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Musica e letteratura al Salone del Libro di Torino: quarta giornata

Il Salone Internazionale del Libro di Torino offre ogni anno un ricco programma di incontri di ogni genere, pensati per soddisfare i gusti più diversi dei visitatori. Nonostante la letteratura sia il fulcro del Salone, anche altre forme d’arte trovano spazio tra gli eventi in calendario. Domenica 18 maggio, quarto e penultimo giorno della manifestazione, sono previsti appuntamenti che coinvolgono anche il mondo musicale. 

Nel pomeriggio, ad esempio, si segnalano numerosi incontri tra cui la presentazione di Michele Rossi con il suo libro Condotti da fragili desideri. Parole e liturgie dei CCCP- Fedeli alla linea, un’opera che esplora la storia e la poetica della celebre band italiana attraverso l’analisi di alcune delle loro canzoni più iconiche. Sempre nello stesso giorno, Francesco Lorenzi, autore del libro per l’infanzia La musica del bosco (Effatà), nonché cantante della band THE SUN, è protagonista di un incontro dedicato ai più piccoli. Infine, Ermal Meta presenta il suo nuovo romanzo Le camelie invernali edito da La nave di Teseo, portando la sua esperienza di artista a cavallo tra letteratura e musica.

Foto di Luciano Nervo

Michele Rossi presenta il suo nuovo libro con Condotti da fragili desideri. Parole e liturgie dei

CCCP – Fedeli alla linea, un canzoniere commentato che offre un’analisi approfondita e personale della celebre band punk italiana degli anni ’80. Nel volume, Rossi, biografo di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, fondatori del gruppo, racconta la storia dei CCCP attraverso la vita dei due componenti principali, la loro esperienza insieme e l’evoluzione della band, esaminando in dettaglio diciannove canzoni emblematiche.

Il libro non si limita a una semplice raccolta di testi, ma diventa un viaggio nel contesto storico, culturale e letterario che ha influenzato la band, con note che svelano il significato nascosto dietro ogni brano. Rossi sottolinea come Berlino rappresenti una città simbolo per la storia dei CCCP, teatro di alcune delle loro esibizioni più significative e luogo emblematico della loro identità punk e post-punk, in netto contrasto con Reggio Emilia, loro città natale.

Attraverso un’accurata ricostruzione, l’autore mostra come i CCCP abbiano incarnato l’ultima avanguardia italiana del Novecento. Dal punto di vista musicale, molto interessante è il loro accostamento tra il genere punk e il liscio, un tentativo di unire modernità e tradizione.

Dopo la presentazione del libro, Rossi prosegue l’incontro coinvolgendo il pubblico, invitandolo a proporre canzoni del gruppo emiliano da analizzare insieme sul momento. 

La presentazione di Francesco Lorenzi è moderata dal comico Gigi Cotichella, e dà  vita a un vero e proprio spettacolo. Lorenzi è il frontman dei THE SUN, un gruppo punk, pop e Christian rock nato nel Vicentino alla fine degli anni Novanta.

Lorenzi presenta il suo libro per bambini La musica del bosco, una storia in cui gli animali prendono spunto dalla vita dell’artista e della sua band, con la parola “sole” che ricorre costantemente, proprio come nel nome del gruppo. L’autore afferma che la decisione di scrivere un libro per più giovani è nata dalla presenza molto attiva di numerosi bambini a tutti i loro concerti.

Dopo la presentazione, il gruppo propone alcune canzoni per allietare il pubblico e rendere l’evento più dinamico. Come nel libro, anche nelle canzoni la parola “sole” è ricorrente, quasi come una firma distintiva.

Per concludere, Ermal Meta, cantautore di origini albanesi, presenta il suo secondo romanzo Le camelie invernali, pubblicato da La nave di Teseo, segnando il suo ritorno alla scrittura dopo il primo libro Domani e per sempre (2022).

Foto di Giulia Fasano

L’evento è stato organizzato per essere accessibile a un pubblico ampio, con la presenza di un traduttore LIS e sottotitoli, in modo da permettere anche ai non udenti di seguire la presentazione.

Nel romanzo, Ermal Meta si ispira alla sua infanzia in Albania, raccontando una storia di tensioni e conflitti tra due famiglie ricche di segreti, ambientata nell’Albania post-comunista durante il periodo delle grandi migrazioni verso l’Italia. La presentazione, pur parlando poco di musica, ha saputo coinvolgere il pubblico suscitando curiosità sul romanzo e i suoi temi profondi.

In sintesi, la giornata ha offerto un ricco panorama di incontri che hanno saputo unire musica, letteratura e cultura, coinvolgendo un pubblico variegato e appassionato attraverso storie, analisi e performance dal vivo.

Marta Miron

Il sabato al Salone del Libro 2025: tra jazz e introspezione giovanile

Sabato 17 maggio 2025, il Salone Internazionale del Libro di Torino ha vissuto una delle sue giornate più intense e partecipate. Come ogni anno, il Lingotto Fiere ha accolto ospiti e visitatori da tutta Italia, con incontri che hanno spaziato dalla letteratura alla musica, dalla psicologia alla cultura pop. 

Come primo evento della giornata al quale abbiamo partecipato, si è svolta la presentazione della nuova edizione di “Storia del Jazz. Una prospettiva globale”, di Stefano Zenni, introdotto da Jacopo Tomatis e da un intervento al contrabbasso di Furio Di Castri. Il talk ha proposto una visione aperta e critica del genere musicale oggetto del libro. A partire dal libro “I segreti del jazz” (2008), Zenni ha riflettuto sul jazz come un’etichetta fluida che ha abbracciato e definito diverse tipologie di musica. Negli anni ’20 era un termine inclusivo, ma già negli anni ’50-’60 artisti come Sinatra, il cui lavoro presenta arrangiamenti jazz evidenti, venivano esclusi dalla definizione. Oggi il jazz sopravvive come linguaggio che attraversa generi, lasciando tracce anche dove non lo si nomina.

Di Castri ha sottolineato come la storia del jazz, inizialmente lineare, si apra a molteplici influenze nel secondo Novecento. Da qui l’approccio di Zenni: una narrazione che non solo racconta gli sviluppi musicali, ma riflette su cosa includere, su come si costruisce una storia. Centrale è il tema del gender gap: Zenni recupera figure femminili straordinarie, non come eccezioni ma come protagoniste alla pari, integrandole nella storia del jazz senza ghettizzazioni.

