Archivi categoria: Flowers Festival

Chiusura in bellezza del Flowers Festival: Lucio Corsi e i Baustelle

Ci hanno fatto aspettare ma ne è valsa la pena: il tanto atteso concerto di Lucio Corsi e dei Baustelle, originariamente programmato per l’8 luglio ma annullato a causa del maltempo, è stato finalmente recuperato la serata del 15 luglio. Nonostante l’infelice posticipo, l’evento ha regalato una splendida chiusura al decennale del Flowers Festival.

All’incantevole calar del sole, è arrivato il nostro menestrello Lucio Corsi, con il suo stile glam rock fai-da-te, con le solite buste di patatine a sorreggere le spalline. Affiancato da una grande schiera di musicisti, si è acceso una sigaretta e ha aperto il concerto con l’assolo di “Freccia bianca”, brano incalzante tratto dall’album Cosa faremo da grandi del 2020, che ha iniziato a coinvolgere gli spettatori, dai più grandi ai più piccoli. 

Ha proseguito passando ai pezzi del suo ultimo album Volevo essere un duro, doppio vincitore della Targa Tenco, fino all’omonima canzone, reduce dall’Eurovision, creando un momento magico di celebrazione della norma e del quotidiano.

Tra una sigaretta accesa e un’altra lanciata, per avere la bocca libera per cantare, i brani si sono fatti più lenti con “Situazione complicata” e ballate come “Nel cuore della notte”, riprendendo ritmo solo nel finale, con la canzone “Francis Delacroix”.  L’ultimo brano ha fatto scatenare e divertire tutto il pubblico, soprattutto perché nessuno si era reso conto, fino a quel momento, che il fotografo che stava seguendo Lucio da tutto il concerto, con una sigaretta in bocca e un cappello da cowboy nero, era Francis Delacroix in persona.

Francis ha accompagnato con la chitarra la canzone a lui dedicata e nel gran finale si è quasi sfiorata la caduta dal palco di entrambi, tra i molteplici movimenti di Lucio, gli altrettanti spostamenti del tecnico che lo inseguiva per allentargli il cavo del microfono ed evitare si incastrasse e Francis Delacroix che si godeva appieno il suo momento. Finale spontaneo, dunque, come d’altronde spontaneo è Lucio Corsi, che per una bella oretta ci ha rapiti mostrandoci nuove realtà attraverso il suo sguardo fresco. 

Foto dal profilo Instagram del Flowers Festival

Dopo una breve pausa il pubblico ha acclamato a gran voce i Baustelle, band di Montepulciano che da quasi trent’anni unisce sonorità retrò, liriche raffinate e uno sguardo originale sulle problematiche dei giovani tra poesia urbana e una malinconia cinematografica. L’intera esibizione è stata costruita sui brani di El Galactico, album uscito nell’aprile di quest’anno, sviluppato attorno a sonorità della California anni ‘60, con un chiaro riferimento ai Beach Boys e ai Mamas and the Papas.

Solo verso il termine dell’esibizione sono giunti a brani più vecchi come: “La guerra è finita” e “Le Rane”, sul finale della quale, mentre i tecnici preparavano il palco per la canzone successiva, il frontman Francesco Bianconi ha colto l’occasione intonando “Tanti auguri a te” dedicato alla cantautrice e polistrumentista, Rachele Bastreghi, acclamata dagli spettatori.

Foto dal profilo Instagram del Flowers Festival

La band apparentemente chiude il concerto e torna sulle quinte, per poi, dopo vari cori da parte del pubblico, ritornare sul palco e far scatenare tutti con il brano, tanto atteso da tutti, “Charlie fa surf”, terminando in bellezza la decima edizione del Flowers Festival, lasciandoci senza voce, con poco udito, ma contenti.

Maria Scaletta

Il punk tra libertà e ironia: i Viagra Boys e i Tre Allegri Ragazzi Morti al Flowers Festival

La rassegna torinese, quest’anno, osa con una line-up composta da band dalle attitudini molto diverse, ma sorprendentemente compatibili. Il risultato è una serata intensa e difficile da dimenticare.

La serata si apre con i Circus Punk, un duo chitarra e batteria che fa subito entrare il pubblico nel mood con brani molto grezzi e veloci.

Subito dopo salgono sul palco i Tre Allegri Ragazzi Morti. Molti nel pubblico sono venuti principalmente per loro, come si nota dalle centinaia di maschere a forma di teschio, simbolo della band. Sono rimasto piacevolmente colpito dalla naturalezza di Toffolo sul palco e dal modo quasi colloquiale con cui si interfaccia con il pubblico. Il live scorre con leggerezza e, nonostante le sonorità più soft, si confermano un’ottima scelta come band di appoggio per gli headliner svedesi.

