Steve Coleman and The Five Elements in una data straordinaria al Torino Jazz Festival

Il teatro è pieno: anche per la data del 25 aprile il Torino Jazz Festival ha registrato il sold out. Prima dell’entrata in scena degli artisti, sale sul palco Stefano Zenni (direttore artistico del Festival) per presentare Steve Coleman che di lì a poco riempirà il teatro con la sua musica, insieme ai Five Elements, gruppo con cui collabora dall’inizio degli anni ’80.

Zenni sottolinea il fatto che il musicista non venga in Italia da diversi anni: la sua esibizione di Torino è davvero straordinaria, anche perché il festival è riuscito a far anticipare l’inizio del tour. Coleman è – spiega ancora Zenni – uno dei musicisti più influenti della storia recente del jazz. Innovatore del jazz dagli ultimi vent’anni, propone una sorta di laboratorio musicale in cui innesta fantasie melodiche più lente − o per lo meno cantabili – a ritmi di matrice afroamericana più corporei e danzanti, ottenendo una musica dal carattere pienamente contemporaneo. 

Steve Coleman and The Five Elements
Steve Coleman and The Five Elements – foto dal profilo del TJF

Steve Coleman sale sul palco (con in mano il sax, la custodia e una busta di carta), seguito da Jonathan Finlayson alla tromba (con una macchinetta fotografica a tracolla, che posa subito sul palco), Rich Brown al basso elettrico e Sean Rickman alla batteria. Intervalla la presentazione degli artisti a delle cellule melodiche a cui si collegano subito il bassista, e poco dopo gli altri due musicisti. Non è previsto uno strumento prettamente armonico, motivo per cui l’intero concerto è sorretto dal tocco leggerissimo del batterista che si mescola ai ritmi composti del basso a sei corde di Brown, su cui si poggia il dialogo armonico dettato dal contrappunto tra sassofono e tromba. La ritmica, cadenzata, prende qualcosa dai ritmi hip hop underground, mentre le melodie sono per la maggior parte improvvisate. Non si tratta solo di free jazz o funk. È quel filone a cui Coleman è tanto legato e che si chiama M-Base – acronimo di Macro-Basic Array of Structured Extemporizations – in cui tutte le forme dell’universo sono connesse e hanno come obiettivo finale l’espressione artistica. Alla fine del concerto Coleman prova a raccontarlo: «When you play there’s a energy», e l’energia si sente davvero in platea, dove il pubblico continua a far ondeggiare la testa o muovere le gambe o i piedi, incapace di rimanere immobile. 

Poi, perentorio, continua: «We have to stay awake for you», spiegando che lui e i suoi musicisti sono stanchi a causa del jet lag, come se volesse giustificarsi di non essere propriamente in forma. Ma se il risultato già così è sbalorditivo, viene da chiedersi come sarebbe con i musicisti nel pieno delle loro possibilità…

a cura di Alessia Sabetta

Shabaka Hutchings / Majid Bekkas / Hamid Drake – TJF 2023

Tra jazz, musica gnawa e ritmi afroamericani

I festival, com’è noto, sono anche occasioni per creare esperimenti con produzioni originali che possono avere molteplici esiti. Nel caso del Torino Jazz Festival, la terza serata ha visto la composizione di un trio, si potrebbe dire, inusuale: il sassofonista inglese Shabaka Hutchings, il cantante e suonatore di guembri marocchino Majid Bekkas e il batterista e percussionista americano Hamid Drake.

Shabaka Hutchings, foto di Ottavia Salvadori

Inusuale perché i tre arrivano da background diversi, ma ciò non impedisce loro di trovare un’intesa, rendendo il concerto qualcosa di unico. I suoni emessi dal guembri – strumento tipico della musica degli Gnawa, gruppo etnico che discende dagli schiavi neri deportati nella zona sahariana – di Bekkas sono in un registro medio (tra chitarra e basso, leggermente più ovattato), tale da permettergli di essere il centro portante della performance. Bekkas suona dei riff che si ripetono, su cui canta la stessa melodia, ed è il perno su cui far avvicendare le personalità di Drake e Hutchings, con il loro arsenale di strumenti. Certi riff si sposano perfettamente con alcune delle sonorità afroamericane e afrocubane che il batterista porta avanti tra ritmi funk e tribali, trasformando la batteria in una sintesi di percussioni che spinge il pubblico a ballare. Dal canto suo, Shabaka improvvisa in un linguaggio abbastanza riconoscibile di provenienza jazzistica, spezzando le metriche su una poliritmia che si incastra perfettamente negli spazi dei suoni degli altri due. Hutchings, inoltre, cambia costantemente atmosfera passando dal sassofono ad altri strumenti a fiato di tradizione africana e nativo americana.