Una delle conversazioni più attese si è svolta nel primo pomeriggio, ed è stata l’incontro tra il rapper Salmo e lo psicoterapeuta Matteo Lancini, curatore della nuova sezione tematica “Crescere”. L’evento, ispirato al primo libro di Salmo, l’autobiografia “Sottopelle”, ha offerto al pubblico una riflessione sincera sulle emozioni che accompagnano la crescita personale. Salmo ha condiviso esperienze legate alla rabbia, alla tristezza e alla paura, sottolineando come queste emozioni, spesso legate ai suoi traumi familiari, siano state fondamentali nel suo percorso artistico e umano, dapprima nel writing e nei graffiti per poi sfociare nel rap e oggi anche nel cinema. Lancini, insieme alle ragazze del gruppo Tutto annodato, un collettivo composto da giovani che si occupa di sensibilizzare sulla salute mentale, ha guidato la conversazione, evidenziando l’importanza di riconoscere e affrontare le proprie fragilità.

In conclusione, il Salone del Libro di Torino ha dimostrato come la cultura possa essere uno strumento potente per esplorare sé stessi e il mondo che ci circonda, non solo come una vetrina editoriale, ma come un luogo di crescita personale e un’occasione per toccare con mano i mondi che accompagnano il nostro tempo libero. In un’epoca in cui il dialogo e l’ascolto sono più che mai necessari, eventi come questi ci ricordano l’importanza di fermarsi, riflettere e condividere esperienze. 

Martina e Benedetta Vergnano 

Quando la musica e le storie si incontrano: un venerdì al Salone del Libro 2025

La musica si fa parola e la parola diventa musica. L’edizione 2025 del Salone del Libro ha dimostrato come letteratura, storia e musica possano intrecciarsi e fondersi in un’unica esperienza.

Il 16 maggio, quattro incontri diversi tra loro hanno seguito un filo rosso comune, dando voce a temi ricorrenti e parole che, come un’eco, si sono ripetute cambiando forma.

L’IO E IL NOI: LUCIANO LIGABUE E MATTEO ZUPPI

Chi lo avrebbe mai detto che un rocker di Correggio e un cardinale avrebbero formato un duo irresistibile? Eppure, Luciano Ligabue e Matteo Zuppi hanno regalato all’auditorium del Lingotto, colmo di persone, una conversazione densa di riflessioni sulla vita, sulla musica, sulla necessità di raccontarsi, ma anche di sorrisi e risate.

«Per vivere la Storia, con la S maiuscola, bisogna ascoltare e leggere tante storie per capire quanto sia importante passare dall’Io al Noi». Da questa riflessione di Gigio Rancilio è cominciato il dialogo tra queste due figure unite dal bisogno di raccontare e condividere storie.
Ligabue, abituato a vivere i palchi, ha svelato quanto la parola cantata abbia un peso ben diverso da quella detta, «può essere più leggera o più pesante e profonda»; il cardinale ha ricordato che «chi canta prega due volte… la musica permette di raccontare ciò che non si riesce a dire. Mettere in circolo, è l’unico modo per relativizzare l’Io». Il potere della parola è infatti tema centrale nell’edizione 2025 del Salone che ha come slogan “Le parole tra noi leggere”.

Non è un caso che Ligabue abbia ripercorso la sua carriera parlando di responsabilità: «Quando ho cominciato non volevo lavorare… volevo esercitare una passione, volevo cantare. Ma quando ti rendi conto che ci sono persone che si tatuano una tua frase, vuol dire che non lo puoi più fare in maniera così leggera: si alza, per fortuna, un livello di responsabilità. Capisci che puoi essere utile, essere un sostegno e un supporto soprattutto per chi sta passando un momento difficile».

Come ha ricordato il cantautore, la musica ha cambiato forma e potenza: se una volta si cantava per il bisogno di dire qualcosa, questo bisogno oggi rischia e viene sopraffatto dalla necessità di apparire.

Foto di Giulia Fasano, da cartella stampa Salone del Libro

Il senso di comunità, quel Noi che per Zuppi è fondamentale per il benessere dell’Io, Ligabue lo ritrova nel legame con il suo pubblico: una fiducia incondizionata che i fan ripongono nel cantautore e che merita, in cambio, un’apertura emotiva autentica.
Nella sua autobiografia, Una storia, Ligabue apre il suo cuore e la sua vita ai lettori, condividendo anche il dolore più grande: la perdita del figlio appena nato.

«In pandemia, quando c’era una totale incertezza del futuro, e il presente era un limbo, non si poteva fare altro che guardare al passato. Ho capito che quella poteva essere l’occasione per fare chiarezza sulle emozioni che mi hanno accompagnato. Questo libro è l’atto più estremo di svelamento di me stesso».

Il dolore, per Zuppi, è difficile da classificare. Inizia da qui una riflessione su temi attuali che hanno toccato profondamente tutti.

«Come si fa a controllare il dolore quando i bambini muoiono di freddo? E quando muoiono nella Striscia di Gaza? Questa cosa ci deve fare paura! La guerra è la più grande paura. Oggi si parla di riarmo, si tracciano confini… è una follia. La paura deve diventare consapevolezza e speranza. L’individualismo non fa bene e il sovranismo non ha futuro».

Foto di Giulia Fasano, da cartella stampa Salone del Libro

Chissà se Dio si sente solo”, brano del 2023, esplora le paure, quelle che ci rendono soli e che ci fanno perdere il senso del Noi, lasciandoci smarriti. Ligabue riflette su un decennio segnato da eventi drammatici, per citarne solo alcuni: la pandemia, la guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Seppur laico, il cantautore esprime un profondo bisogno di spiritualità e ricerca e, nel tentativo di umanizzare Dio, si chiede «e se anche Dio si sentisse abbandonato da noi?». Un pensiero che va al di là della religione e che si lega alla necessità di ritrovare una dimensione collettiva, una comunità che restituisca speranza.

La pace e la speranza sono state cantate nel 1999 da Ligabue, insieme a Piero Pelù e Jovanotti, nel brano “Il mio nome è mai più”. «Oggi – afferma il cantautore – è più difficile far arrivare le canzoni: escono tantissime canzoni che mediamente hanno una vita più breve e, forse, non lasciano una traccia profonda. Quando ho iniziato guardavo a Francesco (Guccini) e a Fabrizio (De André)… cantare era un atto istintivo, cantare era una conseguenza dello scrivere».
Il brano, che denuncia la guerra, nasce dopo richieste esplicite da parte di figure politiche – presidente del consiglio e segretari di partito – che sollecitavano i musicisti a fare qualcosa. Ma Ligabue e i suoi colleghi hanno risposto chiaramente: «Non è la musica a dover fare qualcosa, ma è la politica che deve agire!».

Tuttavia il senso di responsabilità ha prevalso: hanno prodotto il brano e abbracciato la causa di Emergency, riuscendo a finanziare la costruzione di due ospedali in Afghanistan.
È un chiaro segnale che dimostra come la musica possa essere qualcosa di più di un mero intrattenimento, può diventare un atto di protesta, di presa di coscienza, di speranza ma che purtroppo non può sostituirsi alla politica: può evidenziare i problemi, farli risuonare nelle menti e nei cuori, creare opportunità e nutrire l’anima ma, alla fine, è la politica l’unica ad avere il potere di prendere decisioni e di agire concretamente.

