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Musidams consiglia: i 10 migliori singoli di agosto

Dopo un mese di meritato relax tra spiagge assolate e sentieri di montagna, siamo tornati carichi per accompagnarvi in questo agosto ricco di novità. Ecco le ultime uscite che non potete perdervi prima di riprendere la routine universitaria!

“Giorno d’estate” – Scar

All’inizio di agosto, il cantautore pugliese Scar ci regala una perla indie che profuma di caldo, malinconia e rimpianto. È il racconto delicato di un amore ormai finito, ma che non si riesce ancora a lasciar andare. Il brano si muove su sonorità oniriche, sospese, con una voce fragile e sincera che sembra sussurrare il dolore di chi non ha ancora accettato la fine. 

È una canzone che non urla, ma che colpisce proprio per la sua dolcezza vulnerabile. Perfetta da ascoltare al tramonto, quando il cielo si tinge di arancio e i pensieri diventano più pesanti.

Voto: 27/30

“Misery” – Winter feat. Horse Jumper of Love

Ballata sospesa tra dream pop e malinconia acustica, “Misery” prende ispirazione dalla storia d’amore e dalla tragica scomparsa di Elliott Smith. È una canzone che racconta con intensità emotiva assenze, desideri e quei dolori sottili che accompagnano ogni cambiamento.

Un piccolo gioiello da ascoltare in silenzio, come si ascolta un segreto che non vuole essere svelato.

Voto: 27/30

“Dark aura” – Joey Bada$$ 

Apre Lonely At The Top con un impatto deciso: “Dark Aura” è puro Joey Bada$$, senza compromessi. Il flow è tagliente, il beat cupo e magnetico, e le barre sono intrise di consapevolezza e orgoglio. Con questa traccia, Joey ribadisce la sua posizione: il vero hip hop non è morto, è solo tornato a parlare chiaro. E lui, come sempre, non sbaglia un colpo.

Voto: 28/30

“Nice Shoes” – Steve Lacy

Dopo il successo virale del suo ultimo album, Gemini Rights, Steve Lacy torna con un brano che spiazza e incuriosisce. Abbandonando momentaneamente le sonorità soul e R&B che lo hanno reso celebre, l’artista sperimenta con un sound elettronico, più freddo e sintetico, ma non meno affascinante. È un cambio di rotta che dimostra la sua voglia di evolversi, di non restare intrappolato nelle aspettative del pubblico.

Il pezzo lascia aperta una domanda: questo è solo un assaggio o l’inizio di una nuova era musicale per Lacy? L’ipotesi di un album in arrivo è più che concreta, e non vediamo l’ora di scoprire se saprà confermarsi fedele a sé stesso.

Voto: 26/30

“Tuareg” – Laila Al Habash 

Prodotto da Niccolò Contessa, è un brano che conferma ancora una volta il talento cristallino di Laila Al Habash. Con la sua scrittura brillante e mai banale, la cantautrice italo-palestinese ci accompagna nel viaggio emotivo di ritorno da una storia d’amore estiva ormai conclusa. «Mi tratti male / te ne sei andato» canta con disarmante semplicità, eppure ogni parola arriva dritta al cuore. 

Laila riesce a trasformare il dolore in poesia, e lo fa con una grazia che ormai è il suo marchio di fabbrica.

Voto: 29/30

“9am” – Myd feat. Calcutta 

Nel suo nuovo album il producer francese Myd sorprende con un featuring inaspettato: Calcutta, che presta la sua sensibilità a una traccia che incanta per la sua semplicità disarmante. Il brano si muove su melodie morbide e avvolgenti, quasi fosse una ninnananna elettronica, con parole cantate a bassa voce che sembrano arrivare da un sogno appena svanito. 

Voto: 27/30

“Addio” – Neffa feat. Salmo

È finalmente arrivata la seconda parte del disco più atteso del rap italiano: Canerandagio. Neffa firma un ritorno potente e raffinato, confermandosi come uno dei pilastri indiscussi della scena. Il suo rap è maturo, incisivo e costruito con una cura che lo rende difficile da spodestare dal trono.

A chiudere l’album una traccia che vede il featuring di Salmo, tornato a rappare con grinta e autenticità dopo alcuni lavori meno convincenti. Il brano è una lettera postuma, un addio che sa di verità e di redenzione.

Voto: 28/30

“Echoes” – Sorry 

I Sorry tornano a esplorare i confini tra indie rock e post-punk, dando vita a un brano d’amore intenso e stratificato. Le atmosfere cupe e le melodie sospese accompagnano una riflessione sull’identità e la perdita, dove l’“eco” diventa quasi un terzo protagonista nella relazione.

Il brano anticipa COSPLAY, il nuovo album della band londinese in uscita il 7 novembre, e rappresenta una svolta matura e poetica nel loro percorso. Un assaggio potente di ciò che ci aspetta.

Voto: 29/30

“Just Two Girls” – Wolf Alice

Con questo brano i Wolf Alice celebrano la forza e la bellezza dell’amicizia femminile. Ellie Rowsell canta con dolcezza e ironia le conversazioni intime tra amiche, tra epifanie da bar e confessioni sussurrate. Il brano è una carezza pop-rock che trasforma i piccoli momenti quotidiani in poesia, con un sound anni 70 rivisitato in chiave moderna. Un inno delicato e potente alla complicità che salva.

Voto: 27/30

“Empty Words” – Radio Free Alice

I Radio Free Alice sono riusciti a trasformare una jam nata durante il loro tour in Inghilterra in un brano che parla a chiunque abbia mai sentito il peso del silenzio sociale, delle parole vuote che ci circondano.

La voce è nervosa, quasi stonata a tratti, ma è proprio lì che sta la forza, un po’ come nei pezzi più crudi dei The Fall o dei Protomartyr. 

Voto: 30/30

Traccia bonus: La mia stella aggressiva – irossa. 

Impossibile non menzionare la band torinese che questo mese ha pubblicato il suo secondo album, confermando una crescita artistica solida e personale. “La mia stella aggressiva” è il brano che meglio incarna l’essenza e l’evoluzione del gruppo: un mix di intensità emotiva e ricerca sonora, perfetta per chi ama la musica che non ha paura di esporsi.

Sofia De March

irossa: il suono di ciò che si nasconde tra le virgole e i punti

Il 22 agosto è uscito il nuovo album delle irossa: La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti (L.M.S.A.) scritto e arrangiato da Gabriele Chiara (sax tenore e contralto, clarinetto), Margherita Ferracini (voce, chitarra elettrica, synth, cembalo), Guglielmo Ferroni (chitarra elettrica, sax contralto, synth), Simone Ravigliono (basso, voce), Valerio Ravigliono (batteria, percussioni), Jacopo Sulis (voce, chitarra acustica, synth).

