Tutti gli articoli di Alessandro Camiolo

Joan Thiele e Franco126: debutti e conferme al flowers festival

Prima o poi bisognerà scrivere una guida estiva per sopravvivere al caldo della città. Tra i suggerimenti andrebbe inserito il Flowers Festival di Collegno organizzato da Hiroshima Mon Amour – quale evento rigenerante e lontano dal caos – che in dieci anni di attività è diventato un riferimento per molte persone sia per la programmazione densa di artisti che per il semplice piacere di ascoltare musica dal vivo all’aperto. 

Tra i primi appuntamenti di quest’anno siamo stati al doppio concerto del 27 giugno con protagonisti Joan Thiele e Franco126. Due coetanei, appena trentenni, attivi in musica da ormai dieci anni con percorsi musicali differenti, ma dallo stile che risuona per il modo di mescolare influenze del passato (R&B, rap, cantautorato) in nuove forme ibride. 

La musica inizia presto, ancora prima del calar del sole sale sul palco Lorenzza, giovane rapper nata in Brasile e cresciuta a Pisa, che ha presentato i brani del suo primo EP A LORENZZA. Chi pensa si tratti solo di un prodotto delle case discografiche che per stare al passo coi tempi lanciano nuove artiste fotocopie dei colleghi uomini, beh… si sbaglia. Lorenzza, come tante altre rapper emergenti, ha voglia di rivalsa e una buona dose di consapevolezza che la rendono originale e la distaccano dalle figurine bidimensionali dell’onda dei giovani rapper drill e trap. 

Foto di Fabio Marchiaro, da pagina FB di Flowers Festival

Al tramonto, salgono sul palco Joan Thiele e la sua band, tutti vestiti di bianco. Il fulcro del concerto è Joanita, il suo primo album in italiano uscito subito dopo la partecipazione a Sanremo. I primi brani sono fluttuanti e pieni di riverberi, quasi da film western, Joan canta fissa davanti al microfono così da svettare come un vertice piramidale sul palco. L’intensità aumenta non appena l’artista imbraccia la sua chitarra elettrica ed esegue i brani più arrabbiati e istintivi muovendosi per tutto il palco. La sua voce limpida e delicata è in piena simbiosi con i riff infuocati della chitarra e i suoni leggeri della tastiera. Altro aspetto notevole è l’utilizzo delle colonne sonore di Piero Umiliani, che la band suona dal vivo con un risultato diverso dai campioni in sottofondo presenti nel disco. La sua esibizione non può che concludersi con “Eco”, in una versione quasi progressive e psichedelica.

Foto di Fabio Marchiaro, da pagina FB di Flowers Festival

Nella pausa necessaria al cambio palco, ci accompagna la playlist pre esibizione di Franco126, con brani di Sergio Caputo, Pino D’Angiò e Neffa, artisti affini al cantante romano, oltre che sue probabili fonti d’ispirazione. La scenografia è quella di un salotto da indovino (figura già presente fin dall’annuncio del nuovo disco via social): tende rosse, una palla luminosa al centro, lampade ad arco e luci calde. Il mago che risolve dubbi e incertezze è Zoltar, il cui volto digitale è dentro lo schermo della cabina 126. Franco interagisce con l’avatar per provare a indovinare i futuri possibili, tra risate e battute in romanesco. La band composta da sei musicisti ha dato nuova veste ai brani recenti ma soprattutto a quelli passati. La presenza di un sassofonista permette delle variazioni malinconiche da jazz notturno, mentre alcuni brani ripresi in chiave latino-americana sorprendono per la loro frenesia. Lo show scorre tutto d’un fiato: i medley sfruttati a dovere potenziano l’effetto nostalgia delle canzoni degli esordi mentre i brani più popolari uniscono tutto il pubblico in un karaoke. Franco, nascosto dietro i suoi occhiali neri e sempre col bicchiere in mano, si diverte a giocare con il campionatore mentre sussurra al microfono ricordi, pensieri, dialoghi estratti dal suo mondo in cui relazioni, passatempi e routine giornaliere si incrociano con le singole storie di ognuno. Tra il pubblico c’è chi piange e si emoziona, chi si abbraccia e si bacia: chi sogna questi momenti dal 2016 non può che tornare a casa con sollievo. 

Foto di Fabio Marchiaro, da pagina FB di Flowers Festival

Entrambi i concerti hanno unito con gusto passato e presente, trovato il giusto ponte di comunicazione con il pubblico e resa più leggera e sopportabile una serata calda altrimenti insostenibile.

Alessandro Camiolo

Jazz is dead!: dance yourself clean

Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals. 

Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.

L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.

Foto di Fabiana Amato

Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente. 

Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.

Foto di Fabiana Amato

A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.

Foto di Fabiana Amato

Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.

Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.

Alessandro Camiolo e Sofia De March

Jazz is dead! e il mondo che brucia sotto la pioggia

Sotto al sole di un sabato torinese che si fa quasi miraggio, Jazz is Dead! apre la sua terza giornata tra loop infiniti, pioggia improvvisa e voci che reclamano spazio, identità, memoria. La domenica al Bunker è un atlante sonoro e umano. Ogni live è un territorio attraversato, ogni corpo sul palco diventa una frontiera abbattuta.

La giornata si apre con Ghosted, trio formato da Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che, nel caldo ancora opprimente del tardo pomeriggio, trasporta il pubblico in un viaggio ipnotico e minimalista. Un viaggio fatto di poche note di basso identiche e reiterate per più di quindici minuti, su cui la batteria danza tra controllo e abbandono mentre la chitarra si trasfigura tra effetti riverberati alla The Shadows – in perfetto pendant con il clima da vecchio Far West – e arpeggi robotici e metallici.