UNA RIVOLUZIONE MUSICALE: STEFANO PISTOLINI E ODERSO RUBINI

Nel libro Qual è quello che canta? Resoconto di una band minore, Stefano Pistolini ci porta in un’epoca in cui la musica non era solo un mezzo di intrattenimento, ma un atto di resistenza culturale, una vera e propria esperienza collettiva. Negli anni ’70 e ’80 nacque un fermento musicale che si opponeva alle logiche dei cantautori: il punk e la new wave trasformavano il suono in un manifesto di ribellione e appartenenza.

Impossibile non trovare punti di contatto con il dialogo tra Ligabue e Zuppi: la musica è cambiata, il modo di produrla è cambiato e anche il rapporto tra musica e società.
Se negli anni ’70 e ’80 la musica si faceva per il piacere di farla, oggi – come sottolinea Pistolini– si tende a cercare la via più veloce per ottenere il successo. Afferma l’autore: «Fare musica era un’esperienza collettiva, i suoni avevano un valore trasgressivo, dissacrante e innovativo».

Pistolini ci porta in un’Italia di fine anni ’70, in particolare nella città di Bologna dove prende forma una scena musicale che mescola creatività, politica e sperimentazione.
In quel periodo Oderso Rubini diventò un catalizzatore della rivoluzione musicale che stava nascendo (è interessante anche ricordare come in quegli anni al Conservatorio di Bologna sia nato il primo corso di musica elettronica).
Rubini diede vita, insieme ad alcuni compagni di corso, ad un piccolo studio di registrazione in Via S. Felice che poi si trasformerà nella cooperativa Harpo’s Bazaar. Grazie alla produzione di una cassetta degli Skiantos, la cooperativa entrò in contatto con Gianni Sassi (capo della Cramps Records). Successivamente, la direzione artistica della Ricordi propose a Rubini un contratto che permise alla Harpo’s Bazar di diventare una vera casa discografica.
Dopo il successo del Bologna Rock, evento musicale organizzato nel 1979 che riunì gruppi allora sconosciuti e radunò seimila persone, Rubini fondò la Italian Records.

Il libro dipinge il ritratto di un’epoca che le nuove generazioni non hanno vissuto e probabilmente non avranno modo di sperimentare. Oggi la musica è sempre più accessibile, è presente ovunque e l’esperienza che un tempo accompagnava la creazione e la fruizione di musica, sembra dissolversi.

MUSICA E GIUSTIZIA IN DE ANDRÈ: FABRIZIO BARTELLONI 

Esistono artisti che si limitano a raccontare il mondo, ma ci sono anche quelli che il mondo lo ribaltano, lo smontano, lo ricostruiscono guardandolo da un’altra prospettiva. Fabrizio De André appartiene a questa ultima categoria: è – come lo definisce Fabrizio Bartelloni – il più grande insinuatore di domande e non un dispensatore di certezze.
La sua musica invita a liberarsi dalle proprie maschere e strutture sociali per poter indossare i panni altrui, a comprendere e non giudicare.

Fabrizio Bartelloni, avvocato e scrittore, ha pubblicato in concomitanza con il Salone del Libro Al vostro posto non ci so stare: un testo che ripercorre la carriera del cantautore genovese, De André, con una particolare attenzione alla visione dell’artista sul tema della giustizia e sul suo rifiuto di mettersi nella posizione di chi giudica.
La Camera Penale di Pisa ha patrocinato il libro riconoscendo nella poetica di De André e nel testo di Bartelloni un potente veicolo di riflessione sulla giustizia e sulla pena.

Il cantautore, negli anni ’60, fu una figura rivoluzionaria e dirompente per l’epoca, tanto da essere spesso censurato. I temi dell’illegalità – come ricorda Bartelloni – erano stati sfiorati da altri autori come Fred Buscaglione, ma De André, ispirandosi al cantautorato francese di George Brassens, fu tra i primi a raccontare storie di personaggi marginali e marginalizzati. L’ossessione per la giustizia, l’emarginazione e la condizione umana è stata il filo conduttore della sua esistenza.

Il pescatore”, secondo Bartelloni, è il brano in cui traspare maggiormente l’essenza della sua idea di giustizia: De Andrè/il pescatore rifiuta di prendere la posizione di giudice e accoglie l’essere umano per quello che è («versò il vino e spezzò il pane//per chi diceva ho sete ho fame»), saranno i gendarmi «in sella e con le armi» a giudicare la colpevolezza o l’innocenza dell’assassino che aveva «due occhi grandi da bambino//due occhi enormi di paura». De Andrè non riduce l’uomo al singolo gesto compiuto perché ritiene che il comportamento umano, attuato in un determinato momento, possa essere generato da mille ragioni. Il cantautore cerca di capire l’essere umano e il perché delle sue scelte.

Esiste una sproporzione tra il gesto e la punizione associata al punto da trasformare le carceri in luoghi di anime già morte. La società finisce per dimenticare coloro che stanno in carcere, relegando i detenuti a una condizione di abbandono. Invece di essere un luogo di rieducazione e reinserimento, diventa un limbo sociale, dove chi ha commesso un errore viene stigmatizzato.
La Ballata del Miché” ne è un esempio: Michele Aiello, uomo dall’identità incerta trasferitosi a Genova dal sud dell’Italia, ha ucciso un uomo per salvare la sua amata, viene condannato a venti anni di carcere ma si toglie la vita per ottenere la libertà. Persino la sua morte viene disprezzata: «Nella fossa comune cadrà//senza il prete e la messa//perché di un suicida non hanno pietà». Per De André negare un funerale e una degna sepoltura è l’ultimo impietoso atto di una giustizia cieca.

«Il carcere negli anni ’60 è un luogo dove la vita finiva» ha affermato Bartelloni «questo è un messaggio rivoluzionario per gli anni ’60, ma lo è anche oggi nel 2025… e forse è questo il vero problema».
Negli anni ’90 De André visitò un carcere in Sardegna, e riconsiderò la sua posizione: il carcere, se pensato in modo diverso, può trasformarsi in un ambiente di reinserimento educativo. Il problema resta il sovraffollamento che impedisce agli strumenti di operare nell’ottica della risocializzazione.

In “Don Raffaè” il cantautore denuncia non solo le condizioni disumane delle carceri ma anche il vuoto lasciato dallo Stato nei territori in cui la criminalità organizzata diventa l’unica alternativa. Un tema attuale che riecheggia nelle parole di Ligabue quando afferma che la musica può evidenziare i problemi ma non può sostituirsi allo Stato.