A differenza del primo album, Satura, che ruotava attorno alla ricerca di “lei”, una figura onirica e sfuggente che non corrispondeva a una persona reale, ma incarnava il desiderio di autenticità e di amore assoluto, questa volta è una stella ad essere inseguita: misteriosa, lontana, invisibile agli occhi ma viva dentro ognuno di noi. Non è una meta da raggiungere in fretta, ma una dimora interiore da costruire con pazienza, mattone dopo mattone. Richiede tempo, ascolto, cura. È il sogno di scoprire chi si è davvero, attraversando le fasi della vita e superando i mille ostacoli che segnano questa età incerta e luminosa.

Questo lavoro si rivela come una rappresentazione lucida e delicata della fragilità dei vent’anni – un’età sospesa tra la ricerca di senso, il bisogno di rapporti autentici e il desiderio di capire chi si è davvero. Tra immagini di aule universitarie percepite come estranee, interrogativi sull’identità, sul futuro, e racconti di relazioni sentimentali alla deriva, la band torinese dà forma ad un universo narrativo e musicale che invita non solo all’ascolto e alla riflessione, ma anche ad un possibile riconoscimento: quello di sé, nascosto tra le virgole e i punti, dove qualcosa di luminoso e inquieto continua a sfuggire e a rivelarsi, proprio come una stella che non smette di cercare il suo posto.


Abbiamo deciso di entrare in questo mondo e di intervistarli, per capire meglio cosa si cela dietro le loro parole e melodie.

Foto di Nicolò Canestrelli

Come vi siete conosciuti e quando avete capito che volevate creare qualcosa insieme?

R: Ci siamo conosciuti durante un corso di chitarra bluegrass (sì, fa sempre un po’ strano dirlo) alla House of Rock, la scuola di musica di Rhobbo Bovolenta, nostro maestro e mentore, dove quasi tutti noi suonavamo già da anni, anche se in gruppi diversi. Da quel corso è nata un’affinità, poi la voglia di scrivere pezzi nuovi insieme, e infine i primi concerti tra Torino e provincia…

Qual è il significato del nome del vostro gruppo?

R: Come abbiamo già raccontato in qualche intervista, ci sono due versioni della storia. La verità? Eravamo alla disperata ricerca di un nome. Una sera, mentre bevevamo una birra bionda (c’è chi giura fosse una limonata, ma io non ci credo), qualcuno ha detto: “Chiamiamoci i Bionda.” Silenzio. “No, è orrendo.” “Allora facciamo irossa.” E così è rimasto.

Col tempo, però, abbiamo scoperto che in una poesia di Rimbaud, “Les Voyelles”, ad ogni vocale viene associato un colore, e la “i” è, per l’appunto, rossa. Questa è la versione che usiamo quando vogliamo fare i seri… o i fighi.

Parliamo di L.M.S.A., «Il secondo album è sempre il più difficile/ Nella carriera di un artista», diceva Caparezza, voi come lo avete vissuto?

R: Il secondo album è sempre una sfida, ma scriverlo e registrarlo è stato davvero bello. Abbiamo iniziato a comporre nuovi pezzi in un periodo di transizione: da poco era uscita dal gruppo la nostra ex sassofonista, Caterina Graniti, ed era entrato Gabriele Chiara, che ha preso il suo posto ai fiati. Con Gabri abbiamo cominciato a sperimentare una scrittura più coesa, in costante dialogo tra di noi. Ma, soprattutto, abbiamo dato sfogo a una forte necessità di creare. Alla fine, tra agosto 2024 e aprile 2025, abbiamo chiuso le dieci tracce che compongono questo nuovo album.

In quali circostanze è nato?

R: Decisamente varie, e in luoghi che spaziano dalla sala prove di Fede (che ringraziamo di cuore) a una residenza artistica in Friuli, al Mushroom Studio, dove abbiamo avuto la possibilità di fermarci qualche giorno. Lì, circondati dai monti, dal vino e da persone splendide, abbiamo lavorato ai nuovi pezzi per due giorni di fila, dalla mattina fino a notte fonda. È stata un’esperienza fondamentale.

Quali sono gli ascolti che più vi hanno accompagnato mentre registravate le canzoni?

R: Veramente tanti… giusto per citarne alcuni: Black Country, New Road, Fontaines D.C., Shame, Murder Capital, Deadletter, Headache, IDLES… Di musica italiana, dobbiamo ammetterlo, ne ascoltiamo poca.

Cosa è cambiato nel vostro modo di lavorare rispetto alle primissime demo?

R: Ci sentiamo decisamente più maturi e consapevoli di ciò che facciamo, anche se ci piace continuare a sperimentare e non ci sentiamo arrivati a un sound “definitivo”. Le intenzioni di scrittura sono sicuramente più chiare, sia per quanto riguarda la parte strumentale che per i testi. L’aiuto di Claudio Lo Russo (Atlante) nelle registrazioni, produzioni e mix ci ha permesso di raggiungere una qualità decisamente superiore.

Ricordate il momento preciso in cui avete capito che l’album era finito?

R: Probabilmente è stato proprio in Friuli, a febbraio, che abbiamo capito che il disco era, almeno nelle intenzioni, finito. È successo nel momento in cui abbiamo trovato il titolo dell’album. Una sera, dopo molto (troppo) vino, abbiamo giocato al cadavre exquis – un gioco surrealista che consigliamo vivamente, in cui ogni partecipante scrive alcune parole senza sapere cosa hanno scritto gli altri – ed è venuta fuori la frase: “La mia stella aggressiva raggiunge la pelle secca con prepotenza.” L’abbiamo manipolata in vari modi, e alla fine siamo arrivati al titolo definitivo: La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti. Una frase e un concetto che hanno avuto in noi una risonanza profonda fin da subito. Da lì in poi, il grosso del lavoro concettuale era fatto… anche se per concludere le registrazioni e la scrittura di alcuni brani ci sono voluti ancora tre o quattro mesi.

Foto di Nicolò Canestrelli

Cosa avete provato la prima volta che avete ascoltato il disco tutti insieme? C’è qualche aneddoto che volete raccontarci?

R: Una grande, grandissima soddisfazione, anche se inizialmente mascherata dalle infinite discussioni sull’ordine più funzionale dei brani. Registrarlo è stato un processo lungo e faticoso, ma anche molto divertente. Ricordiamo con affetto una gigantesca pasta alle vongole mangiata con Claudio e Raffa tra una registrazione e l’altra (ancora ci chiediamo come nessuno di noi si sia beccato un’intossicazione, visto che le vongole del supermercato non promettevano nulla di buono).

Comunque, è già almeno un mese che, ogni volta che ci becchiamo la sera, brindiamo al nuovo album… che non è nemmeno ancora uscito. Chissà cosa succederà quando sarà fuori. Nel dubbio, stiamo già preparando il Moment per il mal di testa del giorno dopo.

