Nei giorni successivi ai concerti del Festival Chopin, abbiamo intervistato i tre giovani musicisti che si sono esibiti. Abbiamo parlato dei loro diversi percorsi di formazione, del legame con la musica e di tanto altro.
Come e quando avete iniziato a studiare pianoforte?
David Irimescu: «Come spesso si dice, è successo per caso… ma evidentemente per caso non è successo. Avevo nove anni, distribuivano volantini fuori dalla scuola elementare, mia mamma me ne mostrò uno e mi chiese se mi interessava, e io risposi: «Perché no? Andiamo a provare». La prima lezione fu folgorante: mi sentii super gasato e bravo, apprendevo molto in fretta e mi piaceva tantissimo l’entusiasmo che leggevo negli occhi degli adulti. Questa cosa mi ha lasciato un segno profondo. Ho studiato un anno, poi sono passato a una scuola privata (Artemus) con un’insegnante bulgara molto severa. Questa educazione rigorosa mi ha portato a un livello tale da poter entrare in Conservatorio, dandomi un impulso fortissimo verso lo studio».
Matteo Buonanoce: «Nasco in una famiglia dove la musica è di casa: mia mamma è pianista, mio padre ha suonato la tromba. Questa predisposizione musicale era vista come un aiuto alla crescita. Inizialmente mia madre mi sconsigliò il pianoforte, così provai l’ukulele, ma le dita mi facevano male. Appena ho provato il pianoforte, non l’ho più lasciato, sentendo una connessione immediata».
Maria José Palla: «Non vengo da una famiglia di musicisti, è stato tutto molto casuale. A tre anni ho iniziato danza, verso i sei ascoltavo la musica del pianoforte durante le lezioni, specialmente Chopin, e ho pensato di voler suonare uno strumento. I miei genitori mi dissero di scegliere tra musica e danza. Ho aspettato fino agli undici anni, quando mi sono imposta sui miei genitori per la scelta di una scuola media a indirizzo musicale. La scelta del pianoforte è stata casuale, ero la prima nel test d’ammissione senza aver mai studiato nulla».
C’è stato un momento preciso in cui vi siete resi conto di volervi dedicare esclusivamente al pianoforte, alla musica?
D.I.: «A diciotto anni e mezzo ho deciso che sarebbe diventata la mia professione. Il pianoforte era un rifugio dove esprimere ciò che non potevo dire. Dopo poco, ho interrotto gli studi per quasi cinque anni a causa di una malattia. In questo periodo ho iniziato a insegnare per necessità, poi per amore. Non avendo soldi per le terapie, ho chiesto ai professionisti di insegnarmi, formandomi in diverse discipline olistiche.
A ventitré anni ho ripreso gli studi, laureandomi al Conservatorio di Torino con lode: è stato un momento emozionante, tutte le parti della mia vita si sono ricongiunte. Ho proseguito la specializzazione a Torino e prossimamente mi trasferirò in Svizzera per un master. Spero di poter continuare a donare alla gente qualche cosa con i concerti, con la musica, con la passione».
M.B.: «Ho capito abbastanza tardi di voler fare il musicista, perché ho sempre coltivato sia la strada della musica che quella scolastica. Mia madre mi ha sempre tenuto con i piedi per terra, dicendo che è una carriera difficile. Ho finito il liceo scientifico l’anno scorso. È stato grazie a questa scuola che ho capito di voler fare il musicista, perché non mi interessava nient’altro. Tre anni fa ho deciso definitivamente di voler fare il musicista nella vita. L’importante è che la mia passione diventi il mio mestiere».
M.J.P.: «Da subito ho voluto dedicarmi alla musica in modo esclusivo. Ho detto: «Ok, questa cosa la farò per sempre», perché era così stimolante e arricchente, e mi dava la possibilità di esplorare me stessa. Questo spazio musicale mio, da sola, era magico; ho sempre desiderato farlo per tutta la vita. Il momento in cui ho dovuto scegliere se continuare professionalmente è stato al liceo. Frequentavo il liceo classico in Sardegna, in più c’era la danza che stava diventando professionale e il Conservatorio. Questo mi chiedeva troppe energie, per cui ho dovuto lasciare la danza: mi sono concentrata definitivamente sulla musica, ed è stato bellissimo».
Qual è il vostro rapporto con l’ambiente di formazione, i maestri che avete avuto e i metodi di insegnamento?
D.I.: «Nella formazione sono un ribelle, la mia integrità è un valore forte, se una cosa non suona vera non mi appartiene. A un certo punto non riuscivo più a mettere da parte me stesso e per questo mi ammalavo, non ascoltavo la mia voce interiore.