Dopo i TARM, il palco si riempie di tecnici che montano gli strumenti, mentre sul maxischermo appare a caratteri cubitali la scritta endless anxiety e le casse iniziano a suonare musica house e techno ad alto volume, per prepararci a tutto quello che succederà da lì a poco.

Le luci si spengono, uno dopo l’altro i musicisti fanno il loro ingresso. Per ultimo arriva Sebastian, il frontman: a petto nudo e con gli occhiali da sole. Attaccano con “Man Made of Meat”, traccia dall’ultimo album che fa subito impazzire il pubblico, la cui metà è già un enorme pogo.

Il live va avanti così, tra brani vecchi e nuovi che non lasciano un secondo di respiro per la potenza dei suoni e della performance. I “boys” portano uno spettacolo non perfetto ma indimenticabile, anche per la sfacciata ironia che caratterizza i brani e i discorsi del cantante. Un esempio è la performance di uno dei loro pezzi più famosi, “Research chemicals”, suonata con un loop di basso per più di 10 minuti, durante i quali il tastierista e Sebastian si scambiano continuamente diversi strumenti, tra cui una keyboard guitar da band anni 80.

La serata si rivela un successo dimostrando come, anche in Italia, quando un festival viene ben organizzato e ha il coraggio di osare, può dar vita a risultati sorprendenti e di grande valore.

Alessandro Ciffo

L’universo condiviso di Marco Castello al Flowers Festival

Al Flowers Festival di Collegno, che da dieci anni anima il cortile della Lavanderia a Vapore con un florilegio di artisti affermati e nuove promesse, domenica 13 luglio è toccato a Marco Castello salire sul palco.

Diciamocelo: ci si aspettava un gran concerto, e gran concerto è stato.

Prima ancora che le luci si accendano sui musicisti, sullo sfondo del palco spicca il logo dell’etichetta indipendente creata dallo stesso Castello per pubblicare il suo secondo disco Pezzi della sera, Megghiu Suli. L’espressione Siciliana suggerisce un doppio significato che sintetizza perfettamente la visione artistica di Marco Castello: “meglio da soli” e “il miglior sole”.

Foto di Alessia Sabetta

Il cantautore siracusano è salito sul palco con una band variegata e numerosa, che ha proposto brani del suo repertorio non solo conservando quell’estetica calda e casalinga che è ormai la sua cifra, ma espandendo ancora di più le sonorità grazie ai colori della chitarra elettrica e ai tre sassofonisti, che hanno regalato improvvise fiammate funk, riuscendo persino a far ondeggiare le teste dei cassieri nei bar.

Come in un grande raduno tra amici, con qualche migliaio di persone di fronte, Marco Castello riesce ad azzerare il dislivello tra palco e platea grazie alla schiettezza dei suoi testi, che nella loro assurdità si offrono come uno tsunami di meme in cui il pubblico si lascia volentieri travolgere, felice di annegare in una frivolezza che – almeno per un po’ – libera da ogni pensiero.

Attraverso una spontanea genuinità non solo caratteriale ma anche musicale, Marco Castello è in qualche modo casa. Il pubblico canta dall’inizio alla fine, ma soprattutto si muove, trasformando il concerto in un grande ritrovo condiviso. C’è chi scuote la testa, chi si dondola sentendosi leggero e chi – la maggior parte – balla freneticamente. 

Lo stesso Castello si scuote seguendo la sua musica, fatta di ritmi mediterranei, venature jazz e tastiere anni ’70. Costruisce un mondo sonoro profondamente in debito con i grandi della musica italiana come Lucio Battisti o Enzo Carella, e verso icone internazionali come Gilberto Gil, dei quali non a caso sceglie di portare sul palco alcune cover. 

Ma se le ispirazioni sono chiare e dichiarate, senza bisogno di stravolgimenti, il merito del cantautore siciliano è quello di ridare linfa a questi generi, soprattutto grazie alla forza inconfondibile dei suoi testi e delle sue linee melodiche, che rendono la sua musica immediatamente riconoscibile e facilmente condivisibile da chiunque.

Foto di Alessia Sabetta

Lo dimostrano anche i numeri legati agli ascolti: dai giorni dell’uscita del suo album di debutto Contenta tu nel 2021, il suo pubblico è cresciuto esponenzialmente, soprattutto grazie alla visibilità conquistata sui palchi dei festival – e senza alcun sotterfugio pubblicitario sui social – che hanno cementato una fanbase ormai fidelizzata.

Sul palco del Flowers, Marco Castello si conferma come un altro fiore prezioso del nostro panorama musicale: capace di sprigionare nuova energia e di liberare l’ossigeno necessario a farci respirare insieme.

