Archivi categoria: Stagione 22/23

Stupinigi Sonic Park: gli Interpol alle OGR di Torino

Officine Grandi Riparazioni, un’afosa serata di inizio estate: il 26 giugno, a Torino, suonano gli Interpol, band newyorkese attiva da ben 25 anni, che inaugura l’edizione 2023 dello Stupinigi Sonic Park. Un pubblico nutrito, formato da persone di ogni età, varca i cancelli alle 20:15 per riversarsi nella Sala Fucine, dove l’aria condizionata dona grande refrigerio: l’occasione ha attirato i fan del complesso, che qui, a differenza di altri eventi – come il 24 giugno agli I-Days di Milano, dove aveva aperto il concerto di Paolo Nutini – è headliner della serata.

Petrol. Da sinistra: Nino Azzarà, Valerio Alessio (batteria), Franz Goria, Dan Solo. Foto: Elisabetta Ghignone

Alle 20:30 sul palco salgono i Petrol, gruppo torinese che torna live dopo ben 12 anni dall’ultimo concerto. La band propone una breve scaletta di brani tratti dal primo album, “Dal fondo” (2007), e da “L’amore è un cane” (2009): il suono è quello di un energico rock alternativo italiano, orientato verso il grunge, attento alla qualità dei testi e alla potenza quasi oscura delle musiche. Alla voce troviamo Franz Goria, già membro dei Fluxus; al basso c’è invece Dan Solo, ex musicista dei Marlene Kuntz. Completano il quadro Valerio Alessio alla batteria e Nino Azzarà alla chitarra. I Petrol si fanno apprezzare sia da chi già li conosce e li segue dagli esordi, sia da chi li scopre questa sera: da segnalare il brano d’apertura, “Nel buio”, e soprattutto “Il nostro battito del cuore”, dove i versi di denuncia sociale incontrano una parete sonora melodica e al tempo stesso poderosa. Per loro, un ritorno efficace sulla scena e un concerto davvero meritevole, per quanto breve.

Il frontman degli Interpol, Paul Banks. Foto: Elisabetta Ghignone

È ancora presto: sono le 21 in punto quando la band libera il palco, inaugurando un’attesa di più di mezz’ora per gli Interpol. Quando le luci finalmente si spengono, Paul Banks e i suoi fanno il loro ingresso; il cantante, occhiali scuri e capelli pettinati all’indietro, porge un rapidissimo saluto alla folla («Ciao! Grazie!»), prima che il chitarrista Daniel Kessler, adattato al piano per il primo brano, attacchi l’intro di “Toni”, tratta dall’ultimo album “The Other Side of Make-Believe” (2022). Il gruppo introduce subito un’atmosfera cupa, peculiare del suo stile: spesso l’illuminazione posteriore – dove a dominare è il colore rosso – risalta la silhouette dei musicisti, che suonano con una freddezza e un’eleganza ricercate. Il secondo brano è “Obstacle 1”, tratto dal primo e celebratissimo lavoro “Turn On the Bright Lights” (2002), ed è qui che la serata sembra promettere un crescendo. Promessa mantenuta?

Da sinistra: Brandon Curtis, Paul Banks, Brad Truax. Foto: Elisabetta Ghignone

La musica, naturalmente, è espressa nella sua qualità dagli interpreti: oltre alle chitarre (divise tra lo stesso Banks e un concentrato Kessler, che gli ruba la scena), sono notevoli i riff quasi solistici del basso suonato da Brad Truax. Le parti strumentali sanno essere a tratti incisive, come nelle coppie di note della drammatica “Pioneer to the Falls” o come nell’intro di “Narc”, a tratti ancorate a intrecci più elaborati, come in “Fables” o “Leif Erikson”; a completare la sezione melodica, le tastiere di Brandon Curtis. Nonostante le premesse e il calore dei presenti, scatenati soprattutto su pezzi di vecchia data tra cui “Evil”, “C’mere” o “Rest My Chemistry”, il concerto non decolla del tutto e quasi pare che manchi qualcosa. È un po’ come se il mood austero degli Interpol avesse soggiogato anche la platea: di certo la loro produzione nasce per un ascolto impegnato – come testimoniano, tra le altre cose, i complessi testi ad opera di Banks – eppure, a prescindere dal buon livello dell’esibizione, si avverte tra il pubblico un vago sentore di pesantezza.

Il batterista Sam Fogarino. Foto: Elisabetta Ghignone

Una postilla a parte merita il batterista, Sam Fogarino. Nulla da dire, se non di positivo, rispetto al talento e alla creatività dell’artista (specie con i tempi dispari e il groove articolato di “Into the Night”); impossibile però non notare le pericolose oscillazioni metronomiche in cui ogni tanto incappa. Si sa, la musica dal vivo è tutt’altra cosa rispetto a quella registrata in studio (e va benissimo così), ma qui la mancanza di equilibrio risulta evidente e alcune canzoni ne escono di molto velocizzate – è il caso di “Stella was a diver and she was always down”, sulla quale qualcuno addirittura riesce a pogare – oppure in bilico tra rallentamenti e accelerazioni improvvise. Le quali, se non altro, rendono più umano un live dominato da una compostezza indomita, che sembra non potersi e non volersi sciogliere.

La band in rosso e nero. Sulla sinistra il chitarrista Daniel Kessler. Foto: Elisabetta Ghignone

Dopo una breve pausa, il gruppo torna sul palco con gli ultimi tre pezzi: a chiudere la serata, intorno alle 23, è “Slow Hands”, altro celebre brano dal secondo album “Antics” (2004). Solo sul finale la folla dà l’impressione di accendersi, chi saltando, chi muovendo le mani a tempo, a manifestare la propria partecipazione e rendere omaggio a una band di caratura internazionale e di indiscusso valore. Nel complesso, si può parlare di uno show piacevole, di un’opportunità da non perdere per incontrare gli Interpol e godere di persona della loro opera: opportunità che i numerosi presenti hanno colto con gioia, anche se forse non tutti sono usciti con addosso la stessa soddisfazione. Il prossimo appuntamento con Stupinigi Sonic Park è segnato al 4 luglio, quando alla Palazzina di Caccia suoneranno i Simply Red.