Ancora una volta, anche con questa conferenza si evidenzia come le storie raccontate attraverso la musica si trasformino in un atto di denuncia e in una forma di presa di coscienza.

RACCONTI RESISTENTI: MODENA CITY RAMBLERS

Alzare il volume della musica dei Modena City Ramblers era quasi un rito in molte case: musica trascinante, sempre presente e che – diciamolo – faceva storcere il naso di qualche vicino… ma chi può lamentarsi di un po’ di sana musica folk-rock che racconta la lotta e la libertà? Se dobbiamo disturbare, meglio farlo con stile!

Generazioni intere si sono ritrovate, volenti o nolenti, a canticchiare le loro canzoni, a ballare sui ritmi trascinanti che mescolano tradizione e ribellione. È difficile toglierseli dalla testa e dalle orecchie e, forse, è giusto così perché certe storie vanno raccontate e tramandate. Anche ad anni di distanza, le loro musiche risuonano forti perché la Resistenza non è solo quella di ieri ma anche quella di oggi.

Al Salone del Libro, però, le parole hanno preso il posto delle note. In occasione dell’80° anniversario della liberazione dell’Italia e il 20° anniversario dell’album Appunti Partigiani, i MCR hanno deciso di assumere le vesti di scrittori (anche se lo sono sempre stati – ricordiamo la frase citata sopra: «cantare era una conseguenza dello scrivere»). Hanno scritto un libro intitolato Nati per la libertà. Racconti resistenti: un’opera corale letteraria che unisce fantasia e memoria.

Presentati da Carlo Greppi, storico e scrittore torinese, Davide (Dudu) Morandi, Franco D’Aniello, Francesco (Fry) Monetti, Leonardo Sgavetti e Massimo Ghiacci hanno raccontato la genesi del libro, rivelando piccoli squarci delle storie che lo compongono.

Foto di Fabrizio Fiore, da cartella stampa Salone del Libro

Il progetto ha preso forma in modo spontaneo, gli autori non hanno concordato preventivamente i contenuti specifici: ciascuno ha scritto con il proprio stile senza influenzare gli altri in alcun modo, dando vita, così, ad un’opera che riflette la diversità di approcci ma che mantiene – secondo Greppi e gli autori – una straordinaria coerenza narrativa. Proprio come accade quando compongono le loro canzoni: idee diverse che alla fine convergono in un unico racconto.
Questa armonia nella diversità è una delle cose che rende il libro affascinante. La scelta di non firmare i racconti singolarmente, lasciando solo un riferimento nei titoli di coda, rafforza il senso comunitario del progetto; unisce la voci degli autori creando un’opera scritta da dieci mani ma con un’unica penna.

La profonda ricerca che ha accompagnato la scrittura dei racconti ha fatto riferimento alla Resistenza emiliana recuperando non solo documenti storici, ma anche testimonianze familiari e racconti tramandati oralmente.

Carlo Greppi ha evidenziato come la partecipazione di stranieri alla Resistenza italiana, sia stata spesso trascurata da molti storici e non. Il libro e i MCR, al contrario, hanno messo in luce figure che per anni sono rimaste ai margini della narrazione ufficiale perché «anche l’Italia ha avuto i suoi “Che Guevara”».
Prigionieri di guerra evasi, combattenti scozzesi, il comandante Vladimiro… uomini venuti dall’estero ma che hanno combattuto per la libertà. «La libertà non ha colore, non ha appartenenza politica… è al di sopra di tutto. Si lotta per la libertà ovunque. Lontano da casa tu lotti per la libertà anche a casa tua» ha affermato Dudu, perché la lotta per la libertà non ha confini.

Foto di Fabrizio Fiore, da cartella stampa Salone del Libro

Raccontare la guerra è difficile; raccontare la morte, la distruzione, storie di bambini uccisi e storie di bambini e ragazzi che imbracciano le armi lo è ancora di più. Per trovare una voce adatta a queste storie, gli autori hanno sperimentato soluzioni narrative diverse: dare voce ai morti, agli oggetti e agli animali.

«Non riuscivo a mettermi nei panni degli uomini e donne che vivono e hanno vissuto queste cose. Ho scelto di immedesimarmi in un cane, solo così sono riuscito a raccontare questa cosa. È una cosa attuale, che vediamo anche in questi giorni e non capisco come non si possa provare empatia. Se oggi dovessi parlare di Gaza, lo farei fare ad un cane».

Ciò che più ferisce gli autori è il dolore nel vedere l’infanzia e l’adolescenza negata, la mancanza di empatia nei confronti dei bambini perché «i potenti che governano sanno che i loro figli non andranno mai a fare la guerra, ed è più facile mandare a morire gli altri». Franco ribadisce un pensiero comune «Se il mondo, nel 2025, pensasse di più ai bambini, non ci sarebbero guerre».

E così, tra parole, memoria e attualità, il Salone del Libro ha confermato che la musica e i musicisti da sempre lanciano gridi di protesta, ci costringono a sentire e ad aprire gli occhi, a riflettere e ad avere coraggio di prendere una posizione.
La musica e la parola sono strumenti di libertà, fili invisibili che intrecciano storie e che si faranno per sempre interpreti di emozioni e sentimenti e, soprattutto, terranno viva la Resistenza.

Ottavia Salvadori

Senegal: i 65 anni d’Indipendenza a ritmo di musica

Rispettare l’orario d’entrata previsto per un concerto può risultare una scelta azzardata e a volte anche noiosa. Nelle lunghe attese si può rischiare di incollare gli occhi al piccolo schermo che ci troviamo sempre in tasca e perderci totalmente ma, se si resiste alla tentazione, l’arrivo in anticipo può trasformarsi in un’occasione per osservare le persone che entrano nel locale. Infatti, tra i coloratissimi vestiti tradizionali senegalesi e piccolissimi bambini che correvano a destra e sinistra, la serata all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 4 aprile si è aperta con tanta allegria. L’evento ha avuto il sapore di una vera festa, organizzata per celebrare il 65° anniversario dell’indipendenza del Senegal dal colonialismo francese, durato oltre tre secoli.

Per l’occasione, l’Associazione Africaqui e l’Associazione Culturale Tamra, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, hanno dato vita a un evento musicale che vuole essere anche simbolo di cooperazione tra Torino e Louga, città senegalese nel Nord-Est del paese, gemellate ufficialmente nel 2024.
La serata è iniziata con gli Afrodream, gruppo afrobeat, seguito dalla cantautrice senegalese Mariaa Siga. Subito dopo, l’esibizione dell’Orchestra dell’Africa Subsahariana e un dj set a cura di Dj Noname per chiudere.

