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Intervista tripla ai pianisti del festival Chopin

Nei giorni successivi ai concerti del Festival Chopin, abbiamo intervistato i tre giovani musicisti che si sono esibiti. Abbiamo parlato dei loro diversi percorsi di formazione, del legame con la musica e di tanto altro. 

Come e quando avete iniziato a studiare pianoforte?

David Irimescu: «Come spesso si dice, è successo per caso… ma evidentemente per caso non è successo. Avevo nove anni, distribuivano volantini fuori dalla scuola elementare, mia mamma me ne mostrò uno e mi chiese se mi interessava, e io risposi: «Perché no? Andiamo a provare». La prima lezione fu folgorante: mi sentii super gasato e bravo, apprendevo molto in fretta e mi piaceva tantissimo l’entusiasmo che leggevo negli occhi degli adulti. Questa cosa mi ha lasciato un segno profondo. Ho studiato un anno, poi sono passato a una scuola privata (Artemus) con un’insegnante bulgara molto severa. Questa educazione rigorosa mi ha portato a un livello tale da poter entrare in Conservatorio, dandomi un impulso fortissimo verso lo studio».

Matteo Buonanoce: «Nasco in una famiglia dove la musica è di casa: mia mamma è pianista, mio padre ha suonato la tromba. Questa predisposizione musicale era vista come un aiuto alla crescita. Inizialmente mia madre mi sconsigliò il pianoforte, così provai l’ukulele, ma le dita mi facevano male. Appena ho provato il pianoforte, non l’ho più lasciato, sentendo una connessione immediata».

Maria José Palla: «Non vengo da una famiglia di musicisti, è stato tutto molto casuale. A tre anni ho iniziato danza, verso i sei ascoltavo la musica del pianoforte durante le lezioni, specialmente Chopin, e ho pensato di voler suonare uno strumento. I miei genitori mi dissero di scegliere tra musica e danza. Ho aspettato fino agli undici anni, quando mi sono imposta sui miei genitori per la scelta di una scuola media a indirizzo musicale. La scelta del pianoforte è stata casuale, ero la prima nel test d’ammissione senza aver mai studiato nulla».

C’è stato un momento preciso in cui vi siete resi conto di volervi dedicare esclusivamente al pianoforte, alla musica?

D.I.: «A diciotto anni e mezzo ho deciso che sarebbe diventata la mia professione. Il pianoforte era un rifugio dove esprimere ciò che non potevo dire. Dopo poco, ho interrotto gli studi per quasi cinque anni a causa di una malattia. In questo periodo ho iniziato a insegnare per necessità, poi per amore. Non avendo soldi per le terapie, ho chiesto ai professionisti di insegnarmi, formandomi in diverse discipline olistiche.
A ventitré anni ho ripreso gli studi, laureandomi al Conservatorio di Torino con lode: è stato un momento emozionante, tutte le parti della mia vita si sono ricongiunte. Ho proseguito la specializzazione a Torino e prossimamente mi trasferirò in Svizzera per un master. Spero di poter continuare a donare alla gente qualche cosa con i concerti, con la musica, con la passione».

M.B.: «Ho capito abbastanza tardi di voler fare il musicista, perché ho sempre coltivato sia la strada della musica che quella scolastica. Mia madre mi ha sempre tenuto con i piedi per terra, dicendo che è una carriera difficile. Ho finito il liceo scientifico l’anno scorso. È stato grazie a questa scuola che ho capito di voler fare il musicista, perché non mi interessava nient’altro. Tre anni fa ho deciso definitivamente di voler fare il musicista nella vita. L’importante è che la mia passione diventi il mio mestiere».

M.J.P.: «Da subito ho voluto dedicarmi alla musica in modo esclusivo. Ho detto: «Ok, questa cosa la farò per sempre», perché era così stimolante e arricchente, e mi dava la possibilità di esplorare me stessa. Questo spazio musicale mio, da sola, era magico; ho sempre desiderato farlo per tutta la vita. Il momento in cui ho dovuto scegliere se continuare professionalmente è stato al liceo. Frequentavo il liceo classico in Sardegna, in più c’era la danza che stava diventando professionale e il Conservatorio. Questo mi chiedeva troppe energie, per cui ho dovuto lasciare la danza: mi sono concentrata definitivamente sulla musica, ed è stato bellissimo».

Qual è il vostro rapporto con l’ambiente di formazione, i maestri che avete avuto e i metodi di insegnamento?

D.I.: «Nella formazione sono un ribelle, la mia integrità è un valore forte, se una cosa non suona vera non mi appartiene. A un certo punto non riuscivo più a mettere da parte me stesso e per questo mi ammalavo, non ascoltavo la mia voce interiore.
Al liceo c’è stata un’insegnante che è stata come una seconda madre; mi ha salvato la vita moltissime volte. Attualmente anche l’insegnante del conservatorio è una figura paterna, una persona davvero molto buona e brava, con cui mi consulto e mi confronto.
Il mio approccio alla musica è spirituale: prima mi consumava – si chiede spesso ai musicisti di dimostrare di essere migliori, ma sono derive narcisistiche. Suoniamo musica di altri, lo spartito è una chiave d’accesso al pensiero del compositore, io devo fungere da canale per la trasmissione viva, sono un servo del tempo, della musica e del compositore».

M.B.: «La mia prima insegnante, Maria Campaiola, è stata importantissima per farmi innamorare della musica: con lei non ci si fermava solo sulla tecnica, ma facevamo masterclass estive, pranzavamo, guardavamo opere e facevamo indovinelli sugli strumenti.
Al Conservatorio, con Marina Scalafiotti, ho fatto un percorso lungo, di grande crescita. Ho imparato a essere organizzato e preciso, usando bene il tempo senza ansia. In Italia, nelle scuole spesso non si ha consapevolezza del Conservatorio, i professori preferiscono gli sportivi, ma la musica esercita un’attività psicologica senza paragone. Anche questa dovrebbe essere un vanto».

M.J.P.: «Il mio ambiente è sempre stato una bolla di sperimentazione musicale. Ho avuto la fortuna di trovare nella mia prima insegnante del Conservatorio una persona magnifica. Con lei condividevo questo senso di ricerca creativa: mi sono trovata benissimo, mi spingeva a usare immaginazione, sperimentazione, improvvisazione… era una ricerca costante. Mi sentivo sempre più stimolata, verso la mia voglia di imparare e creare. Il primo approccio con la formazione è stato molto positivo e incoraggiante».

Veniamo ai concerti del Festival Chopin, come sono stati per voi? Che rapporto avete col repertorio? Quali composizioni hanno rappresentato una sfida maggiore?

D.I.: «È stata un’epopea: suonare quattro programmi chopiniani in due giorni richiede impegno emotivo e lucidità per attraversare flussi di depressione, tragedia e morte, ma non ero preoccupato. Il repertorio era così vasto che, vivendolo sinceramente, non c’è spazio per la preoccupazione. Studi il dramma prima, e poi diventa parte di te: se sono vero, non ho niente da temere. Vivendo le storie dei brani, interagivo con il pubblico, sentivo i pensieri e le reazioni, vivevo con gli altri, ero parte del pubblico mentre suonavo».

M.B.: «Questa occasione mi ha dato l’opportunità di rivalutare il mio legame con Chopin. La mia insegnante mi assegnò subito brani difficili. Ho sempre fatto fatica con questa musica: è complicato raggiungere quel livello di chiarezza e spontaneità. Studiare Valzer, Mazurche e Polacche mi ha permesso di scoprire altre sfaccettature e stili di Chopin. È stato bellissimo e stimolante. Sono arrivato a suonare meglio le composizioni che già conoscevo, e a legare di più con il compositore. Chopin è molto diretto nel suo messaggio, ed è stato bello rivedere in me queste qualità: essere onesto con il pubblico, trasmettere naturalmente.
Tutto questo l’ho sviluppato in particolare nelle Mazurche che ho eseguito, dodici, diversissime tra loro. L’esecuzione dell’intera opera è un’esperienza bellissima, richiede un bagaglio culturale e di vita enorme. Le Mazurche sono quelle che mi hanno stupito di più e mi hanno dato il maggiore piacere: sono piccole chicche con tante sfaccettature».

M.J.P.: «Sono stati concerti molto intensi e faticosi, arrivando da altre sette esibizioni negli ultimi dieci giorni. La musica di Chopin è centrale per i pianisti. La mia prima insegnante odiava il modo ‘sdolcinato’ di eseguire Chopin. Mi disse di non studiare i Notturni, facendomi sentire le Mazurche più vicine alla verità della composizione.
Avere l’occasione di sperimentare e comunicare opere così diverse è stato bello. Mi porto nel cuore tutti i pezzi, principalmente un Notturno, il Postumo in mi minore, una delle prime cose che ho suonato, e le Ballate. La Terza ballata è una composizione meravigliosa, con la sua discorsività e narrazione organica. Suonarla per la prima volta è stato bellissimo, come stare nel presente e parlare al pubblico, facendo un viaggio insieme».

C’è stata una figura, un artista, un musicista o un intellettuale che ti ha influenzato o che stimi particolarmente?

D.I.: «A undici anni, ascoltai un’interpretazione di Skrjabin da parte di Horowitz, e mi ritrovai in lacrime. Mi ha toccato, ha aperto in me la volontà di ascoltare anche dagli altri.
La spiritualità, l’empatia, l’essere terapeuta, vedere le cose vissute dagli altri, mi aiuta ma mi devasta. Concerto viene da “concertare”, cioè fare qualcosa insieme. Io concerto con il pubblico, non per il pubblico. Quando ci sei tu ad ascoltarmi, quel brano non può più essere quello che ho preparato; essere flessibile è un tratto molto importante».

M.B.: «Durante gli studi al liceo ho confrontato le mie nozioni musicali con artisti, pittori, letterati. Molti compositori prendono spunto dall’arte, penso a Liszt con i Sonetti del Petrarca. Inizialmente vogliamo tutti aspirare a Liszt, grande interprete, amato dal pubblico, con tecnica pazzesca. Ma anche chi si mostra spavaldo ha un lato intimo, come Liszt che si ritirò alla vita religiosa.
È bello avere tante competenze su stili e personalità. Chopin non suonava forte, ma la sua musica colpisce tutti perché inconfondibile, immediata. Chi sa suonare bene Chopin riesce a suonare quasi tutto, ti dà un bagaglio emotivo e di onestà che puoi riversare su qualsiasi cosa. È impossibile non avere un legame speciale con Chopin».