Qual è il momento e il luogo migliore in cui si dovrebbe ascoltare questo album?

R: Corriamo il rischio di essere banali, ma lo diciamo lo stesso: durante un viaggio in macchina, di notte, da soli, mentre si torna verso casa. Quando ciò che è successo sta già diventando un po’ opaco e l’arrivo ha il sapore di coperte calde e calzini da mettere a lavare.

Com’è essere ventenni oggi rispetto a come immaginavate da piccoli?

R: Non è facile. Da piccoli, tutto sembra insipido rispetto al mondo dei grandi. Poi, in un attimo, grande lo sei diventato davvero, e il mondo dei piccoli ti appare sempre un po’ più bello, più vivido. Per fortuna siamo ancora in un momento in cui possiamo permetterci di essere spensierati, senza troppe ripercussioni… speriamo di riuscire a godercelo finché possiamo.

Che sogno vi motiva oggi?

R: Riuscire a vivere con la nostra musica sarebbe qualcosa di incredibile, una vera ragione di vita. Più persone incontriamo, più ci rendiamo conto che non è affatto facile. Ma l’unica cosa da fare è provarci e crederci fino in fondo, altrimenti si finisce per convivere con il rimorso… e il rimorso, diciamolo, non è granché.

Se doveste scegliere il pezzo che più vi somiglia quale sarebbe?

R: “Io odio il governo” di Tony2Milli. Non rispondiamo a ulteriori domande. 

Dove vi vedete tra 5 anni?

R: Cinque anni… Abbiamo il sospetto che tante cose saranno successe e cambiate, e che magari sarà il momento giusto per tirare le somme di ciò che abbiamo fatto. Probabilmente, però, ci ritroveremo davanti a un kebab in Santa Giulia, dopo la solita nottata passata a parlare, magari a dirci: «Eh, se solo avessimo deciso di chiamarci iBionda…»

Dove possiamo sentirvi dal vivo? 

R: Il 20 settembre 2025 presenteremo “La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti” a sPAZIO211, insieme a Stasi, che è un nostro grande amico. Dopo quella data, stiamo cercando di chiudere qualche altro appuntamento in giro per l’Italia: passeremo per Milano, Bologna, Genova, Viareggio… e, se possibile, anche più giù.

Speriamo di potervi dare informazioni più precise molto presto!

Sofia De March

Monitor Festival: il debutto che accende il futuro

Torino apre l’estate con una nuova proposta nel panorama dei festival: MONITOR, rassegna musicale che debutta presso lo SPAZIO211, storica sede della musica indipendente cittadina. 

La line-up della serata ha offerto un percorso sonoro variegato, capace di intrecciare estetiche locali e internazionali attraverso una selezione accurata di interpreti.

Del resto, a guidare il progetto è Gianluca Gozzi, già direttore artistico del festival TOdays, che per nove edizioni ha rappresentato un punto di riferimento per la città. 

Ad aprire la serata, la band torinese The Cherry Pies, unica formazione locale in cartellone. Il loro suono sporco e seducente rievoca gli Arctic Monkeys di Favourite Worst Nightmare; le chitarre sembrano uscite dai club dei primi anni 2000, mentre le melodie ricordano le ballad dei The Libertines. 

Con brani dalle suggestioni indie-rock britanniche tratti dal loro LP Don’t Just Say Things, la band ha saputo scaldare il pubblico dimostrando che la scena underground torinese ha ancora molto da dire.

Torino non è Sheffield, ma per un attimo lo è parsa.

A seguire, direttamente da Newcastle, Richard Dawson ha cambiato completamente la pelle della serata. 

Senza Futuro Studio

La sua voce, eterea e potente, ha riempito lo spazio con una grazia disarmante.

La padronanza della chitarra richiama i primi lavori solisti di John Frusciante, mentre la scrittura attinge a un immaginario lirico colmo di memorie personali e racconti familiari, evocando fantasmi e visioni surreali. 

Particolarmente toccante l’interpretazione di “Wildegeeses” di Michael Hurley, figura di riferimento del songwriting folk americano e fonte d’ispirazione per Dawson.

Terza artista in scaletta, Luvcat, alla sua prima esibizione italiana. Il suo stile fonde l’estetica pop di Sabrina Carpenter, la schiettezza di Lola Young e il romanticismo noir di Nick Cave. Sul palco ha portato un mix di sensualità e vulnerabilità, esplorando le complessità dell’amore con synth malinconici su cui lasciarsi andare.

Senza Futuro Studio

A chiudere la serata, gli attesissimi Shame, quintetto post-punk di South London che ha recentemente aperto i concerti dei Fontaines D.C. 

La band ha confermato la propria reputazione con un live viscerale e senza compromessi. Il frontman Charlie Steen, tra stage diving e urla catartiche, ha dimostrato ancora una volta di essere uno dei performer più magnetici della scena britannica: canta, suda, urla, si lancia, si dissolve.

Senza Futuro Studio

Ogni brano, da “Concrete” a “Cutthroat”, è un colpo allo stomaco che mescola rabbia e ironia come farebbe Mark E. Smith dei The Fall ma con l’urgenza generazionale dei millennial.

Non è solo un concerto: è una dichiarazione. E Shame la urlano tutta.

Nonostante si tratti della prima edizione, il MONITOR Festival ha mostrato una sorprendente maturità progettuale e una visione artistica nitida, ponendo le basi per un percorso destinato a evolversi e amplificarsi, coinvolgendo nuovi spazi e pubblici, e contribuendo in modo significativo alla vitalità culturale della città. La qualità della proposta, l’originalità della line-up e la risposta entusiasta del pubblico hanno confermato il potenziale di questa nuova realtà.

MONITOR Festival non è solo un debutto riuscito: è l’inizio di qualcosa di grande.

Sofia De March

Jazz is dead! Day2: un viaggio musicale tra suoni e impegno sociale

Dopo un primo giorno carico di aspettative e adrenalina, il secondo ha consolidato l’entusiasmo e confermato la qualità del festival. 

Dagli headliner ai talenti emergenti, passando per la risposta del pubblico e l’organizzazione impeccabile, Jazz is Dead! non solo ha mantenuto le promesse, ma ha persino superato le aspettative.

Ad aprire la seconda giornata del Jazz is Dead! troviamo il collettivo Orchestra Pietra Tonale, ormai presenza fissa al festival da quattro anni. L’esibizione ha mescolato improvvisazione e materiali dal nuovo album del gruppo , uscito il 16 maggio, e ha avuto come filo conduttore l’esplorazione di territori sonori unici e innovativi, uno dei tratti distintivi del collettivo. Fase importante della performance, rappresentativa dello spirito sperimentale del gruppo, è stata l’orchestrazione improvvisata sotto la direzione di Simone Farò che ha lasciato il pubblico col fiato sospeso in balia di suoni di guerriglia, a volte disorientanti e frammentati, altre rassegnati alle mani di chi li dirige.