Majid Bekkas, foto di Ottavia Salvadori

Il momento più suggestivo della serata accade quando Hamid Drake si siede di fronte al pubblico e, suonando un tamburo a cornice e battendo i piedi nudi per terra, accompagna Shabaka Hutchings e il suo flauto doppio. Il pubblico ascolta con religioso silenzio il momento sacrale che si sta creando e al brano successivo si accoda anche Majid Bekkas, con una kalimba che suona con virtuosismo.

Hamid Drake, foto di Ottavia Salvadori

L’improvvisazione è il principio su cui si fonda tale esperimento: accostando la potenza prorompente di Drake e il fraseggio scomposto di Hutchings, entrambi guidati da Bekkas. In una serata che ha dato l’impressione di essere una jam session tra figure divergenti, il pubblico non ha fatto altro che ballare dall’inizio alla fine.

A cura di Luca Lops


Kenny Barron Trio – 80th Birthday Tour

La leggenda vivente del pianoforte jazz al Torino Jazz Festival

Sold out  per la seconda serata del Torino Jazz Festival, per la quale sono addirittura stati aggiunti ulteriori posti a visibilità ridotta. Sullo stesso palco dove la sera prima si è parlato dei grandi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ci è salito proprio uno di loro, il pianista Kenny Barron, in occasione del tour per il suo 80° compleanno. Insieme a lui, Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria.

Kiyoshi Kitagawa, foto di Ottavia Salvadori

Il pianista statunitense è parte della vecchia leva (avendo suonato con autorità come Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Stan Getz e tanti altri) e dimostra da subito un fraseggio e un linguaggio jazzistico molto raffinati, semplici e melodiosi. Senza perdere tempo, dopo un breve saluto Barron introduce il primo brano, “Teo”, «from the great Thelonious Monk». «Si comincia alla grande!» commenta qualcuno tra il pubblico. I due accompagnatori si rivelano immediatamente personalità molto diverse, ma nell’insieme diventano parte di una macchina ben oliata: tra Kitagawa che gioca molto con gli spazi e Blake che spinge con delicata velocità, Barron tiene le redini “tirando indietro” con lo swing, per rimanere fermo e inamovibile nella pulsazione di ogni brano. In circa un’ora e mezza, il trio esegue alcuni standard presi dal repertorio jazzistico, come “How Deep Is The Ocean” e “Nightfall” di Charlie Haden, passando per “The Surrey with the Fringe on Top” tratto dal musical di Broadway Oklahoma e in conclusione, una sua composizione originale, “Calypso”.

Jonathan Blake, foto di Ottavia Salvadori

Al momento del bis accade qualcosa di unico: il trio comincia a suonare “Poinciana” in modo sospeso e leggero, quasi fluttuante. Il brano è famoso per il suo ritmo sincopato atipico e quando la pioggia inizia a scrosciare sul tetto della sala rende l’atmosfera ancora più suggestiva, creando un contrappunto con il pianoforte che trasforma il gruppo in un quartetto. Al termine del brano, le luci si accendono e il pubblico sembra ridestarsi da un sogno, rimanendo ancora incantato da ciò a cui aveva appena assistito. «I hope to see you again!» saluta il pianista, tra i commenti di qualche spettatore che avrebbe voluto sentire ancora altri bis e di qualcun altro tristemente consapevole della sua stanchezza dovuta all’età. Noi, invece, speriamo di rivederlo al più presto, per un’altra umile lezione di swing.

A cura di Luca Lops

Kenny Barron, foto di Ottavia Salvadori

Natura morta con custodia di sax apre il Torino Jazz Festival

Alle OGR la produzione originale con Peppe Servillo & TJF All Stars

Marching band e ballerini di lindy hop invadono strade e piazze di Torino. Si respira aria di festa: il Torino Jazz Festival è iniziato.

Ad aprirlo ufficialmente una produzione originale sul palco delle OGR (come già annunciato durante la conferenza stampa ) che intende rendere omaggio al jazz attraverso brani scelti da Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer, raccolta di storie romanzate di alcuni grandi jazzisti, ma anche saggio-critico sulla poetica del jazz. A leggere è Peppe Servillo (attore e cantante), accompagnato da una jazz band formata ad hoc per l’occasione con nomi di prestigio internazionale: il trombettista Flavio Boltro, Emanuele Cisi al sax tenore e Helga Plankensteiner al sax baritono, il pianista Dado Moroni, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. 