I brani – pochi, lunghissimi, quasi senza fine – costruiscono un loop sonoro che, complice le alte temperature, induce una vera e propria alterazione percettiva, data dal lavoro per accumulo. Un inizio silenziosamente travolgente prepara corpo e mente a lasciarsi andare per il resto della serata, che fa a questo punto ben sperare. 

Foto di Fabiana Amato

Subito dopo salgono Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly che portano un’idea sonora tanto fluida quanto le loro origini: Bolivia e Porto Rico, avant jazz, funk e noise. L’inizio è quieto: suoni semplici e chiari e atmosfere dilatate, poi all’improvviso l’impatto frontale con bassi distorti e tiratissimi, che fanno vibrare l’aria e costringono a spostare l’attenzione al palco. 

Il live si muove tra suggestioni latine e scosse elettriche, ma col passare dei minuti l’energia sprigionata dagli amplificatori inizia ad affievolirsi, non riuscendo a proporre un live colorato fino alla fine. Forse per colpa anche della pioggia, che arriva di colpo mettendo in fuga in poco tempo il folto pubblico pronto a fiondarsi sui poveri baristi sballottati sotto la tettoia. 

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’acquazzone, si materializza la figura di Alabaster De Plume, sassofonista inglese la cui musica è un viaggio tra atmosfere tremolanti e irregolari, che si muovono agilmente dal jazz più morbido e caldo ai territori più sperimentali e ruvidi. La musica di Alabaster non è solo un’esperienza sonora, ma una vera e propria narrazione emotiva: il sax dialoga con il basso e la batteria in un crescendo di tensione e rilascio, giocando con dinamiche contrastanti che tengono il pubblico sospeso, come in un grande rito collettivo. Le sue parole, scandite con calma e carica emotiva – mentre imbraccia una bandiera palestinese – si trasformano in mantra di autenticità, collettività e resistenza denunciando con forza le ingiustizie di Gaza in un lungo discorso di protesta. È un concerto che va ben oltre la musica, un’esperienza che lascia nel pubblico un segno profondo e vibrante.

Foto di Fabiana Amato

Dalla Palestina passiamo al Kurdistan, col duo HJirok, composto dalla cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e Andi Toma dei Mouse on Mars. Un progetto musicale che unisce suoni raccolti durante viaggi nel Kurdistan iracheno con registrazioni elaborate di ritmi di tamburi sufi e melodie di setar. Sul palco la cantante danza e ondeggia in un paesaggio sonoro ammaliante che non lascia indifferenti. La sua voce estesa e versatile, si amalgama all’elettronica e alla musica tradizionale, cercando di sfumare le differenze ed emancipandosi da ogni stile già consolidato. La tradizione curda si basa sulla trasmissione orale come forma di resistenza alle imposizioni dominanti, da questo punto di vista possiamo configurare il HJirok come un ulteriore gesto politico di sfida e proposta di un futuro utopico in cui coesistono pacificamente paesaggi sonori, culture e modi di vita diversi.

Foto di Fabiana Amato

L’ultimo concerto all’aperto di quest’edizione è l’esibizione dell’ensemble svizzero Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: dodici musicisti tra strumenti a fiato, a corde e percussioni. Un concerto colorato, luminoso, dall’ispirazione africana, sia per i ritmi che per certi canti corali che travolge con energia il pubblico in un centrifuga di rock, punk e folk. Abbiamo apprezzato l’equilibrio tra i vari musicisti fusi in un unico organico nonostante i tanti timbri e voci differenti. Una comune musicale fatta anche di ascoltatori che con i loro applausi hanno più volte richiamato la band sul palco per ulteriori brani. 

Foto di Fabiana Amato

Una giornata di celebrazioni collettive e di unione politica veicolate dalla musica in vari modi. Citando uno dei discorsi di De Plume possiamo dire che vivere in questo mondo è difficile, ma solo restando uniti ed umani possiamo farcela con coraggio.

Alessandro Camiolo e Marco Usmigli

Jazz is dead!: prima giornata tra ritualità ed elettronica sintetica

Tra le mura grezze del Bunker, dove il cemento risuona di bassi profondi e laser accecanti, il jazz – se davvero è morto – ha risposto con un ghigno e sonorità distorte. La prima giornata di Jazz is Dead! è stata un rituale urbano che ha fatto vibrare Torino tra improvvisazioni, scariche elettroniche e sorprendenti ibridazioni.

Alle 18:30, con il sole ancora alto e una calura che farebbe sciogliere anche le intenzioni migliori, Skylla apre il festival sul palco esterno. Il pubblico è sparso; molti cercano rifugio all’ombra, ma basta poco perché l’attenzione si concentri su di loro: una batteria incalzante, il basso magnetico di Ruth Goller – mente del progetto – e due voci che si rincorrono tra acuti, glissati e sillabe inventate. Nessun testo: solo un canto che sembra provenire dai bassifondi. Il mix è originale e potente: jazz, lirica e post-rock che si fondono in un flusso sonoro continuo, senza pause, capace di ipnotizzare. Niente maschere, solo suono puro che si impone sull’afa e sul disorientamento iniziale. In pochi minuti, il pubblico è rapito. Si entra nel festival così, seguendo l’istinto. 