A cura di Carlo Cerrato

Le paure e le verità degli Atlante a sPAZIO211

C’è una Torino fatta di stadi, palazzetti e teatri e una Torino di piccoli locali storici: sPAZIO211 è senza dubbio uno di questi. Una realtà senza transenne, senza lunghe code per entrare e senza stress da parcheggio. Una realtà intima dove puoi scambiare qualche chiacchiera con l’artista prima che salga sul palco o scorgere tra il pubblico il membro di una band che avevi visto live qualche settimana prima. Lo sanno bene i fan degli Atlante, che non sono di certo mancati al ritorno live della rock band il 28 aprile scorso, quasi un anno dopo dall’ultimo concerto torinese. Il trio composto da Claudio Lo Russo (voce e chitarra), Andrea Abbrancati (basso) e Stefano Prezzi (batteria) ha dato il benvenuto a Luca de Maria, chitarrista che aveva già collaborato e suonato con la band, ma che da ora in poi sarà una presenza fissa sul palco.

Andiamo con ordine: ad aprire le danze ci pensano gli Est-Egò, band torinese che aveva suonato all’Eurovillage al Parco del Valentino in occasione della scorsa edizione dell’Eurovision Song Contest. Dall’allora, però, tante cose sono cambiate per la band, che si presenta sul palco con una formazione nuova, ma con lo stesso sound onirico e psichedelico di sempre. Basta una manciata di brani, per lo più strumentali, per scaldare il pubblico, che timidamente si appresta sottopalco.

Gli Est-Egò (credits foto: Martina Caratozzolo)

È il momento degli Atlante: il frontman imbraccia la chitarra e suona le prime note distorte di “Materia”, che i fan riconoscono in pochi secondi e iniziano a cantare a colpi di headbanging. Il loro marchio di fabbrica sono le sonorità rock, fatte di riff energetici, combinate a sonorità elettroniche, che Lo Russo propone egregiamente al synth, in linea con il suo progetto solista Lorusso.

Claudio Lo Russo (credits foto: Martina Caratozzolo)

La scaletta è un susseguirsi dei brani di paure/verità, l’ultimo album pubblicato dagli Atlante a fine 2021 firmato Pan Music Production. Non mancano, però, altri brani come “Atlas” e “Bivio” dagli album precedenti e lo spazio per un brano inedito.

La serata avanza e l’atmosfera è calorosa: ci sono cartelloni con dediche, sguardi d’intesa e momenti di pogo. La band lascia il palco, ma il pubblico non è ancora soddisfatto. Difatti, non è ancora finita: mancano tre brani, tra i quali “Venere”, il più apprezzato dai fan, che chiude la scaletta tra gli applausi.

Gli Atlante (credits foto: Martina Caratozzolo)

A concerto finito, ritornando alla normalità, si ha la sensazione che il live sia durato il tempo sufficiente per farti venire voglia di ascoltare gli Atlante in nuove occasioni, in attesa di nuova musica. Gli Atlante sono una delle band emergenti torinesi più note e l’entusiasmo vissuto a sPAZIO211 è la prova dell’affetto che Torino nutre per loro.  

A cura di Martina Caratozzolo

Jazz is Dead! 2023: gli Irreversible Entanglements al Cinema Massimo

La sera del 3 giugno nella sala 1 del Cinema Massimo si è tenuto lo spettacolo Irreversible Entanglements: Men at Work, evento nato dalla collaborazione tra il festival Jazz is Dead! e il Museo Nazionale del Cinema. Dopo l’anteprima al Cap10100 e le serate del 26, 27 e 28 maggio al Bunker, la sesta edizione del festival torinese è proseguita con una produzione volta a valorizzare una parte del Fondo Vittorio Zumaglino dedicata al lavoro nella Torino degli anni ’30 e ’40, con l’accompagnamento musicale del collettivo free jazz americano Irreversible Entanglements.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Solo un paio di riflettori e la luce dello schermo del cinema illuminano la band, che inizia a suonare quasi in punta di piedi mentre viene proiettato il montaggio delle immagini di Vittorio Zumaglino curato da Nadia Zanellato: l’intensità della performance aumenta gradualmente e segue pari passo lo sviluppo del montaggio, che più diventa serrato e più porta la musica a creare un’atmosfera ipnotica e affascinante, dando vita a percorsi sonori apparentemente infiniti.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Gli Irreversible Entanglements portano sul palco testi dedicati alla centralità dell’amore nella nostra vita e all’importanza delle proprie radici, rivolgendo inoltre uno sguardo al futuro: le parole vengono pronunciate dalla voce perentoria e decisa di Moor Mother, leader del gruppo, che con un piglio da predicatrice si rivolge al pubblico e si lascia andare ai suoni del resto del collettivo, formato da Luke Stewart, Keir Neuringer, Aquiles Navarro e Tcheser Holmes.

Al termine dell’esibizione, gli organizzatori dell’evento, con il sostegno del pubblico, chiedono un piccolo bis, immediatamente concesso: Moor Mother chiede di pronunciare con lei la frase “We can be free”, e su queste quattro parole si chiude ufficialmente lo spettacolo della band.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Si conclude tra gli applausi del pubblico e anche alcuni gridi di approvazione l’iniziativa extra del Jazz is Dead! 2023, che è riuscita a creare un paesaggio sonoro assolutamente inedito unendo l’immagine di una Torino lontana e a noi sconosciuta a suoni appartenenti ad un altro mondo e ad un’altra epoca, ancora poco familiari nel mainstream italiano odierno. Sicuramente, coloro che hanno avuto modo di vedere gli Irreversible Entanglements all’opera non potranno fare a meno di desiderare di immergersi ancora una volta nel loro mondo: un’occasione perfetta per farlo sarà l’uscita del loro nuovo progetto a settembre, annunciato in esclusiva proprio durante la serata.

