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Il sabato al Salone del Libro 2025: tra jazz e introspezione giovanile

Sabato 17 maggio 2025, il Salone Internazionale del Libro di Torino ha vissuto una delle sue giornate più intense e partecipate. Come ogni anno, il Lingotto Fiere ha accolto ospiti e visitatori da tutta Italia, con incontri che hanno spaziato dalla letteratura alla musica, dalla psicologia alla cultura pop. 

Come primo evento della giornata al quale abbiamo partecipato, si è svolta la presentazione della nuova edizione di “Storia del Jazz. Una prospettiva globale”, di Stefano Zenni, introdotto da Jacopo Tomatis e da un intervento al contrabbasso di Furio Di Castri. Il talk ha proposto una visione aperta e critica del genere musicale oggetto del libro. A partire dal libro “I segreti del jazz” (2008), Zenni ha riflettuto sul jazz come un’etichetta fluida che ha abbracciato e definito diverse tipologie di musica. Negli anni ’20 era un termine inclusivo, ma già negli anni ’50-’60 artisti come Sinatra, il cui lavoro presenta arrangiamenti jazz evidenti, venivano esclusi dalla definizione. Oggi il jazz sopravvive come linguaggio che attraversa generi, lasciando tracce anche dove non lo si nomina.

Di Castri ha sottolineato come la storia del jazz, inizialmente lineare, si apra a molteplici influenze nel secondo Novecento. Da qui l’approccio di Zenni: una narrazione che non solo racconta gli sviluppi musicali, ma riflette su cosa includere, su come si costruisce una storia. Centrale è il tema del gender gap: Zenni recupera figure femminili straordinarie, non come eccezioni ma come protagoniste alla pari, integrandole nella storia del jazz senza ghettizzazioni.

Una delle conversazioni più attese si è svolta nel primo pomeriggio, ed è stata l’incontro tra il rapper Salmo e lo psicoterapeuta Matteo Lancini, curatore della nuova sezione tematica “Crescere”. L’evento, ispirato al primo libro di Salmo, l’autobiografia “Sottopelle”, ha offerto al pubblico una riflessione sincera sulle emozioni che accompagnano la crescita personale. Salmo ha condiviso esperienze legate alla rabbia, alla tristezza e alla paura, sottolineando come queste emozioni, spesso legate ai suoi traumi familiari, siano state fondamentali nel suo percorso artistico e umano, dapprima nel writing e nei graffiti per poi sfociare nel rap e oggi anche nel cinema. Lancini, insieme alle ragazze del gruppo Tutto annodato, un collettivo composto da giovani che si occupa di sensibilizzare sulla salute mentale, ha guidato la conversazione, evidenziando l’importanza di riconoscere e affrontare le proprie fragilità.

In conclusione, il Salone del Libro di Torino ha dimostrato come la cultura possa essere uno strumento potente per esplorare sé stessi e il mondo che ci circonda, non solo come una vetrina editoriale, ma come un luogo di crescita personale e un’occasione per toccare con mano i mondi che accompagnano il nostro tempo libero. In un’epoca in cui il dialogo e l’ascolto sono più che mai necessari, eventi come questi ci ricordano l’importanza di fermarsi, riflettere e condividere esperienze. 

Martina e Benedetta Vergnano 

Dudù Kouate 4tet al Torino Jazz Festival: un’esperienza che va oltre i confini

Anche nel 2025 il Torino Jazz Festival si conclude con la Giornata Internazionale del Jazz, celebrata il 30 aprile. Più che una conclusione, questa giornata sancisce ogni anno un nuovo inizio: apre a una riflessione su un genere che abbraccia sempre di più la sua natura libera e la sua capacità di unire tecniche vocali e strumentali, strumenti e tradizioni diverse, uscendo così dai suoi confini “classici”.

A coronare il Festival ci sono due main concert: quello di Dudù Kouate al Teatro Juvarra, un piccolo gioiello nascosto tra i palazzi di Torino, e quello di Jason Moran al Lingotto, in una sala grande e moderna. Due concerti e due luoghi agli antipodi ma che raccontano un’unica storia.

Dietro una piccola porticina discreta, quasi timida, il Teatro Juvarra accoglie il pubblico in un’atmosfera intima e familiare. L’impressione iniziale è quella di varcare la soglia di un’abitazione privata, ma basta qualche rampa di scale per scoprire una sala elegante e raccolta e un quartetto musicale che trasforma il teatro in un universo utopico.

