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Presentato MiTo Settembre Musica 2025: Rivoluzioni

Torino e Milano si preparano ad accogliere la 19a edizione di MiTo Settembre Musica, il festival internazionale che dal 3 al 18 settembre celebrerà la musica attraverso il tema “Rivoluzioni”.

Durante la conferenza stampa del 20 maggio, in collegamento tra le due città coinvolte, l’Assessora alla Cultura di Torino, Rosanna Purchia, ha affermato che MiTo rappresenta non solo un appuntamento musicale, ma un vero e proprio dovere civile, culturale e sociale. Il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha invece evidenziato il valore della collaborazione tra le due città, sottolineando che l’internazionalità del festival rispecchia l’identità e le aspirazioni di Milano.

Alla sua ultima edizione come direttore artistico, Giorgio Battistelli ha messo in luce la necessità di rinnovare il concetto stesso di programmazione musicale. «Non si porta la cultura, si sollecita un’azione culturale» ha affermato, rimarcando la volontà di resistere all’omologazione e stimolare nuove connessioni.

I quattro perimetri su cui si sviluppa il programma sono: Mitjia e gli altri (per omaggiare Šostakovič nel cinquantenario dalla scomparsa), Berio e le avanguardie (con un omaggio al compositore nel centenario dalla nascita), Rivoluzioni – tempi di guerra, tempi di pace, e infine Ascoltare con gli occhi – la musica si intreccia con immagini e danza per creare un’esperienza multisensoriale.

Con 67 eventi in programma, MiTo porterà sui palchi artisti e orchestre di grande rilievo. Ad inaugurare il festival, il 3 settembre all’Auditorium del Lingotto di Torino, ci sarà la Filarmonica della Scala guidata dal futuro nuovo direttore artistico del Teatro, Myung-Whun Chung: in programma musiche di Šostakovič, Rachmaninov e Čajkovskij.

A seguire, il 4 settembre al Teatro alla Scala, Antonio Pappano dirigerà la London Symphony Orchestra in brani di Bernstein, Prokof’ev e Copland.

All’interno del programma dedicato a Šostakovič, sarà di rilievo l’esecuzione della Sinfonia n° 10 al Teatro Dal Verme con l’Orchestra Sinfonica di Lucerna diretta da Michael Sanderling, accompagnata dalla proiezione dell’artista William Kentridge: un suggestivo dialogo tra musica e immagini.
Significativa sarà anche l’esecuzione integrale dei quartetti per archi di Šostakovič, proposta in sei giornate dal Quartetto Eliot.

Accanto alle esibizioni di grandi nomi, il festival conferma il suo impegno nella valorizzazione di talenti emergenti con il progetto Milano Mito d’Europa che offrirà spazio a giovani musicisti e compositori. In questo ambito, il 6 settembre al Teatro Alfieri di Torino, la Scuola di Perfezionamento Musicale di Saluzzo presenterà un’orchestra di giovani musicisti sotto la direzione di Donato Renzetti in un programma dedicato a Bernstein, Gershwin e John Williams.

Battistelli ha voluto sottolineare come MiTo sia un festival che resiste all’immobilità, abbracciando il cambiamento: «Più passa il tempo, più non so quale sia la musica contemporanea. La musica è un experimentum mundi». L’iniziativa si pone dunque come una riflessione sulla trasformazione culturale e sulle nuove modalità di ascolto e partecipazione.

MiTo si conferma una realtà dinamica capace di intrecciare tradizione e innovazione, di rivoluzionare la musica e la fruizione musicale.

Ottavia Salvadori

In missione per conto di Chopin

Un pianoforte, un compositore e tre interpreti per quattro concerti.

La rassegna, organizzata da Unione Musicale, si intitola Festival Chopin, ed è ovviamente dedicata al compositore polacco. A interpretare le sue pagine sono tre giovani musicisti: Matteo Buonanoce, Maria José Palla, David Irimescu, tutti formati presso il Conservatorio di Torino. Siamo stati al Teatro Vittoria per il concerto pomeridiano del 28 maggio per sentire questi talenti nascenti confrontarsi con un repertorio variegato e complesso. 

Il primo ad esibirsi è Matteo Buonanoce, torinese classe 2005, che propone i Due notturni op. 48. La sua esecuzione è coinvolgente, il pianista si muove sulla panca, si avvicina col busto alla tastiera o alza lentamente le spalle alla ricerca continua di una precisa espressività. Soprattutto nei momenti di maggior frammentazione del dettato, in cui si susseguono cellule melodiche diverse, Buonanoce riesce a dare una visione intensa della musica di Chopin.

Foto da cartella stampa di Unione Musicale

Dopo è il turno di Maria José Palla, che esegue Quattro mazurke op. 30 e il Valzer op. 64 n° 3, due composizioni caratterizzate da raffinatezza e rimandi alla musica popolare polacca. La pianista ondeggia dolcemente, il suo tocco sulla tastiera è sempre costante, senza esitazioni, dimostrando buona capacità interpretativa e anche comprensione emotiva di una musica energica e appassionata ma anche nostalgica ed evocativa. Nel Valzer si insegue uno stato di gioia, non frivola, ma cosciente delle ansie e dei tormenti: la pianista lo esegue con lucidità, senza eccedere in superflui compiacimenti malinconici.