M.J.P.: «Direi sicuramente Horowitz. Lui è geniale, ha quella genuinità nel suo rapporto con la musica, nel puro stupore. Non possiamo frenarci quando proviamo qualcosa con la musica. Horowitz dava il cento percento in ogni esecuzione. Sbagliava, ma ti passava il messaggio. Poi stimo il mio insegnante Enrico Pace: è un pianista pazzesco, sono grata per ogni lezione con lui.
Anche musicisti non famosi con cui ho collaborato mi hanno insegnato tantissimo. I miei colleghi di trio con i quali ogni giorno scopro qualcosa. Ogni situazione di vita è una fonte di ispirazione. La musica si sviluppa tantissimo attraverso le esperienze di vita. Bisogna essere grati per qualsiasi cosa si viva, avere il coraggio di viverla fino in fondo. Penso sia la più grande fonte di ispirazione».

Qual è la musica che ti fa più piacere ascoltare, che ti coinvolge o ti interessa maggiormente?

D.I.: «Adoro il barocco, Scarlatti e Bach. In Bach si toccano vette di contatto con Dio. Quando voglio essere purificato, vado da Bach. Adoro Scarlatti perché mi mette di buon umore, mi mette in un’estrema estroversione che è parte vera di me. C’è qualcosa di vibrante in Skrjabin, lui era un mistico, un compositore su cui torno quando ho bisogno di evadere o mi sento giù.
Se c’è qualcosa che non ti piace, è perché non gli permetti di esistere dentro di te. Non mi piacevano Schumann e Brahms, poi a tredici anni ho pianto suonando Schumann. Un allievo non capiva Mozart, e io dissi: “Certo, perché sei troppo serio”».

M.B.: «L’unica che tendo a non apprezzare è quella priva di significato, dove si cerca solo una rima o il ritornello per l’estate, con uno scopo prettamente commerciale. Quella faccio fatica a digerirla. L’importante è che la musica abbia un messaggio, che arricchisca. Mi piace il jazz, la musica latino-americana, di cui sono un grande appassionato, che ho ballato e continuo a ballare, con la sua cultura e lo studio dietro a ritmi e percussioni. L’importante è sempre lo scopo, il messaggio che si vuole dare alle persone, perché con la musica si condivide. Chi fa musica condivide qualcosa di sé, un po’ come tramandare un messaggio».

M.J.P.: «Non ascolto quasi mai musica per pianoforte. Siamo condizionati, le orecchie pronte a carpire… Se ascolto un pezzo che suono, mi viene da riprodurre ciò che ho sentito.
Ascolto molta musica sinfonica, da camera. Mi piace la musica folklorica di altri paesi, musica sconosciuta che mi porti lontana dal nostro punto di vista occidentale, mi piace spaziare.
Da suonare, sono un’amante della musica da camera. Mi piace suonare con gli altri. Mi piace suonare anche da sola, mi dà una libertà che nessun altro contesto consente. Come autore, siamo tutti grati a Bach, lo suonerei tutti i giorni. Fra i moderni, sono innamorata della musica di Skrjabin, non mi stanco mai di lui, incarna la figura dell’esploratore artistico a trecentosessanta gradi. Ha cambiato stile compositivo più volte, era continuamente alla ricerca, connetteva la musica alla religione, ad altre dimensioni e colori. Ogni volta che suono un suo pezzo, c’è un universo da imparare, da esplorare, non ci si può stancare».

Alessandro Camiolo

La bellezza della scoperta: Jazz Is Dead! raccontato da Alessandro Gambo

Dietro ogni festival c’è una visione, un’identità che prende forma attraverso scelte artistiche, intuizioni audaci e tanta passione. Alessandro Gambo, mente creativa del Jazz Is Dead!, ci porta dietro le quinte di un evento che non è solo musica.

Qual è la visione artistica dietro l’ottava edizione di Jazz Is Dead? Come è cambiata la direzione nel corso degli anni? È necessario reinventarsi per restare rilevanti? 

La visione di Jazz Is Dead, come ogni anno, è quella di esplorare la musica d’avanguardia a tutto campo: jazz, elettronica ma anche rock e pop. L’identità del festival è fortemente legata alla sua direzione artistica, perché lo stesso artista può trasmettere sensazioni diverse se ascoltato in un club o su un grande palco.

Costruiamo la line up seguendo tre grandi filoni, in base alle giornate: il venerdì la sperimentazione e l’avanguardia, il sabato suoni più accessibili con dei ritmi coinvolgenti e poi la domenica sonorità post-jazz. Visto che il jazz è morto andiamo a cercare quello che è successo dopo! (ride, ndr)

Quest’anno abbiamo aggiunto un quarto giorno, in collaborazione con Jazz:Re:found, dedicato alle sonorità dub, prettamente Oltremanica. Ci saranno artisti come Ghost Dubs, Mad Professor e The Bug, imperdibili!

Ogni anno seguiamo questi tre filoni e, in base a quello che ascolto e scopro durante i mesi precedenti, costruisco una line-up coerente e la propongo. 

A prima vista, il programma del festival può sembrare un “caos calmo”, un elenco di artisti senza apparente connessione. Qual è il filo rosso che li lega?

Io sono un DJ, quindi ho sempre immaginato e cercato suoni che stessero bene l’uno con l’altro indipendentemente dal fatto che un brano sia una hit o un pezzo sconosciuto. Lo stesso principio vale per gli artisti di Jazz Is Dead.

Un grande ringraziamento va al negozio di musica Ultrasuonisound, il mio pusher di fiducia di dischi da 25 anni (ride, ndr). Conosce le sonorità che cerco e spesso mi propone dischi in anteprima, addirittura ragioniamo insieme: da grandi consigli nascono grandi line-up.

Fino ad adesso il pubblico è stato sempre molto contento perché abbiamo affiancato nomi storici come Charlemagne Palestine, Godflesh e William Basinski a talenti emergenti, con la bellezza della scoperta. Proprio oggi, un nostro follower ci ha ringraziato per avergli fatto conoscere nuovi artisti, tornando a casa con un bagaglio di ascolti completamente nuovi.

Cosa rende speciale Jazz Is Dead?

La forza sta nella sua credibilità e nell’atmosfera unica che si crea. Le persone non vengono solo per i singoli artisti o per gli headliner, ma per vivere 3-4 giorni immersi in suoni sempre diversi.

La direzione artistica combacia con le esigenze del pubblico, ma non è solo la musica a far vivere il festival: c’è un mood di cui andiamo molto fieri.

Se potessi scegliere un artista impossibile—vivo, morto, fittizio—chi inviteresti al festival? C’è un artista che avete sempre sognato di avere nel festival?

Ho letto una frase che diceva «A meno che tu non sia John Lennon, Michael Jackson o James Brown, non aspettarti risposte per il booking!» credo che valga come risposta. (ride, ndr) 

Sono un beatlesiano, quindi la produzione di Harrison l’ho sempre trovata molto interessante, sicuro un Lennon o un Harrison non sarebbe male.

Mi piacerebbe portare Parliament-Funkadelic, George Clinton è ancora vivo…più o meno! (ride, ndr)

Adesso porterei volentieri Mondo Cane, un progetto bellissimo di Mike Patton in cui interpreta canzoni italiane anni ‘60. Sarebbe fantastico! Magari lo propongo a Stefano Zenni per il Torino Jazz Festival.

Come si costruisce un’esperienza coinvolgente per il pubblico? Hai notato un cambiamento negli anni nel modo in cui il pubblico vive il festival?

Il pubblico è rimasto sempre lo stesso, tra chi è cresciuto e chi è arrivato ex novo. La nostra idea è quella di rendere il festival accessibile: fino all’anno scorso era gratuito, quest’anno i prezzi sono calmierati, 15€ al giorno, per garantire un’esperienza alla portata di tutti. 

Essendo organizzato da tre associazioni: Arci, Magazzino sul Po e Tum, il festival ha un forte senso di convivialità, di accessibilità di fruibilità e questo ci distingue da quelli più commerciali. Non abbiamo interessi economici, il nostro obiettivo è che tutto stia in piedi, ma senza perdere libertà artistica e spirito inclusivo.

Se dovessi descrivere l’atmosfera e l’ambiente del festival con una sola canzone, quale sarebbe?

Direi “Yellow Submarine”, nei giorni di festival sembra davvero di essere dentro un gran bel sottomarino giallo, mentre il mondo fuori continua la sua routine e noi dentro ci divertiamo e facciamo festa. 

Quali sono gli album che ti hanno accompagnato durante i tuoi anni universitari?

Ho avuto la fortuna di nascere nel 1980, di conseguenza, quando sono diventato teenager dai 13 ai 19 sono usciti gli album più fighi della storia della musica alternativa.  Mtv passava in heavy rotation: “Smells Like Teen Spirit”, “Firestarter” dei Prodigy, Homework dei Daft Punk, “Black Hole Sun” dei Soundgarden e così via. 

Sono cresciuto in questo ambiente e mi sono subito legato alla musica alternativa, al reggae e all’hip hop. Secondo me non puoi non aver ascoltato SxM dei Sangue Misto o Marley. Credo che siano testi e suoni che sono la base della mia identità: mi ci ritrovo politicamente all’interno di questi suoni. Poi, nel 96 ho scoperto i rave ed ho iniziato a partecipare ai free party, da quella scena è uscito un mondo, come gli Underworld. 

Come immagini questo festival tra dieci anni? Qual è il sogno a lungo termine per questo festival?

Non me lo immagino tra dieci anni, perché lo costruisco anno dopo anno, in base a ciò che è successo nelle edizioni precedenti. Non so cosa succederà ma, come ho già detto dal comunicato stampa, posso dirti che sarà l’ultima edizione per come lo conosciamo.  

Stiamo entrando in delle logiche di mercato che non ci appartengono: non voglio giocare al rialzo per ottenere artisti, né trasformare il festival in una compravendita di nomi. 

Preferisco fare un downgrade preservando l’anima Jazz Is Dead: giorni di festa, di convivialità, accessibilità dove tutti possono avere il proprio spazio e tanta musica bella senza aver bisogno di rincorrere la moda o l’artista del momento.

Un consiglio che vorresti dare a chi vorrebbero lavorare nell’ambito musicale?

Il mio consiglio? Fate festa. Dalle feste nascono incontri, idee e progetti incredibili. È proprio quello che è successo a me: all’università ho conosciuto un amico con cui ho aperto il Magazzino sul Po.

Non aspettate che qualcuno dei “grossi” venga a pescarvi: l’auto-organizzazione è la chiave. Costruite qualcosa di vostro, e quando avrete una base solida, potrete collaborare con i grandi e imparare da loro. 

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di Sofia De March e Joy Santandrea

BRX!T senza filtri: tra musica, rivoluzioni e ansia

Per il loro nuovo singolo Ansia, abbiamo fatto un’ intervistare ai BRX!T, gruppo piemontese composto da Davide Barbieri/ Dave (basso e voce), Alessio Ferrara/ Ale (batteria) e Gabriele Ferrara/ Gabe (chitarra), scoprendo le ispirazioni dietro al brano, il loro processo creativo e cosa riserva il futuro per loro.

