regio e, in veste di maestro concertatore e violino solista, Sergey Galaktionov: primo violino dell’Orchestra del Teatro Regio, già vincitore di numerosi concorsi tra cui il Concorso Internazionale Viotti, ha collaborato con le principali orchestre internazionali ed affermati direttori della scena musicale contemporanea.

Il programma prevedeva l’esecuzione alternata de Le Stagioni di Antonio Vivaldi (1678-1741) e Las cuatro estaciones porteñas – conosciute anche come Le quattro stagioni di Buenos Aires – di Astor Piazzolla (1921-1992).

Due compositori divisi da due secoli e mezzo e undicimila chilometri, che hanno saputo catturare l’attenzione anche dei più piccoli, seduti sulle poltrone del Teatro Regio. Il concerto si apre con La Primavera di Vivaldi, seguita dal Verano porteño di Piazzolla: mentre nella prima l’Orchestra e Galaktionov sembrano sbocciare, proprio come fiori nella stagione (si intravede anche qualche sorriso, nascosto sotto la mascherina, tra i violini), con l’estate ci si sente quasi ingannati, tutto sembra fuorché la stagione del sole. Il ritmo sincopato strizza l’occhio al tango, e sin dalle prime note ci si immagina due ballerini sul palco, intenti a danzare accompagnati dall’Orchestra; eppure, sono presenti solo i musicisti. Galaktionov è totalmente nella parte, suonando riesce a trasmettere tutto ciò che prova in quel momento: la sua è un’emozione talmente forte che un crine del suo archetto si rompe, ma lui continua la sua performance e, in un attimo di pausa, stacca via il crine come se avesse appena concluso un passo di danza difficilissimo e stesse prendendo fiato prima del prossimo.

È impossibile confondere il virtuosismo di Vivaldi con la musica astratta di Piazzolla, e una bambina seduta in terza fila sembrava saperlo bene. Su quella sedia rossa, tra la mamma e la nonna, con la custodia del violino davanti alla gambe, dondolava la mano a tempo dell’Otoño porteño; proprio come Sergey accennava piccole oscillazioni con il corpo durante l’intervento solistico del violoncello. Quella bambina non era l’unica ad essere incantata dall’atmosfera creatasi: al termine del concerto, dopo molti applausi, mille emozioni, e gli inchini dell’Orchestra e di Galaktionov, il maestro concertatore ringrazia il pubblico per essere stato lì e chiede «Vivaldi o Piazzolla?». In un istante, l’inimmaginabile a teatro: un bambino, dal fondo della platea, grida «Piazzolla!» e, in quel momento, tutti hanno capito l’importanza della musica, capace di far riflettere ed emozionare i più grandi e, allo stesso tempo, sognare i più piccini.

In evidenza: Sergey Galaktionov e l’Orchestra d’archi (credits: comunicato stampa Teatro Regio)

a cura di Chiara Vecchiato

BRAVI RAGAZZI ALL’HIROSHIMA MON AMOUR

I bravi ragazzi non stanno più nei brutti quartieri, ma nella sala Majakovskij dell’Hiroshima Mon Amour, dove, giovedì 7 aprile, Gianni Bismark ha consumato l’unica data torinese del suo tour. L’occasione non è soltanto l’uscita dell’ultimo album, appunto, Bravi ragazzi, ma anche quella del ritorno ai live in piedi, senza mascherine e a capienza massima. Non è certo cosa da poco, soprattutto per quegli artisti e quei progetti che sul calore del pubblico contano parecchio, più degli album in studio, più del grande live in sé. Se la cultura pop – visuale e spettacolarizzante – funziona in fin dei conti anche su canali comunicativi diversi, sono le musiche urban ad avere più bisogno della vicinanza fisica del pubblico. E l’eccezionalmente ventosa serata non ha fermato centinaia di under 25 che si sono accalcati sotto il palco dell’Hiroshima per sudare, cantare, urlare e celebrare la fine delle restrizioni. 