Foto di Alessia Sabetta

L’attore e i musicisti entrano in scena pronti a suonare quando, dal fondo della sala, partono le note blue di un sassofono che richiamano “Sophisticated Lady” di Duke Ellington e spiazzano il pubblico: il sassofono che sentiamo è quello di Helga Plankesteiner, che per tutto lo spettacolo apparirà in punti diversi della sala, facendo da intermezzo alla narrazione dei musicisti sul palco. La serata vede alternarsi letture dal libro e alcuni degli standard più famosi del jazz, come “In a Sentimental Mood” o “Good Bye Pork Pie Hat”, (brano scritto dal contrabbassista Charles Mingus dedicato al sassofonista Lester Young dopo la sua morte) rivista in chiave soul, passando anche per un “Somewhere Over the Rainbow” capace di far fischiettare anche gli accompagnatori dei molti appassionati presenti, forse meno avvezzi alla musica jazz.

Sembra quasi un rituale liturgico: Servillo legge la Parola del Jazz, mentre i musicisti in piedi e immobili, con atteggiamento solenne, ascoltano le parabole dei grandi jazzisti del passato, per poi incarnarli in ogni standard con la partecipazione attiva dell’assemblea .

Foto di Alessia Sabetta

L’ultimo brano diventa una jam session per la personalità emergente di ogni musicista (nonostante l’audio non fosse dei migliori per un concerto di questo tipo). Il bis, invece, è una sorpresa per il pubblico: Peppe Servillo finalmente canta una canzone napoletana, “Presentimento” di Fausto Cigliano, accompagnato da Moroni. Nel farlo lascia il pubblico ammaliato e cullato dalla poesia di questa dedica. In conclusione: brani letti, standard suonati e soli di sax baritono risuonanti in platea, diventano pezzi sparsi di un puzzle. All’ascoltatore il compito di assemblarli.

A cura di Luca Lops

Esibizioni diffuse a Torino per la settima edizione del Premio Buscaglione

È tutto pronto per il Premio Buscaglione, che si svolgerà a Torino fra il 4 e il 6 maggio 2023 in alcuni degli spazi musicali più importanti della città: Spazio211, Off Topic e CAP 10100, che da anni accolgono festival e concerti soprattutto di artisti emergenti. Due le semifinali in programma, in cui si sfideranno dieci fra cantanti e band provenienti da tutta Italia, tra cui verranno scelti i quattro finalisti che si esibiranno nel corso dell’ultima serata. 

L’obiettivo dell’Associazione Culturale F.E.A., che organizza il Premio, è promuovere la musica dal vivo e trovare la Next Big Thing italiana all’interno di uno spazio di condivisione creato per band, cantanti e per il pubblico stesso, che partecipa attivamente  alla selezione degli artisti. 

Il Premio Buscaglione, “una proposta alternativa in contrasto con i format televisivi dei talent dove il successo è immediato ma non duraturo”, nel corso degli anni ha lanciato artisti come Eugenio in Via di Gioia, Lo Stato Sociale, La Municipal, e in questa settima edizione ha visto ben 561 artisti iscritti. I premi principali – il Premio della Critica e il Primo Premio – consisteranno in un contributo in denaro e in un tour che farà tappa in 16 festival italiani fra cui Apolide (Piemonte), Memorabilia (Marche), Sud Est Indipendente (Puglia), RockunMonte (Toscana). Headliner delle tre serate saranno rispettivamente i Post Nebbia [4 maggio], Yosh Whale [5 maggio] e Gazebo Penguins [6 maggio]. Di seguito il programma completo delle tre serate:

Giovedì 4 maggioSpazio211
Headliner: Post Nebbia
Semifinalisti: Candra [Toscana], Fonni [Toscana], Giøve [Piemonte], Ufo Blu [Lombardia], Tommi Scerd [Liguria]

Venerdì 5 maggioOff Topic 
Headliner: Yosh Whale 
Semifinalisti: Cassio [Toscana], Frenesi [Piemonte], Hey!Himalaya [Lombardia], Miglio [Emilia Romagna], MiVergogno [Marche]

Sabato 6 maggio – CAP 10100 
Headliner: Gazebo Penguins
Esibizioni dei 4 finalisti 
Consegna Targa Gran Torino al cantautore Dente 
Closing party con DJ Set

I biglietti per le tre serate sono disponibili su https://oooh.events . Per chi non potrà seguirla dal vivo, la finale verrà trasmessa in diretta streaming sul canale YouTube del Premio Buscaglione, in diretta radio su RadiOhm e in diretta radio + video su RBE – Radio & TV.