Foto di Marco Carino

Conclude David Irimescu, pianista italo-rumeno, con il Notturno op. 37 n° 1, i Valzer op. 34 nn. 2-3 e la Ballata n° 2 op. 38, che costituiscono la seconda metà del concerto. Il musicista entra in sala con passo deciso e si prende il tempo di trovare la giusta concentrazione prima di iniziare. L’aspetto interpretativo è ancora più rilevante, qui, trattandosi di brani dai caratteri diversi. David cambia stile con agilità: nel primo brano dilata il lento come a voler cullare chi ascolta, ma sottolineando molto gli abbellimenti, mentre negli altri due è molto più vivace, facendo emergere i forti contrasti ad esempio tra i due temi della Ballata, che vengono contrapposti in modo efficace e con attenzione alla dinamica. 

Foto di Luigi De Palma

Il pubblico applaude con entusiasmo i tre artisti, che alla fine del concerto si inchinano tutti insieme. Tre visioni personali e originali di un compositore la cui musica oggi è molto nota e presente a tutti, ma che spesso diventa un sottofondo o una posa intellettuale, invece sentire un’esecuzione dal vivo può essere un’esperienza più significativa. Tutta l’iniziativa ha avuto un buon riscontro di pubblico che, attratto in primo luogo dal repertorio in programma, ha avuto modo di scoprire e apprezzare nuovi interpreti.

Alessandro Camiolo

Tre epoche, un dialogo: Yuki Serino e Martin Nöbauer 

Il 10 maggio al Teatro Vittoria si è conclusa la rassegna “Note tra di noi” dell’Unione Musicale con due giovanissimi e talentuosi musicisti: la violinista Yuki Serino e il pianista Martin Nöbauer. Lei nel 2024 si è aggiudicata il primo premio al Concorso Città di Cremona, lui nel 2023 è stato finalista al Concorso Internazionale Chopin su strumenti d’epoca di Varsavia. 

Quando, dopo il saluto del direttore artistico della rassegna, sono entrati i due musicisti, entrambi con un grande sorriso sulle labbra, si è respirato un piacevole senso di leggerezza (fra l’altro, parte del pubblico ha preso posto su alcune sedie posizionate sul palco per abbattere le barriere tra platea e artisti). 

Il primo brano che hanno scelto per questa serata è stata la Sonata in sol maggiore K. 379 di W. A. Mozart, che si apre con un “adagio” intimo e profondo introdotto dal pianoforte; il violino entra poco dopo, con un accordo pieno in imitazione delle prime note del pianoforte. Sono bastate poche battute per capire che davanti a noi avevamo degli autentici talenti nonostante la giovane età: questo inizio perfetto ci ha fatto subito entrare nel loro mondo. Il secondo movimento “allegro” cambia il carattere della sonata, con un gioco di imitazioni tra i due strumenti molto deciso e accattivante, mentre l’ultimo, “andantino cantabile”, contiene variazioni sul tema. Entrambi i musicisti hanno onorato la sonata mozartiana: se Yuki è riuscita a coinvolgere il pubblico con il suo modo unico di suonare, Martin non è stato da meno, e insieme hanno costruito un intreccio di colori e dinamiche che ha colpito gli ascoltatori. 

foto da Unione Musicale

Il programma è proseguito poi con le Tre romanze op. 22 di Clara Schumann. Il primo di questi vellutati quadri sonori è stato particolarmente suggestivo: calibrando ogni nota, i musicisti sono riusciti a trasmettere qualcosa del carattere appassionato della compositrice. Nel secondo, siamo entrati più in profondità nel racconto: con il suo vibrato e la precisione assoluta nei passaggi, era come se la violinista avesse assorbito lo spazio intorno a lei: impossibile distogliere lo sguardo!

foto da Unione Musicale

In chiusura del concerto è stata eseguita la Sonata in la maggiore op. 13 di Gabriel Fauré. (Molto raffinata l’idea dei due musicisti di farci attraversare tre periodi diversi con composizioni che rappresentano a meraviglia il carattere musicale e stilistico dei rispettivi autori!). Nel primo movimento di Fauré, Martin Nöbauer ha brillato in particolare per un crescendo perfetto, eseguito con naturalezza e un’irresistibile tensione. Un momento che ha sicuramente lasciato una forte impressione è stato il climax creato dalle ottave del violino e dagli arpeggi del pianoforte: sono stati impeccabili, raggiungendo il secondo tema con una dolcezza inaspettata, fuori dagli schemi. In tutto il brano sono riusciti a dimostrare una padronanza notevole, combinando destrezza tecnica e sincera espressività emotiva, frutto indubbiamente di un duro lavoro in fase di studio.

Le reazioni del pubblico sono state molto positive: i due musicisti, stanchi ma visibilmente appagati, sono stati acclamati con calorosi applausi (e pazienza se i battimani avevano interrotto le sonate dove il rito concertistico non lo prevede: i musicisti non hanno perso né la concentrazione, né il sorriso!). 

Francesca Modoni

Presentata la nuova stagione 2025-2026 del Teatro Regio di Torino: “ROSSO”

Torino accoglie con entusiasmo la presentazione della nuova stagione del Teatro Regio che prevede un cartellone che combina tradizione e innovazione.

Il 6 maggio al Foyer del Toro, in apertura della conferenza stampa, il sovrintendente Jouvin ricorda due grandi figure del teatro lirico che sono venute a mancare in questi giorni: Pierre Audi, direttore del Festival d’Aix-en-Provence e il baritono Alberto Mastromarino. Poche parole, molto sentite, in ricordo di due persone che lasceranno un grande vuoto.

Il titolo scelto per la stagione, Rosso, nasce da un’attenta riflessione collettiva. Il colore, simbolo di passione e desiderio, nasconde anche un lato oscuro: quello della violenza e del sangue. Jouvin cita un passaggio di La scrittura o la vita di Jorge Semprùn: «Cerco la regione cruciale dell’anima in cui il Male assoluto si oppone alla fratellanza», una frase che riflette sul dualismo insito nell’essere umano. E proprio da questo tema prende vita il cartellone della nuova stagione: conflitti tra bene e male che raccontano la duplicità dell’animo in continua lotta tra amore e odio.

Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino

Ad inaugurare il nuovo anno operistico sarà Francesca da Rimini¸ opera di Zandonai nata nel 1914 per la città di Torino. Diretta da Andrea Battistoni, l’opera è un esempio di literaturoper basata sulla tragedia di D’Annunzio e rappresenta un viaggio tra influenze italiane, della scuola di Mascagni, e suggestioni da Debussy, Ravel e Strauss.
Il direttore artistico Cristiano Sandri sottolinea l’importanza dell’equilibrio tra opere di repertorio e titoli meno noti che vogliono essere riscoperti e riportati in vita. In questa visione si inserisce Francesca da Rimini affidata alla regia di Andrea Berna, giovane regista vincitore del Premio Abbiati nel 2024.

Più volte, nel corso della conferenza, viene enfatizzata la fiducia che gli artisti nutrono nei confronti del Teatro Regio, riconosciuto come ambiente accogliente in cui tornano sempre con entusiasmo. Prova ne è l’opera di apertura, che ha visto il Teatro riunire un cast di attori-cantanti di prestigio disposti ad accettare anche i ruoli minori, brevi nella loro durata ma estremamente impegnativi dal punto di vista vocale; tra questi vi sono i due fratelli di Francesca, Samaritana e Ostasio, interpretati rispettivamente da Valentina Boi e Devid Cecconi.
Tra gli interpreti si evidenzia la presenza di Roberto Alagna, nel ruolo di Paolo, che torna a Torino dopo 20 anni, e la giovane Barno Ismatullaeva che ha lasciato il segno nel 2023 nella Madama Butterfly.

La stagione inizia già ad ammorbidire i toni con Il Ratto del Serraglio, diretto da Gianluca Capuano e la regia di Michel Fau. Il Singspiel di Mozart mescola serietà e comicità lasciando un messaggio di speranza che scava approfonditamente nelle passioni dei personaggi.
L’allestimento dello spettacolo viene dall’Opéra Royal de Versailles e preannuncia una produzione evocativa e colorata capace di trasportare il pubblico nei paesaggi turchi e nel palazzo del Pascià Selim.

Dicembre sarà il mese dedicato ai balletti e vedrà il grande ritorno di Roberto Bolle, che accende gli animi degli appassionati. Quest’anno, sul palco del Regio, Bolle non porterà il consueto gala “Bolle and Friends”, ma presenterà uno spettacolo intitolato “Caravaggio” su musica di Bruno Moretti.
L’anno si concluderà con altri due titoli importanti e due compagnie estere: la Compagnia di Balletto del Teatro Nazionale di Praga che porterà sul palco Romeo e Giulietta, e il Balletto Nazionale della Lettonia di Riga, per la prima volta ospite a Torino con Il lago dei Cigni.

Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino

Come afferma Jouvin, dopo le festività natalizie e il freddo del mese di dicembre è necessario riscaldare i cuori con un titolo più leggero e sognante. A gennaio, con l’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino e la regia di Manu Lalli, andrà in scena La Cenerentola di Rossini. La produzione vuole recuperare la fiaba di Perrault per divertire il pubblico e farlo tornare un po’ bambino, una coccola prima del grande ritorno del maestro Riccardo Muti con la cupa riflessione proposta da Macbeth.

Tratta dalla tragedia di Shakespeare, l’opera scava nell’animo umano per meditare sulle tematiche del male, del potere, del destino e della colpa: un esempio lampante di come la musica e il teatro permettano di comprendere, o quantomeno interrogarsi, sulla profondità delle emozioni. Ad affiancare il direttore d’orchestra, tornerà la regia di Chiara Muti e un cast di interpreti fedeli al maestro Muti, tra cui Luca Micheletti (Macbeth) e Giovanni Sala (Macduff).

L’unico titolo di cui, durante la conferenza, viene raccontata brevemente la trama è Dialoghi delle Carmelitane: per la prima volta a Torino verrà raccontato il tragico episodio della Rivoluzione Francese. L’allestimento proviene dal Dutch National Opera & Ballet, da una produzione che ha debuttato nel 1997 ad Amsterdam, e a dirigere l’orchestra ci sarà Yves Abel.

La stagione continuerà con uno titolo belliniano, I Puritani, affidato a Francesco Lanzillotta e Pierre-Emmanuel Rousseau, duo artistico che aveva collaborato nel 2023 per la produzione de La Rondine.

In chiusura dia stagione, tornerà sul podio Andrea Battistoni con un caposaldo del repertorio operistico: Tosca di Puccini, definita dal direttore un «thriller musicale ante litteram». Tosca, opera che ha accompagnato Battistoni in diversi debutti in prestigiosi teatri internazionali, sarà diretta dal maestro per la prima volta in Italia proprio sul palco del Teatro di Torino.
La regia è affidata a Stefano Poda, che torna dopo il premio Abbiati per il miglior spettacolo del 2023 (Juive), e il cast vede il ritorno del baritono Roberto Frontali nel ruolo di Vitellio Scarpia, dopo il successo nel ruolo di Gianni Schicchi. A interpretare Tosca e Cavaradossi, saranno  Chiara Isotton e Martin Muehle.

Per concludere la conferenza, vengono presentati i progetti e le attività dedicate a famiglie, giovani e scuole. «Il pubblico giovane è il nostro futuro» afferma il sovrintendente, ribadendo l’impegno del Regio nei confronti delle nuove generazioni con sconti per gli Under30, la creazione di una Card Under16 e la prosecuzione della campagna “Il Regio è di tutti”.
Tra le iniziative al Piccolo Regio figurano Hänsel e Gretel, Pierino e il Lupo, Brundibàr, Il Piccolo Principe e la riduzione di La Cenerentola, proposta con una drammaturgia ad hoc per avvicinare bambini, giovani e adulti al mondo del teatro operistico.