Il clima è familiare, da “pochi ma boni”, come ripete spesso Gianni tra un pezzo e l’altro e tra un sorso di un non meglio precisato cocktail e l’altro. L’atmosfera è quella del piccolo live del rapper di quartiere, di quelli con la stessa claque di fan appassionati che non si perde nemmeno una tappa; del rapper di quartiere che fa quello che fa perché non si immagina in nessun altro posto nella vita, che non ha alternative per sentirsi vivo. Qui sta il cortocircuito di Gianni Bismark, punto di forza del suo progetto: non c’è l’estetica trap dell’eccesso e del mostrare di “avercela fatta” a tutti costi, non c’è nemmeno la pretesa di fare del rap old school raffinato o simil-intellettuale. La street credibility inseguita in maniera più o meno reale dai rapper della generazione 2016 non c’è più e quello che rimane è soltanto lui, Tiziano, vero nome del rapper romano. Tiziano e i suoi bravi ragazzi, che si lasciano prendere per mano e trasportare in una Roma da tramonto sul Pincio, un po’ malinconica e un po’ criminale. 

La tracklist del concerto è fluida: Gianni canta sia brani tratti dall’ultima fatica, sia da Nati Diversi che non aveva potuto portare live nel 2020 causa Covid – sia da Re senza corona, l’album che l’ha lanciato in cima alle classifiche hip-hop. La piccola folla davanti a lui non sbaglia un colpo e canta tutto a squarciagola con la mano sul cuore, come solo nei migliori concerti intimi si può fare. La distanza artista-fan non esiste, è completamente appiattita e Gianni termina il live scendendo dal palco e cantando in mezzo al pubblico, in una sorta di abbraccio collettivo post-pandemia. Al grido di “se beccamo fuori”, poi, sparisce dietro le quinte, lasciando la scena. 

È da figure come quelle di Gianni e di Paky che la scena urban italiana sta virando verso una direzione nuova, un superamento della trap, ma anche del rap classico tout-court, che oggi suona vintage, ma anche vecchio e saturo – e l’ultimo album di Fabri Fibra lo dimostra piuttosto bene. C’è vita dopo Sfera Ebbasta? La risposta è proprio qui: nella voce secca e in primo piano, in un autotune quasi sempre impercettibile se non assente, in una lirica cruda, diretta e semplice, senza pretese, più vera che mai. 

i Dodici Violoncellisti dei Berliner per Lingotto Musica

Lunedì 21 marzo 2022 all’auditorium Giovanni Agnelli di Torino si è tenuto il concerto per i 50 anni dei Dodici violoncellisti dei Berliner Philharmoniker. Il gruppo nasce nel 1972, in occasione della produzione radiofonica dell’Hymnus op. 57 di Julius Klengel, brano con cui hanno aperto la serata. 

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Sanremo 2022 – Le pagelle della prima serata

La rinascita dopo la pandemia, i balletti di TikTok, la retorica un po’ anni ‘80 della canzone ballabile che nasconde un testo impegnato: così si presenta la 72° edizione del Festival di Sanremo. La conduzione artistica di Amadeus, che persevera e ci riprova per la terza volta, tenta di accontentare nonni e nipoti, tra vaghi ricordi di Dalla e autotune. 

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Il risveglio dei maestri: A View From the Top of the World – Dream Theater

I Dream Theater sono artisticamente morti dopo l’uscita di Kevin Moore

“Sono noiosi, didiscalici e freddi.”

“Esagerano con la componente tecnica. Sembra di sentire una serie di esercizi per i rispettivi strumenti”

“James LaBrie è bollito. Un cantante così dovrebbe ritirarsi.”

“Mike Mangini è una drum machine. Quanto ci manca Mike Portnoy.”

Ecco, questi sono i commenti ricorrenti che puntualmente affollano le sezioni commenti dei principali social network e nelle discussioni inerenti i Dream Theater. Ed è giunto il momento di scrollarsi di dosso tali giudizi preconfezionati e frutto di una generazione ingrata di pseudo intenditori musicofili da cameretta, che dopo aver abbondantemente mangiato dal succulento piatto offerto dal quintetto statunitense nel corso degli anni, ha evidentemente deciso di tornare sui propri passi risputandolo, per bollarlo come per spacciato. Pura ipocrisia da leoni da tastiera sempre più diffusa nel mondo metal, e specialmente in Italia, dove si fa a gara a chi denigra i nomi storici che hanno contribuito a delineare i connotati di questa musica, sparando giudizi lapidari e spregiativi a raffica, spesso senza aver ascoltato a dovere il disco in questione. In un clima odierno in cui la vita media di un album nuovo al momento dell’uscita è piuttosto breve oltre che affollata ed oscurata da centinaia di uscite analoghe, sembra sempre più evidente la tendenza ad un ascolto superficiale, distratto e di contorno rispetto alla vera cosa importante: dare il proprio giudizio prima di qualunque altro, ponendosi in modo quanto più assolutistico possibile, badando bene a non ascoltare una singola parola detta da chi la pensa diversamente.