Per ascoltare i brani dei semifinalisti 2023:

Maggiori informazioni sul Premio Buscaglione sono disponibili al link: https://www.sottoilcielodifred.it

A cura di Ramona Bustiuc


Un mondo nuovo: intervista a Nicola Campogrande

La sinfonia è una forma musicale che ancora oggi può fornire spunti di ricerca e questo ce lo ha dimostrato Nicola Campogrande con la sua seconda sinfonia “Un mondo nuovo”. Opera dedicata all’Europa in tempi di guerra e composta nel 2022 per «dare una risposta musicale all’angoscia che attraversa in questi mesi il nostro continente».

Considerato uno dei compositori italiani più interessanti e importanti di oggi, Campogrande, vanta un corpus di opere alquanto vasto e diversificato pubblicato presso l’editore Breitkopf & Härtel; direttore artistico dell’Orchestra Filarmonica di Torino fra il 2005 ed il 2016, anno in cui ha assunto il ruolo di direttore artistico del festival MiTo Settembremusica, il compositore è ospite nella sua città natale, Torino, al Conservatorio «G. Verdi» il 14 marzo 2023 per il concerto “Argento” della stagione 2022-23 della OFT.

Ripercorrendo la storia della musica, la sua sinfonia è stata affiancata da musiche di Rossini e da Poulenc in un grande concerto che ha dimostrato ancora una volta le capacità dell’Orchestra Filarmonica di Torino diretta dal giovane direttore d’orchestra Alessandro Cadario: ex alunno del conservatorio G. Verdi di Torino, ha proseguito i suoi studi presso l’Accademia Musicale Chigiana di Siena. Direttore anche di moltissimi organici estremamente importanti fra cui l’Orchestra del Teatro Regio di Torino e l’Orchestra Filarmonica della Fenice, oggi ha potuto confrontarsi con i grandi del passato e con un compositore come Campogrande, voce rilevante dello scenario contemporaneo. Stefanie Irànyi, mezzosoprano diplomatasi a Monaco e ospite in importanti sale internazionali, ha affiancato l’orchestra nell’esecuzione della Sinfonia di Campogrande. Con grande maestria, ha incantato il pubblico trasportandolo in una dimensione immaginifica di un possibile futuro.

Stefanie Irànyi & Alessandro Cadario
Stefanie Irànyi & Alessandro Cadario

Il compositore Campogrande presente in sala per ascoltare la sua opera, dopo essere stato intercettato da noi giovani inesperti, si è reso disponibile a rilasciare un’intervista:

Oltre ad essere un grande compositore di musica cameristica e sinfonica, ha composto musica anche per cinema e per il teatro. Quali sono le principali differenze nell’approccio a questi tipi di composizione? La grande differenza, per me, è che se scrivi musica applicata, ad esempio colonne sonore, invece che confrontarti con la storia della musica, hai qualcuno che dice ‘‘mi piace’’, il regista che dice cosa vuole.

Come si relaziona alla storia della musica e come integra gli spunti del passato? Io faccio un mestiere che per sua natura mi spinge ad aggiungere l’ultima tessera di un domino che è cominciato nel Medioevo, quando il canto gregoriano ha cominciato ad essere scritto. Lì è cominciata la Storia della Musica classica, prima noi non sappiamo niente, non la chiamiamo Musica classica perché non era scritta, quindi non abbiamo delle fonti. Nella Seconda Sinfonia non c’è nessuna matrice che io saprei riconoscere, non c’è nessun riferimento reale, però è ovvio che tutte le musiche per questo organico che ho amato o che conosco sono lì dietro le porte. Non lavoro mai dicendo ‘‘voglio farmi influenzare da…’’ o ‘‘traggo un passaggio da…’’. Io sono sempre l’ultimo ad accorgersi che dietro la mia musica ci sono delle tracce di musiche del passato.

Secondo lei perché può ancora avere senso scrivere sinfonie al giorno d’oggi nonostante il genere sia stato ampiamente esplorato nei secoli scorsi? La sinfonia è una struttura che permette una perfetta alternanza tra i diversi movimenti, tra il veloce e il lento, tra una costruzione più articolata – del primo movimento – un momento più riflessivo del secondo, lo scherzo del terzo e poi un finale. Io trovo interessantissimo studiare e acquisire quello che ‘‘è stato’’ per andare avanti, non per rifiutarlo e basta. La sinfonia nel XX secolo ha vissuto due esperienze: il rifiuto di chi la considerava un genere del passato come Webern, Schoenberg, Stockhausen, Xenakis; la fiducia di chi pensava a una rigenerazione, come Prokof’ev, Šostakovič e Mahler.