Dopo una breve pausa il programma prosegue. The Necks, trio jazz australiano, sale sul palco e dà inizio alla performance.

Il gruppo è composto da pianoforte, contrabbasso e batteria, strumenti che, grazie a microfoni posizionati in modo inusuale (ad esempio molto vicini alle corde del pianoforte), creano effetti sonori particolari e mutevoli. Gli strumenti non vengono suonati secondo la prassi tradizionale: il contrabbassista, ad esempio, talvolta utilizza l’archetto in modo pesante, quasi sgraziato, mentre il batterista preferisce bacchette con punte più grandi e morbide, che, usate sui piatti, producono un suono lieve e avvolgente.

La performance si sviluppa come un lungo flusso musicale dall’evoluzione graduale: si apre con un inizio etereo, caratterizzato da arpeggi del pianoforte che richiamano melodie orientali, che si evolve in una progressiva intensificazione, sempre più “caotica” ma ordinata allo stesso tempo.

Foto di Fabiana Amato

Dopo un’ora puramente strumentale, le voci tornano protagoniste sul palco con Tarta Relena, duo catalano composto dalle voci di Marta Torrella e Helena Ros, in grado di  creare un’atmosfera suggestiva e ancestrale. L’esecuzione di brani della tradizione mediterranea e di composizioni originali, arricchita da una base elettronica, contribuisce a costruire un ambiente suggestivo. Il repertorio spazia da un poema cantato del Seicento in latino rielaborato in forma polivocale – con due voci separate da un’ottava–fino a “Tamarindo”, una loro composizione nata da un errore in sala di registrazione con una traccia riprodotta al contrario, come spiegato poi sul palco.

Il rapporto tra sperimentazione e tradizione ha dato vita a un’esibizione capace di emozionare profondamente gli ascoltatori.

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’ipnotico inizio, l’atmosfera del festival si carica di elettricità con l’arrivo di Bendik Giske. Il sassofonista norvegese trasforma il palco in un rituale fisico e sensoriale, dove ogni respiro, ogni vibrazione dello strumento diventa parte del linguaggio corporeo. Con una tecnica impeccabile, Giske utilizza fiato continuo e microfonazioni creative per generare un suono percussivo e soffiato, costruito su arpeggi ripetuti, forte ritmicità e continui giochi di dinamiche. Il risultato è un’esperienza immersiva, dove la potenza del corpo e del gesto performativo si fondono in un atto di resistenza e bellezza. Tuttavia, nonostante le capacità tecniche e la presenza scenica, la performance tende col tempo a ripiegarsi su se stessa, sfumando in una continua dimostrazione stilistica che non amplia la modalità esecutiva già consolidata.

Foto di Fabiana Amato

Le esibizioni all’aperto si concludono con Loraine James, produttrice londinese di musica elettronica che in un’ora di live set ci ha colpiti con tracce intricate, piene di glitch, voci in loop che creano linee di suono costanti e momenti di rottura, in cui i bassi sferzano il ritmo. Flash di luci rosse fanno da sfondo al caldo serale, proviamo a stento a seguire il ritmo che è un continuo sali e scendi di BPM riempito di suoni sempre nuovi, che emergono di continuo come in un magma ribollente di emocore, ambient e IDM. 

La notte nel club inizia con il duo techno Dopplereffekt, direttamente da Detroit, sono marito e moglie: Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel. Entrambi indossano una maschera nera che annulla i loro volti e suonano due sintetizzatori Korg Triton, attraverso i quali creano suoni fantascientifici, simili a spade laser che vibrano nell’aria. La loro è techno minimale, ipnotica, che tende a una forma cerebrale quasi da canone infinito. I campioni e le sequenze utilizzati plasmano un percorso di accrescimento, si parte da materiale minimo, per tessere elaborazioni con sempre più ingredienti in un composto denso e multiforme. I visual che vengono proiettati lo confermano, vediamo prima un enorme volto grigio simile a quello umano, pieno di connessioni elettriche, per poi ampliare la visione al resto del corpo, ai suoi movimenti e infine decine di suoi simili che formano una grande tribù umanoide. Nel finale, tutto si spegne all’improvviso trovando equilibrio e quiete nell’immobilità dei corpi e del suono di cui possiamo solo sentire un’eco lontana nella nostra mente. 

Foto di Fabiana Amato

La serata prosegue con le esibizioni di Kreggo e Dualismo, che chiudono una giornata intensa, sperimentale e all’avanguardia, capace di esplorare i lati più opposti e affascinanti della musica. Un ottimo inizio per un festival che si preannuncia ricco di esperienze sonore uniche e coinvolgenti.

Marco Usmigli, Marta Miron e Alessandro Camiolo

Intervista tripla ai pianisti del festival Chopin

Nei giorni successivi ai concerti del Festival Chopin, abbiamo intervistato i tre giovani musicisti che si sono esibiti. Abbiamo parlato dei loro diversi percorsi di formazione, del legame con la musica e di tanto altro. 

Come e quando avete iniziato a studiare pianoforte?

David Irimescu: «Come spesso si dice, è successo per caso… ma evidentemente per caso non è successo. Avevo nove anni, distribuivano volantini fuori dalla scuola elementare, mia mamma me ne mostrò uno e mi chiese se mi interessava, e io risposi: «Perché no? Andiamo a provare». La prima lezione fu folgorante: mi sentii super gasato e bravo, apprendevo molto in fretta e mi piaceva tantissimo l’entusiasmo che leggevo negli occhi degli adulti. Questa cosa mi ha lasciato un segno profondo. Ho studiato un anno, poi sono passato a una scuola privata (Artemus) con un’insegnante bulgara molto severa. Questa educazione rigorosa mi ha portato a un livello tale da poter entrare in Conservatorio, dandomi un impulso fortissimo verso lo studio».