Foto in evidenza di Elisabetta Ghignone.

A cura di Giulia Barge

Jazz is Dead, serata finale: il Bunker nel segno della musica

Terzo appuntamento del Jazz is Dead, pomeriggio del 28 maggio: il clima decisamente instabile, fatto di rannuvolamenti e piogge passeggere, non scoraggia i presenti, accorsi all’evento gratuito per godersi l’ennesima giornata di musica. Teatro della kermesse, giunta ormai alla sesta edizione, è il Bunker; la line-up è molto variegata, in accordo con le giornate precedenti e lo spirito del festival (la tematica di quest’anno ragiona sull’identità: “Chi sei?”). Tantissimi gli artisti coinvolti, così come le proposte, i generi, addirittura gli strumenti che figurano sui diversi palchi. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, come sottolinea nei suoi interventi il direttore artistico della rassegna, Alessandro Gambo.

Ad aprire le danze all’interno del tendone, primo di due scenari, è l’orchestra Pietra Tonale. Le temperature, elevate in quello che è uno spazio ristretto e stracolmo di gente, non impediscono di godersi lo spettacolo: l’ensemble porta in scena una musica che combina i suoni della tradizione orchestrale con la sperimentazione moderna e contemporanea. Grande enfasi sulla componente ritmica (le batterie sono ben due) e sulla genesi sonora, che culmina in momenti di notevole apertura melodica. L’esibizione è apprezzabile sia per l’originalità dei contenuti che per l’atmosfera creata, a un tempo raccolta e suggestiva, con la proiezione sullo sfondo di immagini vagamente psichedeliche.

Pietra Tonale. Foto: Amalia Fucarino

È dunque il turno del trio del trombettista Gabriele Mitelli, accompagnato dal contrabbassista John Edwards e dal batterista Mark Sanders. Sempre all’interno del tendone, il jazz eclettico dei musicisti incontra sonorità sintetiche ed elettroniche; da questa combinazione traspare la volontà precisa di esplorare, in senso letterale, ogni possibilità esecutiva offerta dalla strumentazione. E soprattutto, di divertirsi nel farlo. Piatti suonati con l’archetto, corde pizzicate sopra e sotto il ponticello, trombe stridenti e trasfigurate, voci solo accennate, quasi suggerite; tutto indirizza a una ricerca condotta sul suono, e lo sviluppo dei brani pare descrivere un vero e proprio flusso di coscienza, intrigante e imprevedibile.

Da sinistra: Gabriele Mitelli, John Edwards, Mark Sanders. Foto: Roberto Remondino

Ci spostiamo poi all’interno del club, ovvero lo spazio interno del Bunker, dove si esibisce Brandon Seabrook, chitarrista e banjoista americano, accompagnato da due musicisti d’eccezione quali il batterista Gerard Cleaver e il pianista e compositore Cooper-Moore. Quest’ultimo è impegnato con uno strumento molto particolare, ovvero il diddley bow, monocordo originario dell’Africa. Gli intrecci melodico-armonici, spesso rapidi e frenetici, sono i protagonisti assoluti dello show: ne risultano suoni singolari, talvolta aspri, insoliti, apprezzabili anche per il carattere sperimentale e improvvisativo. A farla da padrone sono la grana sonora – materica – delle corde e un dialogo musicale a dir poco acceso, soddisfacente da vedere e ascoltare.

Da sinistra: Cooper-Moore, Gerard Cleaver e Brandon Seabrook. Foto: Amalia Fucarino

I quarti artisti della serata sono i Moin, progetto musicale che vede la collaborazione tra la band londinese Raime e la batterista pugliese Valentina Magaletti. Con i Moin si entra in un terreno del tutto nuovo, lasciandosi alle spalle quasi ogni cenno del jazz finora suonato, così come di quello citato nel nome del festival: il marchio di fabbrica del complesso è un sound elettronico cupo, dove il sintetizzatore si unisce a chitarre distorte e a potenti riff di basso e batteria, con sembianze di matrice post-rock e post-punk. Interessante – anche un po’ inquietante – l’ingresso sul palco del gruppo, con alcune basi di voce registrata in loop; il prosieguo dell’esibizione sviluppa la scaletta sul suddetto mood, muovendo spesso verso un’atmosfera satura di suono e marcando uno stile definito, quasi ritagliato su misura.

Moin. Foto: Roberto Remondino

Ultimo gruppo in programma sono i giapponesi Boris, band attiva da più di trent’anni, che infiamma l’evento in modo definitivo. Protagonisti di una fusione musicale che accosta il metal a generi quali ambient, noise rock e hardcore punk, i musicisti esprimono da subito la loro natura di animali da palcoscenico. Il bassista e chitarrista Takeshi Ōtani sfoggia entrambi gli strumenti in uno, a doppio manico, il che già di per sé ruba la scena; dietro la batteria si staglia un grandioso gong, percosso spesso e volentieri dal batterista nella successione di ritmi serratissimi; il cantante, Atsuo Mizuno, si scatena senza soluzione di continuità, coinvolgendo il pubblico in modo costante e facendosi addirittura portare in trionfo dalla folla a più riprese. A completare la formazione è la chitarrista Wata, la quale si occupa anche delle tastiere, in particolare in “[not] Last Song”. Neanche a dirlo, i presenti si abbandonano a un folle pogo lungo tutta la durata del concerto, facendo sentire il loro entusiasmo specie in pezzi come “Question 1” oppure “Loveless”. Il climax giusto per chiudere la serata e la rassegna.