Un po’ più leggeri, un po’ più vivi.

Marco Usmigli

Pop X, dov’è Liana, delicatoni: il sabato di flowers festival

L’ultimo weekend del Flowers Festival si chiude con un triplo concerto che fonde una band emergente, tre francesi innamorati e il ventennale del progetto più folle dell’it-pop.

In un sabato pieno di nuvole e pioggia ci ritroviamo sempre alla Certosa di Collegno, tra ombrelli, impermeabili e tante bandane (sul perchè ci arriviamo dopo). Il pubblico, rispetto ad altre volte, è un mix eterogeneo, giovane, ma forse solo interessato ad ascoltare l’unico gruppo per cui è venuto qui. Non a caso rimbalza continuamente una domanda tra la folla: «Chi sei venuto ad ascoltare?»

La minoranza che sta sotto la pioggia fin dall’inizio, è qui per i Delicatoni, quattro giovani musicisti vicentini dall’indole anarchica che hanno suonato i brani del loro primo album Delicatronic. Il loro sound unisce l’elettronica dance a rime giocose, quotidiane, spesso cantante in coro in un movimento ciclico delle parti a scandire il tempo. L’aggregazione sul palco e tra il pubblico è il fulcro della loro musica, che trasmette leggerezza e voglia di connettersi agli altri con lucidità e dialogo. 

Foto dal profilo FB di Flowers Festival

Pioggia finita, il pubblico si alza dalle panchine sotto ai gazebo e si fa più numeroso per sentire i Dov’è Liana, gruppo parigino che ha esordito lo scorso anno con l’album Love 679. I tre salgono sul palco col tipico foulard da babooshka e gli occhiali da sole, simbolo indossato anche dai fan. Uno dei cantanti si avvicina al microfono e recita la prima pagina de L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, forse uno dei loro riferimenti in quanto a libertà sessuale, con l’invito a essere disinibiti e senza pregiudizi, un elemento presente anche nei loro testi. La loro esibizione è a metà tra un dj set di house french touch e disco dance anni ‘80 suonata con chitarra e pianoforte. Sul palco li vediamo spesso illuminati in silhouette, mentre ballano e cantano tra inglese e italiano, dalla pronuncia in parte stentata dall’altra caricaturale. Ci invitano a fare festa in modo sincero e spontaneo, come ribadito dal brano conclusivo “Perchè piangi Palermo?”: l’importante è ballare, ridere e fare l’amore.

Foto dal profilo FB di Flowers Festival

Infine il gruppo più atteso: i Pop X, progetto capitanato da Davide Panizza che qui si esibisce insieme a Walter Biondani (chitarra acustica), Luca Babic (batteria elettronica) e Niccolò Di Gregorio (chitarra elettrica). Un’esibizione collettiva che cavalca lo spirito demenziale e nonsense attraverso i video karaoke delle canzoni sullo sfondo e immagini intermittenti in rapida successione. Il pubblico può decidere anche di salire sul palco e scatenarsi insieme alla band o rimanere a pogare fino a sfiorare più di mille volte l’atmosfera, come recita “Io centro con i missili”. Da evidenziare i momenti solo strumentali, che spingono sull’elettronica di taglio hyper-pop, ma anche downtempo e garage, quasi una fusione tra A.G. Cook e Fred Again sotto effetto del popper. 

Foto dal profilo FB di Flowers Festival

Il fatto che Pop X da fenomeno di nicchia sul web, sia riuscito a emergere fino a ritagliarsi un proprio spazio, attraverso testi che si prendono gioco di tutto e spingendo tutto su un’elettronica che potremmo definire tamarra, è sintomo di come il pubblico ricerchi ancora qualcosa di inedito e irripetibile, rispetto ai piatti pronti offerti dalle playlist degli algoritmi. 

La lunga festa è finita dopo oltre tre ore di musica, quando si ritorna alla pace col cuore che batte ancora forte, ma conservando nella mente tanti momenti unici.

Alessandro Camiolo

I Patagarri e la Bandabardò al Flowers Festival, come la ginestra nel deserto

In occasione del decimo compleanno del Flowers Festival il programma – già denso negli scorsi anni – si è infittito con due o addirittura tre concerti nella stessa serata. Uno di questi è quello del 28 giugno quando sono saliti sul palco prima i Patagarri e poi la Bandabardò