L’ultima volta era il 2022, cos’è successo in questi anni?

Gabe: Sono cambiate un bel po’ di cose…l’ultima volta eravamo in quattro ora siamo in tre. 

(sorride, ndr). Abbiamo cambiato formazione e il modo di scrivere: siamo felici di aprire una nuova fase della nostra vita musicale.

Per chi non vi conosce, chi siete?

B: Siamo i BRX!T e veniamo da Nichelino. Fino a cinque anni fa ci conoscevate come Fratellislip, ma nel 2021 abbiamo deciso di cambiare nome. BRX!T era il titolo del nostro doppio EP, che avrebbe dovuto uscire nel 2020 ma è stato bloccato dalla pandemia. Quando abbiamo scelto di modificare genere e lingua, volevamo comunque restare fedeli alle nostre radici, ed è per questo che abbiamo deciso di chiamarci così… nonostante la grande rivoluzione che stavamo vivendo—una delle tante che abbiamo affrontato! (ridono, ndr)

Perché suonate e cosa vi ha spinto a far parte di una band?

Ale: Nel mio caso e in quello di mio fratello (Gabe), è stato nostro padre, da sempre appassionato di musica, a trasmetterci questa passione. Ricordo un Natale, o forse un compleanno, quando avevo otto anni: ci regalarono Guitar Hero, e da quel momento abbiamo preso in mano gli strumenti senza mai più abbandonarli.

Dave: io dovevo fare qualcosa e non mi piaceva il calcio, allora ho iniziato a suonare.

Se doveste descrivervi con tre parole, quali sarebbero?

Per descriverci, useremo HEAVY-POP, il genere in cui cerchiamo di identificarci oggi. Non crediamo molto nella categorizzazione musicale, ma se dovessimo sceglierne una, sarebbe questa.

Il 30 aprile è uscito il vostro ultimo singolo Ansia, com’è nata questa canzone? Avete un metodo preciso per scrivere i brani o, nasce tutto in modo spontaneo?

Dave: Non abbiamo un metodo fisso per scrivere: a volte lavoriamo individualmente, altre volte in gruppo. Ma la maggior parte delle volte componiamo jammando, lasciando che la musica nasca spontaneamente.

Ansia è nata dalla necessità di esprimere un sentimento che tutti e tre proviamo, seppur in forme diverse. Io non la sento sul palco, ma nella vita quotidiana.

L’idea del testo è scaturita da un periodo di circa sei mesi in cui mi sono ritrovato a fare visite inutili, per poi scoprire che era “solo” ansia—quella che stringe il petto e ti fa sentire senza via d’uscita.

Quest’ansia che stringe la gola

Non prendermi, lasciami ora 

Foto di Elisabetta Ghignone dal profilo Facebook dell’artista

L’ansia è un’emozione di cui si parla molto spesso, forse è anche uno dei temi che più accomuna la nostra generazione. Viene spontaneo chiedervi quale sia il vostro rapporto con lei?

Ale: L’ansia per me? Ogni secondo in cui respiro essenzialmente (sorride, ndr) …ogni istante della mia vita è soverchiato, occupato dall’ansia.

Dave: Per me è guidare fino a Torino. (ridono,ndr)

Gabe: È uno stato d’animo che provo quando mi sento sopraffatto da troppe cose. Quando mi sento pieno, l’ansia diventa intensa. La sfogo in modi diversi, ma in generale la percepisco come un peso che mi opprime.

Dave: Poi, secondo me, è un tema che accomuna tutti, qualsiasi persona e quindi ci sentivamo di scrivere qualcosa per noi e per tutti.

Qual è il vostro obiettivo come band? Quali sono i vostri progetti futuri e dove vi vedete tra 5 anni?

 B: Conquistare il mondo vale come obiettivo? In realtà, il nostro sogno nel cassetto è vivere di questo.

Vederci tra cinque anni è molto difficile, non ci aspettavamo nemmeno che ci saremmo trovati in tre a fare musica ancora perché molti mollano per diversi motivi. È difficile vedersi ma saremo sicuramente sul palco.

Qual è il vostro featuring dei sogni?

Gabe: Abbiamo un sogno, si chiama Antonino Cannavacciuolo, è un feat difficile ma ci proviamo.

Lele adani è diventato un cantante, si può fare tutto. (ridono, ndr)

Dove possiamo venire a sentirvi suonare dal vivo?

B: Il primo giugno all’ Underdog Fest, un festival organizzato da noi, e il 12 luglio a Caselle.

Abbiamo pochi live estivi ma ci riscaldiamo per l’autunno quando usciranno gli altri singoli. 

L’ultima domanda: se doveste creare un manifesto che rappresenti la vostra filosofia di vita e la vostra musica cosa ci scrivereste?

B: Fate quello che volete, fate ciò che vi rende felici e seguite quello che vi fa stare bene. Finché si è giovani, felici e spensierati, nulla peserà davvero. Non ponetevi confini.

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di Sofia De March e Joy Santandrea

Intervista a Gnut

Claudio Domestico, in arte Gnut, classe ‘81, è un cantautore, chitarrista e produttore napoletano.

Con uno stile intimista e influenze che spaziano dal folk alla tradizione napoletana, Gnut riesce a trasmettere emozioni profonde attraverso testi sinceri e arrangiamenti raffinati. La sua musica è un viaggio tra sentimenti universali e radici culturali, capace di creare un’autentica connessione con il pubblico. Amato per la sua autenticità e sensibilità è un artista che parla al cuore di chi lo ascolta. 

In occasione della prima data del nuovo tour, svoltasi giovedì 20 marzo allo Spazio211, abbiamo avuto modo di incontrarlo e fargli alcune domande.

Per iniziare ti chiedo come stai e come ti senti per questa sera? Hai aspettative riguardo al pubblico torinese, che ha avuto più occasioni di vederti suonare negli ultimi anni?

Sto bene, è un periodo molto bello artisticamente perché sto lavorando ai provini del nuovo disco.

Questo tour, con il pretesto del nuovo inedito, “Luntano ‘a te”, pubblicato il 28 febbraio, è un giro di boa in cui, con dei vecchi amici musicisti, Mattia Boschi e Marco Sica, vado a rivisitare un paio di canzoni che toglierò dalla scaletta con l’uscita del nuovo progetto. È un modo per salutare questo repertorio che mi ha accompagnato negli ultimi anni, rivedere vecchi amici e dare un suono diverso a quello che ho proposto negli ultimi anni.

È sempre bello tornare a Torino, ho lavorato anni fa con un’etichetta torinese, mi sentivo parte della scena torinese per una parte della mia vita (ride ndr), è sempre una grande emozione.

Questa volta hai deciso di presentarti sul palco con altri due musicisti, curioso peraltro che abbia scelto violino e violoncello, solitamente associati al mondo della musica classica.

L’idea iniziale era quella di realizzare un mio vecchio sogno: realizzare un tour con un quartetto di archi solo che, dopo una serie di esperimenti e prove, il risultato era troppo classicheggiante quindi ho lavorato di sottrazione coinvolgendo questi due vecchi amici che hanno un approccio poco classico allo strumento e hanno un suono molto moderno.

È interessante che usiamo degli strumenti classici, come violino e violoncello, ma lo faremo in una chiave molto distante dalla musica classica.

“Luntano ‘a te” è il tuo ultimo inedito, prodotto da Piers Faccini con cui da molti anni collabori, pezzo che annuncia l’uscita di un nuovo album. In diverse occasioni hai affermato che per te i dischi sono come dei diari, nei quali riassumi la tua vita. Sorge spontaneo chiederti di che cosa racconterà il disco? Musicalmente quali influenze avrà?

Il prossimo album sarà diverso rispetto a quelli pubblicati fino ad adesso sia nei testi che nelle sonorità. Rispecchia una fase particolare della mia vita, tutto è nato da una canzone che poi ha creato il percorso da seguire per tutte le altre.

I testi sono di matrice spirituale…dal punto di vista musicale le ispirazioni arrivano dai mantra, dalla musica africana, da quella popolare del Settecento, la taranta… Sarà un disco molto percussivo.

Sarà vicino a quell’approccio di quando non esisteva l’industria musicale e la musica era una cura per la mente e per il corpo. Credo che sia la forma d’arte migliore per metterci in contatto con tutte le entità che esistono, ma che non possiamo percepire con i nostri sensi. Questo disco parlerà di questo.

Ieri, 19 marzo, sarebbe stato il compleanno di Pino Daniele, il quale diceva «Napoli è un modo di essere».  Quanto è importante Napoli nelle tue canzoni? Che rapporto hai con la città e come la tradizione napoletana influisce sulla tua musica?

In realtà io sono quello che sono, sia come persona sia come musicista, perché sono nato e ho vissuto a Napoli. Quando ho iniziato a suonare ero adolescente ed ero affascinato dalla musica che arrivava da lontano, erano gli anni ’90, c’era il grunge; quindi, non mi interessava molto la tradizione.

Poi, crescendo, mi sono reso conto dell’importanza delle radici, credo che valga per ogni forma d’arte.

Confrontarsi con le proprie radici, con il percorso storico del posto in cui sei nato diventa una chiave molto interessante nel momento in cui lo vai a fondere con quello che ti piace e con quello che arriva da molto lontano.

Da qualche anno ho fatto pace con il repertorio della tradizione napoletana, è una cosa che ho iniziato a studiare negli ultimi anni e, diciamo, ha chiuso un cerchio facendomi trovare una direzione più consapevole artisticamente.

Continuando a citarlo, Pino Daniele, cantava: «E si chest nunn è ammore ma nuje che campamme a fa’». Penso che l’amore abbia la capacità di influenzare non solo la musica ma anche il modo in cui percepisci il mondo. Nel corso della tua carriera hai sempre cercato di raccontare l’amore nelle sue diverse sfumature. Non si può dare una definizione ma, se dovessi chiederti cos’è oggi l’amore per Gnut cosa risponderesti? 

È difficile non rispondere in modo banale… Posso citare John Lennon: quando gli chiesero perché scrivesse solo canzoni d’amore, lui disse «perché cosa c’è più importante di cui parlare?»

L’amore un argomento così ampio che effettivamente quando poi ci si allontana dal racconto del classico amore da coppia ma si va ad indagare in tutte le forme dell’amore diventa un campo universalmente enorme. È il motore che fa girare il mondo nonché il sentimento più importante tra quelli che esistono, quindi per un autore è fonte di ispirazione totale.