Subito dopo l’esibizione dell’Orchestra Pietra Tonale, il festival si è spostato sul palco all’aperto. Qui è salito ShrapKnel, duo americano composto da PremRock e Curly Castro, membri della Wreckin’ Crew di Philadelphia. Il loro set ha inaugurato il palco esterno trasportando il pubblico in un viaggio attraverso l’hip-hop/rap più visionario e sperimentale, arricchito da sonorità elettroniche.
Nonostante l’orario ancora poco affollato, gli ShrapKnel sono  riusciti a coinvolgere tutti i presenti: in pochi minuti il pubblico si è avvicinato sotto il palco, riempiendo velocemente lo spazio e creando un’atmosfera carica di energia. Il loro live, caratterizzato da rime taglienti e un sound ruvido e contemporaneo, ha dato il via ufficiale alla serata, mostrando la forza del rap underground americano.

È poi l’ora dei Funk Shui Project che per chiudere in bellezza il tour del loro ultimo album Polvere hanno scelto di tornare a casa, Torino. Il live è stato un susseguirsi di sorprese e ospiti d’eccezione, sin dalle prime canzoni. A salire sul palco per primo è stato Willie Peyote, che ha regalato al pubblico due brani iconici: “Anestesia Totale” e “SoulFul”. L’atmosfera si è poi accesa con l’arrivo di Ensi, maestro del freestyle e simbolo della scena rap italiana, che ha sfoderato il suo flow impeccabile e l’energia contagiosa che lo contraddistingue. Un’altra sorpresa della serata è stata Davide Shorty, artista dalla voce soul inconfondibile. A rendere il momento ancora più speciale è stato l’arrivo di Johnny Marsiglia, uno dei liricisti più raffinati della scena siciliana.

A chiudere il concerto, grazie agli scratch di Frank Sativa, tutti gli artisti si sono riuniti per una jam memorabile, rappando alcune delle loro barre più celebri su strumentali che hanno segnato la storia dell’hip hop: un vero e proprio omaggio alla cultura del rap. 

Dopo la celebrazione del rap underground,  il festival  ha lasciato spazio a un ambiente più elettronico e all’esibizione di Herbert e Momoko, intimae sperimentale. I due artisti, Matthew Herbert produttore e musicista di musica elettronica e la cantante e batterista Momoko Gill, hanno presentato alcuni brani del loro prossimo album Clay, in uscita il 27 giugno, offrendo un’anteprima delle nuove sonorità elettriche e sognanti che lo caratterizzano. La performance si è sviluppata in un’atmosfera giocosa, con palle da basket a tenere il tempo, e raccolta, come se sul palco ci fossero due bambini a divertirsi dopo scuola. Nonostante la natura della loro esibizione, c’era una forte sintonia con il pubblico, diventato quasi parte attiva del processo creativo dentro il quale i due musicisti stavano viaggiando.

A seguire c’è stato l’arrivo di Meg, voce inconfondibile dei 99 Posse negli anni Novanta e icona della musica alternativa italiana: ha festeggiato i suoi 30 anni di carriera con un live intenso e carico di emozioni, portando sul palco il suo nuovo EP da solista Maria e i brani più conosciuti come “Sfumature” e “L’anguilla.”

Oltre alla musica, Meg ha scelto di usare il palco per parlare di temi urgenti e delicati. L’artista si è esposta riguardo al femminicidio di Martina Carbonaro ad Afragola, ribadendo l’importanza di educare le nuove generazioni sulla violenza di genere e sulla necessità di un cambiamento culturale. Un gesto potente, che ha dato ancora più valore al suo live e alla sua figura di musicista impegnata.

Un impegno che, forse, sarebbe stato ancora più significativo se anche alcuni colleghi uomini avessero preso posizione nei concerti successivi, facendo sentire la propria voce su un tema che riguarda tutti.

Ormai a notte inoltrata, l’ultimo artista a salire sul palco esterno è stato Egyptian Lover, autentico caposaldo e pioniere dell’hip-hop electro. Con un set alla console, ha chiuso la serata regalando bassi potenti, momenti vocali e sorprendenti incursioni di melodie mediorientali sapientemente remixate.

La sua performance, semplice ma estremamente efficace, si è distinta per una mimica minimalista ricca di carisma, perfettamente in linea con il suo personaggio. I ritmi travolgenti hanno coinvolto il pubblico, che nonostante le molte ore di festival alle spalle, si è lasciato trasportare dalla musica e si è scatenato fino all’ultimo beat grazie anche alla scelta di orientare le casse verso l’interno ha garantito una diffusione del suono equilibrata e avvolgente.

La giornata si è conclusa con i dj set di Los Hermanos, che hanno proposto una coinvolgente techno latina, seguiti da Andrea Passenger per chiudere la serata. 

Anche il secondo giorno si è così concluso, confermando pienamente le aspettative del festival.

Sofia De March, Marta Miron e Claudia Meli

Oltre la concorrenza: Underdog Fest, la ribellione musicale della provincia

Tra “Cigarettes & Alcohol”, dischi che girano sul piatto e musica dal vivo, domenica 1° giugno l’Open Factory di Nichelino ha ospitato Underdog, il primo festival targato The Vinyl Club. Un evento che celebra la riscoperta del vinile e il piacere dell’ascolto collettivo, portando nuova energia nella scena musicale della provincia torinese.

Prima dei concerti degli artisti emergenti, il pubblico ha potuto partecipare a Vinyl On the Sofà, un talk curato da Polvere, Duedischi e Backdoor, incentrato sull’ascolto collettivo di una selezione di dischi.

Particolarmente interessante è stata la scelta di coinvolgere Sun 16 Zine ed Eterogenesi, due fanzine indipendenti torinesi che raccontano e valorizzano la scena musicale locale, offrendone una prospettiva genuina.

PIT COCCATO: “When my loneliness is through/ Won’t you sit on the throne beside me?”

Vinile consigliato dall’artista: Songs:Ohia, Jason Molina- Magnolia Electric Co.

Pit Coccato, cantautore di Novara, sale sul palco interpretando alcuni brani di Tales of Lonely Night, un album accompagnato da un progetto originale: un fumetto, disegnato da giovani illustratori, che traduce ogni traccia del disco in immagini. Un’idea creativa che aggiunge una dimensione visiva alla sua musica.

Foto di Joy Santandrea

L’EP, intimo e avvolgente, si muove tra sonorità folk e rock, costruendo atmosfere malinconiche che cullano l’ascoltatore. Durante il live, Pit ha regalato anche alcuni inediti in italiano, che non vediamo l’ora di ascoltare in loop appena usciranno.

BEST BEFORE: “Giorni persi per ricordi che non ho”

Vinile consigliato dalla band: Egyptian Blue – A Living Commodity, da cui abbiamo ascoltato “Nylon Wire”.