Per i meno avvezzi al mondo dello spettacolo, menzionare i Patagarri significa risalire al Primo Maggio di Roma del 2025 e alle numerosissime critiche di cui sono stati investiti per aver suonato “Hava Nagila”, canto tradizionale ebraico, privato del suo testo originale in favore dello slogan «Palestina libera». Come spesso accade in questi casi, l’attenzione dei media si era focalizzata sul gesto politico, da molti ritenuto inopportuno. Per chi, invece, ha più familiarità con il mondo dell’intrattenimento i Patagarri erano tra i membri della squadra di Achille Lauro a XFactor 2024 dove, in finale, si sono aggiudicati il terzo posto.  La band − composta da Francesco Parazzoli (tromba e voce), Jacopo Protti (chitarra), Daniele Corradi (chitarra), Nicholas Guandalini (basso), Giovanni Monaco (clarinetto e percussioni), Arturo Monico (trombone e percussioni) − aveva attirato l’attenzione del pubblico del talent distinguendosi dal panorama musicale canonico: in un mix di gypsy jazz, swing, rock i Patagarri avevano proposto inediti e brani standard e della tradizione, sapientemente riarrangiati. 

foto di Alessia Sabetta

Singolare, per esempio, la scelta di aprire il concerto alla Certosa con “Tutti quanti voglion fare jazz” dal film  Gli Aristogatti, scelta comunque  in linea con la loro personalità frizzante e fuori dagli schemi. La cosa che colpisce non è però soltanto lo stile  controcorrente: i Patagarri sono preparati, colti, sanno stare sul palco. Nonostante la giovane età e nonostante siano appena usciti da un talent.  A differenza di tantissimi artisti che, appena fuori dai format televisivi, appaiono ingessati e privi di esperienza dal vivo, i Patagarri sono estremamente coinvolgenti e si muovono con naturalezza sul palco creando un filo conduttore coerente tra i vari brani, sapientemente introdotti da Frankie, il frontman, l’unico a parlare.  In più, freschi di conservatorio, hanno una solida formazione musicale che si riflette negli arrangiamenti abilmente ricamati e negli assoli dove emergono padronanza tecnica e sensibilità artistica. A queste ultime si aggiunge una scelta musicale non scontata, non banale. A eccezione di “Summertime”, standard jazz «l’unica hit estiva», il repertorio è un viaggio musicale tra le varie tradizioni. Per “Occhi Neri”, per esempio, dicono di aver «rubato melodia e accordi a una vecchissima canzone russa e scritto un testo in italiano, perché le canzoni belle si riciclano»; poi è il turno dell’ispirazione della locomotiva gucciniana grazie alla quale è nato l’inedito “Il camionista”, che parla di un camionista che si scontra contro un giovane in Ferrari perché «non ci sono binari su cui puoi dirottare un camion»; successivamente “Egyptian Ella”, «per ricordarci che non siamo noi il problema, ma chi ci sta attorno»; anche la già citata “Hava Nagila”, poi una suggestiva “Il cielo in una stanza” e “Hit The Road Jack” innestata su “Vengo dalla Luna” di Caparezza. Non mancano gli inediti come “Sogni” e “Caravan” con cui si congedano dal pubblico per lasciare il palco alla Bandabardò.

La band folk rock fiorentina è in tour dopo l’uscita del loro ultimo album Fandango e continua a esibirsi anche dopo la morte di Erriquez, a cui sono dedicate  “Notti di luna e falò”, con la formazione che vede Alessandro Finazzo, Finaz, (voce e chitarra), Andrea Orlandini, Orla, (chitarra), Don Bachi (basso e contrabbasso elettrico), Alessandro Nutini, Nuto, (batteria), Federico Pacini, Pacio, (tastiere) e Jose Ramon Caraballo Armas (percussioni). Quest’ultimo si diletta al microfono con “Caro amico”, brano tratto proprio dall’ultimo album, così come Orla che invece canta “Mojito Football Plan” in memoria dei concerti da giovani in cui ci si ubriacava e si costruivano porte fittizie per giocare a calcio, accroccando vestiti e borsoni. Un omaggio a Rino Gaetano con “Ubriaco canta amore” introdotta da Finaz, citando Vasco Rossi: «Un filosofo contemporaneo vivente qualche anno fa ha detto che le canzoni nascono da sole e vengono già con le parole».  Immancabile il momento di monito sociale con “Lo sciopero del sole” introdotta questa volta da Don Bachi «siamo stati accusati di essere eco terroristi, ma gli effetti del cambiamento climatico oggi si vedono» e “Manifesto”, sempre presente.

foto di Alessia Sabetta

Poi risalgono sul palco i Patagarri per un finale improvvisato, senza prove, sulla scia di quella che Finaz definisce «musica vera fatta sul palco». E quindi «Una mattina, mi son svegliato» urlato a squarciagola dal pubblico mentre l’accompagnamento musicale, in sottofondo, ricorda una festa balkan, che si conclude con le note di “Se mi rilasso collasso”, all’insegna di abbracci, risate e assoli degli strumenti a fiato dei Patagarri.