La stagione 2025-2026 preannuncia un anno intenso, capace di emozionare e incantare il pubblico.

Ottavia Salvadori

Vengerov e Osetinskaya: il suono come dono e maestria

L’Unione Musicale ci ha fatto un regalo prezioso la sera del 26 marzo, portando sul palco del Conservatorio «Giuseppe Verdi» uno dei musicisti più importanti a livello globale, Maxim Vengerov, di origine russa, che fin da bambino si è messo in luce come violinista. In questa serata è stato accompagnato al pianoforte dalla pianista Polina Osetinskaya, la quale condivide con il violinista non solo le origini russe, ma anche il talento mostrato sin da piccola.

Osservando il pubblico accomodarsi, si percepiva l’attesa: si potevano notare subito, sul palco, le custodie dei violini,come una muta promessa di quello che stavamo per ascoltare. Infatti, i due musicisti, al loro ingresso, sono stati accolti calorosamente con un lungo applauso.

Il concerto è stato aperto dalle Cinque melodie op. 35 bis di Sergej Prokof’ev. Dal primo attacco di Vengerov si è rimasti subito colpiti: un suono deciso ma allo stesso tempo dolce, che ha dato dimostrazione immediata della tecnica acquisita negli anni. Le Cinque melodie, però, erano soltanto l’antipasto. Nella Sonata n° 2 in re maggiore, op. 94 bisdello stesso compositore abbiamo assistito a qualcosa di unico. Nel secondo movimento, Scherzo. Presto, entrambi i musicisti hanno dato il meglio di sé: si percepiva il divertimento nel suonare questo brano. La pianista si muoveva a tempo di musica per accompagnare Vengerov e, per la carica di un fortissimo, ha anche sobbalzato sullo sgabello. Il movimento è stato eseguito con tale perfezione da scatenare un applauso vigoroso, fuori dalle normali consuetudini dei concerti cameristici e sinfonici (nei quali l’applauso è consentito solamente alla conclusa del brano), ma doveroso vista la perfezione della performance. La sonata si è conclusa ovviamente in modo impeccabile: ogni sfumatura delle dinamiche è stata eseguita in modo eccezionale, tra sorrisi accennati e precisione reciproca.

foto da Unione Musicale

La prima pausa del concerto è servita al pubblico per assimilare l’euforia e lo stupore nato da quello a cui avevano appena assistito. Il concerto è poi proseguito con la Sonatina in sol minore, op. 137 n° 3, D. 408 di Franz Schubert: un inizio forte e all’unisono, come scaturito dal primo respiro intenso del violinista che si è sentito fino alle ultime file della sala. Balzi dell’arco precisi, che nel secondo movimento si sono trasformati in un canto legato nato dal pianissimo: sembrava che i due musicisti stessero parlando tra di loro attraverso gli strumenti con estrema naturalezza.

La Sonata n° 3 in re minore, op. 108 di Johannes Brahms ha concluso il concerto, facendo già affiorare il dispiacere perché la serata volgeva al termine. Ad amplificare la sensazione ci ha pensato il secondo movimento, Adagio con la sua soavità venata di tristezza. Il suono di Vengerov era completamente legato: sembrava che l’arco non avesse inizio e fine per come riusciva a non staccare i suoni, facendoli continuare anche attraverso le doppie corde e trilli malinconici. Il Presto agitato ci ha riportato alla realtà. La pianista Osetinskaya, quando veniva richiesto il forte, ci metteva davvero tutta se stessa e Vengerov rispondeva con la stessa audacia.

foto da Unione Musicale

Vengerov e Osetisnskaya ci hanno regalato ben quattro bis, preceduti anche da un «grazie mille» nell’italiano impacciato del violinista russo. Eravamo noi a dover ringraziare, per quanto avevamo appena ascoltato e per ciò che stavamo per ascoltare. I primi tre bis sono stati Schön RosmarinLiebesleid e Liebesfreud di Fritz Kreisler e anche qui, in tutti e tre i brani, era impossibile non ammirarlo: siamo infatti stati avvolti da un fraseggio elegante e una cantabilità travolgente.

L’ultimo bis è stato un brano davvero emozionante di Rachmaninov, tratto da Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43: Variazione n° 18, Andante cantabile. Qui i due musicisti sono entrati in un altro universo: il vibrato di Vengerov è riuscito a scuotere gli animi, con una dolcezza, un’esplosione di suono che trasmette sia energia che malinconia, come solo lui sa fare.

Con i presenti visibilmente emozionati si conclude questo concerto. Sicuramente, quanti fra il pubblico erano violinisti o musicisti in generale sono tornati a casa con un bellissimo ricordo, ma anche con una lezione: se ha colpito il modo in cui Vengerov maneggia l’arco ed esegue passaggi tecnicamente complessi con estrema naturalezza, dando l’impressione che siano facili, forse più ancora ha impressionato l’umiltà con cui si è presentato sul palco. Non tutti, peraltro, avrebbero la generosità di offrire quattro bis, nonostante la grande fama che li precede.
Vengerov ci ha ringraziato sempre con un sorriso, mentre era lui a donarci, per una sera, il suo suono inimitabile. 