Se Ian Curtis fosse ancora vivo e cantasse in italiano, probabilmente sarebbe il frontman dei Best Before. La loro musica è un’esplosione di tensione e urgenza, con una vocalità tesa, ossessiva, quasi rituale, capace di catturare e inquietare.

Foto di Joy Santandrea

Il gruppo non si limita a suonare, ma sputa emozioni senza filtri. Le chitarre taglienti dai toni metallici si intrecciano con un basso cupo e pulsante, perfettamente in linea con le atmosfere crank wave.

La sezione ritmica martella senza tregua, alternando momenti di frenesia claustrofobica a pause che aumentano la tensione. La combinazione tra ritmi, atmosfere alienanti e testi intensi rende il live magnetico. Impossibile restare immobili: chi sta sotto il palco resta completamente incollato alla band, incapace di distogliere lo sguardo.

I Best Before riescono a coniugare rabbia e lucidità, incanalando il caos in un suono che non è semplicemente un grido generazionale, ma una vera e propria esperienza sensoriale.

BRX!T: “Notti a caso sporcano questa città e adesso/ portami via di qua

Vinile consigliato dalla band: Soundtrack from Twin Peaks, da cui abbiamo ascoltato “Twin Peaks Theme”.

I BRX!T, da veri padroni di casa, hanno coinvolto il pubblico con un pogo sottopalco esplosivo, partendo da brani carichi di energia come “Salta l’intro” e “Notti a caso”, tra rock alternativo e influenze pop oscure.

Foto di Joy Santandrea

La band ha poi regalato un’anteprima: “Voyager”, il nuovo inedito in uscita a settembre, che segna l’inizio di un nuovo percorso sonoro destinato a lasciare il segno questo autunno. L’energia sul palco è stata contagiosa, con la band sempre in movimento e Dave, bassista e cantante, che ha persino raggiunto il pubblico nel pogo finale, amplificando l’adrenalina del live.

A chiudere la serata, un finale perfetto: “Song For the Dead” dei Queen of the Stone Age, un pezzo iconico che ha scatenato l’ultima ondata di salti e urla lasciando il pubblico soddisfatto, chiudendo il festival con entusiasmo.

Underdog: il palco dove la musica indipendente si fa sentire

In un’industria dominata dalla concorrenza feroce, Underdog è una boccata d’aria fresca, un palco dove le nuove proposte possono esibirsi e trovare il proprio spazio. Molte band meriterebbero più attenzione, e un festival come questo offre uno spazio essenziale per scoprire nuovi suoni, creare connessioni e portare avanti la realtà musicale torinese indipendente.

Non è stata solo una serata di musica e pogo sottopalco: Underdog ha acceso i riflettori sulla musica italiana, ricordandoci che esiste, resiste e sa farsi sentire.

Sofia De March

Il re del pogo all’Hiroshima Mon Amour: Simone Panetti, il migliore in città

Immersi in un mare di persone che saltano, ballano e cantano a squarciagola, l’energia travolgente di Simone Panetti e la frenesia collettiva trasformano il parterre dell’Hiroshima Mon Amour in un vortice di adrenalina e pogo sfrenato.

Noto a molti per il suo passato da streamer, Panetti è un artista romano che ha saputo rompere ogni etichetta dimostrando che si può creare ottima musica senza essere vincolati al mondo di internet e dei social. Ritorna live con un mini-tour di quattro date tra Bologna, Roma, Torino e il Mi Ami (Milano), portando sul palco un disco dalle sonorità completamente diverse rispetto ai suoi due album precedenti, Profondo rosa e Titolo provvisorio.

TOMBINO, il nuovo album uscito il due maggio, è nato in un pomeriggio di pura noia con l’intento di fare un “disco metallaro” sulla scia di “Cara Buongiorno”, prodotta da Greg Willen.

Panetti sale sul palco indossando una salopette animalier, affiancato da una band d’eccezione composta da Auroro Borealo, Valerio Visconti, Sebastiano Cavagna e Greg Dallavoce. Per mantenere un filo diretto con le sue origini da streamer, sull’asta del microfono campeggia una videocamera: il suo volto viene proiettato sullo schermo alle spalle, creando un ponte visivo con il mondo dello streaming e di Twitch.

Sin dalle prime note di “ALLE 6”, il pubblico viene travolto dal caos: sacchi dell’immondizia, usati come palloni da spiaggia, volano tra la folla.

Alla provocazione «A Bologna hanno pogato di più», il parterre risponde scatenandosi sulle note di “TOUCHDOWN”. Con “PEGGIORE IN CITTÀ”, Panetti lancia una sfida di viralità dei fan, chiedendo loro di fare piegamenti per tutta la durata del brano.

Lo show alterna momenti di puro disordine a interazioni folli con il pubblico, come la torta lanciata in faccia a un fan per festeggiare il suo compleanno. Commovente il momento di “Cagna”, la canzone da cui tutto ha avuto inizio ma, per non lasciare spazio a troppa introspezione. “CCCP” arriva a provocare il pensiero fascistoide con un moshpit confusionario e fuori tempo che Simone non manca di deridere.

Il manifesto di una generazione.

Come nei suoi lavori precedenti Panetti si mette a nudo affrontando senza filtri temi come ansia, paura, rabbia e frustrazione. Dice quello che la sua e la nostra generazione pensa, senza retorica né compromessi, mettendo in discussione il presente e interrogandosi sul futuro,

Le sue canzoni suonano bene in cuffia a volume massimo, ma dal vivo raggiungono la loro resa migliore. Panetti prende a schiaffi l’ascoltatore dalla prima all’ultima traccia, con un ritorno al punk ignorante e senza regole. Tra delirio, caos e imprevedibilità, il concerto si trasforma in un’esperienza collettiva senza schemi. Auroro Borealo si rivela una spalla solida e rassicurante per Simone, un supporto fondamentale sul palco.

Live perfetto? No. Ma forse è proprio questo il senso: stare insieme, divertirsi e prendersi qualche calcio in faccia, il prezzo di un live indimenticabile.

Vale la pena tornare a casa con i piedi distrutti, le orecchie che fischiano e qualche livido in più? Assolutamente sì. Ogni salto, ogni nota assordante e ogni spinta tra la folla diventano il segno di una serata vissuta al massimo, dove la musica non si è solo ascoltata, ma sentita sulla pelle.

Quindi, prendete il vostro paio di anfibi e non perdete tempo: comprate i biglietti per le prossime date perché passerete una serata di paura e delirio.

Sofia De March

Intervista a Gnut

Claudio Domestico, in arte Gnut, classe ‘81, è un cantautore, chitarrista e produttore napoletano.