E cosa l’ha spinta a comporre una seconda sinfonia dopo la prima? Adottando la forma della sinfonia naturalmente rischio di più proprio perché viene accostata alle grandi sinfonie del passato – infatti, mi tremavano i polsi e ancora mi tremano ad ogni esecuzione – tuttavia mi piace l’idea di utilizzare una scatola che conosco, a cui siamo anche affezionati e che ha anche un certo valore, persino un certo prestigio. Penso che il presente abbia il diritto – e si meriti – di essere accostato al passato. Quando io ho studiato al Conservatorio, sono stato addestrato a scrivere musica per interpreti specialisti, che l’avrebbero suonata nei Festival specializzati. Io dicevo ‘‘ma che cosa triste. Perché, poi io vado in sala da concerto e ascolto Chopin e Stravinskij e io vorrei lavorare per quel pubblico, per quella sala, per quegli interpreti’’, quindi personalmente ho masticato amarissimo per molti anni vedendo i miei compagni di Conservatorio nei corsi di composizione che scrivevano musica ortodossa per le vecchie Avanguardie e io scrivevo musica del tutto diversa, ma non la si suonava, perché non era congrua rispetto al sistema. Poi piano piano musicisti sempre più importanti si sono interessati alla mia musica, hanno cominciato a suonarla, e poco a poco adesso sono tra gli italiani più eseguiti, e questo mi fa molto piacere. 

La sua carriera non si limita a quella di compositore, ma anche a quella di saggista. I giovani ritengono che la musica classica sia qualcosa di “antico”, non al passo con i tempi e, proprio nel suo libro “Occhio alle orecchie. Come ascoltare musica classica e vivere felici”, riflette sull’utilità dell’ascolto della musica classica. Secondo lei come si può insegnare ai giovani l’importanza di questa nelle loro vite? Non bisogna preoccuparsi e fare l’ipotesi che la musica classica morirà. Quando avevo ventidue anni e ho cominciato a scrivere su «La Repubblica», la cosa che mi si diceva era ‘‘vai agli ultimi concerti, che poi finiranno. Hanno tutti i capelli bianchi, poi moriranno e sarà finita”. Adesso di anni ne ho cinquantatré e ho capito che in realtà il grosso del pubblico scopre la musica classica in età matura, perché in una certa fase della vita è come se si formasse una mancanza a forma di musica classica nell’anima. In particolare, quando cominci ad essere un po’ alla fine della tua vita professionale, c’è quel senso di insoddisfazione che ti porta a dire ‘‘ho fatto tutto, e adesso? i figli sono cresciuti, il lavoro va bene, c’è la salute’’ e lì la musica diventa sorprendente, perché ti apre degli orizzonti che tu non avevi sospettato.

Quindi possiamo stare tranquilli? Sì, perché le sale da concerto che si costruiscono nel mondo oggi hanno la stessa dimensione di quelle del passato, se non più grandi, e sono piene. Quindi, la musica classica sta benissimo. Io credo che sia importante esporsi alle emozioni. Una persona, avendo la sensibilità per reagire alla musica, una volta tornata da un concerto pensa di aver assistito a qualcosa di unico e insostituibile. Esporsi è fondamentale ma questo non deve avvenire in modo didattico o con forme semplificate nemmeno se si parla a dei bambini. Ad esempio, io ho scritto un manuale per la scuola media, ho fatto suonare dei musicisti perché nelle classi ci fossero delle registrazioni, e ho scelto i più bravi. Allora lì porti emozione, porti intensità, porti passione. Quella passa. Praticare. Bisogna fare esperienza nella musica, perché è un linguaggio, ma un linguaggio non referenziale. È come nell’arte figurativa: un quadro posso raccontarlo, ma è meglio guardarlo. Per la musica ci vuole solo un po’ più di tempo: devi andare in sala da concerto e devi ascoltarla dal vivo.

A cura di Enrico Goio, Roberta Durazzi, Ottavia Salvadori

Eugenio Finardi, Raffaele Casarano e Mirko Signorile in un’ “Euphonia” al teatro Colosseo

Euphonia Suite nasce nell’ ottobre 2022 dalla collaborazione tra Eugenio Finardi, Mirko Singorile e Raffaele Casarano. Già dallo scorso dicembre, i tre artisti stanno girando l’Italia in un tour dedicato − Euphonia Suite Tour − che ha visto la sua conclusione il 19 aprile al Teatro Colosseo di Torino, città molto cara all’artista milanese, come lui stesso ribadisce durante la serata.