Dudù Kouate ha attraversato confini geografici e culturali per dare forma alla sua arte. Senegalese di origine, cresce in una famiglia di Griot ma presto si trasferisce in Italia per diffondere la tradizione tra le strade di Bergamo (e non solo). Musicista affermato in tutto il mondo, Kouate entra a far parte dello storico Art Ensemble of Chicago, uno dei gruppi jazz più longevi che unisce avanguardia, free jazz e la tradizione africana.

Foto di Ottavia Salvadori

«Il palco è grande quanto il mondo… però riusciamo a starci» afferma Kouate durante il concerto, e in queste parole si cela l’essenza della sua musica e della sua visione artistica. In un mondo vasto e complesso, ognuno può trovare il proprio posto per esprimersi, vivere e comunicare attraverso l’arte.
Il palco non è solo il luogo in cui stanno i musicisti, ma è il nucleo vitale da cui si originano connessioni umane, culturali e spirituali. È lo spazio in cui ogni suono diventa dialogo e crea ponti tra storie, emozioni e vissuti.

Per il TJF Kouate ha messo insieme un quartetto esclusivo, riunendo talenti da diversi parti del mondo: Simon Sieger (Francia) al pianoforte, ai fiati e voce, Alan Keary (Irlanda) al basso elettrico a cinque corde, al violino e voce, Zeynep Ayse Hatipoglu (Turchia) al violoncello.

Descrivere e dare nome ad ogni strumento utilizzato durante il concerto sarebbe quasi impossibile: Kouate, seduto su una piattaforma rialzata, è circondato da decine di strumenti, dallo xalam al talking drum, dal thunder drum a set di piatti e campane di varie dimensioni e tipologia. A rendere il paesaggio sonoro ancora più unico e affascinante sono gli strumenti artigianali, frutto della sua ricerca sul suono: tubi in plastica fatti volteggiare in aria e sezioni di bottiglia legate a bastoni in legno ed immerse nell’acqua – oggetti reinventati che diventano veri strumenti musicali. 

Foto di Ottavia Salvadori

Irlanda, Francia, Turchia e Senegal (e Italia) si intrecciano in un unico organismo sonoro che espande lo spazio trasformando il concerto in un’esperienza collettiva di ascolto e condivisione.
A fondersi non sono solo gli strumenti, ma anche le voci di Kouate, Sieger e Keary che talvolta emergono o si amalgamano al sound complessivo.
La voce avvolgente del leader evoca le radici della terra, le tradizioni e la natura ricercata dal gruppo. Al suo fianco, Simon Sieger utilizza la tecnica della throat voice, graffiante e ritmica, avvicinandosi talvolta ad un beatbox raffinato per creare tensioni e dinamismi. In contrasto, la voce dolce ed eterea di Alan Keary che con il suo canto melodico inglese restituisce un senso di calma, armonia e di una natura idilliaca.

Ogni suono, strumentale o vocale, è calibrato con estrema precisione: ogni pianissimo e ogni fortissimo trova il proprio specifico significato, così come i momenti di vuoto e di pieno sonoro.
La capacità di fondere ritmi ancestrali, suoni naturali e sensibilità moderne è un invito a riscoprire la potenza della musica come potente strumento di comunicazione e connessione.
Ogni nota è un frammento di viaggio, ogni strumento una voce, ogni vibrazione racconta una storia trasmettendo l’eco di tradizioni lontane.

Foto di Ottavia Salvadori

Nulla è appariscente, né il luogo né la presenza scenica dei musicisti. Tutto è semplice, naturale, ma è proprio questa semplicità che genera una forza straordinaria che catapulta altrove, lontano nel tempo e nello spazio.

A conclusione del concerto, Dudù Kouate si avvicina al pubblico e canta una melodia. Quel che succede è magia: il pubblico, intonato e perfettamente in sintonia, raccoglie il testimone e continua a cantare senza sosta.
Intanto il palco si svuota lentamente: uno alla volta, a partire da Kouate, i musicisti lasciano la scena, trascinando con loro persino il cavo del basso ancora collegato all’amplificatore. Ma la musica non si ferma. Il pubblico diventa l’unico protagonista, riempiendo il vuoto del palco con l’energia del canto.

Il palco è vuoto ma il pubblico non si arrende e chiama i musicisti a gran voce. Dopo una brevissima pausa, tra risate e applausi, la melodia riparte spontaneamente come un’onda. A quel richiamo sincero e potente, i musicisti non possono resistere: ritornano sul palco per raccogliere l’ovazione che meritano, tra applausi scroscianti e una standing ovation che conferma come la musica abbia dato vita ad un legame condiviso.

E così, quella sensazione di entrare in una “casa” si è rivelata autentica. Siamo tutti parte di un unico palco, siamo tutti uniti e il legame familiare che si crea è generato dalla musica. Perché la musica non è solo suono, è un ponte che collega, un abbraccio che cancella le distanze e un sorprendente mezzo che riesce a creare comunità.