Matteo Buonanoce: «Nasco in una famiglia dove la musica è di casa: mia mamma è pianista, mio padre ha suonato la tromba. Questa predisposizione musicale era vista come un aiuto alla crescita. Inizialmente mia madre mi sconsigliò il pianoforte, così provai l’ukulele, ma le dita mi facevano male. Appena ho provato il pianoforte, non l’ho più lasciato, sentendo una connessione immediata».

Maria José Palla: «Non vengo da una famiglia di musicisti, è stato tutto molto casuale. A tre anni ho iniziato danza, verso i sei ascoltavo la musica del pianoforte durante le lezioni, specialmente Chopin, e ho pensato di voler suonare uno strumento. I miei genitori mi dissero di scegliere tra musica e danza. Ho aspettato fino agli undici anni, quando mi sono imposta sui miei genitori per la scelta di una scuola media a indirizzo musicale. La scelta del pianoforte è stata casuale, ero la prima nel test d’ammissione senza aver mai studiato nulla».

C’è stato un momento preciso in cui vi siete resi conto di volervi dedicare esclusivamente al pianoforte, alla musica?

D.I.: «A diciotto anni e mezzo ho deciso che sarebbe diventata la mia professione. Il pianoforte era un rifugio dove esprimere ciò che non potevo dire. Dopo poco, ho interrotto gli studi per quasi cinque anni a causa di una malattia. In questo periodo ho iniziato a insegnare per necessità, poi per amore. Non avendo soldi per le terapie, ho chiesto ai professionisti di insegnarmi, formandomi in diverse discipline olistiche.
A ventitré anni ho ripreso gli studi, laureandomi al Conservatorio di Torino con lode: è stato un momento emozionante, tutte le parti della mia vita si sono ricongiunte. Ho proseguito la specializzazione a Torino e prossimamente mi trasferirò in Svizzera per un master. Spero di poter continuare a donare alla gente qualche cosa con i concerti, con la musica, con la passione».

M.B.: «Ho capito abbastanza tardi di voler fare il musicista, perché ho sempre coltivato sia la strada della musica che quella scolastica. Mia madre mi ha sempre tenuto con i piedi per terra, dicendo che è una carriera difficile. Ho finito il liceo scientifico l’anno scorso. È stato grazie a questa scuola che ho capito di voler fare il musicista, perché non mi interessava nient’altro. Tre anni fa ho deciso definitivamente di voler fare il musicista nella vita. L’importante è che la mia passione diventi il mio mestiere».

M.J.P.: «Da subito ho voluto dedicarmi alla musica in modo esclusivo. Ho detto: «Ok, questa cosa la farò per sempre», perché era così stimolante e arricchente, e mi dava la possibilità di esplorare me stessa. Questo spazio musicale mio, da sola, era magico; ho sempre desiderato farlo per tutta la vita. Il momento in cui ho dovuto scegliere se continuare professionalmente è stato al liceo. Frequentavo il liceo classico in Sardegna, in più c’era la danza che stava diventando professionale e il Conservatorio. Questo mi chiedeva troppe energie, per cui ho dovuto lasciare la danza: mi sono concentrata definitivamente sulla musica, ed è stato bellissimo».

Qual è il vostro rapporto con l’ambiente di formazione, i maestri che avete avuto e i metodi di insegnamento?

D.I.: «Nella formazione sono un ribelle, la mia integrità è un valore forte, se una cosa non suona vera non mi appartiene. A un certo punto non riuscivo più a mettere da parte me stesso e per questo mi ammalavo, non ascoltavo la mia voce interiore.
Al liceo c’è stata un’insegnante che è stata come una seconda madre; mi ha salvato la vita moltissime volte. Attualmente anche l’insegnante del conservatorio è una figura paterna, una persona davvero molto buona e brava, con cui mi consulto e mi confronto.
Il mio approccio alla musica è spirituale: prima mi consumava – si chiede spesso ai musicisti di dimostrare di essere migliori, ma sono derive narcisistiche. Suoniamo musica di altri, lo spartito è una chiave d’accesso al pensiero del compositore, io devo fungere da canale per la trasmissione viva, sono un servo del tempo, della musica e del compositore».

M.B.: «La mia prima insegnante, Maria Campaiola, è stata importantissima per farmi innamorare della musica: con lei non ci si fermava solo sulla tecnica, ma facevamo masterclass estive, pranzavamo, guardavamo opere e facevamo indovinelli sugli strumenti.
Al Conservatorio, con Marina Scalafiotti, ho fatto un percorso lungo, di grande crescita. Ho imparato a essere organizzato e preciso, usando bene il tempo senza ansia. In Italia, nelle scuole spesso non si ha consapevolezza del Conservatorio, i professori preferiscono gli sportivi, ma la musica esercita un’attività psicologica senza paragone. Anche questa dovrebbe essere un vanto».

M.J.P.: «Il mio ambiente è sempre stato una bolla di sperimentazione musicale. Ho avuto la fortuna di trovare nella mia prima insegnante del Conservatorio una persona magnifica. Con lei condividevo questo senso di ricerca creativa: mi sono trovata benissimo, mi spingeva a usare immaginazione, sperimentazione, improvvisazione… era una ricerca costante. Mi sentivo sempre più stimolata, verso la mia voglia di imparare e creare. Il primo approccio con la formazione è stato molto positivo e incoraggiante».