La tua musica ha un tono molto intimo e personale, ho sempre pensato che tu riuscissi a trovare poche e semplici parole per descrivere qualcosa di grande, riesci a creare immagini nelle quali le persone si rispecchiano. Come vivi il rapporto con il pubblico durante i concerti? Lo vedi come osservatore della tua arte o, in qualche modo, influenza il tuo modo di scrivere e fare musica?

Non credo ci sia molta influenza. Il mio approccio alla musica è un percorso personale di ricerca.

Il rapporto con il pubblico è di condivisione che si crea soprattutto durante i concerti. Io la chiamo selezione naturale. Quando fai un determinato tipo di musica, in un determinato modo, è come se selezionassi un pubblico con una sensibilità simile alla tua. Si crea una condivisione reale dove nelle canzoni, nate in maniera sincera e spontanea, qualcuno si può riconoscere. 

È un incontro tra spiriti affini.

Qual è stato il momento che ti fatto capire che valeva la pena inseguire i tuoi sogni?

Ci sono stati diversi momenti quando ho dovuto approcciarmi al mondo del lavoro facendone alcuni che non mi interessavano.  Avendo coltivato sempre la passione della musica ho sempre confidato nel fatto che insistere su quello che ti piace, sulle tue passioni, su quello che ami fare fosse importante. Quando poi riesci a trasformarlo in un lavoro è la vittoria più grande.

C’è stato un momento, intorno al 2009-2010, dove ho lasciato tutti i lavori che stavo facendo e mi sono impegnato solo nella musica, da là la mia vita è migliorata.

Viviamo in un paese e in una società in cui è quasi impossibile lavorare con quello che ti appassiona. Che consiglio daresti ai ragazzi, come noi, che si assumono il rischio di seguire il proprio sogno e la propria passione?

È complicato perché ogni vita ha un universo di esperienze diverse… il consiglio che posso dare è di non farsi ossessionare dall’idea del successo, ma cercare di trovare una strada che porti alla serenità.

Si può fare musica senza stare in classifica o nelle radio, anche se non ne parlano. Non serve per forza mirare al successo commerciale: si può sempre fare la musica che ti interessa, usarla come una tua forma di espressione, l’importante è che ti faccia stare bene. 

È complicato però si può fare. (ride ndr)

Sofia De March

Stefano Zenni: direttore artistico del Torino Jazz Festival

In occasione della conferenza stampa per la presentazione della nuova edizione del Torino Jazz Festival 2025 dal motto “libera la musica”, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Zenni, direttore artistico del festival.

Foto da cartella stampa

Arrivato a questa edizione al TJF come direttore artistico, è cambiato qualcosa nel suo approccio sia in ambito curatoriale che nei confronti delle istituzioni della città di Torino?

È una domanda interessante. Col passare del tempo, le persone tendono a maturare e la loro conoscenza della musica si approfondisce. Si inizia a scoprire aspetti che prima non si conoscevano, e man mano che il Festival si consolida, cresce anche la fiducia reciproca.  

Questo processo facilita il dialogo con i musicisti, il che è fondamentale. La maturazione generale aiuta molto, permettendo di lavorare su un raggio d’azione molto più ampio, su orizzonti più vasti. 

Dal punto di vista delle istituzioni, ho la fortuna di collaborare con la Fondazione per la Cultura di Torino, che è l’ente responsabile dell’organizzazione del Festival. All’interno di essa ci sono tutte le persone che si occupano della realizzazione dell’evento. Pertanto, lavoro direttamente con la Fondazione e con i suoi membri, che sono persone straordinarie. Non potrei dire altro. 

L’interazione è sempre fluida, senza attriti. Certamente, ci sono delle problematiche che emergono, ma vengono affrontate e discusse.  

Tuttavia, ciò che caratterizza davvero il nostro lavoro insieme è il piacere di creare e realizzare qualcosa di importante in modo condiviso. 

Quali sono i dettagli che un fruitore di jazz fermo al solo ascolto delle registrazioni, potrebbe perdersi in un live? e ci sono aspetti che secondo lei dal vivo emergono più in un concerto jazz che in qualsiasi altro concerto di musica pop o classica?

La musica va ascoltata dal vivo, sempre. Viviamo nell’epoca della riproduzione da circa centocinquant’anni, ma per 100.000 o addirittura 200.000 anni, da quando siamo una specie culturale, la musica è sempre stata un’esperienza condivisa, fatta con le persone in presenza, un termine che in realtà non dovremmo nemmeno usare, perché “in presenza” è un concetto superfluo, perché d’altronde siamo sempre presenti

Un Festival rappresenta l’occasione di vivere insieme questa esperienza, di vivere la musica non in solitudine con una cuffia, ma di condividerla fisicamente, percependo la vibrazione diretta. Perché la musica è composta da onde, onde sonore che partono da uno strumento o da un corpo e arrivano fino al nostro. 

È un’esperienza straordinaria, una comunicazione che avviene fra corpi, trasmessa attraverso la vibrazione dell’aria. 

La scelta di convergere maggiormente su nuove produzioni inedite da cosa nasce?

Un Festival ha una vocazione ben precisa: da un lato, è chiamato a presentare la musica che circola, dall’altro, ha anche la missione di offrire ai musicisti l’opportunità di esprimersi. Il Festival fornisce i mezzi economici e logistici necessari per permettere loro di dare vita a idee nuove; allo stesso tempo, è fondamentale che offra al pubblico l’opportunità di scoprire cose che prima non esistevano.

Oggi ci sono anche bandi di supporto, come nel caso del gruppo di Zoe Pia che presenteremo, il quale ha vinto un bando SIAE. Quindi, il progetto nasce grazie a un sostegno economico pubblico, ma, sostanzialmente, questo è ciò che un Festival dovrebbe fare: dare opportunità sia ai musicisti che al pubblico, muovendosi attraverso una logica culturale precisa.  

Non si tratta di “cose a caso”, ma di un programma pensato con una visione culturale chiara e significativa. 

Le collaborazioni con Jazz Is Dead e i club della città sono un chiaro segnale di promozione del territorio urbano e verso i giovani. Perché ritiene utile espandere il jazz su questi due livelli specifici?

In linea di massima, non ha alcun senso che un’istituzione si isoli, come se fosse l’unica a fare le cose nel mondo. Una posizione del genere è sterile, non porta da nessuna parte. 

È sterile per il Festival, che non cresce senza un dialogo continuo. È sterile per il pubblico, che si trova davanti a un muro. È sterile per i musicisti, che non possono esprimersi in un contesto vivo e dinamico. E, in ultima analisi, è sterile per la città stessa. 

Credo che qualsiasi istituzione, soprattutto un Festival, debba, per vocazione e per sua natura, dialogare con altre realtà, senza pregiudizi. Perché sono dal confronto e dalla condivisione che nascono le idee.  

Questo vale per tutte le età: per i giovani, ma anche per le persone più mature, che magari devono essere incoraggiate a uscire di casa, a entrare in contatto con qualcosa di nuovo. Al contrario, i giovani hanno già la tendenza ad uscire, a cercare esperienze diverse. 

Il Festival, dunque, dovrebbe essere qualcosa di fluido, che si espande negli spazi della città, che in qualche modo invade ogni angolo e diventa parte della vita quotidiana. Mi piace immaginarlo come una piscina: ti trovi a nuotare in essa e poi decidi tu dove andare, dove goderti l’esperienza. L’importante è che ci sia un dialogo continuo, perché è nel confronto con gli altri che nascono le idee migliori. 

Che cosa cerca maggiormente negli artisti che contatta per il festival? 

La qualità è fondamentale. La qualità e la capacità di suscitare emozioni negli ascoltatori.  

Per me, l’idea centrale è che l’artista ti porti in luoghi inaspettati, che ti faccia vivere esperienze nuove, cambiandoti emotivamente e culturalmente. L’artista esprime le sue idee, e queste idee entrano in dialogo con le mie. Così, sia l’artista che l’ascoltatore, attraverso questo scambio, cambiano. Ogni volta che scelgo un artista, per ogni singolo artista che invito, mi chiedo sempre quale effetto avrà sul pubblico, incluso me stesso, che sono anch’io parte del pubblico. 

Se l’effetto dell’esperienza è quello di toccare qualcosa di profondo, di scoprire un nervo scoperto, o anche semplicemente qualcosa che è in superficie ma che ti costringe a guardare le cose sotto una luce diversa, allora quell’artista è giusto per il Festival. In sostanza, deve essere capace di suscitare una reazione, di spingere a vedere o sentire il mondo in un modo nuovo.

C’è qualche artista che avrebbe voluto venisse quest’anno ma che non ha potuto portare?

Ci sono per esempio dei cantanti importanti come Kurt Ellings, Cécile McLorin Salvant, che non sono riuscito ancora a portare a Torino per problemi logistici legati al Tour. Inoltre, mi piacerebbe portare al festival anche il chitarrista Bill Frisell. Altri artisti invece, sono molto sfuggenti, ma con un po’ di pazienza si riesce a convincerli. Jason Moran ne è un esempio. L’ho raggiunto a un suo concerto e gli ho parlato del Festival, e alla fine sono riuscito a portarlo quest’anno a Torino.

Se dovesse consigliare degli artisti a un pubblico giovane e inesperto per farli avvicinare al jazz quali sarebbero?

Innanzitutto, credo che la prima cosa sia coltivare la curiosità verso ciò che non si conosce. Personalmente, sono un fermo oppositore degli algoritmi di Spotify o YouTube, perché ti spingono a conoscere solo ciò che già conosci. Quindi il mio consiglio è: parla con qualcuno che ascolta jazz o musica che tu non conosci, e lasciati guidare dalla sua esperienza. 

Poi, inizia a esplorare e scopri cosa ti piace. 

Certo, se ti avventuri nei capolavori, non solo quelli classici del passato, ma anche quelli del presente, di musicisti contemporanei che producono musica di altissimo livello, non sbagli.  

In ogni caso, finirai per trovarti di fronte a qualcosa di validissimo, riconosciuto come tale. Naturalmente, alcune cose ti piaceranno di più, altre di meno, ma invece di seguire l’algoritmo, meglio seguire i consigli di qualcuno che ti invita a scoprire mondi che non avresti mai immaginato. È un modo per uscire dalla tua zona di comfort e aprirsi a nuove esperienze musicali. 

Guardate anche la video – intervista sul nostro profilo Instagram

a cura di Marco Usmigli e Joy Santandrea

Intervista ai mezzaestate

Cosa c’è di meglio di una serata a casa di amici, con la musica che si mescola al tintinnio di bicchieri e al sapore delle patatine? Probabilmente nulla!