Francesca Modoni

Fabio Biondi e la Filarmonica TRT: il violino che dirige

Nella serata del 24 marzo la Filarmonica TRT ha proposto sul palco del Teatro Regio un programma raffinato e avvincente, con un ospite, Fabio Biondi, che ha offerto un’esperienza intensa, nelle vesti sia di direttore, sia di solista. Biondi è il Fondatore di Europa Galante, un ensemble italiano che grazie ad un’intensa attività concertistica ha ottenuto fama e riconoscimenti a livello internazionale. 

Al momento dell’ingresso in sala il pubblico ha trovato l’orchestra già sistemata sul palco, con i musicisti che accordavano i loro strumenti, rivedevano qualche passaggio impegnativo, o riordinavano le parti. Tutto molto naturale: un ingresso all’americana, utile per far mettere il pubblico a più stretto contatto con l’orchestra. La sala in poco tempo si è riempita totalmente. 

Allo spegnimento completo delle luci entra il primo violino che fa accordare gli orchestrali, per poi far entrare il direttore Biondi. Il concerto inizia con l’Overture in do maggiore, op. 24 di Fanny Mendelssohn, un tenero omaggio a una compositrice che dovette usare la musica solo come ornamento della sua vita: le convenzioni sociali dell’epoca non le permisero di intraprendere una carriera da compositrice. L’attacco è stato molto dolce: fin dalle prime note si è colta tutta la finezza di questo direttore, ma anche la bravura del primo violino, che è riuscito, nell’inizio di questa Overture, a ‘trainare’ per qualche secondo i violini che stavano rallentando. Biondi unisce controllo e scioltezza: tiene d’occhio tutti (perfino i contrabassi, che di solito vengono praticamente ignorati!), e molleggia a tempo, trasmettendo tutta la propria energia.

Foto da gallery di «Europa Galante»

Conclusa l’Overture, il direttore esce, seguito dai fiati, per poi rientrare da solo con il suo violino, per suonare da solista il Concerto in re minore per violino e archi, MWV 03 di Felix Mendelssohn-Bartholdy (lui sì che, a differenza della sorella, poté dedicare tutta la propria vita alla musica!). Inusuale scegliere questo concerto rispetto a quello in mi minore op. 64, spesso eseguito anche per concorsi e recital solistici; ma questa scelta è piaciuta molto, proprio perché è più raro ascoltarlo. Fabio Biondi con l’archetto dà il via all’orchestra, che esegue la piccola introduzione dell’Allegro: è sempre bello sentire gli archi uniti che danno corposità al movimento, e anche qui nella dolcezza della sua entrata si percepisce come Biondi si sia perfettamente sintonizzato con il mondo sonoro ed espressivo del compositore.

La nota dolente di questo concerto è stato il pubblico: non preparato, non “educato” ai concerti sinfonici. Applaudendo a sproposito dopo ogni movimento ha rotto la concentrazione del solista, che infatti nel secondo tempo non ha dato il massimo come prima. Il concerto è comunque proseguito, ovviamente, e si è notata la perfetta intesa fra Biondi e l’orchestra che lo ha ospitato, un’intesa che traspariva dal gioco di sguardi, dalla direzione sempre precisa impartita con i movimenti del corpo e dell’archetto, e perfino dal suo avvicinarsi ai leggii delle prime file per dare gli attacchi con ancora più chiarezza. Alla fine dei tre movimenti il pubblico scoppia in un applauso (finalmente al momento giusto!), e Biondi si volta a godersi i battimani. Nella breve pausa prima della seconda parte del concerto, va detto, il pubblico dà nuovamente il meglio di sé: cosa mai vorrà dire l’abbassarsi delle luci, se non che bisogna tornare ai propri posti, ma soprattutto fare silenzio? 

Foto da gallery di «Europa Galante»

La chiusura del concerto è affidata alla Sinfonia n°6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale” di Ludwig Van Beethoven, una delle sue opere più evocative. Avevo grandi aspettative per questa parte del programma, e devo dire che sono state più che soddisfatte. Tutta l’orchestra era perfettamente connessa: impeccabili nelle dinamiche, hanno fatto sentire benissimo ogni singola sfumatura di crescendo, invitandoci a entrare nel paesaggio sonoro beethoveniano con “un’espressione di sentimenti” che ha fatto commuovere. 

(Purtroppo ci risiamo, con una parte del pubblico che rompe l’incanto applaudendo dopo il primo movimento: qualcuno però intima il silenzio, e forse stavolta il messaggio arriva a destinazione…).

La sinfonia procede in modo eccellente: davvero bello vedere come il direttore e l’orchestra fossero fusi insieme. Biondi imperversa: balza sul posto, incita le viole, e porta la serata a una conclusione trionfale. Nessun bis, purtroppo, probabilmente per la grande concentrazione che questo programma ha richiesto. In ogni caso, nonostante le piccole disavventure con il pubblico, è stato un concerto memorabile: vedere un musicista che combina ai massimi livelli il ruolo di direttore e quello di solista è sempre un’esperienza speciale! 

Francesca Modoni

Capolavori riscoperti: Čajkovskij ed Elgar all’Auditorium Rai

“Puzzolente” non è l’aggettivo più comune per descrivere una composizione musicale, ma fu proprio così che il celebre musicologo Eduard Hanslick descrisse il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op.35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1878) dopo aver assistito alla prima esecuzione viennese nel 1881. L’opera in questione ha inaugurato la serata del 20 marzo 2025 all’Auditorium “Arturo Toscanini” di Torino: sul palco a dirigere l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, per la terza volta quest’anno, Robert Treviño e, al violino solista, un entusiasmante Augustin Hadelich. A seguire l’orchestra ha eseguito la Sinfonia n°2 in mi♭ maggiore, op.63 di Edward Elgar: sinfonia composta nel 1911 ma non molto conosciuta, tanto che l’Orchestra Rai (allora ancora Orchestra Sinfonica di Torino della Radio Italiana) non la eseguiva dal lontano 22 maggio 1953.