Boris. Foto: Amalia Fucarino

Il Jazz is Dead si conclude col botto, confermandosi un’importante realtà della scena torinese, aperta più che mai all’incontro tra generi differenti, alla ricerca e alla sperimentazione artistica, dal respiro e dalla portata a tutti gli effetti internazionale. Un appuntamento da non perdere, insomma, che fa dell’inclusione e dell’accessibilità i suoi punti di forza, suggellando il tutto con un’interessante selezione musicale.

A cura di Carlo Cerrato

Jazz is Dead – Chi sei? Prima serata

Quest’anno, alla sua sesta edizione, Jazz is dead si conferma festival che sa proporre una musica di confine, poco definibile, e che nella sua ecletticità sa coinvolgere un pubblico ampio, eterogeneo per l’età, ma anche per i differenti interessi musicali. Così un appassionato di jazz in cerca di nuovi orizzonti può incontrare un ventenne che è lì per ballare sotto cassa della buona musica elettronica. Lo stesso vale per gli artisti chiamati a suonare. Jazz is dead fa dello spazio del Bunker, stracolmo di persone, il luogo di possibili incontri inaspettati. Il titolo scelto per questa edizione è “Chi sei?”, dove il punto interrogativo può anche riferirsi al festival stesso, diventando un invito a chiedersi quale sia il filo conduttore che porta così tante persone a partecipare, che cosa sia la musica che ogni anno Jazz is dead accoglie e propone.

Jazz is dead
Jazz is Dead, prima serata – foto di Elisabetta Ghignone

Ad aprire la prima serata di festival, venerdì 26 maggio, sono i Leya, duo formato da Marilu Donovan (arpa) e Adam Markiewicz (violino e voce) che hanno debuttato nel 2018 con l’album The fool. I due artisti rileggono in chiave contemporanea due strumenti antichi come il violino e l’arpa, creando nuove possibilità sonore. A partire dalle 18.30 nel tendone del Bunker la loro musica ha immerso il pubblico in un’atmosfera intensa e magnetica.

La serata poi ha continuato nello spazio al chiuso alle 21 con il live di Sarah Davachi, che in un loop infinito di droni ha reso il tempo e lo spazio quasi impercettibili, trasportando gli spettatori in un viaggio surreale. Seduti sulle loro sedie, tutti rimangono immobili, quasi ipnotizzati, per circa un’ora.

jazz is dead
Jazz is Dead, prima serata – foto di Elisabetta Ghignone

A seguire sale sul palco Pan Daijing. L’artista originaria del sud-ovest della Cina, ma di stanza a Berlino, confida al pubblico di volersi prendere una pausa e sarà per tanto una delle ultime occasioni in cui assistere a un suo concerto.

Dopo una breve pausa, il pubblico attende con calore Nziria, che appare tra le luci avvolta in un ampio impermeabile nero, la testa rasata e una presenza scenica che sprigiona energia. Nziria, che in napoletano significa “capriccio molto ostinato e fastidioso, spesso senza un motivo preciso”, è l’ultimo progetto di Tullia Benedicta, musicista di origine partenopea e cresciuta in Romagna. La sua musica sembra lasciarsi contaminare dalle diverse esperienze vissute, ma mantenendo sempre una forte e sotterranea presenza; un personale punto di vista gli permette di rivisitare la musica napoletana e neo-melodica creando un nuovo immaginario di riferimento, svincolato da cliché e categorizzazioni.

Jazz is Dead, prima serata – foto di Elisabetta Ghignone

I djset di Upsammy e Stefania Vos chiudono la prima serata del festival, lasciando il pubblico più che soddisfatto e con la voglia di partecipare anche nei giorni successivi.

A cura di Stefania Morra


MUSIDAMS CONSIGLIA: i 10 migliori singoli di maggio

Ecco la top 10 dei migliori singoli di maggio 2023 secondo MusiDams!

Dance the Night – Dua Lipa 

Il primo brano della colonna sonora di Barbie, l’attesissimo film di Greta Gerwig in uscita a luglio, è firmato da niente meno che da Dua Lipa con la produzione di Mark Ronson. “Dance the Night” viaggia sulla scia delle vibes anni ’70 di Future Nostalgia, proiettandoci direttamente sulla pista da ballo con Margot Robbie e Ryan Gosling

Voto: 28/30

America has a problem – Beyoncè feat Kendrick Lamar 

Il featuring a sorpresa fra Beyonce e Kendrick Lamar, uscito il 19 maggio, trasforma un brano sulla dipendenza affettiva in una critica alla dipendenza del mercato discografico statunitense nei confronti dello stesso Lamar, tanto che persino l’intelligenza artificiale cerca di clonare i suoi testi – senza grandi risultati – . Il singolo campiona il brano del 1990 “Cocaine (America has a problem)” del rapper americano Kilo Ali

Voto: 27/30 

Bellu uaglione – Rosa Chemical 

Rosa Chemical e il fantasma di Renato Carosone si uniscono per un revival di “O’ Sarracino”, che viene trasformato in un inno alla fluidità in chiave EDM. Il pride month è ufficialmente iniziato ed è firmato Rosa Chemical.

Voto: 26/30

Mare Caos – Paola e Chiara

È finalmente maggio, il mese dei tormentoni estivi: non poteva ovviamente mancare il singolo delle maestre assolute di quest’arte, Paola e Chiara. “Mare Caos” è il secondo brano estratto dall’album Per sempre, uscito il 12 maggio, e non abbiamo dubbi che con le sue sonorità latin pop diventerà IL tormentone di questa estate 2023. 

Voto: 26/30

Pazza Musica – Marco Mengoni, Elodie

Dobbiamo ammetterlo: aspettavamo questo duetto da anni. E forse le nostre aspettative erano troppo alte, perché il risultato non riesce a soddisfarci pienamente: sa di già sentito. Il brano rimane comunque piacevole e rientrerà sicuramente nelle nostre playlist vacanziere.