Bisogna fare un passo indietro per entrare al meglio nello spirito della serata: il punto di partenza riguarda l’ascolto dell’album. Non c’è da aspettarsi l’energia rock dei lavori più famosi di Finardi, farlo significherebbe non apprezzare interamente il lavoro, ma soprattutto perdersi tutta la bellezza contenuta in questi nuovi arrangiamenti. L’incontro (frutto di un progetto ormai decennale) si realizza tra la voce calma e distesa di Finardi, il virtuosismo di Signorile al pianoforte e l’accompagnamento pastoso e suadente del sax di Casarano. Tutto si fonde in un unicum musicale che racconta perfettamente quel concetto di “vita lenta”, come in una lava lamp in cui il risultato è un amalgama omogena.

Foto: Alessia Sabetta

Tutti gli stadi di tranquillità percepiti ascoltando l’album ritornano nell’esibizione dal vivo. Tanto per iniziare la scenografia è spoglia: solo le quinte, nere e gli spot che illuminano il telone attribuendo un colore diverso a ogni brano. Sul palco seduti in riga i tre musicisti vestiti di nero (ognuno con il proprio stile, che in qualche modo rispecchia anche la propria musica), che quasi per tutta la durata del concerto non si spostano dal loro posto. Insomma, un’asciuttezza che catalizza tutta l’attenzione sulla musica. Gli spettatori, immersi in un’atmosfera irreale, come fluttuante, sono persino in dubbio sul momento in cui applaudire per non spezzare l’incanto, e si infastidiscono quando il clic compulsivo degli scatti dei fotografi in sala rompe il silenzio.

Il live (che riprende il concetto alla base della produzione, ovvero la suite) si srotola brano per brano senza interruzioni: nella maggior parte dei casi il collegamento viene creato musicalmente da Signorile, nei restanti si fa giusto una pausa prima di riprendere. Finardi, centrale, si passa il microfono da una mano all’altra e con quella libera crea dei giochi di movimento con cui accompagna la sua voce o le melodie dei due colleghi. Sorride al pubblico quando ne percepisce maggiormente il calore e prova a enfatizzare i momenti in cui Casarano e Singorile si liberano in assoli che non sconfinano mai nell’esuberanza.

Foto: Alessia Sabetta

Regala, oltre al consueto bis in cui introduce al pianoforte la celebre “Extraterrestre” mentre gli altri due utilizzano la coda come fossero delle percussioni, un tris.Infatti, dopo essere usciti di scena per la seconda volta, mentre il pubblico in sala è intento a rivestirsi per lasciare il teatro, rientrano tutti e tre e concedono la scelta ai fan che prontamente richiedono “Musica ribelle”. Lui esita un momento, ma dopo essersi giustificato sulla natura musicale del brano nato per un certo tipo di strumentazione, si lascia trasportare e inizia a cantare. Tra intere strofe dimenticate su cui ride di sé stesso e un ritornello in chiave mozartiana riesce a guadagnarsi un nuovo fragoroso applauso del pubblico che si alza per cantare con lui.

a cura di Alessia Sabetta

Regio 50 1973-2023: un compleanno lungo un anno

Presentato il 7 aprile 2023 il programma di eventi ideato per celebrare i 50 anni del nuovo Teatro Regio di Torino (progettato da Carlo Mollino dopo il terribile incendio del 1936 e inaugurato il 10 aprile 1973 dopo quasi 40 anni di lavori). Ad illustrare le proposte Stefano Lo Russo sindaco di Torino e Presidente della Fondazione Teatro Regio, il sovrintendente Mathieu Jouvin e il direttore artistico Cristiano Sandri.

Si inizia il 10 aprile con l’accensione della Mole Antonelliana e la proiezione del logo creato appositamente da Undesign per Regio 50 a partire dai disegni originali di Carlo Mollino, dando il via ad un programma ambizioso ricco di appuntamenti. 

Il piano di attività, dice Stefano Lo Russo in apertura, si somma alla programmazione ordinaria della stagione e ambisce ad avvicinare a questa realtà coloro che ancora non la conoscono, mandando un forte segnale di integrazione. Duplice è la funzione della manifestazione: esaltare la splendida architettura frutto del genio di Mollino, celebrare l’eccellenza artistica e la rilevanza che ricopre il Teatro Regio nelle politiche culturali della città. 

Un compleanno pensato in tre tempi – primavera, estate e autunno – sottolinea il sovrintendente Mathieu Jouvin che a luglio festeggerà il suo primo anno operativo presso il Teatro Regio. Quattro i pilastri su cui si poggia il progetto della manifestazione: il profondo legame tra la città di Torino e il suo teatro, l’esaltazione delle eccellenze artistiche di cui si è fatto portatore, il recupero del passato e la straordinaria figura dell’architetto Carlo Mollino.