Il Concerto in re maggiore op.35, è l’unico concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. Questa composizione non ebbe un facile lancio: stroncata dai critici appunto come Hanslick, la consideravano musica rozza, vede il violino quasi provare a contorcersi per esprimere emozioni intense attraverso suoni non prettamente puri e puliti. Oggi questa caratteristica, tanto criticata all’epoca, viene considerata proprio come un tratto distintivo e di grande interesse dell’opera. Oltre a problemi con la critica, il compositore russo ebbe difficoltà a trovare un interprete solista che accettasse il lavoro. Dopo molti rifiuti da parte di grandi violinisti del calibro di Josif Kotek, Čajkovskij riuscì, nel 1881, a fare eseguire la composizione da un giovane Adol’f Brodskij. 

Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai

Se i rifiuti da parte di molti violinisti dell’epoca furono dovuti anche alla difficoltà tecnica del concerto, Hadelich non ne è sembrato per nulla intimidito: ci ha regalato, anzi, un’interpretazione magistrale, con tecnica impeccabile e un suono ammaliante. Alla fine dell’esecuzione, la sua bravura ha scatenato uno scroscio di applausi entusiasti. E così Hadelich ha imbracciato nuovamente lo strumento per eseguire, fuori programma, “Por una Cabeza”, un tango di Carlos Gardel in una versione per violino solo che ha realizzato lui stesso. 

Dopo la pausa il concerto riprende con la Seconda di Elgar (1911): meno celebre della sua Prima sinfonia, si articola in quattro movimenti (Allegro vivace e nobilmente, Larghetto, Rondò, Moderato e maestoso) che cercano un equilibrio tra tradizione e innovazione. La sinfonia si sviluppa così in un arco espressivo ampio, che viaggia dal romanticismo alle sperimentazioni novecentesche trasmettendo sbalzi emotivi e sentimenti profondi, ma con i suoi 53 minuti può talvolta risultare alquanto impegnativo per l’ascoltatore. L’interpretazione di Robert Treviño ne enfatizza la complessità, restituendo i contrasti tra lirismo e drammaticità tipici del compositore.

Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai

Il concerto ha insomma unito capolavori riscoperti e talenti contemporanei, dimostrando come la musica possa ribaltare i giudizi del passato. Per chi se lo fosse perso, è stato registrato e trasmesso in diretta su Rai Radio 3 per Il Cartellone di Radio 3 Suite, quindi è disponibile su RaiPlay Sound. Inoltre la serata è stata ripresa per Rai Cultura e sarà trasmessa il 22 maggio 2025 su Rai 5.

Marta Miron

Lezione-concerto di Unione Musicale sul folklore nella musica classica 

Sabato 8 marzo, si è tenuta al Teatro Vittoria l’ultima lezione-concerto Solo per le tue orecchie, un progetto interattivo pensato per guidare un pubblico di appassionati verso un ascolto più consapevole della musica classica. Matteo Borsarelli e Eugenio Catale (al pianoforte e al violoncello) sono stati gli interpreti della serata, insieme ad Antonio Valentino, docente al Conservatorio Verdi di Torino e direttore artistico di Unione Musicale. Valentino, con la sua competenza tecnica e storica, ha illustrato le particolarità di compositori che hanno assorbito le tradizioni musicali della loro terra trasformandole in musica colta. Il programma è stato suddiviso in tre sezioni: le Danze popolari rumene di Béla Bartók, la Suite Italienne di Igor’ Stravinskij e Le Grand Tango di Astor Piazzolla.

Foto da ufficio stampa Unione Musicale

Valentino ha dapprima introdotto Béla Bartók, compositore ungherese, pioniere dell’etnomusicologia che realizzò una quantità incredibile di raccolte di musiche popolari soprattutto della Transilvania. 
Le Danze popolari rumene sono suddivise in sei danze, caratterizzate da tratti peculiari che Valentino ha descritto dando chiare spiegazioni tecniche, affiancate dagli esempi musicali dei due interpreti. 

La prima, La Danza del Bastone, ha un ritmo fortemente irregolare. Il nome proviene da una danza tradizionale eseguita da uomini con un bastone in mano che si sfidavano in movimenti coreografici. Segue La Danza della Fascia, di origine serba, in cui la pulsazione regolare del pianoforte si mantiene mentre il tempo si fa più brillante. La terza danza è La Danza sul Posto: il movimento dei ballerini infatti è particolarmente limitato, perciò il suono del pianoforte diventa ipnotico e statico, mentre il violoncello si inserisce con piccole fioriture arabeggianti. La quarta danza è detta La Danza del Corno ed è di stampo tradizionale e pastorale, con un carattere lirico e contemplativo. 
La quinta danza è una polka, danza tradizionale polacca che qui assume un carattere allegro e spensierato. La danza conclusiva risulta inizialmente lenta per poi diventare più rapida e affine alla danza precedente. 
Dopo aver suonato degli estratti per integrare le spiegazioni del relatore, Borsarelli e Catale hanno eseguito per intero le Danze popolari rumene, con qualche applauso nel mezzo e una grande ovazione finale.

La seconda parte della serata è stata dedicata a Igor’ Stravinskij, compositore che per la prima parte della sua carriera si dedicò alla composizione di brani per balletti sotto ingaggio di Sergei Diaghilev, impresario che rese noti i Balletti Russi a Parigi. Ne nacquero capolavori come L’uccello di fuoco, Petrushka e La sagra della primavera (quest’ultima fece scalpore per la sua modernità ‘primitiva’). 