Infatti, l’1 marzo i mezzaestate hanno trasformato una semplice serata in un’esperienza unica. Immaginate una casetta accogliente, intima, un tavolo con bevande e stuzzichini, amici, conoscenti, sconosciuti e un gatto nero che si nasconde tra amplificatori e strumenti musicali. In questo ambiente, dall’atmosfera calda, i mezzaestate si sono raccontati, condividendo il loro percorso musicale tra brani da loro composti, in versione unplugged, e alcune cover.

Il loro stile musicale sfugge a una definizione precisa: combinano generi che spaziano dal pop al rock, passando per il punk e il cantautorato italiano. Questa versatilità riflette le diverse provenienze geografiche e le esperienze di vita dei cinque ragazzi che compongono la band.

Il concerto si è trasformato in un abbraccio, un’occasione per conoscersi tra chiacchiere, risate e la magia della musica.
Occasione migliore per porre qualche domanda al gruppo e conoscerlo meglio non ci poteva essere.

Questa serata ci ha dato l’opportunità di conoscervi, osservare i vostri video di backstage che avete realizzato durante le vostre sessioni di brainstorming musicale. Ci raccontate chi siete?

Stefano Calzolari: Noi siamo i mezzaestate e siamo cinque ragazzi che si sono incontrati qua a Torino a partire da background molto diversi. Principalmente ci siamo incontrati per motivi di studio: io vengo da Ferrara, Brando da Imperia, Cesare da Trani, Mattia da Lanciano e Gabriele da Torino. La cosa interessante di questo progetto è che la metà di noi ha studiato ingegneria (ride, ndr). Essendo un progetto che non ha assolutamente nulla di scientifico, abbiamo anche i nostri umanisti: Gabriele studia filosofia […] e Mattia studia al CAM. 

Nonostante molti di voi siano ingegneri di “professione”, avete coltivato un animo musicale. La passione per la musica quando è nata?

Brando Ramello: Ho imbracciato la chitarra per la prima volta in quinta elementare. In casa mia c’è sempre stata musica, principalmente classica perché i miei ascoltano sempre Radio3, […] ma non l’ho mai ascoltata davvero, l’ho sempre assorbita passivamente. In casa c’è sempre stata una chitarra, […] mio papà è lo strimpellone classico che sa quattro accordi, col giro di DO ti fa tutto il repertorio italiano anni ’60. Poi ho iniziato anch’io ad appassionarmi e interessarmi alla chitarra. Ho fatto tre anni di lezione, poi ho smesso per un periodo perché non mi piaceva molto l’impostazione teorica che mi stavano dando. Ho ripreso da solo, da autodidatta, dai 15-16 anni fino ad oggi.

Mattia Caporella: Io suono la batteria fin dall’infanzia, ho studiato sempre, continuativamente. C’è stata una pausa di attività dal vivo per via del Covid e degli studi, però in questo periodo mi sono ridato da fare con diversi gruppi, tra cui questo che mi ha accolto in corso d’opera. Sono stato un nuovo acquisto, oltre a lui (indicando Gabriele, ndr). È bello perché situazioni come queste sono molto particolari, cerco di variare sempre i miei impieghi […]. Tutto ciò che faccio è sempre molto legato alla musica.

Gabriele Scotto: Anch’io sono nato con la musica, nel senso che mio padre metteva sempre qualunque disco, anni ‘60 e ‘70, ma anche anni ‘80, come i The Cure […]. In realtà io avevo iniziato cantando, avevo fatto un corso di coro. Poi l’anno successivo non c’era più posto (per fare lezioni, ndr) e io volevo fare anche altre cose nel frattempo. Fatalità in un giorno in cui ero disponibile, davano lezioni di basso, e allora ho detto «Perché no?». Ho fatto un anno di basso jazz, cosa che ovviamente per ora è sospesa lì, nell’Iperuranio e magari un giorno si paleserà in qualche maniera (ridono, ndr). Ora faccio il basso “simpy”, carino, con questi ragazzi (Stefano gli manda un bacio, ndr). 

Cesare Piemontese: Ho sempre suonato la chitarra fin da quando ero piccolo, un po’ come Matti con la batteria. Ho studiato la chitarra classica tanti anni e poi, siccome sono un “giovane” e facciamo il “maledetto rock”, mi sono innamorato della chitarra elettrica. Ho sempre avuto il sogno di avere un piccolo gruppo. Da me in Puglia non sono mai riuscito a crearlo ma, quando sono arrivato qui per motivi di studio, mi sono reso conto che qui (a Torino, ndr) girava molto meglio la scena, c’era tanta vitalità e poi era solo questione di tempo prima che ci incontrassimo e che nascesse il progetto mezzaestate.

Perché vi chiamate mezzaestate?

Stefano Calzolari: Il nome mezzaestate, almeno per come lo interpreto io, per il significato che gli ho voluto dare […] è questo senso di notti estive leggere in cui magari sei al liceo, stai andando in giro in bici di notte con la brezza che ti accarezza la pelle, sei magari innamorato, sei emozionato, sei spensierato perché sai che il giorno dopo non hai un cazzo da fare, sei tranquillo e non ti fai troppi problemi […].

Come vi siete conosciuti?

Stefano Calzolari: Io e Brando abbiamo studiato insieme alla laurea magistrale al Politecnico e ci siamo ritrovati anche a fare la tesi nello stesso laboratorio. Io continuavo a dirgli: «Dai Brando mettiamo su una band!».

Brando Ramello: Io ricordo che quando ho comprato la scheda audio per registrare qualcosa mi sono detto: «Ma sì, quasi quasi mi rimetto ad utilizzare Reaper». Quindi ci siamo proprio alimentati a vicenda in questa cosa.

Stefano Calzolari: Questa cosa è cresciuta sempre di più fino a quando non abbiamo detto «Cazzo facciamolo, buttiamoci! Servivano però altri componenti» (ridono, ndr). C’è questa mia cara amica che mi ha detto un giorno «Guarda che c’è Cesare, questo ragazzo che conosco e boh, suona la chitarra». Quindi io vado a vedere cosa pubblica, cosa fa e cosa suona su Instagram […] e sento questo qua che fa di tutto.

Brando Ramello: come mi disse Stefano in chat (a proposito di Cesare, ndr): «è un manico!» (ridono, ndr). 

Stefano Calzolari: Cesare ha tutte queste registrazioni dove fa queste cose super mega virtuosistiche da chitarrista. Avete presente lo stereotipo del chitarrista iper mega nerd? Cesare incarnava questa cosa e io ho detto: «È un fenomeno, abbiamo il nostro chitarrista».

Cesare Piemontese: Matti l’ho portato dentro io, andava alle scuole medie con il mio coinquilino e quindi ci ha presentato lui. Mi ha detto «Tu suoni? Ah, suono anch’io. Allora suoniamo insieme!».
È entrato in sostituzione della nostra vecchia batterista (la salutano tra il pubblico, ndr).
Per Gabriele è successa una cosa simile: quando il nostro vecchio bassista è ritornato in Francia perché aveva finito l’Erasmus, abbiamo pensato a lui (Gabriele, ndr). Giravamo negli stessi ambienti e concerti, ci conoscevamo anche perchè avevamo amici in comune.

In questa serata ci avete raccontato e mostrato con video autoprodotti quale è la genesi dei vostri brani. Da dove traete ispirazione per far nascere le vostre canzoni? Quale è il processo con cui date vita ai brani?

Stefano Calzolari: Le nostre canzoni nascono probabilmente da questo clima di leggerezza che è in un certo senso anche ostentata in alcuni momenti. Si sente che le nostre canzoni sono intrise potenzialmente di sensi di colpa, nostalgia, errori che abbiamo fatto nel passato o comunque riflessioni profonde. Io credo di essere molto emotivo da questo punto di vista ma vedo anche negli altri, qui intorno a me, questa cosa (ridono, ndr) e credo che si senta molto in queste canzoni. Nascono da riflessioni […], personali, cantautorali. Mi ritrovo a fare dei ragionamenti su cose che non vanno o cose che vanno nella mia vita, nei miei rapporti interpersonali con ragazze o con amici. C’è un amico che viene nominato in “Notti estive”  […], uno degli amici probabilmente più importanti che ho nella mia vita. È stata una figura di riferimento molto importante per me (si emoziona, ndr). Le cose che scrivo vengono da qui.

Brando Ramello: A livello un po’ più pratico, invece, per questa prima fase compositiva – che a me piace chiamare la Fase 1, come la Marvel, e che comprende “Stella”, “Notti estive”, “Iper compresso”, “Mezz’ora” e “In ogni gesto” – è una fase in cui principalmente nascono delle idee a qualcuno, musicali o di testo, vengono portate agli altri e ognuno cerca di metterci il suo per poter riarrangiare i brani e ottenere una quadra. […] La prima canzone per cui abbiamo collaborato più seriamente è […] “Dolci sirene”, la più nuova, in cui c’è stato un processo collaborativo totale […]. Stiamo cercando di andare più verso questa direzione, una collaborazione più completa nello scrivere le canzoni.

Avete dei progetti per il futuro?

Brando Ramello: Abbiamo in programma di far uscire un altro singolo, si chiama “Mezz’ora”. Secondo noi è un passettino in avanti anche dal punto di vista compositivo rispetto a “Stella” (primo singolo pubblicato, ndr). Dovrebbe uscire fra poco, non sappiamo ancora di preciso la data, ma sicuramente è il secondo singolo che andrà ad anticipare l’uscita dell’EP completo di cinque brani che riassume la Fase 1 compositiva del nostro gruppo. Poi da lì è molto delicata la situazione. Siamo ragazzi che stanno facendo svariate cose: c’è chi lavora, c’è chi sta studiando, chi sta finendo di studiare e c’è chi sta facendo il dottorato (indicando Stefano che ride, ndr). Quindi, da settembre in poi vediamo… «solo il tempo svelerà» (citazione tratta da “Mezz’ora”, ndr).

C’è qualche data in programma in cui possiamo venire ad ascoltarvi nuovamente?

Cesare Piemontese: Il 4 aprile partecipiamo ad un contest che si chiama Emergenza al Barrio, qui a Torino […]. Sarà un bell’evento, speriamo di riuscire ad andare avanti, più gente viene più siamo contenti.
Il 26 aprile suoniamo a Ciriè al Capolinea. È un bel palco, passa molta gente da lì e siamo molto contenti di poterci andare insieme ad altre band amiche come Gtt, Supernova… andateli a sentire.
E poi altre cose che sveleremo piano piano, seguiteci e rimanete aggiornati!

A cura di Roberta Durazzi e Ottavia Salvadori

Intervista a Toby L. “Blur: To The End”

Abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista Toby L. che si trovava al Seeyousound Festival per la prima italiana del suo nuovo documentario Blur: To The End.

Innanzitutto: congratulazioni per il film. Abbiamo visto il successo che ha avuto in Inghilterra. Hai delle aspettative sulla proiezione italiana che avverrà questo venerdì al Seeyousound Festival?