Due stili musicali, due background, due generazioni. Cosa hanno in comune? Il pubblico ballerino a suon di folk e swing ma soprattutto uno sguardo attento sulla politica e le questioni sociali. Come la ginestra, che resiste e fiorisce anche nei terreni più aridi, dove tutto sembra ostile. 

Alessia Sabetta

Joan Thiele e Franco126: debutti e conferme al flowers festival

Prima o poi bisognerà scrivere una guida estiva per sopravvivere al caldo della città. Tra i suggerimenti andrebbe inserito il Flowers Festival di Collegno organizzato da Hiroshima Mon Amour – quale evento rigenerante e lontano dal caos – che in dieci anni di attività è diventato un riferimento per molte persone sia per la programmazione densa di artisti che per il semplice piacere di ascoltare musica dal vivo all’aperto. 

Tra i primi appuntamenti di quest’anno siamo stati al doppio concerto del 27 giugno con protagonisti Joan Thiele e Franco126. Due coetanei, appena trentenni, attivi in musica da ormai dieci anni con percorsi musicali differenti, ma dallo stile che risuona per il modo di mescolare influenze del passato (R&B, rap, cantautorato) in nuove forme ibride. 

La musica inizia presto, ancora prima del calar del sole sale sul palco Lorenzza, giovane rapper nata in Brasile e cresciuta a Pisa, che ha presentato i brani del suo primo EP A LORENZZA. Chi pensa si tratti solo di un prodotto delle case discografiche che per stare al passo coi tempi lanciano nuove artiste fotocopie dei colleghi uomini, beh… si sbaglia. Lorenzza, come tante altre rapper emergenti, ha voglia di rivalsa e una buona dose di consapevolezza che la rendono originale e la distaccano dalle figurine bidimensionali dell’onda dei giovani rapper drill e trap. 

Foto di Fabio Marchiaro, da pagina FB di Flowers Festival

Al tramonto, salgono sul palco Joan Thiele e la sua band, tutti vestiti di bianco. Il fulcro del concerto è Joanita, il suo primo album in italiano uscito subito dopo la partecipazione a Sanremo. I primi brani sono fluttuanti e pieni di riverberi, quasi da film western, Joan canta fissa davanti al microfono così da svettare come un vertice piramidale sul palco. L’intensità aumenta non appena l’artista imbraccia la sua chitarra elettrica ed esegue i brani più arrabbiati e istintivi muovendosi per tutto il palco. La sua voce limpida e delicata è in piena simbiosi con i riff infuocati della chitarra e i suoni leggeri della tastiera. Altro aspetto notevole è l’utilizzo delle colonne sonore di Piero Umiliani, che la band suona dal vivo con un risultato diverso dai campioni in sottofondo presenti nel disco. La sua esibizione non può che concludersi con “Eco”, in una versione quasi progressive e psichedelica.

Foto di Fabio Marchiaro, da pagina FB di Flowers Festival

Nella pausa necessaria al cambio palco, ci accompagna la playlist pre esibizione di Franco126, con brani di Sergio Caputo, Pino D’Angiò e Neffa, artisti affini al cantante romano, oltre che sue probabili fonti d’ispirazione. La scenografia è quella di un salotto da indovino (figura già presente fin dall’annuncio del nuovo disco via social): tende rosse, una palla luminosa al centro, lampade ad arco e luci calde. Il mago che risolve dubbi e incertezze è Zoltar, il cui volto digitale è dentro lo schermo della cabina 126. Franco interagisce con l’avatar per provare a indovinare i futuri possibili, tra risate e battute in romanesco. La band composta da sei musicisti ha dato nuova veste ai brani recenti ma soprattutto a quelli passati. La presenza di un sassofonista permette delle variazioni malinconiche da jazz notturno, mentre alcuni brani ripresi in chiave latino-americana sorprendono per la loro frenesia. Lo show scorre tutto d’un fiato: i medley sfruttati a dovere potenziano l’effetto nostalgia delle canzoni degli esordi mentre i brani più popolari uniscono tutto il pubblico in un karaoke. Franco, nascosto dietro i suoi occhiali neri e sempre col bicchiere in mano, si diverte a giocare con il campionatore mentre sussurra al microfono ricordi, pensieri, dialoghi estratti dal suo mondo in cui relazioni, passatempi e routine giornaliere si incrociano con le singole storie di ognuno. Tra il pubblico c’è chi piange e si emoziona, chi si abbraccia e si bacia: chi sogna questi momenti dal 2016 non può che tornare a casa con sollievo. 

Foto di Fabio Marchiaro, da pagina FB di Flowers Festival

Entrambi i concerti hanno unito con gusto passato e presente, trovato il giusto ponte di comunicazione con il pubblico e resa più leggera e sopportabile una serata calda altrimenti insostenibile.