Foto dal profilo Instagram @afrodream_ foto didi Lorenzo Gianmario Galli

Alle 22 circa la musica ha iniziato a risuonare in tutta la sala dell’Hiroshima con ritmi incalzanti che hanno fatto ballare anche gli spettatori meno avvezzi al movimento. Gli Afrodream sono nati a Torino, e il loro cantante e percussionista Abdou Samb ha origini senegalesi. Grazie alla fusione tra musica europea e senegalese hanno creato un ambiente accogliente per tutti. C’è stata una piccola interruzione dovuta alla corda del basso che si è rotta proprio in mezzo alla performance ma, oltre a questo piccolo intoppo, tutto è filato liscio come l’olio.
La band ha ottenuto un grande successo da parte del pubblico ma l’affluenza in sala ha subito un calo significativo con l’arrivo di Mariaa Siga, artista meno conosciuta rispetto agli Afrodream. Cantautrice dalle straordinarie doti vocali, Mariaa incanta con una voce potente e al tempo stesso delicata, capace di spaziare su un’estensione vocale notevole. Ha dedicato le sue canzoni principalmente a coloro che hanno sofferto, come i molti dispersi in mare nella speranza di raggiungere una vita più dignitosa in Europa e non solo. Una dedica speciale è stata fatta alle donne, in una giornata in cui, in Piazza Castello, in centro a Torino, si è svolta la manifestazione organizzata in risposta ai recenti femminicidi, tra cui quelli di Ilaria Sula e Chiara Campanella.
Finale con una canzone in onore della  sua madrepatria, il Senegal, con un pubblico finalmente molto più acceso.

Foto dal profilo Instagram @mariaasiga

L’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha dato di nuovo il via alle danze, scatenando tutta la sala. La loro scelta strumentale è particolarmente interessante poiché combinano strumenti tradizionali del Centro Africa, come la kora e il djembe, con una varietà di percussioni, elettronica e un sax, che si fonde perfettamente con gli altri elementi.
Tra le parti cantate sono emersi momenti virtuosistici dei percussionisti e soprattutto del suonatore di kora. Sul palco sono stati fatti entrare anche di tanto in tanto dei ballerini che hanno creato uno spettacolo veramente esaltante.
Per il gran finale, l’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha invitato sul palco Mariaa Siga e alcuni membri di Afrodream per eseguire insieme “Fatou yo”, un brano senegalese per bambini che sembra assumere un significato profondo per tutti: un finale sia maestoso che commovente, anche per chi non conosce pienamente la cultura del paese festeggiato.
Il dj set conclusivo ha permesso chi aveva ancora energia di continuare a ballare. 

Una festa indimenticabile che ha saputo intrecciare tradizione e modernità, regalando a tutti i presenti un’esperienza unica.

Marta Miron

All’ombra dei ciliegi in fiore: musica a Venaria

Sboccia la primavera anche alla Reggia di Venaria, dove i viali assolati si sono tinti di rosa. Tra laboratori di danza, pittura e un fiume di visitatori armati di fotocamere, cappelli e passeggini, anche la musica ha trovato il suo spazio nelle attività dell’evento “All’ombra dei ciliegi in fiore”.

Sotto il color pastello dei fiori di ciliegio, con il sole che filtra tra le fronde e una brezza leggera, ci si aspetterebbe un sottofondo di archi o arpe cullanti. Invece no: ci pensano ottoni e percussioni a dare una bella scossa al pomeriggio con il loro suono brillante ed energizzante.

Al centro di uno dei viali, l’Ensemble di ottoni e percussioni del Conservatorio “G. Verdi” di Torino ha tenuto il “Concerto tra i ciliegi”. Si parte subito con il Prelude to a Te Deum, un’introduzione solenne, un richiamo per chi passeggia nei dintorni o sta cercando l’angolazione perfetta per il prossimo scatto instagrammabile.

foto di Valeria Cacciapaglia

Man mano che il concerto procede, la folla cresce. C’è chi si ferma incuriosito, chi arriva dalla visita alla Reggia e chi ancora sta cercando di riprendersi dalla lunga coda per il biglietto. Il pubblico si sistema alla buona attorno ai musicisti.

E quando partono le prime note di Kraken da Another Cat di Chris Hazell, l’atmosfera cambia: i bambini iniziano a muoversi a tempo, qualcuno segue il ritmo muovendo le spalle, e anche alcuni fotografi si scatenano. Il brano ha un’energia travolgente e, sebbene non si parli di fioriture primaverili o di delicati petali che cadono, c’è qualcosa che si sposa perfettamente con il momento.

Poi arriva Ain’t Misbehavin’ di Thomas “Fats” Waller. Un classico jazz che, con la sua leggerezza e il suo swing irresistibile, trasforma per un attimo il giardino della Reggia in un angolo di New Orleans, cullando il sonno di chi si è assopito sotto l’albero con il suo telo.

Il concerto vola via in un attimo, e quando l’ultimo pezzo si conclude, il pubblico non ci sta: parte la richiesta di bis, unanime. L’ensemble non si fa pregare e concede un’ultima esecuzione, tra nuovi applausi e sorrisi soddisfatti.

E così si chiude il pomeriggio musicale e i visitatori riprendono il loro giro. Ma qualcosa di questo concerto resta nell’aria, come i bambini che canticchiano ancora le musiche suonate dall’ensemble.

di Joy Santandrea

Stefano Bollani e Valentina Cenni: ospiti speciali per la serata finale del Premio Gianmaria Testa

Il 9 marzo 2025, al Teatro Fonderie Limone di Moncalieri, la musica d’autore ha trovato il suo palcoscenico ideale con la serata finale della Quinta edizione del Premio Testa – Parole e Musica. Un evento intenso e ricco di emozioni, che ha visto giovani talenti omaggiare l’indimenticabile cantautore Gianmaria Testa, attraverso esibizioni originali e reinterpretazioni vibranti, sotto lo sguardo attento di una giuria prestigiosa e accompagnati da ospiti d’eccezione: Stefano Bollani e Valentina Cenni.
La serata prevedeva la consegna di due premi: il premio Testa per la miglior canzone inedita e il premio per la miglior esecuzione di un brano di Testa selezionata da una giuria autorevole diretta da Eugenio Bennato.

A dare inizio alle esibizioni è stato Manuel Apice, cantautore ligure già vincitore di premi come il Fabrizio De André o il Bindi. Per inaugurare la serata ci presenta prima una cover del brano “Biancaluna” di Testa che dà il via alle esibizioni.
A seguire Alessandro Sipolo, artista lombardo spesso in viaggio per il mondo, fa riemergere uno stile musicale che ci trasporta nel continente americano da nord a sud: un vero e proprio viaggio musicale estremamente coinvolgente.
ll terzo cantautore presentato è Fabio Schember, classe ‘98, ci presenta delle interpretazioni tipicamente Mediterranee. Con l’uso di strumenti come l’oud turco o i tamburi muti propone una fusione tra la musica delle sponde nord del mediterraneo con quelle del sud-est, ricreando sonorità veramente interessanti.
Alessio Alì, cantautore calabrese, è il più giovane tra i candidati e predilige la semplicità rispetto alla ricerca musicale presente nei cantautori precedenti, caratteristica che lo accomuna con l’ultimo candidato: Mizio Vilardi, unico artista ad esibirsi senza band, accompagnato solo dalla sua chitarra. Omaggia le sue origini pugliesi cantando metà in italiano e metà in dialetto molfettese.