Ottima domanda, so che potrebbe suonare stupido quello sto per dire, ma quando stai facendo un film o un documentario molto spesso ti dimentichi che qualcuno lo vedrà, io l’ho realizzato soltanto alla première. (ride, ndr)

Può sembrare una cosa terrificante. È bellissimo accorgersi che il tuo progetto non finirà nella spazzatura, ma è stato fatto appositamente perchè le persone potessero vederlo e apprezzarlo. Il film verrà distribuito nelle sale di tutto il mondo ed ancora fatico a rendermene conto. Lo scorso anno ero a Barcellona e sono andato a vederlo, non ci potevo credere. Domani (21 febbraio, ndr) ci saranno migliaia di persone al cinema a vederlo ed è un vero privilegio per me.

Non so ancora come reagiranno le persone, devo ancora capire se il fatto di essere una british story renda difficile la traduzione negli altri paesi, nonostante i sottotitoli. Però, nonostante la lingua, mi auguro che le persone possano rispecchiarsi emotivamente in questa storia.

Forse, quello che viene apprezzato all’estero è avere la possibilità di partecipare ad un’esperienza che non abbiamo vissuto. Quindi, quello che affascina di questo documentario è l’occasione di essere a Wembley, vero?

Sì, assolutamente. Questo per me è stato un aspetto molto importante durante il set: assicurarsi di catturare il più possibile la magia di un evento del genere. Sai, avevamo una ventina di macchine da presa a disposizione, centinaia di membri della troupe che ci aiutavano per le riprese ed un paio di macchine a mano, all’interno del parterre, per catturare la sensazione di far parte di quell’onda di caos di persone. Abbiamo cercato, nel migliore dei modi, di riportare quell’energia nel filmato.

Com’è iniziata la collaborazione con i Blur?

Grazie alla mia etichetta discografica, la Transgressive Records, creata con i miei amici Tim, Dylan e Mike, ho avuto l’occasione di conoscerli e lavorarci assieme.

Dopo alcuni mesi, mi è giunta voce che avevano intenzione di suonare a Wembley quindi ho colto l’occasione per proporgli un documentario che non raccontasse solamente del live ma che raccontasse la loro storia con un approccio più romantico. Grazie a Dio, hanno accettato la proposta e nel giro di 1-2 settimane ero con loro in studio a registrare le prime scene del film.

“To The End” non racconta solo la reunion di una delle band più importanti del mondo ma è anche una storia di amicizia. Le riprese delle sessioni di registrazione sono accompagnate da momenti veramente intimi della band. Come vivi queste situazioni? E, come ti comporti durante le riprese?

Credo che la cosa più importante sia essere rispettoso e ricordare a me stesso che il film riguarda la LORO storia e che io sto  “semplicemente” catturando questi momenti. Molto spesso, è solo questione di creare una forte energia e metterli nella condizione di accettare volentieri la tua presenza in ogni istante.

È comunque importante cercare di essere quasi invisibile: non interferire in nessun modo nei loro discorsi, nei loro rapporti e nel loro lavoro. Ma, la mia principale responsabilità da regista è quella di decidere quando fare le domande e spingerli a rispondere.

Prima di iniziare la produzione abbiamo avuto un incontro con la band in cui abbiamo evidenziato ciò che era importante fare, ovvero essere il più possibile onesti e reali. L’obiettivo era di non cadere nella finzione e non creare qualcosa di troppo pulito perchè era fondamentale riportare la roughness che li ha sempre caratterizzati.

Il fatto che fossero consapevoli che sarei stato con loro per la maggior parte del tempo, e che sarei stato presente anche durante i momenti più intimi, credo li abbia aiutati ad accettare la mia presenza e quella delle telecamere. Credo che questo sia uno dei punti di forza del film.

Parlando delle riprese, hai qualche artista o regista a cui ti ispiri in particolare?

Ho sempre ammirato il regista britannico Michael Winterbottom grazie al suo stile estremamente naturalistico. Ammiro la sua capacità nel cogliere la realtà.

Mi ha sempre affascinato anche David Lynch, mancato da poco, lo ritengo uno dei registi più importanti di sempre. I suoi film riescono ad essere estremamente sensibili, spaventosi, ma divertenti allo stesso tempo, era incredibile.

Credo, in generale, di amare quei film che ti facciano sentire partecipe in quello che sta accadendo e che creino dei personaggi nei quali ti puoi rispecchiare. È quello che ho cercato di fare con il mio film: volevo mantenere una sincerità e purezza tale da permettere un rapporto di empatia con lo spettatore.

Ci sono molti momenti comici perché loro sono dei funny guys (ride, ndr), ma vengono mostrati anche quelli dolorosi perché, d’altronde, non è sempre tutto rose e fiori, la vita è complessa.

Qual è stato il momento più bello che hai vissuto sul set?

Sul set ho vissuto molti momenti che ricordo con piacere.

Ho amato ritornare alla scuola che hanno frequentato Dave Rowntree e Graham Coxon, è stato veramente divertente perché hanno iniziato a “comportarsi male” come due ragazzini, nonostante siano ormai cinquantenni. (ride, ndr)

Poi, sono state estremamente emozionanti le giornate trascorse nella casa al mare con Damon Albarn e Alex James. In quei giorni, ho avuto modo di condividere con loro attimi veramente speciali nei quali è emerso il profondo legame che li unisce.

Infine, Wembley è stato veramente emozionante, anche perchè io e il mio cameraman siamo saliti sul palco di fronte a migliaia di persone. Credo che aver condiviso l’esperienza del concerto con la band lo abbia reso ancora più speciale.

In generale, l’intera esperienza è stata fantastica, è molto difficile rimanere concentrati sull’obiettivo: seguire la storia che vuoi raccontare, senza perdersi in quello che si sta vivendo.

C’è qualche artista con cui vorresti collaborare in futuro?

(sospira, ndr) Frank Ocean, Bjork e Radiohead. Preferisco le persone impegnative. (ride, ndr)

Anche Tom Waits, Neil Young… Sono attratto dalle persone stimolanti, passionali e intriganti. Molto spesso sono anche persone attive politicamente e questo è un aspetto che mi piacerebbe approfondire. Amo fare i documentari, ma mi piacerebbe realizzare un progetto interamente concettuale o un qualcosa di più surreale. Però, ora come ora, ho intenzione di prendermi una pausa.

Hai qualche consiglio da dare ai ragazzi, come noi, che sognano di lavorare nel mondo dello spettacolo?

Credo che il consiglio migliore che posso darvi sia quello di smettere di ascoltare quella vocina nella vostra testa che continua a ripetervi che non siete abbastanza bravi. Voi continuate a provarci. Tutte le persone che ho conosciuto che lavorano in questo mondo hanno questi pensieri negativi. Tu ignorali e continua a farlo. 

Non guardare gli standard di vita degli altri, concentrati su quello che per te è importante.

L’ultima cosa che suggerisco è quella di organizzare un programma per voi stessi in cui ogni anno decidete a quali aspirazioni volete ambire.

I traguardi che non raggiungerai non sono invalicabili perché li puoi sempre spostare all’anno successivo. Scrivendo e visualizzando i tuoi obiettivi la vita ti condurrà consciamente e inconsciamente a raggiungerli. Ma, ricorda, la chiave sta nel capire cosa vuoi davvero. 

Trovate la video intervista a questo link

a cura di Sofia De March e Joy Santandrea

Carlo Romano: dalla passione per l’oboe all’incontro con Morricone

In questo estratto dell’intervista a Carlo Romano, il celebre oboista racconta il suo percorso tra musica classica e cinema, dagli inizi a Roma fino agli incontri con grandi nomi come Ennio Morricone. Condividendo aneddoti e riflessioni, ci offre uno spunto sul suo amore per l’oboe e la sua carriera straordinaria.

foto di Joy Santandrea

Come si è avvicinato alla musica e perché la scelta dell’oboe?

Mi sono avvicinato alla musica all’età di 6-7 anni a Roma nel coro di San Pietro, la Cappella Giulia, fino al cambio della voce, studiando anche pianoforte. Quando andai con mio padre a fare l’iscrizione al Conservatorio, il direttore gli disse che c’erano troppi pianisti e mi propose l’oboe. Avendo 13 anni non lo conoscevo, ma mio padre, che suonava nella banda dell’aeronautica, lo conosceva benissimo e mi disse che l’oboe mi avrebbe dato molto filo da torcere, ma che era uno strumento molto bello, mi consigliò quindi di studiarlo contemporaneamente al pianoforte per poi decidere quale a me più adatto. Entrai nella classe del Maestro Tomassini, nel Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, e già dalle prime lezioni mi affezionai a questo strumento e dopo poco tempo decisi che da grande avrei fatto l’oboista. Continuai studiando anche Composizione e Armonia. 

Tra i grandi compositori della Storia della Musica ha un suo preferito?

Tra i classici amo molto Mozart, Beethoven, Schubert. Ognuno ha delle caratteristiche fantastiche, ma Mozart è quello che ha scritto di più per lo strumento che suono: il concerto per oboe K. 314 per oboe e orchestra, tanti divertimenti e serenate. L’oboe è uno strumento che evidentemente amava molto e che effettivamente dà risalto ai suoi brani. Per il sinfonismo Beethoven è il massimo, Schubert e Mahler sono compositori a me congeniali, che amo suonare. 

Durante gli studi al DAMS abbiamo in più occasioni incontrato brani, in particolare di Morricone, di cui lei è stato esecutore. Ci può confidare a quale brano, o colonna sonora, è più legato o quale le ha dato più soddisfazioni?

Ho iniziato a fare i turni in sala di registrazione con Ennio Morricone nel 1974 per il film Il Mosè. Mi chiamò l’associazione Musicisti di Roma, perché si era ammalato l’oboista di Morricone, primo oboe del Teatro dell’Opera di Roma. Ero ancora studente del Conservatorio, andai al mio leggio di primo oboe molto timoroso. Facemmo la registrazione alla Forum di Roma in piazzale Euclide. Morricone chiese: “Chi è quel ragazzino là? Come suona? Perché qui ci sono parti molto importanti e complesse”. Il Presidente dell’associazione disse: “Ascoltalo, se non va bene ne chiamiamo un altro”. Registrammo per 3 o 4 giorni e Morricone mi guardò per tutto il tempo in cagnesco, come a dire: ‘Voglio capire bene come suoni’, ma piano piano si addolciva nei miei confronti. Alla fine delle registrazioni mi chiese: “Tu da dove vieni?”, risposi “Sono allievo del Maestro Tomassini”. “Ah! Ecco perché suoni bene, ci vedremo ancora, ti farò chiamare”. Nel tempo ho avuto modo di lavorare anche con altri illustri compositori per cinema, come Trovajoli e Piovani. Tutti bravissimi, ma Morricone è quello che più ho nel cuore. Quando scriveva qualche tema importante mi chiamava a casa chiedendomi cosa ne pensassi  naturalmente andava tutto benissimo, ma per me la sua stima era importante. Quando nel 1990 cominciò a fare anche concerti con orchestra, lo seguii. Sono stato il primo a suonare Gabriel’s oboe in concerto.

foto di Joy Santandrea

C’è stata qualche esecuzione che ha messo alla prova la sua tecnica?