Alessandro Camiolo

Eugenio in Via Di Gioia: il tour l’amore è tutto al Flowers Festival 2025

Si sono fatti attendere e, con un ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia, gli Eugenio in Via Di Gioia sono saliti sul palco del Flowers Festival inaugurando, il 26 giugno, il loro tour estivo “L’amore è tutto”, omonimo del loro ultimo album e proseguimento ideale del giro di concerti di presentazione avvenuto in primavera nei principali club italiani.

Sul proprio sito il gruppo ci invita a immaginare cosa può succedere in un concerto che dura 2 ore. Ma, con assoluta certezza possiamo dire che: Eugenio Cesaro (il frontman), correrà e salterà forsennatamente da una parte all’altra dello stage; Paolo Di Gioia (percussioni) cercherà di riportarlo nel qui e ora, richiamando la sua attenzione e facendo il cantastorie; Emanuele Via (tastiere) tenterà il tutto per tutto con le sue battute sagaci capaci di suscitare risate tardive; Lorenzo Federici (basso) sembrerà sempre capitato lì per caso.  Tutto è confermato anche  questa volta! Il concerto è durato due ore con Eugenio scheggia impazzita, Paolo narratore attento, Emanuele e il suo humor non sempre fulmineo e Lorenzo imperturbabile e inossidabile come «il ferro ternano» ampiamente citato nei momenti più ilari della serata.

Foto di Alessia Sabetta

Proprio Paolo racconta che a volte, nei loro concerti, si chiudono dei cerchi e infatti la data di aprile a Venaria (di cui raccontiamo qui) si era chiusa con “Per ricominciare”, con cui, invece, hanno aperto questa data di Collegno, di nuovo a casa loro.  Il concerto, che ha dato maggiore spazio ai brani dell’ultimo album, è stato anche un tuffo nel passato più o meno lontano: “Giovani illuminati” e “Chiodo Fisso” tra i brani più datati, “Lettera al prossimo” e “Altrove” per Natura viva, “Giornalaio” e “Filastrocca per grandi” per Amore e rivoluzione. Un viaggio tra una carriera decennale celebrata con il brano “Tornano” per ricordare «Le corse al volo con lo zaino che salta le corde rotte, la musica alta, in sei schiacciati sulla stessa Panda». Ad un certo punto il concerto si è tinto di pennellate malinconiche quando Eugenio, visibilmente commosso, si è accorto della presenza tra il pubblico della sua professoressa di italiano del liceo, proprio nel momento della serata più intimo con in scaletta i brani più profondi come “Buio”.  Con grande sorpresa, però, non è arrivato il momento di “Prima di tutto ho inventato me stesso”, Eugenio non ha tirato fuori il suo cubo di Rubik gigante e quello che era il momento topico di ogni loro concerto rimane un ricordo, sostituito da quello che probabilmente diventerà il prossimo tormentone – ovvero Eugenio che fa incursione tra il pubblico su “Sette camicie”

Foto di Alessia Sabetta

La cosa sorprendente degli Eugenio osservati oggi è il modo in cui sta cambiando il loro pubblico,sempre più eterogeneo. Se per la maggiore è composto da giovani (sia coloro che li seguono da tempi immemori e riconoscono le canzoni ancor prima che la band faccia il primo accordo, sia coloro che si sono avvicinati con la crescente influenza sui social), non è difficile notare numerosi bambini e bambine (accompagnati dai genitori) urlanti, ma anche più anziani (che non accompagnavano nessun figlio o nipote) posizionati negli spazi meno affollati della Certosa a godersi il concerto. 

Per i fan di vecchia data, ritornare a un concerto degli Eugenio significa ritrovare l’allegria nascosta e passare una serata in cui non mancano momenti di riflessione sociale (sia per i brani più fortemente connotati, che per i discorsi consapevoli ed efficaci). Chi li vede per la prima volta, invece, è quasi sempre travolto da un turbinio quasi inaspettato. In definitiva, un concerto degli Eugenio in Via Di Gioia è molto più di una semplice esibizione musicale: è un’esperienza collettiva che unisce leggerezza e profondità. Lasciarsi coinvolgere dalla loro energia diventa quasi inevitabile grazie all’entusiasmo che solo una band genuina come loro sa regalare. 

Alessia Sabetta

Al Flowers Festival, dopo la tempesta arriva Fulminacci

Sono le 21:30 dell’11 luglio e il maltempo sembrava pronto a boicottare una delle ultime date del Flowers Festival. Dopo qualche speranzosa preghiera, Mazzariello sale sul palco solo mezz’ora dopo, dando così inizio alla terzultima serata del festival.