Voto: 25/30

A cura di Ramona Bustiuc

Lawnmower – Bent Knee

Il primo singolo della band avant-garde statunitense dopo l’abbandono del sopracitato Ben Levin (ex-chitarrista) e Jessica Kion (ex-bassista) è una ballad che lascia spazio alla voce radiosa della vocalist Courtney Swain, con sonorità che sfiorano il country. Il contrasto con il disco precedente Frosting (composto per lo più da musica cacofonica e ostica) è sorprendente: il brano regala brividi dal quieto incipit, fino al finale distorto, mentre Swain ci racconta di come non taglia più il prato della sua casa in campagna.

Voto: 29/30

Nothing Is As Good As They Say It Is – Sparks

Dopo la prima avventura cinematografica con Annette, gli Sparks tornano in pompa magna con l’ennesimo album (siamo a venticinque!): “Nothing Is As Good As They Say It Is” è il grido punk rock di un bambino appena nato che chiede disperatamente a sua madre di tornargli in grembo. Il titolo dell’album, The Girl Is Crying In Her Latte, ci fa pensare che non ci siano pezzi particolarmente più allegri nel nuovo repertorio, e va bene così.

Voto: 28/30

Prince of Fire – Voyager

Forti del buon risultato al recentissimo Eurovision Song Contest con “Promise”, i Voyager continuano la promozione dell’atteso disco Fearless in Love. “Prince of Fire” va in contromano rispetto a quanto presentato a Liverpool: quasi 5 minuti per un brano dalla struttura irregolare, con synth e melodie sempre presenti, ma stavolta sovrastate dalla potenza delle ritmiche. Il disco esce a luglio e fa già caldissimo.

Voto: 28/30

Home – Einar Solberg ft. Ben Levin

Sebbene sia da sempre il compositore principale e frontman dei Leprous, Einar Solberg si prepara all’uscita del suo debutto da solista 16. Il disco è una buona scusa per esplorare sound che nella band striderebbero eccessivamente, e “Home” non fa eccezione. Una ritmica hip-hop fa da base a un brano pieno dei caratteristici vocalizzi del cantante, stavolta dallo spirito più commerciale che mai. A confermare questi sentori c’è Ben Levin che regala al brano una strofa rappata. Einar, ti vogliamo bene a prescindere, anche con la mazurka.

Voto: 27/30

Under You – Foo Fighters

L’inaspettato ritorno dei Foo Fighters sembra destinato a produrre un disco molto interessante. La band è quanto più vicina al loro esordio, quando Dave Grohl scrisse e registrò in solitaria il self-titled del 1995 – anche questo a seguito di una grave perdita, ovvero quella di Kurt Cobain: Grohl è stato batterista dei Nirvana per 4 anni – . “Under You” è un modo di celebrare quanto è stato Taylor Hawkins – batterista dei Foo Fighters dal 1997 e deceduto a marzo 2022 –  senza scadere nell’eccessivo melenso: il brano è fresco e movimentato, dall’ascolto semplice e d’impatto, che ci riporta a grandi successi come “Learn to Fly” o “Big Me”.

Voto: 26/30 

A cura di Mattia Caporrella

Immagine in evidenza: screenshot dal video https://www.youtube.com/watch?v=OiC1rgCPmUQ

Il gioco della serietà: La fille du Régiment al Teatro Regio

Cosa mette di buon umore più della Figlia del reggimento? Quest’opera che ci fa danzare davanti agli occhi soldatini colorati, che mette in scena amori giocosi e ingenui, che usa la musica per creare un mondo dove il Male semplicemente non esiste, è la cura infallibile contro la depressione. Con quest’opera il Teatro diventa quel che è in Fanny e Alexander: gioco di cartone, volo di fantasia, magia che vince il duello con la realtà. Nulla nella Figlia del Reggimento è reale: la Guerra, l’Esercito, la Nobiltà, l’Amore, il Dolore, la Separazione sono tutte figurine in miniatura nelle mani di un bambino. Ma come ogni gioco che si rispetti, va giocato con estrema serietà (i bambini questo lo sanno bene).

La figlia del reggimento al Teatro Regio – Foto di Andrea Macchia

Dunque in un momento triste, come può esserlo l’aria di Marie alla fine del primo atto, Donizetti vuole che tu pianga, e ti fa piangere; e in un momento di gioia, come quando i tre protagonisti si riuniscono nel secondo atto, vuole che la gioia sia incontenibile, e ti folgora con un ritmo offenbachiano perché devi aver voglia di alzarti in piedi e danzare.
È commovente pensare che queste opere non le ha scritte un bambino vero, un piccolo Mozart: le ha scritte un adulto, uno che è nato nella miseria, che a quarant’anni ha perso i genitori e la moglie e i figli, e che ha finito i suoi giorni pazzo: uno, insomma, che ha conosciuto il dolore. L’esilità di certe sue marcette, valzerini o minuetti sembra un rimpicciolirsi davanti al gran caos del mondo, un ritirarsi nel sottosuolo, in una tana dove asciugarsi le lacrime e poter tornare a giocare ai soldatini. Perciò questa musica così fragile è anche quella dove più spesso la malinconia affiora, trascolora e si riassopisce: soltanto in Schubert abbiamo una successione così cangiante di modi maggiore e minore nello spazio di poche battute. Il comico come superamento del tragico di cui è fatta la vita è teorizzato e messo in pratica nelle melodie donizettiane.

La figlia del reggimento al Teatro Regio – Foto di Andrea Macchia

Il Teatro come gioco, dunque, e la creazione artistica come luogo per espungere il Male dal mondo sono gli ingredienti delle opere comiche di Donizetti. Guai al regista che davanti alla Figlia del reggimento punti al realismo, alla verosimiglianza, o quel che è peggio a parlare di noi, parlare del presente, parlare del mondo in cui viviamo: no, no, no, sembra dire quest’opera, viva il mondo in cui non viviamo.