Al liceo c’è stata un’insegnante che è stata come una seconda madre; mi ha salvato la vita moltissime volte. Attualmente anche l’insegnante del conservatorio è una figura paterna, una persona davvero molto buona e brava, con cui mi consulto e mi confronto.
Il mio approccio alla musica è spirituale: prima mi consumava – si chiede spesso ai musicisti di dimostrare di essere migliori, ma sono derive narcisistiche. Suoniamo musica di altri, lo spartito è una chiave d’accesso al pensiero del compositore, io devo fungere da canale per la trasmissione viva, sono un servo del tempo, della musica e del compositore».
M.B.: «La mia prima insegnante, Maria Campaiola, è stata importantissima per farmi innamorare della musica: con lei non ci si fermava solo sulla tecnica, ma facevamo masterclass estive, pranzavamo, guardavamo opere e facevamo indovinelli sugli strumenti.
Al Conservatorio, con Marina Scalafiotti, ho fatto un percorso lungo, di grande crescita. Ho imparato a essere organizzato e preciso, usando bene il tempo senza ansia. In Italia, nelle scuole spesso non si ha consapevolezza del Conservatorio, i professori preferiscono gli sportivi, ma la musica esercita un’attività psicologica senza paragone. Anche questa dovrebbe essere un vanto».
M.J.P.: «Il mio ambiente è sempre stato una bolla di sperimentazione musicale. Ho avuto la fortuna di trovare nella mia prima insegnante del Conservatorio una persona magnifica. Con lei condividevo questo senso di ricerca creativa: mi sono trovata benissimo, mi spingeva a usare immaginazione, sperimentazione, improvvisazione… era una ricerca costante. Mi sentivo sempre più stimolata, verso la mia voglia di imparare e creare. Il primo approccio con la formazione è stato molto positivo e incoraggiante».
Veniamo ai concerti del Festival Chopin, come sono stati per voi? Che rapporto avete col repertorio? Quali composizioni hanno rappresentato una sfida maggiore?
D.I.: «È stata un’epopea: suonare quattro programmi chopiniani in due giorni richiede impegno emotivo e lucidità per attraversare flussi di depressione, tragedia e morte, ma non ero preoccupato. Il repertorio era così vasto che, vivendolo sinceramente, non c’è spazio per la preoccupazione. Studi il dramma prima, e poi diventa parte di te: se sono vero, non ho niente da temere. Vivendo le storie dei brani, interagivo con il pubblico, sentivo i pensieri e le reazioni, vivevo con gli altri, ero parte del pubblico mentre suonavo».
M.B.: «Questa occasione mi ha dato l’opportunità di rivalutare il mio legame con Chopin. La mia insegnante mi assegnò subito brani difficili. Ho sempre fatto fatica con questa musica: è complicato raggiungere quel livello di chiarezza e spontaneità. Studiare Valzer, Mazurche e Polacche mi ha permesso di scoprire altre sfaccettature e stili di Chopin. È stato bellissimo e stimolante. Sono arrivato a suonare meglio le composizioni che già conoscevo, e a legare di più con il compositore. Chopin è molto diretto nel suo messaggio, ed è stato bello rivedere in me queste qualità: essere onesto con il pubblico, trasmettere naturalmente.
Tutto questo l’ho sviluppato in particolare nelle Mazurche che ho eseguito, dodici, diversissime tra loro. L’esecuzione dell’intera opera è un’esperienza bellissima, richiede un bagaglio culturale e di vita enorme. Le Mazurche sono quelle che mi hanno stupito di più e mi hanno dato il maggiore piacere: sono piccole chicche con tante sfaccettature».
M.J.P.: «Sono stati concerti molto intensi e faticosi, arrivando da altre sette esibizioni negli ultimi dieci giorni. La musica di Chopin è centrale per i pianisti. La mia prima insegnante odiava il modo ‘sdolcinato’ di eseguire Chopin. Mi disse di non studiare i Notturni, facendomi sentire le Mazurche più vicine alla verità della composizione.
Avere l’occasione di sperimentare e comunicare opere così diverse è stato bello. Mi porto nel cuore tutti i pezzi, principalmente un Notturno, il Postumo in mi minore, una delle prime cose che ho suonato, e le Ballate. La Terza ballata è una composizione meravigliosa, con la sua discorsività e narrazione organica. Suonarla per la prima volta è stato bellissimo, come stare nel presente e parlare al pubblico, facendo un viaggio insieme».
C’è stata una figura, un artista, un musicista o un intellettuale che ti ha influenzato o che stimi particolarmente?
D.I.: «A undici anni, ascoltai un’interpretazione di Skrjabin da parte di Horowitz, e mi ritrovai in lacrime. Mi ha toccato, ha aperto in me la volontà di ascoltare anche dagli altri.