Con uno stile intimista e influenze che spaziano dal folk alla tradizione napoletana, Gnut riesce a trasmettere emozioni profonde attraverso testi sinceri e arrangiamenti raffinati. La sua musica è un viaggio tra sentimenti universali e radici culturali, capace di creare un’autentica connessione con il pubblico. Amato per la sua autenticità e sensibilità è un artista che parla al cuore di chi lo ascolta. 

In occasione della prima data del nuovo tour, svoltasi giovedì 20 marzo allo Spazio211, abbiamo avuto modo di incontrarlo e fargli alcune domande.

Per iniziare ti chiedo come stai e come ti senti per questa sera? Hai aspettative riguardo al pubblico torinese, che ha avuto più occasioni di vederti suonare negli ultimi anni?

Sto bene, è un periodo molto bello artisticamente perché sto lavorando ai provini del nuovo disco.

Questo tour, con il pretesto del nuovo inedito, “Luntano ‘a te”, pubblicato il 28 febbraio, è un giro di boa in cui, con dei vecchi amici musicisti, Mattia Boschi e Marco Sica, vado a rivisitare un paio di canzoni che toglierò dalla scaletta con l’uscita del nuovo progetto. È un modo per salutare questo repertorio che mi ha accompagnato negli ultimi anni, rivedere vecchi amici e dare un suono diverso a quello che ho proposto negli ultimi anni.

È sempre bello tornare a Torino, ho lavorato anni fa con un’etichetta torinese, mi sentivo parte della scena torinese per una parte della mia vita (ride ndr), è sempre una grande emozione.

Questa volta hai deciso di presentarti sul palco con altri due musicisti, curioso peraltro che abbia scelto violino e violoncello, solitamente associati al mondo della musica classica.

L’idea iniziale era quella di realizzare un mio vecchio sogno: realizzare un tour con un quartetto di archi solo che, dopo una serie di esperimenti e prove, il risultato era troppo classicheggiante quindi ho lavorato di sottrazione coinvolgendo questi due vecchi amici che hanno un approccio poco classico allo strumento e hanno un suono molto moderno.

È interessante che usiamo degli strumenti classici, come violino e violoncello, ma lo faremo in una chiave molto distante dalla musica classica.

“Luntano ‘a te” è il tuo ultimo inedito, prodotto da Piers Faccini con cui da molti anni collabori, pezzo che annuncia l’uscita di un nuovo album. In diverse occasioni hai affermato che per te i dischi sono come dei diari, nei quali riassumi la tua vita. Sorge spontaneo chiederti di che cosa racconterà il disco? Musicalmente quali influenze avrà?

Il prossimo album sarà diverso rispetto a quelli pubblicati fino ad adesso sia nei testi che nelle sonorità. Rispecchia una fase particolare della mia vita, tutto è nato da una canzone che poi ha creato il percorso da seguire per tutte le altre.

I testi sono di matrice spirituale…dal punto di vista musicale le ispirazioni arrivano dai mantra, dalla musica africana, da quella popolare del Settecento, la taranta… Sarà un disco molto percussivo.

Sarà vicino a quell’approccio di quando non esisteva l’industria musicale e la musica era una cura per la mente e per il corpo. Credo che sia la forma d’arte migliore per metterci in contatto con tutte le entità che esistono, ma che non possiamo percepire con i nostri sensi. Questo disco parlerà di questo.

Ieri, 19 marzo, sarebbe stato il compleanno di Pino Daniele, il quale diceva «Napoli è un modo di essere».  Quanto è importante Napoli nelle tue canzoni? Che rapporto hai con la città e come la tradizione napoletana influisce sulla tua musica?

In realtà io sono quello che sono, sia come persona sia come musicista, perché sono nato e ho vissuto a Napoli. Quando ho iniziato a suonare ero adolescente ed ero affascinato dalla musica che arrivava da lontano, erano gli anni ’90, c’era il grunge; quindi, non mi interessava molto la tradizione.

Poi, crescendo, mi sono reso conto dell’importanza delle radici, credo che valga per ogni forma d’arte.

Confrontarsi con le proprie radici, con il percorso storico del posto in cui sei nato diventa una chiave molto interessante nel momento in cui lo vai a fondere con quello che ti piace e con quello che arriva da molto lontano.

Da qualche anno ho fatto pace con il repertorio della tradizione napoletana, è una cosa che ho iniziato a studiare negli ultimi anni e, diciamo, ha chiuso un cerchio facendomi trovare una direzione più consapevole artisticamente.

Continuando a citarlo, Pino Daniele, cantava: «E si chest nunn è ammore ma nuje che campamme a fa’». Penso che l’amore abbia la capacità di influenzare non solo la musica ma anche il modo in cui percepisci il mondo. Nel corso della tua carriera hai sempre cercato di raccontare l’amore nelle sue diverse sfumature. Non si può dare una definizione ma, se dovessi chiederti cos’è oggi l’amore per Gnut cosa risponderesti? 

È difficile non rispondere in modo banale… Posso citare John Lennon: quando gli chiesero perché scrivesse solo canzoni d’amore, lui disse «perché cosa c’è più importante di cui parlare?»

L’amore un argomento così ampio che effettivamente quando poi ci si allontana dal racconto del classico amore da coppia ma si va ad indagare in tutte le forme dell’amore diventa un campo universalmente enorme. È il motore che fa girare il mondo nonché il sentimento più importante tra quelli che esistono, quindi per un autore è fonte di ispirazione totale.

La tua musica ha un tono molto intimo e personale, ho sempre pensato che tu riuscissi a trovare poche e semplici parole per descrivere qualcosa di grande, riesci a creare immagini nelle quali le persone si rispecchiano. Come vivi il rapporto con il pubblico durante i concerti? Lo vedi come osservatore della tua arte o, in qualche modo, influenza il tuo modo di scrivere e fare musica?

Non credo ci sia molta influenza. Il mio approccio alla musica è un percorso personale di ricerca.

Il rapporto con il pubblico è di condivisione che si crea soprattutto durante i concerti. Io la chiamo selezione naturale. Quando fai un determinato tipo di musica, in un determinato modo, è come se selezionassi un pubblico con una sensibilità simile alla tua. Si crea una condivisione reale dove nelle canzoni, nate in maniera sincera e spontanea, qualcuno si può riconoscere. 

È un incontro tra spiriti affini.

Qual è stato il momento che ti fatto capire che valeva la pena inseguire i tuoi sogni?

Ci sono stati diversi momenti quando ho dovuto approcciarmi al mondo del lavoro facendone alcuni che non mi interessavano.  Avendo coltivato sempre la passione della musica ho sempre confidato nel fatto che insistere su quello che ti piace, sulle tue passioni, su quello che ami fare fosse importante. Quando poi riesci a trasformarlo in un lavoro è la vittoria più grande.

C’è stato un momento, intorno al 2009-2010, dove ho lasciato tutti i lavori che stavo facendo e mi sono impegnato solo nella musica, da là la mia vita è migliorata.