L’oboe è uno strumento sempre importante al quale i compositori danno molto risalto, è come il primo violino degli archi, il soprano di un’opera. In orchestra l’oboe è il principe. Tra i compositori c’è chi scrive più dolcemente e quello che richiede delle peripezie. Quando qualcosa era particolarmente difficile la studiavo minuziosamente anche a casa e arrivavo in orchestra molto preparato con l’apprezzamento di direttori e compositori.

C’è qualche aneddoto che avrebbe il piacere di condividere con noi sul rapporto tra compositore, esecutore e regista? 

Ricordo, nel 1990, il film Amlet, regia di Franco Zeffirelli, sempre registrato alla Forum di Roma. Eravamo in sala con Zeffirelli sempre presente, spesso seduto accanto a me perché apprezzava il mio timbro, il modo di porgere la musica, di fare la frase. In quel film, Ennio Morricone non aveva dato molta importanza all’oboe nella colonna sonora. Dopo una settimana, finito i turni di registrazione, Zeffirelli ne chiese il motivo a Morricone. Rispose che per quel film aveva deciso che il tema conduttore doveva essere portato dalla viola con accompagnamento dell’orchestra. Finito le registrazioni, alle nove di sera, salii in macchina e il tempo di mettere in moto sentii Ennio Morricone che mi chiamava: “Carlo, esci, vieni, vieni in sala!”. Preoccupato chiesi cosa non andasse. Mi disse che tutto era a posto, ma Zeffirelli stava facendo i capricci. In sala sentii che discutevano animatamente tra loro. Zeffirelli diceva a Morricone: “Tu di musica non capisci niente!”, ripeto Zeffirelli a Morricone! Cosa fece Morricone? Lasciò il tema alla viola, ma lo fece fare anche all’oboe e così Zeffirelli si tranquillizzò. Grazie a questa alzata che Zeffirelli ebbe con Morricone, il mio nome girò il mondo. Devo quindi ringraziare anche Zeffirelli.

La scaramuccia che ci ha raccontato restituisce umanità a questi grandi nomi. Tra cameristica, orchestrale e sala di registrazione, quale ambito ritiene più impegnativo?

Tutti e tre gli ambiti. Anche fare una scala di Do maggiore è impegnativo. Amo molto la cameristica. Un mese prima di andare in pensione, sei anni fa, ho formato l’Ensemble dei Cameristi Cromatici… sono andato in pensione dalla Rai ma non dalla musica! Abbiamo costituito questo gruppo di Cameristi partendo con pianoforte, oboe, violino e violoncello. Adesso siamo in 15 strumentisti con un vasto repertorio.

Io sono nato per l’orchestra, il mio primo maestro, Tomassini, mancato nell’87, fino al ‘72 è stato Primo oboe dell’accademia Santa Cecilia e mi ha preparato per divenire, a mia volta, un primo oboe d’orchestra. Ho avuto una grande scuola, per questo amo molto suonare in orchestra: una bella sinfonia di Brahms, Čajkovskij, Beethoven, i poemi sinfonici, Strauss danno molte soddisfazioni. Continuo attualmente a preparare tanti allievi per i concorsi con repertorio orchestrale, sinfonico, lirico-sinfonico.

Anche in sala di registrazione ho avuto grandi soddisfazioni. Ho suonato per i compositori di circa 300 film.

Abbiamo visto, nel corso di Musica per il Cinema, una sessione di registrazione per Christopher Young. C’erano molti momenti di alta tensione per le continue re-incisioni. Lei ha mai provato una sensazione di pressione o ansia prima di arrivare al risultato?

Quando si registra c’è sempre una base d’ansia. Si rifanno i brani tante volte perché capita spesso che ci sia una notina fuori posto, un corno che ‘scrocca’, un violino a cui fischia una corda, o l’oboe e qualsiasi altro strumento che tentenni. È capitato che per registrare 15 battute abbiamo dovuto suonare due turni per l’intonazione, per qualche rumore, persino per i rumori che si sentono al microfono anche quando nessuno si muove. Abbiamo sbottato nervosi, ma ciò fa parte del mestiere: la registrazione deve essere pulita e perfetta, non ammette scrocchi o rumori di qualsiasi genere, né note sbagliate o stonate o battimenti con altri strumenti.

foto di Joy Santandrea

Nella sua biografia professionale un capitolo molto importante è con l’orchestra RAI: com’è stata la sua esperienza di primo oboe e come è iniziato questo lungo percorso?

Ho iniziato l’esperienza orchestrale vincendo concorsi, al Carlo Felice di Genova o per altre orchestre. Nel 1978 ci fu il concorso per primo oboe alla Rai di Roma. Per me era una meta inarrivabile, da ragazzino avevo sempre ascoltato e ammirato i grandi solisti dell’orchestra Rai: Severino Gazzelloni, Marco Costantini, Giuliani, Stefanato e tanti altri mostri sacri. Da studente di Conservatorio mi chiedevo se un giorno fossi riuscito a far parte di quel mondo. Quando ricevetti l’esito del concorso Rai per primo oboe, fu come essere arrivato in cima al K2 dopo una scalata senza quasi rendersene conto. È stata un’esperienza fenomenale: avevo seduto alla mia destra Severino Gazzelloni e gli altri grandi, toccavo il cielo. Nel frattempo ho avuto anche altre bellissime esperienze con l’Accademia di Santa Cecilia o la Scala di Milano […] suonando per vari direttori: Bernstein, Bern, Sawallisch, Maazel, Muti, Abbado. Cosa si vuole di più?

Curiosità: il rapporto lavorativo con Muti?

Lavorare con un direttore tra i più grandi al mondo è stato bellissimo, giustamente lui è molto puntiglioso e pretende il massimo del massimo da ogni strumentista  tutto deve essere perfetto per avere delle esecuzioni impeccabili. Al di sotto del podio, i grandi direttori sono persone alla mano, simpatiche la cui compagnia è veramente piacevole.

Relativamente al concerto dell’8 dicembre: che sensazione le trasmette sapere che la sua professionalità e passione contribuiscono al progetto della Cardioteam Foundation e alle vite salvate grazie ad esso?

Ho avuto recentemente modo di conoscere Cardioteam e il suo presidente Dr Marco Diena, luminare della cardiochirurgia tra i primi al mondo. Sono stato operato nel mese di luglio, ho incontrato persone speciali da tutti i punti di vista, un’equipe preparatissima. Questo è il motivo per cui ho deciso di omaggiare questo concerto al quale hanno carinamente aderito gli altri 15 orchestrali Rai, per raccogliere fondi per il progetto di prevenzione cardiologica che Cardioteam gratuitamente da tempo porta avanti. 

Per chiudere quest’intervista: ha un messaggio, o magari un consiglio, per noi studenti e artisti in formazione DAMS amanti della musica e del cinema?

Abbinare la musica al cinema è davvero molto interessante, avvicinatevi ai grandi compositori che possono aiutarvi a capire tanti meccanismi all’apparenza facili. Per tutti i compositori, anche i più grandi, è diverso scrivere un brano per le immagini di un film o una musica assoluta. Morricone scrisse il tema Gabriel’s oboe, a mio parere uno dei più belli del ‘900, osservando l’attore Jeremy Irons nella scena in cui è nella foresta con quella specie di pifferetto, fotocopia di un oboe, e per caso fece delle posizioni con le dita ‘la-si-la-sol’: il genio di Morricone capì che poteva dare il via a qualcosa di bellissimo. Il giorno dopo, sull’aereo di ritorno a Roma, scrisse l’intero tema. Ecco i casi della vita!

È importante conoscere la musica, studiare composizione e cogliere ogni occasione per imparare. L’insegnante di Conservatorio ti forgia, ma per trovare questi spunti è utile avvicinarsi ai compositori cinematografici.

a cura di Joy Santandrea

Il “SUPER!” debutto di Paolo Milani

Paolo Milani, classe 1995, si definisce cantautore crossover. È nato a Veroli, paese che ne ha influenzato la sua estetica artistica: tra i segni particolari dell’artista l’amore per le piazze, i bar e i luoghi in cui le persone vivono e abitano lo spazio.

Il 17 maggio ha pubblicato il suo EP di debutto “SUPER!“, pubblicato su tutte le piattaforme digitali per Semplicemente Dischi / Believe Italia. La produzione artistica è di Giorgio Maria Condemi, musicista polistrumentista, produttore artistico e compositore, che attualmente suona con Motta e Giovanni Truppi

Per l’occasione, gli abbiamo posto qualche domanda per conoscerlo meglio.

1. Ciao Paolo, come stai? Ti va di presentarti ai nostri lettori?

Ciao Erika, ciao Musidams. Sto piuttosto bene, mi viene da dirti che oggi sto meglio di ieri e spero che domani stia ancor meglio di oggi. Mi chiamo Paolo Milani, ho 28 anni, sono originario di Veroli e sono un cantautore.

2. Il 17 maggio hai pubblicato il tuo primo EP “SUPER!”. Tutte canzoni d’amore, è stata una scelta ponderata o ti sei semplicemente lasciato ispirare?

È stata la scelta più naturale che potessi fare. L’amore nella mia vita è tanto spontaneo quanto irruento, ne ricevo tanto e lo sento sempre forte, si oppone a ogni mia convinzione, e non c’è niente da fare, vince sempre. L’amore in queste canzoni canta la sfida di non negare i propri sentimenti, prendendosi rischi enormi e sinceri.

Paolo Milani
Paolo Milani – foto di Patrycja Holuk

3. La produzione è stata curata da Giorgio Maria Condemi, com’è stato lavorare con un produttore del suo calibro?

Un sogno che si è realizzato. Conosco Giorgio, come chitarrista, dal 2016. Sono e rimango un suo fan, nonostante il rapporto creatosi tra noi. Ho scelto di lavorare con lui dopo una serata che ho fatto a Roma, riascoltandomi ho deciso che se volevo che le mie canzoni avessero una certa impronta, piuttosto che girarci intorno, dovevo solo avvicinarmi a chi poteva darmi quell’identità. Sono entrato nello StraStudio, a Centocelle, a febbraio del 2022, lì ho conosciuto anche Gianni Istroni, un’altra persona fondamentale nella costruzione del disco, professionalmente e umanamente; dopo la prima giornata a studio, mi disse col suo sorrisetto “i bravi devono stare con i più bravi”. Insomma, trovarsi è stata una fortuna, scegliersi un gran lavoro.