Foto dal profilo Instagram @premiogianmariatesta , foto di Elisabetta Canavero

Dopo le esibizioni dei finalisti, la giuria si è riunita per decretare i vincitori, mentre il pubblico attendeva con trepidazione. A intrattenere gli spettatori è arrivato Stefano Bollani (che ha collaborato con Gianmaria Testa nel celebre spettacolo Guarda che luna) accompagnato dalla sua compagna Valentina Cenni. La loro performance ha preso avvio riprendendo lo stile della trasmissione Via dei matti n. 0, presentando reinterpretazioni di canzoni di Testa e altri brani internazionali, tutti legati alla sua vita.
Le esibizioni di Bollani, intervallate da momenti di pura improvvisazione pianistica jazz, hanno messo in luce la sua straordinaria abilità al pianoforte, permettendo al musicista di esprimersi liberamente. Per concludere, Bollani e Cenni hanno omaggiato le origini piemontesi di Gianmaria Testa con “La mia mama a veul ch’i fila”, una canzone ironica che ha suscitato ilarità e applausi entusiasti dal pubblico.

La serata finale del Premio Testa si è conclusa in un’atmosfera di festa e celebrazione, con i vincitori che hanno portato a casa il riconoscimento per il loro talento e la loro creatività. Mizio Vilardi, con la sua originale interpretazione di “Nuovo” tradotta per metà in dialetto molfettese, ha conquistato il premio per la miglior cover, mentre Alessio Alì ha brillato con la sua canzone inedita, “Paura di cambiare”, aggiudicandosi il premio principale.

Foto dal profilo Instagram @premiogianmariatesta , foto di Elisabetta Canavero


Il presidente di giuria, Eugenio Bennato, ha chiuso l’evento con due brani che hanno riempito il teatro di energia e ritmo con “Il mondo corre” e il celeberrimo “Ritmo di contrabbando”, salutando il pubblico a ritmo di taranta.
Questa edizione del Premio Gianmaria Testa non solo ha messo in luce nuovi talenti, ma ha anche reso omaggio a un grande artista che continua a ispirare generazioni. La serata si è rivelata un successo, promettendo un futuro luminoso per la musica d’autore italiana.

A cura di Marta Miron

Emma Nolde all’Hiroshima Mon Amour: un fuoco incandescente che torna a illuminare Torino

L’artista pop-alternative Emma Nolde, già esibitasi tre volte nel capoluogo piemontese nel corso degli ultimi quattro anni, torna all’Hiroshima Mon Amour il 7 marzo con il suo nuovo album NUOVOSPAZIOTEMPO, pubblicato l’8 novembre del 2024.

Nel parterre dell’Hiroshima si riconoscono diverse tipologie di fan, molto diversi tra di loro: alcuni affermano di conoscere Emma dai suoi primi progetti, come l’album Respiro del 2022 oppure i suoi singoli di esordio risalenti alla quarantena quali Nero Ardesia e Male, e di starla seguendo in tour dall’estate scorsa, che è stata una stagione molto proficua e ricca di festival per la giovane artista; altri affermano di non conoscerla affatto ma di essere molto incuriositi dalla sua personalità.

Il marcato accento toscano di Emma si fa immediatamente sentire dal momento in cui mette piede sul palco. I brani con cui si esibisce alternano atmosfere dalla forte carica emotiva e dal ritmo accelerato, a momenti più placidi ma comunque molto intensi che, per certi versi, ricordano ballate di Brunori Sas, molto amato e per questo spesso citato dall’artista.

In molti sembrano apprezzare l’alternarsi di strumenti classici, quali la chitarra e il piano, a un sound più techno e, in questo senso, le sue canzoni, così come anche il suo allestimento molto minimal sul palco, ricordano molto la cantautrice statunitense Ethel Cain. A differenza dello sfarzo scenotecnico che solitamente contraddistingue gli artisti pop, Nolde e Cain prediligono un set nel quale vi sono solo gli strumenti musicali essenziali e una bandiera arcobaleno.

La varietà di fan si riconosce anche alla lunga distanza, durante tutto il concerto un gruppetto di studenti fuori sede toscani ha ballato tutta la sera, sentendosi in qualche modo più vicini a casa, mentre molte coppie, perlopiù genitori o accompagnatori, hanno ascoltato impassibili, come se stessero prendendo nota dei costanti cambiamenti ed evoluzioni della wave pop rock italiana.

La vivace presenza scenica di Emma e il suo coinvolgimento con il pubblico fa attendere gli ammiratori, e non solo, i suoi futuri progetti… e un ennesimo ritorno nella città di Torino.

a cura di Martina Vergnano

Blur: To The End al Seeyousound Festival

Blur: To The End è stato il film d’apertura dell’undicesima edizione del SEEYOUSOUND Festival di Torino (21-28 febbraio 2025). Il documentario, diretto da Toby L., racconta della reunion della band, della scrittura del loro ultimo album, Ballad of Darren, e del concerto a Wembley del 2023.

Momenti comici, come il ritorno alle scuole elementari di Damon Albarn e Graham Coxon, sono accostati a scene estremamente intime come quella in cui Albarn si commuove sulle note di “The Everglades”, brano contenuto in Ballad of Darren. Quello che però emerge già dai primi minuti è il forte legame di amicizia e fratellanza che unisce la band inglese. Ascoltando le parole ed i gesti che si scambiano viene in mente una frase di Michela Murgia, secondo cui «gli amici che ti fai quando hai 16, 17, 20 anni hanno una specialità che nella vita poi sarà irripetibile, avrai altre amicizie anche molto qualificate ma qualcuno che ti fosse testimone quando potevi ancora essere tutto… quello non si ripete». Credo che i Blur ne siano l’esempio perfetto.

Foto tratta dal film “Blur: To The End”

Uno dei temi trattati è il trascorrere del tempo e la difficoltà dell’accettarlo, e di certo non aiuta avere tutta la propria giovinezza documentata da film e video. 

«It’s a weird thing when you go back to something that was so well documented.
People feel like that’s what you are but it’s so long ago».