La figlia del reggimento al Teatro Regio – Foto di Andrea Macchia

Nello spettacolo andato in scena al Teatro Regio, i registi Barbe & Doucet hanno seguito questo principio e hanno ricollocato l’opera sul comò di un’anziana signora, tra scatole di medicine, la statuina di una Madonna alta sei metri e una abat-jour di cui non si vede la sommità: davvero un mondo di soldatini, di figurette di cartone. Né si perde l’ambientazione svizzera, poiché sul comò è anche collocato un orologio a cucù a forma di chalet e sul fondo il dipinto di un paesaggio alpino. Il resto, come potete immaginare, viene da sé, ed è meraviglioso. Tanto più che questi due sono dotati della dote più rara tra i registi: l’umorismo, cosa ben diversa dalla caciara o dalla stupidità con cui altri credono di far regie divertenti. L’ambientazione insolita è introdotta da un piccolo film proiettato durante l’Ouverture, dove si vede l’anziana signora, i suoi nipotini, la casa di riposo, il comò e gli oggetti dei ricordi riposti su di esso: la vita trascorsa, probabilmente passata per la guerra, viene delibata nella memoria e trasformata, per chi durante la guerra era bambina, in una favola colorata: cosa c’è di più malinconico e dolce insieme, di più profondamente donizettiano?

La figlia del reggimento al Teatro Regio – Foto di Andrea Macchia

Guidati dai due registi e dalla bacchetta di Evelino Pidò, molto analitica coi timbri dell’orchestra, gli interpreti hanno dato prove ottime e nel canto e nella recitazione, questa assai più difficile da padroneggiare in un’opera che richiede di parlare e non solo di cantare, dunque bravi due volte. Fuoriclasse assoluto Arturo Brachetti nei panni della Duchessa di Crakentorp: come nella migliore tradizione dell’operetta (si pensi al ricevimento nel secondo atto del Pipistrello), si è esibito in un numero extra che combinava al trasformismo la canzone “Ciribiribin”: per un attimo l’immenso Paolo Poli è tornato tra noi.

La figlia del reggimento al Teatro Regio – Foto di Andrea Macchia

A cura di Luca Siri

Lucio Corsi: artista, alieno, necessario

Un viaggio intergalattico annaffiato nella birra: il racconto del live all’Hiroshima Mon Amour

Per due ore di un venerdì fradicio di maggio l’Hiroshima Mon Amour è l’astronave di Lucio Corsi. Un pianoforte, una tastiera, chitarre, maracas, una valigetta di cuoio e due Tuborg pericolosamente in bilico sul bordo del palco: è un rebus ancora da svelare, il mondo live di questo alieno gentile mutaforma. Così lontano, così terrestre, italiano, toscano. E pure i suoi musicisti sembrano assolutamente fuori posto, assortiti in maniera bizzarra, nell’accezione più positiva del concetto.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Mentre scintillano i riflettori veloci nella sala Majakovskij, sembra di scorgere quell’Iggy Pop del ‘72, che si contorce a torso nudo, tutine attillate e scarponcini di vernice che pestano i cavi. Ma Lucio Corsi non gioca a fare la rockstar. È un alieno gentile, animalesco, timido, nascosto dietro i capelli lunghi e una spennellata di cerone. La sua verità è lì da qualche parte, tra una sensibilità musicale raffinata, dalle liriche, agli arrangiamenti, alle costruzioni armoniche. È avvolto da un candore inafferrabile, una purezza tutta da preservare, prima che rimanga incastrata tra le grinfie di qualche salotto Rai.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Corsi si lancia in lunghi assoli elettrici senza mai sfociare nel virtuosismo vuoto, sale e scende dal palco, cambia outfit, suona cover di Dalla e Battisti, legge poesie. Ma nonostante tutto, lo spettacolo non c’è. Non c’è spazio per il cabaret, le frasi trite da animali da palcoscenico: Corsi sul palco sembra che ci sia appena atterrato da chissà dove. Tra un pezzo e l’altro accorda le chitarre, non sa che dire, improvvisa qualche spiegazione impacciata priva di qualsiasi irritante snobismo pretenzioso. E chi non ha pensato ad un certo cantautorato indie italiano scagli la prima pietra.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Quello che rimane, sotto il cerone sciolto e le birre rovesciate sulla scaletta, è un solenne e totale rispetto per la musica, che è suonata, è vissuta, è costruita in studio con uno sforzo collettivo, è la reale protagonista del tutto. Ancora più di Lucio Corsi stesso, che non c’è dubbio eserciti un naturale fascino magnetico sul suo pubblico e sui suoi fan, ma che non si mette mai davanti alle sue canzoni. Che sia il delicato universo fiabesco di Bestiario musicale, la dolcezza di Cosa faremo da grandi? o il più maturo La gente che sogna, l’ultimo album uscito lo scorso 21 aprile, Corsi ti parla del vento, della luna, della ragazza trasparente, del ragazzo altalena, delle stelle e le navi spaziali; disegna quadri impressionisti intimi e lontani, con un occhio un po’ bambino, che osserva la vita e le cose del mondo scoprendole per la prima volta.

La canzone italiana riparta da Lucio Corsi, dalle sue astronavi giradisco, che suonano musica aliena che non è mai stata così reale, così umana.

La Svezia vince l’Eurovision Song Contest 2023

Il 13 maggio si è tenuta la finale dell’Eurovision Song Contest – l’evento non sportivo più seguito al mondo – che ha visto trionfare Loreen con la sua “Tattoo”. 26 paesi in gara dopo l’operazione pulizia delle due semifinali (qui e qui per leggere le nostre pagelle) e molti graditi ritorni tra gli ospiti della serata fino al trionfo svedese, annunciato ormai da mesi e travolto da polemiche e contestazioni. Ma andiamo con ordine.