Veniamo ai concerti del Festival Chopin, come sono stati per voi? Che rapporto avete col repertorio? Quali composizioni hanno rappresentato una sfida maggiore?

D.I.: «È stata un’epopea: suonare quattro programmi chopiniani in due giorni richiede impegno emotivo e lucidità per attraversare flussi di depressione, tragedia e morte, ma non ero preoccupato. Il repertorio era così vasto che, vivendolo sinceramente, non c’è spazio per la preoccupazione. Studi il dramma prima, e poi diventa parte di te: se sono vero, non ho niente da temere. Vivendo le storie dei brani, interagivo con il pubblico, sentivo i pensieri e le reazioni, vivevo con gli altri, ero parte del pubblico mentre suonavo».

M.B.: «Questa occasione mi ha dato l’opportunità di rivalutare il mio legame con Chopin. La mia insegnante mi assegnò subito brani difficili. Ho sempre fatto fatica con questa musica: è complicato raggiungere quel livello di chiarezza e spontaneità. Studiare Valzer, Mazurche e Polacche mi ha permesso di scoprire altre sfaccettature e stili di Chopin. È stato bellissimo e stimolante. Sono arrivato a suonare meglio le composizioni che già conoscevo, e a legare di più con il compositore. Chopin è molto diretto nel suo messaggio, ed è stato bello rivedere in me queste qualità: essere onesto con il pubblico, trasmettere naturalmente.
Tutto questo l’ho sviluppato in particolare nelle Mazurche che ho eseguito, dodici, diversissime tra loro. L’esecuzione dell’intera opera è un’esperienza bellissima, richiede un bagaglio culturale e di vita enorme. Le Mazurche sono quelle che mi hanno stupito di più e mi hanno dato il maggiore piacere: sono piccole chicche con tante sfaccettature».

M.J.P.: «Sono stati concerti molto intensi e faticosi, arrivando da altre sette esibizioni negli ultimi dieci giorni. La musica di Chopin è centrale per i pianisti. La mia prima insegnante odiava il modo ‘sdolcinato’ di eseguire Chopin. Mi disse di non studiare i Notturni, facendomi sentire le Mazurche più vicine alla verità della composizione.
Avere l’occasione di sperimentare e comunicare opere così diverse è stato bello. Mi porto nel cuore tutti i pezzi, principalmente un Notturno, il Postumo in mi minore, una delle prime cose che ho suonato, e le Ballate. La Terza ballata è una composizione meravigliosa, con la sua discorsività e narrazione organica. Suonarla per la prima volta è stato bellissimo, come stare nel presente e parlare al pubblico, facendo un viaggio insieme».

C’è stata una figura, un artista, un musicista o un intellettuale che ti ha influenzato o che stimi particolarmente?

D.I.: «A undici anni, ascoltai un’interpretazione di Skrjabin da parte di Horowitz, e mi ritrovai in lacrime. Mi ha toccato, ha aperto in me la volontà di ascoltare anche dagli altri.
La spiritualità, l’empatia, l’essere terapeuta, vedere le cose vissute dagli altri, mi aiuta ma mi devasta. Concerto viene da “concertare”, cioè fare qualcosa insieme. Io concerto con il pubblico, non per il pubblico. Quando ci sei tu ad ascoltarmi, quel brano non può più essere quello che ho preparato; essere flessibile è un tratto molto importante».

M.B.: «Durante gli studi al liceo ho confrontato le mie nozioni musicali con artisti, pittori, letterati. Molti compositori prendono spunto dall’arte, penso a Liszt con i Sonetti del Petrarca. Inizialmente vogliamo tutti aspirare a Liszt, grande interprete, amato dal pubblico, con tecnica pazzesca. Ma anche chi si mostra spavaldo ha un lato intimo, come Liszt che si ritirò alla vita religiosa.
È bello avere tante competenze su stili e personalità. Chopin non suonava forte, ma la sua musica colpisce tutti perché inconfondibile, immediata. Chi sa suonare bene Chopin riesce a suonare quasi tutto, ti dà un bagaglio emotivo e di onestà che puoi riversare su qualsiasi cosa. È impossibile non avere un legame speciale con Chopin».

M.J.P.: «Direi sicuramente Horowitz. Lui è geniale, ha quella genuinità nel suo rapporto con la musica, nel puro stupore. Non possiamo frenarci quando proviamo qualcosa con la musica. Horowitz dava il cento percento in ogni esecuzione. Sbagliava, ma ti passava il messaggio. Poi stimo il mio insegnante Enrico Pace: è un pianista pazzesco, sono grata per ogni lezione con lui.
Anche musicisti non famosi con cui ho collaborato mi hanno insegnato tantissimo. I miei colleghi di trio con i quali ogni giorno scopro qualcosa. Ogni situazione di vita è una fonte di ispirazione. La musica si sviluppa tantissimo attraverso le esperienze di vita. Bisogna essere grati per qualsiasi cosa si viva, avere il coraggio di viverla fino in fondo. Penso sia la più grande fonte di ispirazione».

Qual è la musica che ti fa più piacere ascoltare, che ti coinvolge o ti interessa maggiormente?