Nell’era in cui sui social si tende a mostrare solo gli aspetti positivi della propria vita, Toby L. ci regala un ritratto sincero dei Blur grazie al quale possiamo distruggere l’immagine distorta che avevamo delle popstar. Risulta strano, quasi ci infastidisce, vederli preoccupati pochi minuti prima di andare in scena, ma sono queste loro insicurezze a renderli umani e ci invitano ad accettare anche le nostre fragilità.

Il crescendo di tensione raggiunge l’apice negli istanti che precedono l’ingresso della band sul palco. Ma l’adrenalina sale alle stelle quando li si vede salire la rampa ed è inevitabile avere la pelle d’oca appena si sente il boato del pubblico di Wembley che accoglie gli artisti che entrano sulle note di “The Debt Collector”. È ufficialmente iniziato il concerto, da questo momento fino alla fine del film gli spettatori sono totalmente immersi nelle immagini che scorrono sul grande schermo e nella musica che rimbomba nella sala. L’entusiasmo è palpabile e le riprese del concerto regalano momenti di pura gioia.

Blur, 2023, Wembley. Foto dal profilo Fb della band

All’inizio della scaletta compare “Popscene” canzone simbolo del britpop, per poi passare ad urlare il ritornello di “Song 2” dove la folla impazzisce e l’intero parterre salta. All’ultima canzone, “The Universal” l’intera platea è commossa, risulta difficile non emozionarsi vedendo quattro amici, che suonano assieme da quando avevano vent’anni, riuscire a realizzare il loro sogno suonando di fronte a 80.000 persone. 

Il documentario è nei cinema dal 24 fino al 26 febbraio ed è un’esperienza che merita di essere vissuta. E, se si vogliono riprovare le stesse emozioni del concerto anche quando si è sul tram diretti all’università, si può sempre ascoltare l’album Live At Wembley Stadium.

a cura di Sofia De March

Intervista a Toby L. “Blur: To The End”

Abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista Toby L. che si trovava al Seeyousound Festival per la prima italiana del suo nuovo documentario Blur: To The End.

Innanzitutto: congratulazioni per il film. Abbiamo visto il successo che ha avuto in Inghilterra. Hai delle aspettative sulla proiezione italiana che avverrà questo venerdì al Seeyousound Festival?

Ottima domanda, so che potrebbe suonare stupido quello sto per dire, ma quando stai facendo un film o un documentario molto spesso ti dimentichi che qualcuno lo vedrà, io l’ho realizzato soltanto alla première. (ride, ndr)

Può sembrare una cosa terrificante. È bellissimo accorgersi che il tuo progetto non finirà nella spazzatura, ma è stato fatto appositamente perchè le persone potessero vederlo e apprezzarlo. Il film verrà distribuito nelle sale di tutto il mondo ed ancora fatico a rendermene conto. Lo scorso anno ero a Barcellona e sono andato a vederlo, non ci potevo credere. Domani (21 febbraio, ndr) ci saranno migliaia di persone al cinema a vederlo ed è un vero privilegio per me.

Non so ancora come reagiranno le persone, devo ancora capire se il fatto di essere una british story renda difficile la traduzione negli altri paesi, nonostante i sottotitoli. Però, nonostante la lingua, mi auguro che le persone possano rispecchiarsi emotivamente in questa storia.

Forse, quello che viene apprezzato all’estero è avere la possibilità di partecipare ad un’esperienza che non abbiamo vissuto. Quindi, quello che affascina di questo documentario è l’occasione di essere a Wembley, vero?

Sì, assolutamente. Questo per me è stato un aspetto molto importante durante il set: assicurarsi di catturare il più possibile la magia di un evento del genere. Sai, avevamo una ventina di macchine da presa a disposizione, centinaia di membri della troupe che ci aiutavano per le riprese ed un paio di macchine a mano, all’interno del parterre, per catturare la sensazione di far parte di quell’onda di caos di persone. Abbiamo cercato, nel migliore dei modi, di riportare quell’energia nel filmato.

Com’è iniziata la collaborazione con i Blur?

Grazie alla mia etichetta discografica, la Transgressive Records, creata con i miei amici Tim, Dylan e Mike, ho avuto l’occasione di conoscerli e lavorarci assieme.

Dopo alcuni mesi, mi è giunta voce che avevano intenzione di suonare a Wembley quindi ho colto l’occasione per proporgli un documentario che non raccontasse solamente del live ma che raccontasse la loro storia con un approccio più romantico. Grazie a Dio, hanno accettato la proposta e nel giro di 1-2 settimane ero con loro in studio a registrare le prime scene del film.

“To The End” non racconta solo la reunion di una delle band più importanti del mondo ma è anche una storia di amicizia. Le riprese delle sessioni di registrazione sono accompagnate da momenti veramente intimi della band. Come vivi queste situazioni? E, come ti comporti durante le riprese?

Credo che la cosa più importante sia essere rispettoso e ricordare a me stesso che il film riguarda la LORO storia e che io sto  “semplicemente” catturando questi momenti. Molto spesso, è solo questione di creare una forte energia e metterli nella condizione di accettare volentieri la tua presenza in ogni istante.

È comunque importante cercare di essere quasi invisibile: non interferire in nessun modo nei loro discorsi, nei loro rapporti e nel loro lavoro. Ma, la mia principale responsabilità da regista è quella di decidere quando fare le domande e spingerli a rispondere.

Prima di iniziare la produzione abbiamo avuto un incontro con la band in cui abbiamo evidenziato ciò che era importante fare, ovvero essere il più possibile onesti e reali. L’obiettivo era di non cadere nella finzione e non creare qualcosa di troppo pulito perchè era fondamentale riportare la roughness che li ha sempre caratterizzati.

Il fatto che fossero consapevoli che sarei stato con loro per la maggior parte del tempo, e che sarei stato presente anche durante i momenti più intimi, credo li abbia aiutati ad accettare la mia presenza e quella delle telecamere. Credo che questo sia uno dei punti di forza del film.

Parlando delle riprese, hai qualche artista o regista a cui ti ispiri in particolare?

Ho sempre ammirato il regista britannico Michael Winterbottom grazie al suo stile estremamente naturalistico. Ammiro la sua capacità nel cogliere la realtà.

Mi ha sempre affascinato anche David Lynch, mancato da poco, lo ritengo uno dei registi più importanti di sempre. I suoi film riescono ad essere estremamente sensibili, spaventosi, ma divertenti allo stesso tempo, era incredibile.

Credo, in generale, di amare quei film che ti facciano sentire partecipe in quello che sta accadendo e che creino dei personaggi nei quali ti puoi rispecchiare. È quello che ho cercato di fare con il mio film: volevo mantenere una sincerità e purezza tale da permettere un rapporto di empatia con lo spettatore.

Ci sono molti momenti comici perché loro sono dei funny guys (ride, ndr), ma vengono mostrati anche quelli dolorosi perché, d’altronde, non è sempre tutto rose e fiori, la vita è complessa.