4. Cosa ti ha spinto a volerti esprimere con la musica e qual è stato il primo approccio con essa?

Mi ha spinto un profondo senso di condivisione, su più livelli. Condividere la mia faccia, le mie parole, le mie melodie, le immagini, il mio modo di esibirmi sul palco; non potevo certo tenere tutto questo spettacolo solo per me! Il mio primo approccio è stato con un pianoforte, a casa di mia nonna, lo suonavo a caso; qualche anno dopo ho iniziato a prendere lezioni di chitarra, un po’ perché la suonava il mio migliore amico Franco, un po’ perché mi è apparso The Edge (U2) in sogno; nei miei vent’anni la passione è divampata grazie ad alcuni miei amici, Diego e Alessio su tutti, bravissimi cantautori anche loro. Ho scoperto recentemente che il pianoforte a casa di mia nonna fosse di mia mamma, d’altronde quasi tutte le scoperte sulla bellezza della vita le devo a lei.

Paolo Milani
Paolo Milani – foto di Patrycja Holuk

 5. Ti descrivi come un cantautore crossover, hai voglia di spiegarci meglio questa “etichetta”?

Nella musica mi è sempre piaciuto l’ibrido, l’unione e anche la collisione di più mondi. Il mio gruppo preferito sono i Linkin Park, e loro hanno saputo fare questo in un modo speciale e finora irripetibile in quello che è il mondo della musica pop. Io, non essendo così pop, provo a prendere qualcosa dalla tradizione che mi è più vicina, quella cantautoriale, espressiva, che non arriva a tutti ad un primo ascolto, ma che ti scardina il petto se lasci entrare dentro certe emozioni.

6. Pur essendo passato poco dal tuo debutto, al momento sei impegnato in qualcosa di nuovo oppure ti stai preparando per dei live in vista della stagione estiva?

Entrambe le cose. Per fortuna, le belle canzoni mi vengono naturali anche adesso. Sto lavorando per portare questo primo album il più possibile in giro, dal vivo, per condividere una parte del bello che ho vissuto in questi anni. Non è così facile e immediato, ma le cose belle non lo sono mai. Sono piacevolmente impegnato, su più fronti, c’è sempre modo di migliorarsi e questa è la cosa che mi fa più piacere.

In copertina foto di Patrycja Holuk

A cura di Erika Musarò

Un mondo nuovo: intervista a Nicola Campogrande

La sinfonia è una forma musicale che ancora oggi può fornire spunti di ricerca e questo ce lo ha dimostrato Nicola Campogrande con la sua seconda sinfonia “Un mondo nuovo”. Opera dedicata all’Europa in tempi di guerra e composta nel 2022 per «dare una risposta musicale all’angoscia che attraversa in questi mesi il nostro continente».

Considerato uno dei compositori italiani più interessanti e importanti di oggi, Campogrande, vanta un corpus di opere alquanto vasto e diversificato pubblicato presso l’editore Breitkopf & Härtel; direttore artistico dell’Orchestra Filarmonica di Torino fra il 2005 ed il 2016, anno in cui ha assunto il ruolo di direttore artistico del festival MiTo Settembremusica, il compositore è ospite nella sua città natale, Torino, al Conservatorio «G. Verdi» il 14 marzo 2023 per il concerto “Argento” della stagione 2022-23 della OFT.

Ripercorrendo la storia della musica, la sua sinfonia è stata affiancata da musiche di Rossini e da Poulenc in un grande concerto che ha dimostrato ancora una volta le capacità dell’Orchestra Filarmonica di Torino diretta dal giovane direttore d’orchestra Alessandro Cadario: ex alunno del conservatorio G. Verdi di Torino, ha proseguito i suoi studi presso l’Accademia Musicale Chigiana di Siena. Direttore anche di moltissimi organici estremamente importanti fra cui l’Orchestra del Teatro Regio di Torino e l’Orchestra Filarmonica della Fenice, oggi ha potuto confrontarsi con i grandi del passato e con un compositore come Campogrande, voce rilevante dello scenario contemporaneo. Stefanie Irànyi, mezzosoprano diplomatasi a Monaco e ospite in importanti sale internazionali, ha affiancato l’orchestra nell’esecuzione della Sinfonia di Campogrande. Con grande maestria, ha incantato il pubblico trasportandolo in una dimensione immaginifica di un possibile futuro.

Stefanie Irànyi & Alessandro Cadario
Stefanie Irànyi & Alessandro Cadario

Il compositore Campogrande presente in sala per ascoltare la sua opera, dopo essere stato intercettato da noi giovani inesperti, si è reso disponibile a rilasciare un’intervista:

Oltre ad essere un grande compositore di musica cameristica e sinfonica, ha composto musica anche per cinema e per il teatro. Quali sono le principali differenze nell’approccio a questi tipi di composizione? La grande differenza, per me, è che se scrivi musica applicata, ad esempio colonne sonore, invece che confrontarti con la storia della musica, hai qualcuno che dice ‘‘mi piace’’, il regista che dice cosa vuole.

Come si relaziona alla storia della musica e come integra gli spunti del passato? Io faccio un mestiere che per sua natura mi spinge ad aggiungere l’ultima tessera di un domino che è cominciato nel Medioevo, quando il canto gregoriano ha cominciato ad essere scritto. Lì è cominciata la Storia della Musica classica, prima noi non sappiamo niente, non la chiamiamo Musica classica perché non era scritta, quindi non abbiamo delle fonti. Nella Seconda Sinfonia non c’è nessuna matrice che io saprei riconoscere, non c’è nessun riferimento reale, però è ovvio che tutte le musiche per questo organico che ho amato o che conosco sono lì dietro le porte. Non lavoro mai dicendo ‘‘voglio farmi influenzare da…’’ o ‘‘traggo un passaggio da…’’. Io sono sempre l’ultimo ad accorgersi che dietro la mia musica ci sono delle tracce di musiche del passato.

Secondo lei perché può ancora avere senso scrivere sinfonie al giorno d’oggi nonostante il genere sia stato ampiamente esplorato nei secoli scorsi? La sinfonia è una struttura che permette una perfetta alternanza tra i diversi movimenti, tra il veloce e il lento, tra una costruzione più articolata – del primo movimento – un momento più riflessivo del secondo, lo scherzo del terzo e poi un finale. Io trovo interessantissimo studiare e acquisire quello che ‘‘è stato’’ per andare avanti, non per rifiutarlo e basta. La sinfonia nel XX secolo ha vissuto due esperienze: il rifiuto di chi la considerava un genere del passato come Webern, Schoenberg, Stockhausen, Xenakis; la fiducia di chi pensava a una rigenerazione, come Prokof’ev, Šostakovič e Mahler.

E cosa l’ha spinta a comporre una seconda sinfonia dopo la prima? Adottando la forma della sinfonia naturalmente rischio di più proprio perché viene accostata alle grandi sinfonie del passato – infatti, mi tremavano i polsi e ancora mi tremano ad ogni esecuzione – tuttavia mi piace l’idea di utilizzare una scatola che conosco, a cui siamo anche affezionati e che ha anche un certo valore, persino un certo prestigio. Penso che il presente abbia il diritto – e si meriti – di essere accostato al passato. Quando io ho studiato al Conservatorio, sono stato addestrato a scrivere musica per interpreti specialisti, che l’avrebbero suonata nei Festival specializzati. Io dicevo ‘‘ma che cosa triste. Perché, poi io vado in sala da concerto e ascolto Chopin e Stravinskij e io vorrei lavorare per quel pubblico, per quella sala, per quegli interpreti’’, quindi personalmente ho masticato amarissimo per molti anni vedendo i miei compagni di Conservatorio nei corsi di composizione che scrivevano musica ortodossa per le vecchie Avanguardie e io scrivevo musica del tutto diversa, ma non la si suonava, perché non era congrua rispetto al sistema. Poi piano piano musicisti sempre più importanti si sono interessati alla mia musica, hanno cominciato a suonarla, e poco a poco adesso sono tra gli italiani più eseguiti, e questo mi fa molto piacere. 

La sua carriera non si limita a quella di compositore, ma anche a quella di saggista. I giovani ritengono che la musica classica sia qualcosa di “antico”, non al passo con i tempi e, proprio nel suo libro “Occhio alle orecchie. Come ascoltare musica classica e vivere felici”, riflette sull’utilità dell’ascolto della musica classica. Secondo lei come si può insegnare ai giovani l’importanza di questa nelle loro vite? Non bisogna preoccuparsi e fare l’ipotesi che la musica classica morirà. Quando avevo ventidue anni e ho cominciato a scrivere su «La Repubblica», la cosa che mi si diceva era ‘‘vai agli ultimi concerti, che poi finiranno. Hanno tutti i capelli bianchi, poi moriranno e sarà finita”. Adesso di anni ne ho cinquantatré e ho capito che in realtà il grosso del pubblico scopre la musica classica in età matura, perché in una certa fase della vita è come se si formasse una mancanza a forma di musica classica nell’anima. In particolare, quando cominci ad essere un po’ alla fine della tua vita professionale, c’è quel senso di insoddisfazione che ti porta a dire ‘‘ho fatto tutto, e adesso? i figli sono cresciuti, il lavoro va bene, c’è la salute’’ e lì la musica diventa sorprendente, perché ti apre degli orizzonti che tu non avevi sospettato.

Quindi possiamo stare tranquilli? Sì, perché le sale da concerto che si costruiscono nel mondo oggi hanno la stessa dimensione di quelle del passato, se non più grandi, e sono piene. Quindi, la musica classica sta benissimo. Io credo che sia importante esporsi alle emozioni. Una persona, avendo la sensibilità per reagire alla musica, una volta tornata da un concerto pensa di aver assistito a qualcosa di unico e insostituibile. Esporsi è fondamentale ma questo non deve avvenire in modo didattico o con forme semplificate nemmeno se si parla a dei bambini. Ad esempio, io ho scritto un manuale per la scuola media, ho fatto suonare dei musicisti perché nelle classi ci fossero delle registrazioni, e ho scelto i più bravi. Allora lì porti emozione, porti intensità, porti passione. Quella passa. Praticare. Bisogna fare esperienza nella musica, perché è un linguaggio, ma un linguaggio non referenziale. È come nell’arte figurativa: un quadro posso raccontarlo, ma è meglio guardarlo. Per la musica ci vuole solo un po’ più di tempo: devi andare in sala da concerto e devi ascoltarla dal vivo.

A cura di Enrico Goio, Roberta Durazzi, Ottavia Salvadori