Viviamo in un paese e in una società in cui è quasi impossibile lavorare con quello che ti appassiona. Che consiglio daresti ai ragazzi, come noi, che si assumono il rischio di seguire il proprio sogno e la propria passione?

È complicato perché ogni vita ha un universo di esperienze diverse… il consiglio che posso dare è di non farsi ossessionare dall’idea del successo, ma cercare di trovare una strada che porti alla serenità.

Si può fare musica senza stare in classifica o nelle radio, anche se non ne parlano. Non serve per forza mirare al successo commerciale: si può sempre fare la musica che ti interessa, usarla come una tua forma di espressione, l’importante è che ti faccia stare bene. 

È complicato però si può fare. (ride ndr)

Sofia De March

Blur: To The End al Seeyousound Festival

Blur: To The End è stato il film d’apertura dell’undicesima edizione del SEEYOUSOUND Festival di Torino (21-28 febbraio 2025). Il documentario, diretto da Toby L., racconta della reunion della band, della scrittura del loro ultimo album, Ballad of Darren, e del concerto a Wembley del 2023.

Momenti comici, come il ritorno alle scuole elementari di Damon Albarn e Graham Coxon, sono accostati a scene estremamente intime come quella in cui Albarn si commuove sulle note di “The Everglades”, brano contenuto in Ballad of Darren. Quello che però emerge già dai primi minuti è il forte legame di amicizia e fratellanza che unisce la band inglese. Ascoltando le parole ed i gesti che si scambiano viene in mente una frase di Michela Murgia, secondo cui «gli amici che ti fai quando hai 16, 17, 20 anni hanno una specialità che nella vita poi sarà irripetibile, avrai altre amicizie anche molto qualificate ma qualcuno che ti fosse testimone quando potevi ancora essere tutto… quello non si ripete». Credo che i Blur ne siano l’esempio perfetto.

Foto tratta dal film “Blur: To The End”

Uno dei temi trattati è il trascorrere del tempo e la difficoltà dell’accettarlo, e di certo non aiuta avere tutta la propria giovinezza documentata da film e video. 

«It’s a weird thing when you go back to something that was so well documented.
People feel like that’s what you are but it’s so long ago».

Nell’era in cui sui social si tende a mostrare solo gli aspetti positivi della propria vita, Toby L. ci regala un ritratto sincero dei Blur grazie al quale possiamo distruggere l’immagine distorta che avevamo delle popstar. Risulta strano, quasi ci infastidisce, vederli preoccupati pochi minuti prima di andare in scena, ma sono queste loro insicurezze a renderli umani e ci invitano ad accettare anche le nostre fragilità.

Il crescendo di tensione raggiunge l’apice negli istanti che precedono l’ingresso della band sul palco. Ma l’adrenalina sale alle stelle quando li si vede salire la rampa ed è inevitabile avere la pelle d’oca appena si sente il boato del pubblico di Wembley che accoglie gli artisti che entrano sulle note di “The Debt Collector”. È ufficialmente iniziato il concerto, da questo momento fino alla fine del film gli spettatori sono totalmente immersi nelle immagini che scorrono sul grande schermo e nella musica che rimbomba nella sala. L’entusiasmo è palpabile e le riprese del concerto regalano momenti di pura gioia.

Blur, 2023, Wembley. Foto dal profilo Fb della band

All’inizio della scaletta compare “Popscene” canzone simbolo del britpop, per poi passare ad urlare il ritornello di “Song 2” dove la folla impazzisce e l’intero parterre salta. All’ultima canzone, “The Universal” l’intera platea è commossa, risulta difficile non emozionarsi vedendo quattro amici, che suonano assieme da quando avevano vent’anni, riuscire a realizzare il loro sogno suonando di fronte a 80.000 persone. 

Il documentario è nei cinema dal 24 fino al 26 febbraio ed è un’esperienza che merita di essere vissuta. E, se si vogliono riprovare le stesse emozioni del concerto anche quando si è sul tram diretti all’università, si può sempre ascoltare l’album Live At Wembley Stadium.

a cura di Sofia De March

Sanremo 2025: la tanto attesa serata delle cover

La conferenza stampa tenutasi questa mattina inizia con le parole del direttore artistico, nonché conduttore, Carlo Conti, il quale annuncia che stasera al suo fianco, per l’apertura, ci sarà Roberto Benigni.

Dopo questa notizia Marcello Ciannamea, il Direttore Intrattenimento Prime Time Rai, condivide gli ottimi risultati della sera precedente con 10,7 Mln di ascolti medi e il 59,8% di share, un successo visto l’incremento di 1 Mln di ascoltatori rispetto lo scorso anno.

Successivamente, il sindaco Alessandro Mager ringrazia le forze dell’ordine per il lavoro che stanno svolgendo per permettere la totale sicurezza dei cittadini e, Marco Bocci, Presidente della Regione, conferma la sua presenza sul palco dell’Ariston per la consegna del Premio Liguria per la migliore cover. 

Claudio Fasulo, responsabile Rai, espone il programma della serata, il quale prevede la presenza di ben 144 artisti sul palco, tra cui la performance di Paolo Kessisoglu con la figlia e l’esibizione di Benji e Fede sul palco Suzuki: insomma, si prospetta un grande spettacolo. 

È presente anche Settembre, il vincitore di Sanremo Giovani, a cui viene consegnato il Premio alla Critica e il Premio Critica Sala Stampa Lucio Dalla. Il cantante coglie l’occasione per ribadire la forte stima che nutre per Alex Wyse, finalista con lui, ed esprime una forte gratitudine per la vittoria conseguita.

Viene poi lasciata la parola alla coppia dei due co-conduttori Geppi Cucciari e Mahmood accomunati non solo dalla provenienza geografica ma anche dalle affinità elettive. Entrambi si augurano il meglio per questa serata: Geppi lo fa con il suo solito sarcasmo mentre Mahmood con il suo ottimismo.

Tra le domande viene chiesta una delucidazione riguardo al perchè la collana sia stata negata a Tony Effe: i responsabili precisano che è stato necessario non far salire sul palco il cantante con il gioiello, in quanto una norma contenuta nel regolamento del festival prevede il totale divieto da parte degli artisti di esibire dei marchi.

Risoltasi tale questione, le domande successive ruotano tutte attorno al ruolo che Geppi Cucciari ha intenzione di ricoprire sul palco dell’Ariston, dove la tv viene intesa come spazio di evasione dalla realtà.
L’attrice risponde sempre con la massima eleganza affermando che «ogni giorno ci sono piccole/grandi battaglie da combattere » ma ci tiene ad evidenziare che mostrerà rispetto nei confronti delle decisioni prese dal direttore artistico.

Una cosa è certa: sono state create alte aspettative per questa serata e noi ci auguriamo che non vengano deluse.