La spiritualità, l’empatia, l’essere terapeuta, vedere le cose vissute dagli altri, mi aiuta ma mi devasta. Concerto viene da “concertare”, cioè fare qualcosa insieme. Io concerto con il pubblico, non per il pubblico. Quando ci sei tu ad ascoltarmi, quel brano non può più essere quello che ho preparato; essere flessibile è un tratto molto importante».
M.B.: «Durante gli studi al liceo ho confrontato le mie nozioni musicali con artisti, pittori, letterati. Molti compositori prendono spunto dall’arte, penso a Liszt con i Sonetti del Petrarca. Inizialmente vogliamo tutti aspirare a Liszt, grande interprete, amato dal pubblico, con tecnica pazzesca. Ma anche chi si mostra spavaldo ha un lato intimo, come Liszt che si ritirò alla vita religiosa.
È bello avere tante competenze su stili e personalità. Chopin non suonava forte, ma la sua musica colpisce tutti perché inconfondibile, immediata. Chi sa suonare bene Chopin riesce a suonare quasi tutto, ti dà un bagaglio emotivo e di onestà che puoi riversare su qualsiasi cosa. È impossibile non avere un legame speciale con Chopin».
M.J.P.: «Direi sicuramente Horowitz. Lui è geniale, ha quella genuinità nel suo rapporto con la musica, nel puro stupore. Non possiamo frenarci quando proviamo qualcosa con la musica. Horowitz dava il cento percento in ogni esecuzione. Sbagliava, ma ti passava il messaggio. Poi stimo il mio insegnante Enrico Pace: è un pianista pazzesco, sono grata per ogni lezione con lui.
Anche musicisti non famosi con cui ho collaborato mi hanno insegnato tantissimo. I miei colleghi di trio con i quali ogni giorno scopro qualcosa. Ogni situazione di vita è una fonte di ispirazione. La musica si sviluppa tantissimo attraverso le esperienze di vita. Bisogna essere grati per qualsiasi cosa si viva, avere il coraggio di viverla fino in fondo. Penso sia la più grande fonte di ispirazione».
Qual è la musica che ti fa più piacere ascoltare, che ti coinvolge o ti interessa maggiormente?
D.I.: «Adoro il barocco, Scarlatti e Bach. In Bach si toccano vette di contatto con Dio. Quando voglio essere purificato, vado da Bach. Adoro Scarlatti perché mi mette di buon umore, mi mette in un’estrema estroversione che è parte vera di me. C’è qualcosa di vibrante in Skrjabin, lui era un mistico, un compositore su cui torno quando ho bisogno di evadere o mi sento giù.
Se c’è qualcosa che non ti piace, è perché non gli permetti di esistere dentro di te. Non mi piacevano Schumann e Brahms, poi a tredici anni ho pianto suonando Schumann. Un allievo non capiva Mozart, e io dissi: “Certo, perché sei troppo serio”».
M.B.: «L’unica che tendo a non apprezzare è quella priva di significato, dove si cerca solo una rima o il ritornello per l’estate, con uno scopo prettamente commerciale. Quella faccio fatica a digerirla. L’importante è che la musica abbia un messaggio, che arricchisca. Mi piace il jazz, la musica latino-americana, di cui sono un grande appassionato, che ho ballato e continuo a ballare, con la sua cultura e lo studio dietro a ritmi e percussioni. L’importante è sempre lo scopo, il messaggio che si vuole dare alle persone, perché con la musica si condivide. Chi fa musica condivide qualcosa di sé, un po’ come tramandare un messaggio».
M.J.P.: «Non ascolto quasi mai musica per pianoforte. Siamo condizionati, le orecchie pronte a carpire… Se ascolto un pezzo che suono, mi viene da riprodurre ciò che ho sentito.
Ascolto molta musica sinfonica, da camera. Mi piace la musica folklorica di altri paesi, musica sconosciuta che mi porti lontana dal nostro punto di vista occidentale, mi piace spaziare.
Da suonare, sono un’amante della musica da camera. Mi piace suonare con gli altri. Mi piace suonare anche da sola, mi dà una libertà che nessun altro contesto consente. Come autore, siamo tutti grati a Bach, lo suonerei tutti i giorni. Fra i moderni, sono innamorata della musica di Skrjabin, non mi stanco mai di lui, incarna la figura dell’esploratore artistico a trecentosessanta gradi. Ha cambiato stile compositivo più volte, era continuamente alla ricerca, connetteva la musica alla religione, ad altre dimensioni e colori. Ogni volta che suono un suo pezzo, c’è un universo da imparare, da esplorare, non ci si può stancare».
Alessandro Camiolo