Foto di Alessandra Mariani

Il primo appuntamentola primavera – è previsto per il weekend del 15-16 aprile con due giornate a porte aperte dove sarà possibile visitare gratuitamente il teatro e godere nel frattempo di diverse esibizioni da parte dell’Orchestra, del Coro, del Coro di voci bianche e del neonato Regio Ensemble. Il pubblico “itinerante” avrà la possibilità di assistere a diverse rappresentazioni e sperimentare diversi repertori, per avvicinare nuovi pubblici e favorire l’apertura ad altre generazioni. Il secondo appuntamento – l’estate – celebrerà uno degli avvenimenti più rilevanti nella storia del nuovo Teatro Regio portando in scena il 6 luglio I Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi in formato concerto, omaggiando la storica inaugurazione del 1973. Infine l’ultimo tempol’autunno – chiuderà i festeggiamenti con una mostra dedicata alle varie personalità della figura dell’architetto Carlo Mollino.

Molte inoltre le sorprese previste durante questo anniversario, che consta di omaggi studiati per l’occasione da parte di diversi sponsor. In primis lo speciale tv Regio 50. Ci vuole molto tempo per diventare giovani realizzato da Rai cultura; l’iniziativa Art in taxi dove per circa un mese i taxi della città di Torino verranno decorati con delle grafiche celebrative, dando vita ad un teatro in movimento; infine lo storico Caffè torinese Baratti & Milano per l’occasione ha ideato due nuove creazioni che entreranno a far parte del menù: la Torta Regio e un uovo di cioccolato fondente con copertura vellutata color rosso volta a richiamare gli iconici interni del Teatro Regio. Per la gioia degli appassionati, all’interno di un uovo soltanto è stata inserita una sorpresa speciale: due biglietti per l’inaugurazione della stagione 2023-2024.

Non resta perciò che annunciare ufficialmente la caccia all’uovo!

A cura di Alessandra Mariani

Paolo Vaccaro, Margot e Pascal: la musica risuona nei giardini della Reggia

L’8 aprile, sotto un sole accecante e tra lo schiamazzare dei bambini, è apparso nell’orto di Levante dei giardini della Reggia di Venaria un totem autoalimentato, centro del progetto portato avanti da Open Stage e The Goodness Factory: nove artisti emergenti si sarebbero esibiti fino al 10 aprile, suddivisi in 3 gruppi, per presentare al pubblico i loro progetti.

L’evento si inserisce tra le iniziative della manifestazione “Venaria Reggia Aperta”, un insieme di attività realizzate in occasione delle feste pasquali da The Goodness Factory all’insegna della sostenibilità: infatti, gli spettacoli, organizzati sono quasi ad impatto zero in termini di consumo dell’energia elettrica. La collaborazione con Open Stage ha permesso di mettere in luce il lavoro di nuovi artisti, e a dare il via a questa serie di esibizioni sono stati Paolo Vaccaro, Margot e Pascal.

Paolo Vaccaro, musicista originario del Veneto, ha avuto la responsabilità di essere non solo il primo della giornata, ma anche di questa sezione della manifestazione: durante la mezz’ora a lui dedicata ha intrattenuto il pubblico con la sua chitarra e un repertorio di brani in italiano ed in inglese dalle influenze blues e folk, raccontando di canzone in canzone ciò che lo ispira a scrivere. A un mondo folkloristico di marinai e cowboy si alternano sprazzi di quotidianità, e la sua voce inizia ad attirare un consistente gruppetto di visitatori della Reggia.

Paolo Vaccaro (dal profilo Instagram: @paolovaccaromusic)

A seguire Margot, cantante torinese accompagnata dal piano digitale di Sara Sibona e dalla chitarra di Denis Chiatellino, che si è occupato anche dei cori. Una voce potente ma allo stesso tempo pulita, che passa da momenti di aggressività e sicurezza a giochi di note delicate, quasi sussurrate; gli arrangiamenti, sinuosi e a tratti cupi, donano una maggiore profondità al timbro della cantante. I pezzi suonati vengono accolti positivamente dai passanti, che alla fine di ogni pezzo applaudono con entusiasmo.

Margot (dal profilo Instagram: @margott.ig)

Arriva infine il turno di Pascal, musicista toscano che con la sua chitarra suona la conclusione della prima giornata dell’evento: canta di Sarajevo sotto il sole primaverile e presenta una canzone di protesta che usa per coinvolgere il pubblico, invitandolo ad accompagnarlo mentre canta un’ultima volta il ritornello. Il suo approccio intimo e rilassato rende il suo set l’ideale colonna sonora per un tardo pomeriggio tra i giardini della residenza.