D.I.: «Adoro il barocco, Scarlatti e Bach. In Bach si toccano vette di contatto con Dio. Quando voglio essere purificato, vado da Bach. Adoro Scarlatti perché mi mette di buon umore, mi mette in un’estrema estroversione che è parte vera di me. C’è qualcosa di vibrante in Skrjabin, lui era un mistico, un compositore su cui torno quando ho bisogno di evadere o mi sento giù.
Se c’è qualcosa che non ti piace, è perché non gli permetti di esistere dentro di te. Non mi piacevano Schumann e Brahms, poi a tredici anni ho pianto suonando Schumann. Un allievo non capiva Mozart, e io dissi: “Certo, perché sei troppo serio”».

M.B.: «L’unica che tendo a non apprezzare è quella priva di significato, dove si cerca solo una rima o il ritornello per l’estate, con uno scopo prettamente commerciale. Quella faccio fatica a digerirla. L’importante è che la musica abbia un messaggio, che arricchisca. Mi piace il jazz, la musica latino-americana, di cui sono un grande appassionato, che ho ballato e continuo a ballare, con la sua cultura e lo studio dietro a ritmi e percussioni. L’importante è sempre lo scopo, il messaggio che si vuole dare alle persone, perché con la musica si condivide. Chi fa musica condivide qualcosa di sé, un po’ come tramandare un messaggio».

M.J.P.: «Non ascolto quasi mai musica per pianoforte. Siamo condizionati, le orecchie pronte a carpire… Se ascolto un pezzo che suono, mi viene da riprodurre ciò che ho sentito.
Ascolto molta musica sinfonica, da camera. Mi piace la musica folklorica di altri paesi, musica sconosciuta che mi porti lontana dal nostro punto di vista occidentale, mi piace spaziare.
Da suonare, sono un’amante della musica da camera. Mi piace suonare con gli altri. Mi piace suonare anche da sola, mi dà una libertà che nessun altro contesto consente. Come autore, siamo tutti grati a Bach, lo suonerei tutti i giorni. Fra i moderni, sono innamorata della musica di Skrjabin, non mi stanco mai di lui, incarna la figura dell’esploratore artistico a trecentosessanta gradi. Ha cambiato stile compositivo più volte, era continuamente alla ricerca, connetteva la musica alla religione, ad altre dimensioni e colori. Ogni volta che suono un suo pezzo, c’è un universo da imparare, da esplorare, non ci si può stancare».

Alessandro Camiolo

In missione per conto di Chopin

Un pianoforte, un compositore e tre interpreti per quattro concerti.

La rassegna, organizzata da Unione Musicale, si intitola Festival Chopin, ed è ovviamente dedicata al compositore polacco. A interpretare le sue pagine sono tre giovani musicisti: Matteo Buonanoce, Maria José Palla, David Irimescu, tutti formati presso il Conservatorio di Torino. Siamo stati al Teatro Vittoria per il concerto pomeridiano del 28 maggio per sentire questi talenti nascenti confrontarsi con un repertorio variegato e complesso. 

Il primo ad esibirsi è Matteo Buonanoce, torinese classe 2005, che propone i Due notturni op. 48. La sua esecuzione è coinvolgente, il pianista si muove sulla panca, si avvicina col busto alla tastiera o alza lentamente le spalle alla ricerca continua di una precisa espressività. Soprattutto nei momenti di maggior frammentazione del dettato, in cui si susseguono cellule melodiche diverse, Buonanoce riesce a dare una visione intensa della musica di Chopin.

Foto da cartella stampa di Unione Musicale

Dopo è il turno di Maria José Palla, che esegue Quattro mazurke op. 30 e il Valzer op. 64 n° 3, due composizioni caratterizzate da raffinatezza e rimandi alla musica popolare polacca. La pianista ondeggia dolcemente, il suo tocco sulla tastiera è sempre costante, senza esitazioni, dimostrando buona capacità interpretativa e anche comprensione emotiva di una musica energica e appassionata ma anche nostalgica ed evocativa. Nel Valzer si insegue uno stato di gioia, non frivola, ma cosciente delle ansie e dei tormenti: la pianista lo esegue con lucidità, senza eccedere in superflui compiacimenti malinconici.

Foto di Marco Carino

Conclude David Irimescu, pianista italo-rumeno, con il Notturno op. 37 n° 1, i Valzer op. 34 nn. 2-3 e la Ballata n° 2 op. 38, che costituiscono la seconda metà del concerto. Il musicista entra in sala con passo deciso e si prende il tempo di trovare la giusta concentrazione prima di iniziare. L’aspetto interpretativo è ancora più rilevante, qui, trattandosi di brani dai caratteri diversi. David cambia stile con agilità: nel primo brano dilata il lento come a voler cullare chi ascolta, ma sottolineando molto gli abbellimenti, mentre negli altri due è molto più vivace, facendo emergere i forti contrasti ad esempio tra i due temi della Ballata, che vengono contrapposti in modo efficace e con attenzione alla dinamica. 

Foto di Luigi De Palma

Il pubblico applaude con entusiasmo i tre artisti, che alla fine del concerto si inchinano tutti insieme. Tre visioni personali e originali di un compositore la cui musica oggi è molto nota e presente a tutti, ma che spesso diventa un sottofondo o una posa intellettuale, invece sentire un’esecuzione dal vivo può essere un’esperienza più significativa. Tutta l’iniziativa ha avuto un buon riscontro di pubblico che, attratto in primo luogo dal repertorio in programma, ha avuto modo di scoprire e apprezzare nuovi interpreti.