La Suite Italienne proviene dalla tradizione della musica antica italiana, in particolare dalle opere di Pergolesi, che portarono Stravinskij a un nuovo periodo stilistico, caratterizzato da una sperimentazione basata, fra altre cose, su un utilizzo apparentemente incongruo degli strumenti.

L’estratto è estrapolato dalla Serenata, seguito dall’Aria e dalla Tarantella. La rapidità del pianoforte nella Serenata rimanda al mandolino mentre il violoncello riprende le sonorità tipiche del tamburello. L’Aria è un brano molto brillante che Stravinskij comincia con una serie di pizzicati massicci che evocano un senso di ruvidità, per poi passare al tipico suono dell’arco. L’ultimo brano è la Tarantella ed è particolarmente complesso in quanto caratterizzato da un estremo virtuosismo. L’esibizione colpisce gli spettatori ipnotizzandoli e termina con qualche esclamazione relativa alla bravura dei due interpreti.

La lezione-concerto si conclude con Le grand Tango di Piazzolla, il quale reinventò il tango in chiave colta e contemporanea. Valentino ha spiegato come il tango sia sorto a fine Ottocento tra la capitale dell’Argentina, Buenos Aires, e quella dell’Uruguay, Montevideo, due città molto vicine unite dal Rio de la Plata. Il genere aveva radici profonde nel ceto popolare portuale e veniva ballato soprattutto nei bordelli, per cui suscitò fin da subito scandalo. 

Il brano è eseguito secondo la versione originale, senza necessità di arrangiamenti. 
Piazzolla, per mantenere alto l’interesse, trasforma la ripartizione binaria tipica del tango in una suddivisione più intrigante e frammentata, la quale viene diretta dal pianoforte e seguita dal violoncello, che si unisce seguendone il ritmo oscillatorio.
Durante l’esecuzione, il ritmo ossessivo tiene agganciato il pubblico, soprattutto nel finale, quando diventa sempre più tormentato, strappando un grande applauso, seguito da un’acclamazione collettiva.

La sesta lezione-concerto giunge al termine. Dopo un paio di domande relative all’esibizione, assistiamo alla conclusione, per quest’anno, del progetto “Solo per le tue orecchie” che, giunto alla terza edizione, è apprezzato più che mai.

A cura di Maria Scaletta

Primo concerto di Rai NuovaMusica

«La musica contemporanea mi butta giù» cantava Battiato, criticando un sistema compositivo che separava la produzione musicale di consumo dalle sperimentazioni più estreme. Quarant’anni dopo noi viviamo in un vortice musicale che contiene tutto e di più, con sempre meno distinzioni. L’evoluzione della musica classica o colta contemporanea ne è un fatto esemplare: da decenni si scardinano le regole interne, esplorando timbri sonori anomali e strutture compositive atipiche, ma tutto questo avviene dentro istituzioni tradizionali che da tempo ormai promuovono e stimolano l’interesse verso qualcosa di diverso. 

È questo il caso della rassegna Rai NuovaMusica, dedicata interamente all’esecuzioni di brani contemporanei. Il primo appuntamento di questa stagione si è svolto giovedì 6 marzo presso l’Auditorium Rai “Arturo Toscanini”: un lungo concerto dal programma variegato che ha visto sul podio il direttore francese Pascal Rophé e l’esibizione del violoncellista Mario Brunello. Il primo è un allievo di Pierre Boulez e direttore musicale dell’Orchestre national des Pays de la Loire, il secondo invece è stato il primo europeo a vincere il concorso Čaikovskij a Mosca e vanta un vasto repertorio, dal barocco al jazz.

In apertura si viene avvisati di un’inversione dell’ordine dei brani rispetto a quello indicato sul programma di sala, probabilmente dettata dai necessari cambi dell’organico orchestrale. Si inizia quindi con un brano del 2016, Dialog mit Mozart di Peter Eötvös, compositore ungherese scomparso lo scorso anno. Una sorta di intervista impossibile che punta a rielaborare frammenti di temi mozartiani in modo personale. L’esecuzione ci restituisce in modo preciso e scorrevole tutte le sottili evoluzioni di questa composizione ciclica.

Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai

Dopo una breve pausa sale sul palco Mario Brunello, che prende subito un microfono in mano e ci introduce al brano T.S.D., composto nel 2018 dal georgiano Giya Kancheli. Si rimane impietriti di fronte all’abisso e ai silenzi in cui ci immerge il suono del violoncello. Tutto si svolge lentamente, Brunello segue la sua partitura scorrere su un tablet, Rophé dirige senza bacchetta e con gesti enfatici i momenti più contemplativi e spirituali della composizione. Le accensioni sonore sono ben ponderate con frammenti più semplici e statici. Brunello conclude l’esecuzione con calma e malinconia, prendendosi tutto il tempo per abbassare l’arco prima degli applausi che incitano subito all’encore. Al secondo rientro sul palco, il violoncellista esegue il terzo movimento della Sonata per violoncello di George Crumb, un breve saggio di tecniche esecutive non convenzionali. 

Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai

Intervallo. Ritornati in sala vediamo molti più musicisti sul palco. Si passa a Gli occhi che si fermano, composizione del 2009 di Francesco Antonioni, che ascolta seduto in platea. “Canzone mononota tutta giocata sul re in una combinazione di timbri e durate che creano quasi un effetto magico di messa a fuoco uditiva dei singoli suoni. L’energia interna viene sprigionata dall’intera orchestra in modo graduale. La direzione di Rophé è severa e marcata su ogni cambio di dinamica e ritmo. Tutto diventa metafora sonora di un viaggio che sembra infinito ma dura solo pochi minuti. Applausi ripetuti anche per Antonioni, che viene richiamato sul palco dal direttore.

Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai

Gran finale. Si aggiungono altri strumenti, tra cui chitarra elettrica, organo Hammond e cimbalon. Si chiude il cerchio ritornando al punto di partenza con Eötvös e una sua composizione del 2018, Reading Malevich: una rilettura musicale divisa in due parti, orizzontale e verticale, del quadro Composizione suprematista N° 56, realizzato nel 1916 dal pittore Kazimir Malevich. Il tempo diventa impulso sospeso, e ancora una volta Rophé è preciso nei suoi gesti, che si fanno energici nell’abbracciare ogni sfumatura timbrica e armonica. Così il concerto finisce, non con un botto ma con un lamento. Seguono numerosi applausi: il direttore viene richiamato più volte sul palco, fino a quando decide di prendere la partitura dal leggio, mostrarla al pubblico e congedarsi definitivamente. 

Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai

Col senno di poi l’ordine iniziale sarebbe stato più coerente per sonorità e stili compositivi, ma il risultato musicale è stato comunque di grande coinvolgimento uditivo ed emotivo. Merito di un’orchestra che si dimostra ancora una volta versatile e aperta a nuove sfide, che il pubblico accoglie con entusiasmo. 

A cura di Alessandro Camiolo

Quartetto Jerusalem: l’incanto cameristico 

La sera del 19 febbraio Unione Musicale ha portato sul palco dell’auditorium del Conservatorio «Giuseppe Verdi» il Quartetto Jerusalem. Il quartetto israeliano, composto da Alexander PavlovskySergei BreslerOri Kam e Kyril Zlotnikov, vanta una storia trentennale: formatosi infatti nel 1993, ha debuttato per la prima volta nel 1996. 

La serata ha visto l’esecuzione di un programma che includeva epoche e stili diversi, dal classicismo di Mozart alla modernità inquieta di Šostakovič, fino al calore espressivo del romanticismo del quintetto di Brahms. Quest’ultimo ha incluso la partecipazione della clarinettista Sharon Kam, nota protagonista del panorama cameristico ed ospite dei principali festival internazionali, si dedica non solo alla musica classica, ma spazia anche verso il jazz. 

Quando si spengono le luci dell’auditorium ed entrano i quattro musicisti, comincia la magia.
La serata si apre con Wolfgang Amadeus Mozart ed il Quartetto in do maggiore per archi K.465 (Le Dissonanze), ultimo di un ciclo di sei quartetti che Mozart dedicò ad Haydn, chiamato così per l’introduzione di armonie insolite per l’epoca nel primo movimento. Il violoncello fa strada, seguito a turno dagli altri componenti, instaurando un’atmosfera cupa e misteriosa.

Bastano poche battute per cogliere le capacità degli strumentisti. Attraverso la loro coesione nel suonare riescono ad esaltare questo capolavoro mozartiano. Ogni movimento è stato curato nel minimo dettaglio espressivo: Pavlovsky, primo violino, ci ha mostrato la sua cantabilità espressiva, mentre il violoncellista K. Zlotnikov rispondeva con passaggi di scrittura simile, creando un dialogo musicale di grande suggestione. Il suono è elegante e dinamico, i fraseggi legati tra di loro fanno capire perfettamente l’intenzione del compositore.

Nell’ultimo movimento, i musicisti non si risparmiano nell’intensità dell’esecuzione, riuscendo a renderlo frizzante nelle sue diverse riprese variate, diventando come un corpo unico e suscitando nella conclusione un immediato applauso, fortissimo, da parte di tutto il pubblico. 

Il panorama sonoro cambia totalmente con una delle ultime composizioni di Dimitrij Šostakovič: il Quartetto n° 12 in re bemolle minore per archi op.133. Il violoncello apre con una scala progressiva ascendente, la protagonista del primo movimento, che verrà infatti ripresa da ciascun componente. I musicisti ci hanno fatto entrare nel loro mondo, esaltando in modo eccellente le dinamiche creando tensioni per poi liberarle, scambiandosi sguardi che facevano sentire ancora di più la loro coesione. Successivamente il discorso cambia, dando vita ad impulsi che caratterizzano il secondo movimento con accenti forti e pizzicati precisi. Il violoncellista emerge nuovamente nelle piccole cadenze: un suono deciso, un vibrato forte dalla sensibilità travolgente. È un movimento davvero arduo, ma l’esecuzione è impeccabile. Il pubblico manifesta entusiasmo applaudendo nuovamente in modo energico. 

foto da Unione Musicale, Sharon Kam

Nell’ultima parte del programma i musicisti hanno suonato il Quintetto in si minore per clarinetto e archi op. 115 di Johannes Brahms, con l’ospite Sharon Kam. In questo caso esordiscono i due violini, e basta questo attacco per coglierne l’espressività: sembrano collegati da un filo. La clarinettista si è fatta riconoscere con il suo suono corposo e tondeggiante: una bellissima scoperta.

A seguire il clarinetto viene sostenuto dagli archi: quando inizia a dialogare con il primo violino sembra essere stati catapultati in una favola.

Ricevono ancora una volta grandi applausi, e così decidono di regalarci un bellissimo bis: se hanno iniziato con Mozart, come ha detto la clarinettista Sharon Kam non potevano non finire con lui. Ci suonano, dunque, con altrettanta maestria, il Quintetto per clarinetto e archi in la maggiore K. 581 di Mozart.

Il Quartetto Jerusalem è riuscito ad esaltare questi capolavori cameristici: si percepisce con chiarezza l’intesa unica che hanno saputo creare negli anni, e che si traduce in esecuzioni magistrali dal sound affilatissimo. Una favolosa serata musicale che sicuramente in molti porteranno nel cuore. 

A cura di Francesca Modoni