La serata si è aperta con la Kalush Orchestra che ha portato una nuova versione della sua “Stefania”, canzone vincitrice nel 2022, dando il la a una straordinaria flag parade intervallata dai rappresentanti ucraini più memorabili degli ultimi anni: i Go_A con “Shum” (2021), Jamala con “1944” (vincitrice nel 2016), Tina Karol con “Show Me Your Love” (2006) e Verka Serduchka con “Dancing Lasha Tumbai” (2007). Una volta terminata la sfilata, sul palco della Liverpool Arena è iniziata la gara.

Dopo le 26 esibizioni e con l’apertura del televoto, è stato nuovamente il momento degli ospiti. Sam Ryder, in gara per il Regno Unito l’anno scorso, ha presentato il suo nuovo singolo “Mountain” con Roger Taylor alla batteria. A seguire, un segmento dedicato alla musica di Liverpool a cui hanno preso parte il nostro Mahmood e altri ex concorrenti come Netta, Daði Freyr, Cornelia Jakobs e Sonia. L’esibizione si è conclusa con un’emozionante versione di “You’ll Never Walk Alone” cantata da Duncan Laurence, vincitore nel 2019 con i Paesi Bassi e con un collegamento dal Golden Gate di Kiev con Ruslana, vincitrice nel 2004 con l’Ucraina.

A circa un’oretta dall’apertura del televoto, l’annuncio della sua chiusura e l’inizio delle assegnazioni dei punti della giuria, compatta nella sua preferenza: quindici nazioni hanno dato i loro 12 punti alla Svezia, garantendo a Loreen uno stacco di 163 punti dalla seconda posizione (Israele). Bene per l’Italia con Marco Mengoni, che le giurie hanno piazzato al terzo posto. Il pubblico nell’arena però non sembrava apprezzare la piega che stava prendendo la classifica: dal palazzetto si alzavano cori incitando “Cha Cha Cha” o urlando il nome del rappresentante finlandese, che le giurie avevano posizionato al quarto posto.

Il televoto ci ha regalato, come sempre, grandi sorprese e momenti al cardiopalma. Tonfo inaspettato per nazioni come Austria, Francia e Spagna, che i pronostici davano in top 10 ma che sono tutte finite nella seconda metà della classifica. Grande salto per la Norvegia con Alessandra e la sua “Queen of Kings”, che dal 17esimo posto della giuria è volata al quinto. La tensione però è salita alle stelle con l’annuncio dei punti della Finlandia: Käärijä ha dominato il televoto, raccogliendo 376 punti e scalzando momentaneamente dal primo posto Loreen. Il rapper finlandese si è però dovuto accontentare della seconda posizione: Loreen ha infatti preso 243 punti al televoto, permettendole di portare a casa il trofeo una seconda volta con un totale di 583 punti.

Le assegnazioni dei 12 punti del televoto.

La vittoria della Svezia è stata, indubbiamente, storica: Loreen è diventata la prima rappresentante donna a vincere il contest per due volte (la svedese vinse nel 2012 con “Euphoria”) e ha portato inoltre la nazione a un totale di sette vittorie, a pari merito con l’Irlanda per il maggior numero di primi posti. Questo trionfo però non è stato accolto da tutti con entusiasmo: l’arena e il pubblico da casa parteggiavano chiaramente per la Finlandia (che ha ricevuto ben 18 set di 12 punti al televoto), e molti hanno accusato le giurie di aver avvantaggiato eccessivamente Loreen sia per il suo status di icona eurovisiva sia per la possibilità di organizzare l’Eurovision Song Contest 2024 in Svezia a 50 anni della vittoria degli ABBA con “Waterloo”.

La classifica dell’Eurovision Song Contest 2023.

Per quanto riguarda l’Italia, non possiamo di certo lamentarci: Marco Mengoni arriva sesto al televoto e finisce al quarto posto dietro all’israeliana Noa Kirel; il suo risultato garantisce all’Italia la sesta top 10 consecutiva. Inoltre, dal nostro ritorno in gara nel 2011, la nazione ha ottenuto per ben sette volte il miglior posizionamento in classifica rispetto agli altri Big 5, ovvero quei Paesi che sono di diritto in finale (oltre l’Italia sono Spagna, Francia, Regno Unito e Germania).

Si conclude quindi l’Eurovision Song Contest di Liverpool, un’edizione all’insegna della musica come mezzo di unione tra le nazioni europee con grandi tributi ad Ucraina e Regno Unito, che l’anno prossimo ci porterà nella terra del gravlax e dell’Ikea – e, appunto, degli ABBA: ci vediamo nel 2024!

La performance di Loreen dopo la proclamazione.

Foto in evidenza dal profilo Facebook dell’Eurovision Song Contest.

A cura di Giulia Barge

Premio Buscaglione, finale: Torino celebra la musica emergente italiana

La finale della settima edizione del Premio Buscaglione è arrivata: dopo essere stati allo sPAZIO211 e all’Off Topic, il 6 maggio siamo sulle sponde del Po, al CAP10100, in una sera fresca ma gradevole. Il concorso ha visto arrivare a Torino diverse band da tutta Italia (sei gli artisti per ciascuna serata, e questa non fa certo eccezione), a contendersi il plauso della critica e a mostrarsi ai presenti, affamati di musica nuova di zecca; è giunto il momento di decretare quale, tra le tante proposte, conquisterà la prestigiosa posta in palio.

Quest’anno i presentatori sono la speaker radiofonica Claudia Losini e l’autore televisivo Sebastiano Pucciarelli, che introducono la serata con un programma leggermente diverso dalle precedenti: se in queste, infatti, le band emergenti a esibirsi erano cinque, seguite da un ospite (Post Nebbia il 4 maggio e Yosh Whale il 5), nella finale si sfidano le due band selezionate in ciascuna serata, per un totale di quattro progetti emergenti. A chiudere l’evento, fuori concorso, ci saranno il cantautore emiliano Dente e i corregionali Gazebo Penguins.