Alessandro Camiolo

Mace: voodoo people, elettronica senza frontiere

«Io sono il mio DJ» cantava Samuel dei Subsonica alla fine dello scorso millennio. Sono parole che sembrano distanti da ciò che oggi fanno in molti, ovvero mettere in sequenza brani che il pubblico vuole ascoltare, senza una propria visione personale. Perché citarlo allora? Beh, oggi torna utile per illuminare il percorso musicale sfaccettato e personale di MACE (Simone Benussi), producer e DJ milanese, che dopo aver attraversato l’underground hip-hop agli inizi degli anni 2000, per poi passare all’elettronica e alla serate nei club, negli ultimi anni si è affermato nel mainstream come un artista unico, libero e riconoscibile. 

Siamo stati a Milano per sentire il suo nuovo DJ set audio-visuale “Voodoo People” che per cinque sere consecutive, dal 14 al 18 maggio, ha presentato al club District 272. Lo show promosso dal Club To Club di Torino, che ha debuttato lo scorso novembre a Lingotto Fiere, è stato ripensato in una forma ristretta e familiare con l’aggiunta di ospiti diversi in apertura. Per la seconda data sono stati invitati per un set in collaborazione Lamusa II e XIII (del collettivo torinese Gang of Ducks). 

Foto di Onofrio Petronella

Il locale è un ex strip club in cui sono ancora presenti i pali da lap dance, dal pavimento al soffitto svettano due grandi schermi verticali che, insieme alle luci soffuse, creano un grande portale verso altre dimensioni. Il viaggio e l’attraversamento fanno parte della visione musicale di MACE (vedi “breakthrough suite” in OLTRE), ne deriva la sua decisione di sperimentare con suoni che provengono da culture con cui è entrato a contatto durante i suoi viaggi esplorativi in giro per il mondo. La prima parte è piena di voci, percussioni e tamburi africani, baile funk brasiliano, che poi virano verso jungle e breakbeat. I generi continuano a sovrapporsi, mentre sugli schermi una maschera tribale si trasforma nel volto dell’artista. La seconda parte invece è una serie di produzioni inedite: MACE suona al sintetizzatore modulare brani che esplorano ulteriormente i generi e i ritmi dell’elettronica, mescolando techno industriale, ruvida e martellante a tracce psichedeliche e ipnotizzanti. Tutto questo si collega alla parte visuale che accompagna e sostiene ogni variazione, creando un percorso fitto di connessioni tra luci e immagini. 

Foto di Onofrio Petronella

Nel finale MACE abbandona la consolle e passa dalla parte del pubblico, tra abbracci e balli di gruppo l’ultima traccia scatena le poche energie ancora rimaste e conclude questo lungo rito di passaggio musicale.
Un progetto sincretico, come il culto voodoo che l’ha ispirato, sulla scia dell’omonimo brano di Prodigy e del documentario su Haiti realizzato da Maya Deren, che diventa un intenso invito al ballo sotto la guida di un DJ che ci salva la vita. 

Negli occhi ho impresso

Il vuoto delle complessità di un buco nero

Che campiona anche l’aldilà

Per trasformare l’agonia delle parole

In forma d’onda, azioni, in tutto ciò che si muove

(estratto da “Il Mio D.J.” dei Subsonica)

Alessandro Camiolo

Viaggi musicali in un club astronave

L’ascolto musicale è sempre più una pratica di adattamento, cambiano le tecnologie, le sale e i contesti di ritrovo, ma rimane una parte centrale della nostra esperienza.

Se parliamo poi di musica elettronica sperimentale, ovvero l’esplorazione del suono nelle sue molteplici forme, trovare un luogo adeguato non è semplice.
Parte da qui il progetto Performing the Club curato da Cristina Baù, che punta a ripensare i club come spazi performativi unici e non convenzionali.

Il club in questione è l’Azimut: uno tra i più raffinati di Torino e con spiccata attenzione al pubblico più affezionato, in cui la qualità artistica e audio non è lasciata al caso. Dal contenitore passiamo al contenuto: “La Danza dell’Universo” in Cinque Movimenti, ideata da Domenico Sciajno e Riccardo Mazza con visual di Laura Pol, è la performance presentata in anteprima sabato 10 maggio, in apertura alla serata techno curata da GENAU. Sciajno e Mazza sono docenti di musica elettronica rispettivamente presso il Conservatorio di Torino e la Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo, Pol è artista visuale e fondatrice di Project-TO insieme a Mazza.

Foto di Loris Turturro

All’ingresso ogni partecipante riceve una bustina con all’interno uno dei cinque elementi del Wu Xing (fuoco, acqua, legno, metallo, terra), ripensati sotto forma di ceneri, ghiaccio, minerali, polveri di metallo, germogli. Si arriva così nella sala principale. I tre artisti stanno in piedi attorno ad un tavolo centrale su cui è disposta la strumentazione necessaria: portatili, tablet, mixer audio. C’è anche una ciotola con sopra una telecamera collegata al computer di Laura che elabora il segnale video attraverso un algoritmo creando i visual proiettati sulle due pareti.

Foto di Loris Turturro

L’ordine seguito si potrebbe definire ascensionale, dall’esecuzione del movimento legato alla terra, caratterizzato da una bassa frequenza costante del sound System Funktion-One, che fa tremare la nostra stabilità. Si passa poi al legno e al fuoco, in cui i suoni iniziano a scontrarsi, sembra di raggiungere vette di altezze vertiginose per ricadere subito giù; poi tutto si trasforma in metallo, la fase più ritmata e veloce che precede il finale dell’acqua, in cui l’agitazione caotica diventa un flusso organizzato, sempre più calmo e avvolgente.