Il compito del musicista napoletano, accompagnato alle tastiere da Giuseppe Di Cristo, è quello di apertura a Fulminacci. Nonostante si tratti di un incarico sempre abbastanza difficile, Mazzariello viene promosso a pieni voti dal pubblico: ne coinvolge una buona parte grazie alla parlantina spigliata nonostante l’emozione, e riesce a farsi accompagnare da un bel coro. Saluta il pubblico con “Pubblicità progresso” − brano conosciuto in quanto colonna sonora della serie Summertime − che unisce alla cover del brano di Frah Quintale ft Giorgio Poi, “Missili”. 

Dopo un (non molto rapido) cambio palco si abbassano le luci, i musicisti si posizionano sulla scena e parte una sorta di messaggio preregistrato. Inizialmente chiede di spegnere i cellulari ma poi, correggendosi, chiede non solo di tenerli accesi e di fare qualche storia per Instagram, ma anche di ricordarsi di taggare tutta la band, compreso il tastierista «che sennò si offende». 

foto di Alessia Sabetta

Sale sul palco Fulminacci − vestito da un completo giacca gilet + pantaloncino in silver e maglietta della Nasa, con scritto “Spacca” − con la chitarra e, sullo sfondo del ledwall, con “Borghese in Borghese” inizia il concerto.

Fulminacci in live è come l’aglio nell’olio: sfrigolante e un ottimo insaporitore. Di sicuro la band di supporto (composta da Roberto Sanguigni al basso, Lorenzo Lupi alla batteria, Riccardo Nebbiosi al sax baritono e tenore, Giuseppe Panico alla tromba, Riccardo Roia alle tastiere e Claudio Bruno alla chitarra), conferisce il quid in più per trasformare una semplice “Aglio e olio” in una buonissima AglioOlio&Peperoncino. La dimensione del live è curata benissimo: i musicisti si muovono sul palco coreografando dei passetti di danza semplici ma d’effetto, che ben si incastrano con l’atmosfera musicale un po’ anni ‘80. Dal vivo, infatti (più che in studio), sono enfatizzate quelle sonorità underground hip hop e funk con i tempi in levare e l’accompagnamento energico dei fiati. 

foto di Alessia Sabetta

Ovviamente, non manca il momento malinconico al pianoforte sulle note di “Le biciclette” e “Una sera” e l’arrivo a sorpresa di Willie Peyote per “Aglio e Olio”. Dopo la momentanea uscita di scena, gli artisti salgono nuovamente sul palco per poi congedarsi definitivamente dopo Tommaso e «la canzone con cui ho perso il Festival di Sanremo», “Santa Marinella”, accompagnata dal canto a cappella e ad libitum del pubblico incitato dagli artisti sul palco. 

Un live, quello di Fulminacci, degno di essere chiamato tale: buon intrattenimento, buona musica, pubblico soddisfatto e artisti altrettanto. What else?

a cura di Alessia Sabetta

Elio e le Storie Tese: il tempo passa ma loro restano

Ultime luci della giornata sul pubblico del Flowers Festival, palco leggermente illuminato. Una voce cadenzata, da dietro le quinte, inizia a recitare un’omelia per ascoltare musiche un po’ stupide «che acquisiscono un senso sotto il segno del Cristo». Verrebbe da chiedersi perché ci si è ritrovati in una messa indesiderata durante una serata d’estate, precisamente quella del 6 luglio. Invece, è il concerto di Elio e le Storie Tese che aprono così lo show del tour “Mi resta solo un dente e cerco di riavvitarlo”, entrando in scena tutti vestiti di bianco. 

Un concerto all’insegna della musica sparkling, come spesso ripete Elio, tra prosa e poesia, fiabe e attualità. Tanti sono i momenti di interazione con il pubblico in cui Faso (bassista) e Vittorio Cosma (tastiere) raccontano aneddoti per presentare alcuni brani: come la narrazione tratta dal libro di fiabe per analfabeti per “Il vitello dai piedi di Balsa” o la descrizione delle fasi di trasformazione da uomini a “Servi della gleba”

foto di Alessia Sabetta

Sulla scena anche Cesareo (chitarra), seduto un po’ in disparte; Paola Folli (voce, cori, tamburello); Antonello Aguzzi (tastiere e coro); Paolo Rubboli e Riccardo Marchese (batteria e percussioni). Questi ultimi due, i più giovani, sono costretti tramite una cerimonia, a scambiarsi le postazioni per un’imposizione dello SBURRE − il Sindacato Batteristi Uniti per il Rock and Roll Elvetico − al fine di non far terminare i colpi a disposizione. Rubboli e Marchese, in realtà, sono i sostituti di Christian Meyer che − tramite un annuncio − aveva spiegato che, a causa della sua passione per i pinoli, ne aveva fatto un consumo eccessivo tanto da provocargli «effetti imprevedibili ed indesiderati» da non poter prendere parte al tour. A grande sorpresa però, per il bis, appare sul palco, presentato come il direttore dello SBURRE, Fritz Meyer, fratello gemello di Christian. Il batterista, teletrasportatosi dal quartiere generale a causa del termine dei colpi disponibili, si assume il compito di sopperire al disagio e, per quanto i due ragazzi siano tecnicamente preparati per stare dietro alla band, appena Meyer impugna le bacchette, si sente subito la differenza. 