In questo contesto, i Dream Theater pubblicano il  sostanzioso A View From the Top of the World, quindicesimo lavoro in studio in oltre trent’anni di onorata carriera. Le sette lunghe tracce in esame testimoniano la volontà da parte della band di scrollarsi di dosso questi giudizi grossolani andando a costituire una prova di forza inaspettata, ponendosi come una netta inversione di tendenza rispetto al ben più lineare e di facile presa Distance Over Time  (2019). Non dovendo più dimostrare niente e forti di uno stile consolidato nel tempo e sempre coerente in termini di tecnica, melodia, pomposità epica ed emotività, i Dream Theater costruiscono nota su nota della musica che esplora abbondantemente le sfumature più heavy metal della loro gamma sonora, intessendoci sopra elaborate divagazioni e variazioni sul tema che dal progressive traggono il gusto per il virtuosismo estremamente melodico unito ad una disinibita sperimentazione sui tempi dispari, le poliritmie e controtempi senza soluzione di continuità. Ci troviamo idealmente in un crocevia che fa eco al repertorio più oscuro e pesante della band, prendendo a riferimento le atmosfere algide di Awake, lo shredding tamarro di Train of Thought ed il gusto per repentini ammiccamenti orecchiabili presi da Dream Theater. Ed è così che si viene travolti dall’isterico vortice sonoro di “The Alien”, che per quanto canonica e vicina alle ultime cose fatte dai Dream Theater negli ultimi anni vanta un’ottima coda strumentale in levare sul finale, mentre “Answering the Call” e “Invisible Monster” sono gradevoli numeri a tratti vicini a certo power-progressive moderno.

Il meglio però arriva con la bislacca “The Sleeping Giant” dal riff portante tanto heavy quanto trascinante, alla quale segue il tributo ai Rush di “Trascending Time”. Le due suite finali, ovvero “Awaken the Master” e la title track, che coprono la mezzora finale del disco, alzano ulteriormente l’asticella introducendo alcune novità che fanno ben sperare per il futuro e lasciano intravedere interessanti sviluppi in territori djent. “Awaken the Master” è infatti il brano più aggressivo dell’intero lavoro e vede John Petrucci sfoderare per la prima volta la sua nuova Music Man a otto corde. Nel complesso, si tratta di un bel pezzo dinamico dall’andamento tempestoso che riesce ad essere coerente con il consolidato stile dei Dream Theater pur non rinunciando all’influenze derivate dalle frange più moderne del metal attuale. “A View From the Top of the World” merita un discorso a sé. Se infatti “Octavarium” era una lucida dichiarazione d’amore verso il progressive rock ispiratore della band che però precisava anche la volontà di distaccarsi dagli stilemi dei padri fondatori del genere ricercando uno stile personale, così questa suite è una dichiarazione d’intenti di un gruppo mai domo che, nonostante non debba per forza dimostrare il proprio valore, mira a raggiungere nuovi ed ambiziosi risultati. 

Nel complesso dunque, il songwriting dell’album risulta più curato ed ispirato che in passato, complice anche la lunga pausa forzata dovuta alla pandemia che ha permesso forse più tempo per riflettere ed elaborare le numerose idee messe in campo. Soprattutto James LaBrie, che negli ultimi anni è stato oggetto di pesanti critiche sul rendimento altalenante dal vivo e per le performance sempre più arrancanti in studio rispetto ai colleghi sembra, pur avendo fisiologicamente perso lo smalto di una volta, aver ritrovato parte di quell’espressività che a detta di molti è svanita. Certamente non può più far leva sull’estensione vocale per cui è noto, ma a conti fatti è ancora l’unico cantante adatto per i Dream Theater. Ha ancora senso ascoltare materiale inedito dei Dream Theater nel 2021? Sì perché A View From the Top of the World rielabora con opportuni ammodernamenti una visione, un’idea, un approccio personale e ormai ben delineato e coerente d’intendere la musica nel corso del tempo. 