Foto di Loris Turturro

La performance è interattiva, il pubblico viene invitato da Laura a riversare il contenuto della propria bustina dentro la ciotola, creando così effetti visivi sempre nuovi a seconda dell’elemento: inversioni cromatiche, sovraimpressioni, illusioni quasi psichedeliche. Non si ricerca un equilibrio della forma, ma sempre una continua trasformazione sonora e visiva che non si arresta mai. Siamo completamente circondati da suoni e luci in un contesto diverso dal solito, in cui possiamo muoverci, esplorare, sederci e chiudere gli occhi. Un’esperienza di ascolto non riproducibile con altri mezzi, ma che si può trovare sulle piattaforme di streaming, così da poterla vivere almeno in parte. 

Foto di Loris Turturro

Alessandro Camiolo

Lampo di musica: TJF Blitz

Jazz Blitz è un evento che porta il jazz nei luoghi della vita quotidiana, trasformandoli in palcoscenici inaspettati. Si tratta di momenti musicali in luoghi di assistenza, di accoglienza e di incontro dedicati agli utenti e agli ospiti delle strutture.

Parte del programma è anche aperto al pubblico esterno che può quindi visitare e scoprire le realtà sociali che operano attivamente nei vari quartieri della città. Abbiamo avuto l’occasione di partecipare al blitz organizzato negli spazi di Housing Giulia nel pomeriggio di martedì 29 aprile. La residenza, nata dalla cooperazione dell’Opera Barolo e dell’impresa sociale CoAbitare, fornisce residenza temporanea e risponde a bisogni abitativi diversificati.

Per l’occasione, lo staff della struttura ha preparato un ricco buffet di benvenuto in cortile. Mentre i musicisti del quartetto della Jazz School Torino provavano i loro brani, si sono radunati diversi gruppi di ospiti, tra cui bambini, studenti stranieri e anziani, che hanno preso subito posto.

Un incontro con la musica, in cui ciò che conta è la condivisione del momento con le altre persone: per molti infatti ascoltare musicisti suonare dal vivo non è certo una consuetudine, basta poco quindi per sentirsi più leggeri, sorridenti e rilassati. I bambini soprattutto hanno iniziato a saltare e scherzare tra di loro proprio attorno alla band, in uno spazio di totale libertà, che in altri contesti non sarebbe possibile.

Il quartetto ha alternato brani canonici di Dexter Gordon e Bill Lee ad altri del jazz “bianco”, una selezione accurata che ha reso unica questa mezz’ora di musica. 

Un’iniziativa riuscita, certamente lodevole, ben strutturata e con un chiaro obiettivo: creare senso di comunità e unione attraverso la musica, senza lasciare indietro nessuno. 

Alessandro Camiolo

Sunday Morning Brings the Dawn In: korale in concerto al Teatro Vittoria

Come ogni festival che si rispetti, il Torino Jazz Festival nel programma di questa edizione presenta vari appuntamenti con giovani musicisti del jazz contemporaneo, offrendo così spazio per farsi conoscere alle nuove generazioni. Tra quelli più interessanti c’è l’esibizione del gruppo Korale che domenica mattina 27 aprile al Teatro Vittoria ha dato il via a una lunga giornata di concerti. 

Foto di Ottavia Salvadori

Il gruppo, nato lo scorso anno durante una residenza artistica presso il festival Grey Cat di Follonica, è composto da due talenti del panorama italiano come Michelangelo Scandroglio (contrabbasso) e Francesca Remigi (batteria) e due musicisti sudcoreani Youngwoo Lee (pianoforte) e DoYeon Kim (gayageum e voce). Alla base di tutto c’è l’incontro di diverse sensibilità e tradizioni musicali, che trovano il modo di rinnovarsi e ampliare i propri orizzonti. I brani eseguiti durante il concerto sono stati composti dai diversi membri del gruppo: un insieme sfaccettato di approcci creativi che mescola tecniche e stili esecutivi differenti, ma che coesistono solidamente.

Foto di Ottavia Salvadori

Una peculiarità di questo ensemble è la presenza del gayageum, strumento a corde pizzicate della tradizione coreana che DoYeon suona da seduta al centro della sala, come se fosse il crocevia degli scambi musicali che circolano durante l’esibizione. Ma non solo, anche il canto è l’aspetto portante di vari brani durante i quali DoYeon in piedi dirige i tempi di attacco del gruppo. Di tutt’altro stile invece il pianista Youngwoo che, in posizione defilata, quasi di spalle al pubblico e col volto chinato sul pianoforte, dialoga con gli altri quasi in un inseguimento reciproco di ritmi e suoni che si avvolgono tra di loro. Durante i momenti solisti il pianista segue un’idea frammentaria che però torna sempre, in una sorta di scrittura improvvisata. Chiudiamo il quadro con la batteria e il contrabbasso: Scandroglio è l’ideatore di tutta l’iniziativa che supervisiona e accompagna i brani, con incursioni sottili e raffinate, mentre la batterista, che chiude il concerto con un suo brano, è al centro dei cambi di ritmo e tempo che si sviluppano nelle singole composizioni.

Foto di Ottavia Salvadori

Più in generale il concerto ci restituisce una visione aperta della musica: come forma di scambio e connessione culturale che si può creare attraverso la sperimentazione di percorsi non canonici. Questi quattro giovani musicisti hanno saputo dimostrarlo e ci hanno reso partecipi delle loro ricerche. 

Alessandro Camiolo