L’immancabile Mangoni vestito da Supergiovane, soubrette con le ali fucsia da danza del ventre, in completo total silver o rosso a cuoricini bianchi, completa l’allegro quadretto arrampicandosi sulle impalcature e saltellando o ballando qua e là.

foto di Alessia Sabetta

Lo spettacolo è tutto quello che ci si potrebbe aspettare dalla stravagante band: ironia, pungenti battute a sfondo politico, irriverenza e consapevolezza che è tutto ciò che la cancel culture abolirebbe. Nonostante il tempo sembri aver fatto il suo decorso anche per loro, i fan continuano a incitarli a suon di “forza Panino” perchè, malgrado tutto, gli Elio continuano a risultare sempre geniali e musicalmente molto più che validi. 

a cura di Alessia Sabetta

Venerus è una scatola di cioccolatini e al Flowers Festival se n’è assaggiato qualcuno

Venerus è una di quelle scatole di cioccolatini con i gusti assortiti e le combinazioni più improbabili. “Istruzioni”, per esempio − brano d’apertura dell’album Il Segreto − il 3 luglio al Flowers Festival è un cioccolatino fondente (80%) con ripieno all’ananas e cocco. La canzone, come il cioccolato fondente, ha la capacità di farti piangere al primo accordo; ma è stata riarrangiata per l’occasine con una base hawaiana dalle vibes da cocktail nel cocco e ghirlanda di fiori. «Se dovete dichiaravi a qualcuno fatelo adesso», l’ha presentata così al pubblico un po’ stranito dalla (piacevole) dissonanza.

Nella stessa scatola anche il cioccolatino al latte: semplice, mai stucchevole e sempre apprezzato come “Sei acqua” − anche questa riarrangiata per l’occasione − pianoforte e voce. Lui, emozionato e con la voce spezzata sul finale, fa sì che il pubblico si chiuda in un abbraccio collettivo, perché in fin dei conti la canzone – che nella versione originale vede la collaborazione con Mace e Calibro 35 – fa sentire tutti gli ultimi romantici.  Poi la cover di “Vita spericolata”, il cioccolatino un po’ liquoroso, quello che rimane sempre alla fine, per gli amanti del genere o per i più temerari che pur di mangiare della cioccolata accettano di ingurgitare il liquidino amaro.  

foto di Alessia Sabetta

Una box alla tuttuigusti+1 che fa accettare la possibilità di un cioccolatino meno buono, perché l’esperienza di assaggio vale molto di più. Del resto, l’artista ha la capacità di coniugare tantissimi generi musicali spaziando dal R&B, al soul, al Jazz, per creare brani che, come pralinati ben fatti, sono paragonabili a dei gioiellini.

Cioccolatini a parte, Venerus, attualmente è tra le voci e penne più interessanti del panorama musicale italiano e ciò che lo contraddistingue è che incarna l’ideale di libertà.  

Sul palco non sembra essere incatenato da codici di comportamento particolari: semplicemente, stabilizzato sulla sua frequenza (cfr Resta qui), si lascia guidare dall’istinto, si muove in balli ondeggianti, si prende qualche istante per un sorso di whisky qua e là, ride mentre canta. Addirittura, interrompe il concerto per una cerimonia di incoronazione del tecnico di palco come principe di Torino. Cerimonia degna d’essere chiamata tale, con una corona (di fiori confezionata meticolosamente da lui stesso, ma sgualcita dopo essere rimasta conservata in tasca) e un’aura tra il sacro e l’onirico, che Buñuel a stento sarebbe riuscito a ricreare.In tutto ciò, il pubblico sembra non essere sorpreso perché da Venerus ci si potrebbe aspettare qualsiasi cosa e proprio per questo nessuno si fa domande, accettando tutto per come viene, perché Vinnie è libero e questo il suo pubblico lo sa.

foto di Alessia Sabetta

Quindi si: Venerus è una scatola di cioccolatini di cui non si può fare a meno, anche se ci sono gusti improbabili o c’è il rischio di incappare in quello che ti fa storcere il naso.  Ma si tratta pur sempre di (un buon) cioccolato ed è difficile non apprezzarlo.  

a cura di Alessia Sabetta