Iron Maiden – Senjutsu

L’heavy metal è il genere musicale, che per sua natura intrinseca, vive grazie alla fusione di tre elementi irrinunciabili: 1) la potenza e l’orecchiabilità del riff, che deve essere incisivo e pesante al punto giusto seppur relativamente semplice da memorizzare; 2) sulla cantabilità delle linee vocali e l’interpretazione del cantante; 3) sui ritmi sostenuti e possibilmente veloci delle ritmiche al fine di donare impeto e irruenza alla musica. 

Ecco, ora prendete questi tre aspetti e metteteli da parte, anzi dimenticateli proprio. Senjutsu infatti non è nulla di tutto questo per nessuno degli ottanta, pachidermici, minuti nei quali si dilunga, indugiando oltremodo su una formula di scrittura sempre più scricchiolante e traballante, nonché conferma di una tendenza ad una certa ripetitività di fondo che gli Iron Maiden si portano dietro almeno dai tempi di A Matter of Life and Death.Prevalgono infatti tempi perlopiù lenti e dilatati seguiti a ruota da un riffing a tre chitarre che mai come prima d’ora in questo evitano di proporre riff ed armonizzazioni vincenti e concise – aspetto in cui la band inglese era assolutamente maestra – prediligendo al contrario lunghe sezioni arpeggiate a inizio brano facenti da preludio ai crescendo d’intensità in ostinato. Buona parte dei pezzi contenuti in Senjutsu procede col pilota automatico reiterando questa modalità di scrittura in una continua ed impercettibile variazione sul tema che si ripete all’infinito, giocando di tanto in tanto la carta dell’autocitazione con evidenti rimandi a Dance of Death, Somewhere in Time, Virtual XI Seventh Son of a Seventh Son. Detta così sembrerebbe l’ennesimo, conclamato caso di album riciclato ed effettivamente la sensazione di deja-vù fa capolino qua e là durante l’ascolto.

Eppure, nonostante i difetti, i conti non tornano. Troppo semplice bollare Senjutsu come l’ennesimo delirio pseudo progressive ridondante di Steve Harris bocciando tutto senza appello. Infatti questo doppio album, esattamente come per il precedente The Book of Souls, tende a crescere esponenzialmente con gli ascolti differenziandosi però da quest’ultimo per il fatto che i pezzi nel complesso iniziano a decollare nel momento in cui si tengono in considerazione due aspetti. Il primo è immaginare le stesse canzoni eseguite dal vivo, nell’habitat naturale degli Iron Maiden, là dove i sei ultrasessantenni vincono per manifesta superiorità nel saper far scatenare con le loro melodie folle oceaniche. Senjutsu è infatti pieno zeppo di questi ammiccamenti melodici, che però vanno decifrati rispetto ai classici a presa rapida alla The Trooper. Il secondo aspetto focale è senza dubbio la volontà di mettersi in gioco da parte dei Maiden seppur in una veste più matura e decisamente meno irruenta rispetto ai tempi d’oro degli anni ottanta. Bruce Dickinson ad esempio si è egregiamente reinventato sfruttando al meglio l’espressività del proprio timbro medio basso, evitando di affaticarsi inutilmente con gli acuti come in The Book of Souls e, allo stesso tempo a livello strumentale la band si è definitivamente assestata sui mid tempos dall’atmosfera epica, ormai conscia del fatto di non poter caricare a testa bassa.  I pezzi migliori, se proprio si volesse procedere con un ascolto a campione, sono Lost in a Lost Word, Days of a Future Past, l’elegantissima ed emozionante Darkest Hour, Death of the Celts, Hell on Hearth. Nel complesso dunque ci si può ritenere soddisfatti, premettendo però che bisogna approcciarsi a questi Iron Maiden con cognizione di causa.