Pascal (dal profilo Instagram: @iosonopascal)

Il progetto che Open Stage e The Goodness Factory realizzano a Venaria mette a segno diversi obbiettivi: portare in scena uno spettacolo con impatto ambientale minimo, fornire una vetrina interessante per giovani artisti ed arricchire con buona musica l’esperienza dei visitatori. Un’occasione che dopo queste tre giornate, ci auguriamo possa tornare con più frequenza.

Immagine in evidenza dal profilo Instagram @openstage.it.

A cura di Giulia Barge

Nient’altro che le nostre paure e il release party dei Breathe Me In

Una location suggestiva, qualcosa da bere e un gruppo di amici fanno una festa. Se poi tra questi amici qualcuno ti invita per presentare, quasi come un figlio, una creazione musicale, il party si trasforma in un release party: il 31 marzo allo Ziggy club (locale situato nel cuore del quartiere torinese di San Salvario) c’è lo scenario perfetto per quello di Nient’altro che le nostre paure, il nuovo album dei Breathe Me In

L’atmosfera è intima e informale: non sono molte le persone nella piccola sala del circolo, ma si conoscono tutti. E cosa più bella, molti di loro sono musicisti della scena torinese underground e accorsi per supportare gli amici sul palco. La restante parte sono i fan della prima ora che aggiungono quella nota di frizzantezza e l’orgoglio di chi sa di essere tra i primi ad averli scoperti. Alessandro Vagnoni (in arte Drovag) e gli Psychokiller scaldano l’atmosfera in attesa dei protagonisti della serata. I Breathe Me In salgono sul palco dopo circa un’ora dall’inizio del concerto, dopo essersi intrattenuti con gli ospiti e aver scambiato qualche parola con quasi tutti.

Foto: Alessia Sabetta

Nient’altro che le nostre paure, uscito per Pan Music Production lo scorso 17 marzo, viene presentato sui canali social come un viaggio tra paure, insicurezze e fragilità affrontate dalla band nel corso di questi anni… che sono state ampiamente superate, visto il risultato. La band − formata dal frontman Vittorio Longo, Federico Spagnoli alla batteria, Ludovico Guzzo e Paris Konstantis alle chitarre − di chiaro stampo rock, ha delle influenze metal, punk ed elettroniche, ben riscontrabili nella nuova produzione. “MacLean”, “Animali feriti” o “Prigionia”, hanno raggiunto tra i 15mila e i 20mila ascolti su Spotify in poco tempo. Tutto l’album presenta canzoni ben arrangiate, con una diversificazione sia ritmica che accordale: i giri di accordi non sono i soliti mainstream, ma anche quando sono un po’ più classici progrediscono in modo da sembrare particolarmente originali. Anche la struttura dei brani è eterogenea e non presenta sempre la classica costruzione pop. Inoltre, ogni arrangiamento è arricchito da una parte elettronica dal punto di vista ritmico e musicale (come in “Doppler”) e di effettistica per la voce (nel caso di “Resta”). Nonostante non si tratti di un genere troppo radiofonico, queste decisioni determinano una buona riuscita del prodotto musicale e benché le scelte stilistiche presentino soluzioni non molto convenzionali, le canzoni risultano piacevoli già al primo ascolto.

Foto: Alessia Sabetta

L’album nasce come lavoro di addio della band che sembrava si stesse sgretolando travolta dalla quotidianità. Eppure, dopo aver radunato tutte le paure del giudizio, delle aspettative, del fallimento i quattro amici hanno dato vita a qualcosa che segna una sorta di nuovo inizio. I Breathe me In sembrano legati da un collante che li tiene ben saldi gli uni agli altri: si percepisce la sinergia tra di loro e la si ritrova nella connessione che riescono a creare con il pubblico. Per interagire con i presenti scelgono di esprimersi tramite la loro musica, senza dilungarsi in troppi discorsi introduttivi ai brani e questa scelta risulta vincente perché il risultato è come un detonatore a rilascio immediato.

Foto: Alessia Sabetta

Vittorio Longo continua a rivolgere il microfono al pubblico che canta insieme a lui tra una ripresa video e un po’ di pogo. Il live funziona molto bene: sono incisivi, graffianti e si fanno trasportare dalla musica e dalle sensazioni che stanno vivendo, lasciano trasparire la concentrazione e le emozioni. Si vede che si divertono e che probabilmente non vedevano l’ora di mettersi a nudo per raccontare, insieme alle paure, la conquista di tante consapevolezze. Una, la più importante, la scrivono su Instagram: «la musica è, e farà parte di noi».

A cura di Alessia Sabetta

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