A cura di Sofia De March

Musidams consiglia: i 10 migliori singoli di gennaio 2025

Assieme ai propositi dell’anno nuovo ritornano i consigli della nostra redazione: ogni mese vi proporremo l’ascolto dei 10 migliori singoli… Ecco quelli di gennaio!

“Un momento migliore” – Andrea Laszlo De Simone

Andrea Laszlo De Simone ci sorprende regalandoci per Capodanno la prima canzone del 2025: una ballad per festeggiare «il compleanno del Mondo» evidenziandone i difetti che lo rendono ‘umano’.

Il cantautore scrive una sorta di elogio all’imperfezione per ricordarci l’importanza di sbagliare in una società che pretende da noi la perfezione.

Voto: 30/30

“Oh, girl” – Giulia Impache

Il brano che apre l’album di debutto dell’artista torinese presenta in modo diretto e senza fronzoli il suo stile: eclettico, etereo e sperimentale.

L’intimità con la quale ci fionda nel suo opaco universo diventa la chiave di volta per immergersi in esso completamente. Sentiremo parlare di lei.

Voto: 28/30

“Il buio nelle mani” – En?gma

È il ritorno del guaglione sulla traccia, direbbe Neffa.

Ricompare così Francesco Marcello Scano, in arte En?gma, nella scena rap italiana con l’ep KLOAKA, prodotto assieme all’amico Salmo.

“Il buio nelle mani” è il pezzo che farà impazzire tutti coloro che lo conoscono dal 2014 grazie alle numerose collaborazioni con la Machete Crew.

Il brano, grazie alla base old school, porta l’ascoltatore a tenere il tempo: la testa fa su e giù, su e giù.

Voto: 26/30

“Funny Papers” – Mac Miller

All’interno dell’album postumo Balloonerism prodotto nel 2014 dal rapper di Pittsburgh, venuto a mancare nel settembre 2018, “Funny Papers” si ritaglia uno spazio a sé stante, in cui il tipico flow di Mac, leggero e melodico, si sposa con una base semplice, donando al pezzo un sano menefreghismo, complice della consapevolezza di quanto la vita terrena sia temporanea, riguardante le notizie di stampa.

Perché, dopotutto, come si chiede lo stesso artista nel finale: «Why does it matter at all?».

Voto: 29/30

“Guapparìa” – La Niña

La Niña, orgoglio partenopeo, tendendo un filo tra la tradizione melodica napoletana e i suoni contemporanei, rappresenta l’identità di Napoli, la città in cui: «Senz’ammore nun se canta/Senz’ammore nun se sona».

Voto: 26/30

“Mario” – Pellegrino, Zodyaco

La grande onda del Neo Funk napoletano, oramai acclamato non solo sul suolo italiano, raggiunge dimensioni sempre più anomale, grazie al nuovo album Koinè, in cui è contenuto il brano inserito in questo listone. 

Carico di atmosfere mediterranee e Latin Jazz, si fa portatore di una calda ondata estiva anticipata (e direi che ne avevamo bisogno).

Voto: 28/30

“Greyhound” – Palace

La voce angelica del frontman Leo Wyndham e il suono idilliaco della chitarra riescono a fermare il tempo e per tutta la durata del brano veniamo teletrasportati in un’altra dimensione.

I Palace riescono, con estrema dolcezza, a descrivere il sentimento di nostalgia che si prova quando si è lontani dai propri affetti, emozione che si scontra con la voglia di viaggiare e scoprire il mondo.

Insomma, “Greyhound” è la canzone adatta per i fuorisede costretti ad allontanarsi da casa per inseguire il proprio sogno.

Voto: 28/30

“TO/GA” – Colla Zio

La band milanese che si è fatta conoscere negli ultimi anni nel panorama Indie/Pop con l’album Rockabilly Carter apre un nuovo capitolo del proprio percorso artistico, con una canzone originale, destrutturata e con armonizzazioni vocali ricercate che palleggiano con inserzioni rappate. 

Ci auguriamo che sia solo l’incipit di un prossimo grande progetto.

Voto: 28/30

“Audacious”– Franz Ferdinand

Brano apripista dell’album The Human Fear farà innamorare i fan nostalgici che, almeno una volta nella loro vita, hanno ballato sul riff di chitarra di “Take Me Out”.

Con questo concept album, che ha come tema la paura, Kapranos vuole insegnarci ad affrontare la vita con coraggio e non permettere agli ostacoli, che inevitabilmente incontreremo nella vita, di fermarci.

«So don’t stop feeling audacious, there’s no one to save us/ So just carry on».

Voto: 27/30

“Patto col diavolo”– Ghemon

Il brano in questione viene inserito in un progetto innovativo, che mette assieme le performance di stand-up comedy dell’artista campano nei teatri italiani dell’anno appena passato e canzoni che ricalcano orme del mondo jazz e hip-hop.

“Patto col diavolo” risulta tra gli altri il pezzo meglio scritto e prodotto, in forte debito col genere neo-soul americano degli anni ‘90 e mantenendo perciò un occhio al passato ma concentrandosi al contempo sul presente, soffermandosi sulla tematica dell’autenticità dell’arte e dell’artista.

Voto: 30/30

Menzione d’onore

Humanhood” – The Weather Station

Album che presenta angoli estremamente smussati, in uno stile libero e contemporaneo che convoglia sonorità folk, jazz e rock, spaziando negli arrangiamenti e nelle scelte strumentali.

Il tutto crea lo sfondo perfetto per i testi, scritti e cantati da Tamara Lindeman, di rassegnazione e auto colpevolezza da parte dell’umanità nei confronti dell’ambiente e della nostra terra, portati all’estremo da scelte di linguaggio forte e altre volte attraverso parole di instabile fragilità.

Prodotto consigliatissimo dalla prima all’ultima canzone.

“Who let the dogs out” – Lambrini girls

Il post-punk si colora di rosa, seguendo la scia di Courtney Love delle Bikini Kills, grazie all’album di esordio di due ragazze di Brighton.

Il duo si espone politicamente rivendicando i diritti del femminismo, recuperando il tema dell’accettazione del diverso e dando voce alle minoranze spesso inascoltate.

Nei loro testi emerge la rabbia che le contraddistingue come in “Filthy Rich Nepo Baby”, una feroce critica contro l’ipocrisia dell’etichette discografiche in cui governa il nepotismo oppure in “Nothing Tastes As Good As It Feels” in cui viene trattato il disturbo alimentare con una nota di sarcasmo, partendo dal titolo, che cita maliziosamente Kate Moss («Nothing tastes as good as skinny feels.»).

Le Lambrini girls saranno il punto di riferimento del 2025 per tutte quelle ragazze che si sono stancate di dover sottostare agli standard imposti dal patriarcato.

A cura di Marco Usmigli e Sofia De March