Qual è stato il momento più bello che hai vissuto sul set?

Sul set ho vissuto molti momenti che ricordo con piacere.

Ho amato ritornare alla scuola che hanno frequentato Dave Rowntree e Graham Coxon, è stato veramente divertente perché hanno iniziato a “comportarsi male” come due ragazzini, nonostante siano ormai cinquantenni. (ride, ndr)

Poi, sono state estremamente emozionanti le giornate trascorse nella casa al mare con Damon Albarn e Alex James. In quei giorni, ho avuto modo di condividere con loro attimi veramente speciali nei quali è emerso il profondo legame che li unisce.

Infine, Wembley è stato veramente emozionante, anche perchè io e il mio cameraman siamo saliti sul palco di fronte a migliaia di persone. Credo che aver condiviso l’esperienza del concerto con la band lo abbia reso ancora più speciale.

In generale, l’intera esperienza è stata fantastica, è molto difficile rimanere concentrati sull’obiettivo: seguire la storia che vuoi raccontare, senza perdersi in quello che si sta vivendo.

C’è qualche artista con cui vorresti collaborare in futuro?

(sospira, ndr) Frank Ocean, Bjork e Radiohead. Preferisco le persone impegnative. (ride, ndr)

Anche Tom Waits, Neil Young… Sono attratto dalle persone stimolanti, passionali e intriganti. Molto spesso sono anche persone attive politicamente e questo è un aspetto che mi piacerebbe approfondire. Amo fare i documentari, ma mi piacerebbe realizzare un progetto interamente concettuale o un qualcosa di più surreale. Però, ora come ora, ho intenzione di prendermi una pausa.

Hai qualche consiglio da dare ai ragazzi, come noi, che sognano di lavorare nel mondo dello spettacolo?

Credo che il consiglio migliore che posso darvi sia quello di smettere di ascoltare quella vocina nella vostra testa che continua a ripetervi che non siete abbastanza bravi. Voi continuate a provarci. Tutte le persone che ho conosciuto che lavorano in questo mondo hanno questi pensieri negativi. Tu ignorali e continua a farlo. 

Non guardare gli standard di vita degli altri, concentrati su quello che per te è importante.

L’ultima cosa che suggerisco è quella di organizzare un programma per voi stessi in cui ogni anno decidete a quali aspirazioni volete ambire.

I traguardi che non raggiungerai non sono invalicabili perché li puoi sempre spostare all’anno successivo. Scrivendo e visualizzando i tuoi obiettivi la vita ti condurrà consciamente e inconsciamente a raggiungerli. Ma, ricorda, la chiave sta nel capire cosa vuoi davvero. 

Trovate la video intervista a questo link

a cura di Sofia De March e Joy Santandrea

Sanremo 2025 – Le pagelle della terza serata

La terza serata del 75° festival di Sanremo inizia con un’emozionante esibizione di Edoardo Bennato con “Sono Solo Canzonette”. Dopodiché Carlo Conti accoglie le presentatrici per la sera: Miriam Leone, Katia Follesa e Elettra Lamborghini, per poi presentare gli artisti in gara.

Clara – “Furore”
Un po’ anonima nel timbro, Clara ha comunque un grande controllo della propria voce. L’abito contribuisce certamente al suo anonimato. 

Voto: 22

Brunori Sas – “L’Albero delle Noci”
Come nelle scorse serate, risalta all’orecchio una qualche  somiglianza con “Rimmel” di De Gregori. l testo toccante affronta dolcemente il tema della paternità. Apprezzabile la scelta di portare la chitarra sul palco.

Voto: 25

Sarah Toscano – “Amarcord”
Degna di nota è la differenza d’età rispetto agli altri concorrenti: Sarah è infatti classe 2006. Purtroppo la performance non è esente da stonature, ma ci piace il modo in cui dice “un po’ mi avevi illusa”. Per il resto il brano è piacevole.  

Voto: 23

Massimo Ranieri – “Tra le mani un cuore”
Base inusuale e lontana dal solito stile vecchia scuola di Ranieri, che tenta un avvicinamento al sound contemporaneo.

Voto: 22

Joan Thiele – “Eco”
Joan Thiele conferma una ragazza forte, il cui  timbro vocale personalissimo  le permette di distinguersi dagli altri artisti. Il suo outfit Gucci dà un tocco chic, efficace nella contrapposizione con il sound Seventies del brano. 

Voto: 28 

Shablo feat Gue, Joshua, Tormento – “La mia parola”
Una bella boccata di aria hip hop italiana, adattato in perfetta chiave sanremese. Restiamo in attesa del duetto con Neffa.

Voto: 27

Noemi – “Se t’innamori muori”
Un bellissimo vestito funzionale alla teatralità dell’esibizione. Purtroppo, Noemi si è lasciata trasportare dal suo tratto vocale distintivo, offrendo una performance troppo graffiata.

Voto: 22

Olly – “Balorda Nostalgia”
Qualche stonatura e un’interpretazione troppo sdolcinata.

Voto: 19

Coma_Cose – “Cuoricini”
“Cuoricini” è la classica canzone indie-pop godibile, di quelle che si canticchiano tutto il giorno. Gli outfit della coppia sono audaci, e soddisfano le aspettative Gen-Z. Una buona esibizione, con ottima performance vocale, e dunque un buon voto.

Voto: 26

Modà – “Non ti dimentico”
Il ritorno dei Modà sul palco rende felici tanti italiani, e dal cantante, Checco, arriva un emozionante messaggio di forza e speranza per chi, come lui, combatte con la propria salute mentale.

Voto: 24

Tony Effe – “Damme ‘Na Mano”
Illudendoci, forse, ci aspettavamo il solito Tony, genuino come nei suoi brani abituali, al di fuori di Sanremo. Ti vogliamo più spavaldo! Torna al prossimo appello.

Voto: 17

Irama – “Lentamente”
L’autotune non rende giustizia al vero timbro vocale di Irama. Il testo, pur essendo più in vibe Blanco, ha però un che di romantico che, abbinato con il fascino di Irama, riesce ad arrivare al pubblico. 

Voto: 21 

Francesco Gabbani – “Viva la vita”
Un testo che inneggia a un migliore atteggiamento verso la vita. L’arrangiamento, però, è un po’ troppo rigido e impostato.

Voto: 24

Gaia – “Chiamo io Chiami tu”
Gaia si conferma cantante affascinante e talentuosa, e la presenza dei ballerini arricchisce la performance.

Voto: 26

Bonus!Duran Duran con Vic de Angelis: La performance della band ha emozionato grandi e piccini, anche grazie alla presenza young dell’ex bassista dei Måneskin.

voto: 110 e lode con bacio accademico (tra Katia Follesa e Simon LeBon)

A cura di Benedetta e Martina Vergnano