UFO BLU. Foto: Elisabetta Ghignone

I primi a salire sul palco sono i bergamaschi UFO BLU, originale quartetto caratterizzato da un sound ibrido, che fonde elementi di rock e funk, con qualche richiamo più o meno esplicito al dream pop. Il frontman si muove sul palco scanzonato, e canta i suoi versi con tono ironico ed autoironico, avvolto nel suo look anni ’70 (impossibile non menzionare la sua canotta bianca e soprattutto quei baffi). I musicisti, tutti giovani studenti di ingegneria, ottengono l’apprezzamento e le simpatie dei presenti; come da prassi, reinterpretano inoltre un brano dell’artista cui il premio è dedicato, ovvero “Una sigaretta”. Tra gli inediti, è di sicuro da segnalare il primo brano “Cresci bambino”; l’esibizione, complice la breve durata dei pezzi, termina rapidamente, ma lascia il segno per la carica trasmessa in apertura dell’evento.

Hey!Himalaya. Foto: Elisabetta Ghignone

È poi il turno degli Hey!Himalaya, un gruppo di ragazzi lecchesi ritrovatisi a Bologna, i quali propongono un intreccio musicale eterogeneo. I loro pezzi si muovono tra il folk rock e l’elettronica – anche qui sono presenti suggestioni dream pop – marcando subito una cifra stilistica propria, oltre a evidenziare una certa maturità artistica ed esecutiva. Anche l’immagine fa la sua parte: il cantante sfida le temperature indossando un dolcevita; il tastierista ci tiene invece a suonare rigorosamente a piedi scalzi. Il finale, con le atmosfere cangianti della loro “Cantilena violenta”, corona l’esibizione nel migliore dei modi; la cover di Buscaglione in questo caso è “Lontano da te”, che viene resa quasi irriconoscibile, a testimonianza della grande inventiva dei musicisti.

Miglio. Foto: Elisabetta Ghignone

Ad andare in scena è in seguito la bresciana Miglio, e subito le vibrazioni della serata slittano verso il pop e l’elettronica vera e propria, che assume spesso sfumature più cupe; la cantautrice si presenta in duo con un polistrumentista, il quale alterna i sintetizzatori e il basso, occupandosi anche delle basi dei pezzi. Il punto di forza dell’artista, oltre che nella qualità dell’interpretazione e della voce, risiede nei testi, dove si percepisce un’autorialità ben delineata: la sua scrittura, come peraltro riferito da Losini nella breve intervista post-esibizione, combina infatti serie di immagini a tratti evocative, a tratti vivide e sensuali (l’esempio perfetto è “Techno Pastorale”). Il brano di Buscaglione stavolta è “Buonasera signorina”, con sola voce e chitarra; una performance di livello, condotta con grande personalità e consapevolezza dei propri mezzi lirici e musicali.

Candra. Foto: Elisabetta Ghignone

Ultimo finalista è Candra, artista proveniente da Livorno, che riporta la piega dello show nella sfera del rock. Con una vocalità graffiante, il cantautore alterna brani più distesi, in cui chitarra elettrica e piano sono spesso gli unici strumenti accompagnatori, a una cover dal piglio quasi sognante (“Che bella cosa sei”), per poi arrivare al gran finale, con “Zitti”. Il pezzo inizia quasi in sordina, per poi liberare le sue sembianze punk nel potente e orecchiabile ritornello, uno di quelli che rimangono in testa per davvero. Candra si distingue per il modo genuino e convincente col quale mette in musica tematiche delicate, trattate con testi che colgono nel segno e ne evidenziano il peso e la portata personale.

Dente. Foto: Elisabetta Ghignone

È ora la volta del primo dei due artisti fuori gara: Losini, Pucciarelli e Gigi Giancursi, ex membro dei Perturbazione, introducono sul palco Dente, cui viene consegnata la Targa Gran Torino, destinata a un autore che abbia, citando Pucciarelli, «incarnato la natura migliore del cantautorato italiano». L’artista originario di Fidenza si esibisce in solitaria con la sua chitarra acustica: il primo pezzo suonato è “Saldati”, ormai di lunga data, mentre “Allegria del tempo che passa” è una nuova e frizzante uscita. Tra le canzoni, tutte ammantate di una piacevole leggerezza, scappa qualche fugace scambio di battute col pubblico; l’omaggio a Buscaglione non lo salta neppure lui, e la sua versione di “Guarda che luna” – tra le più celebri ballads dello showman torinese – conquista tutti i presenti, forse anche per la spontaneità informale restituita.

Gazebo Penguins. Foto: Elisabetta Ghignone

Ospiti d’eccezione, a chiudere questa lunga traversata, i Gazebo Penguins. Il quartetto di Correggio si presenta al culmine dell’attesa dei numerosi fan: adesso è il momento di scatenarsi. La musica spazia tra l’emo, il punk e soprattutto l’hardcore, anche se non mancano nemmeno qui i sentori elettronici; la scaletta è naturalmente più estesa delle precedenti, e il pubblico più caldo coglie l’occasione per darsi a un pogo forsennato durante la maggior parte dei brani (come in “Soffrire non è utile” o “Cpr14”, per citarne qualcuna). I riff aggressivi, le parti vocali cantate in coppia e il muro sonoro, generato anche grazie a un’importante quantità di amplificatori, caratterizzano un concerto grintoso, che chiude sulle note di una delle canzoni più conosciute del gruppo: “Senza di te”.

La premiazione ha così luogo dopo una sostanziosa scorpacciata musicale: a vincere la settima edizione del Premio Buscaglione sono gli Hey!Himalaya, i quali si aggiudicano il titolo di Next Big Thing italiana. Loro anche il Premio Booster; a Miglio vanno invece il Premio della Critica, il Premio Sold-Out e il Premio Riflettori. È la degna conclusione di una rassegna scoppiettante, piena zeppa di talenti che hanno saputo mettersi in mostra, farsi conoscere e soprattutto divertirsi, illuminando per tre serate consecutive la scena torinese e tagliando l’ennesimo nastro della nuova musica italiana.

A cura di Carlo Cerrato