Ottavia Salvadori

Lampo di musica: TJF Blitz

Jazz Blitz è un evento che porta il jazz nei luoghi della vita quotidiana, trasformandoli in palcoscenici inaspettati. Si tratta di momenti musicali in luoghi di assistenza, di accoglienza e di incontro dedicati agli utenti e agli ospiti delle strutture.

Parte del programma è anche aperto al pubblico esterno che può quindi visitare e scoprire le realtà sociali che operano attivamente nei vari quartieri della città. Abbiamo avuto l’occasione di partecipare al blitz organizzato negli spazi di Housing Giulia nel pomeriggio di martedì 29 aprile. La residenza, nata dalla cooperazione dell’Opera Barolo e dell’impresa sociale CoAbitare, fornisce residenza temporanea e risponde a bisogni abitativi diversificati.

Per l’occasione, lo staff della struttura ha preparato un ricco buffet di benvenuto in cortile. Mentre i musicisti del quartetto della Jazz School Torino provavano i loro brani, si sono radunati diversi gruppi di ospiti, tra cui bambini, studenti stranieri e anziani, che hanno preso subito posto.

Un incontro con la musica, in cui ciò che conta è la condivisione del momento con le altre persone: per molti infatti ascoltare musicisti suonare dal vivo non è certo una consuetudine, basta poco quindi per sentirsi più leggeri, sorridenti e rilassati. I bambini soprattutto hanno iniziato a saltare e scherzare tra di loro proprio attorno alla band, in uno spazio di totale libertà, che in altri contesti non sarebbe possibile.

Il quartetto ha alternato brani canonici di Dexter Gordon e Bill Lee ad altri del jazz “bianco”, una selezione accurata che ha reso unica questa mezz’ora di musica. 

Un’iniziativa riuscita, certamente lodevole, ben strutturata e con un chiaro obiettivo: creare senso di comunità e unione attraverso la musica, senza lasciare indietro nessuno. 

Alessandro Camiolo

Andrea Rebaudengo scatena i preludi di Uri Caine

Al Teatro Vittoria, il Torino Jazz Festival propone una produzione originale di scrittura e improvvisazione: Improvisers/Composers. Protagonista il pianista Andrea Rebaudengo, che presenta un programma interamente dedicato a brani “classici” per pianoforte composti da musicisti jazz contemporanei.

Rebaudengo, del resto, non è nuovo a questo tipo di esplorazioni: oltre a collaborare con realtà come l’Orchestra della Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Rai, è il pianista stabile dell’ensemble Sentieri Selvaggi, gruppo di riferimento per la musica contemporanea in Italia. Proprio in questo contesto ha affinato un approccio libero ma rigoroso.

Foto da Press Kit Torino Jazz Festival

Il concerto è stato caratterizzato da una serie di prime esecuzioni che ne hanno definito l’unicità. In particolare, due prime italiane: Alone, in Four Parts di Wayne Horvitz e Looking Above, the Faith of Joseph di James Newton. A seguire, due brani di Matt Mitchell tratti da Vista Accumulationall the Elasticity e Utensil strength – autentici esercizi di resistenza.

La sorpresa del concerto è la prima esecuzione assoluta dei 24 Preludi per pianoforte firmati da Uri Caine: una suite che sfida l’ascolto e la varietà stilistica, consapevole che alcuni passaggi potessero mettere in crisi l’ascolto del pubblico. Ma è proprio questo il bello: il rischio, la possibilità di ascoltare qualcosa che ci sposti un po’ più in là.

I preludi sono stati affidati dallo stesso Caine a Rebaudengo. Si avverte la presenza del compositore negli accenni di micromelodie e citazioni, che come piccole apparizioni intersecano un ricchissimo mondo sonoro, da ascoltare con attenzione e impegno. La sequenza di esecuzione dei preludi non è fissa, ma costruita dal pianista stesso, che ha immaginato un percorso coerente con l’evoluzione dell’intero concerto. È proprio lui a concludere il ciclo con un preludio melodico, una scelta che sorprende e arricchisce ulteriormente il progetto.

Il pianoforte si conferma così l’ambito di una ricerca continua e appassionata da parte di Rebaudengo, e questo piccolo preludio finale diventa anche un gesto di “riappacificazione” – come lo definisce lui stesso –, un momento di leggerezza che permette di accogliere e conservare l’intensità dell’intero concerto.

Foto da Press Kit Torino Jazz Festival

Gli improvvisatori scrivono? Traggono dallo studio sull’improvvisazione materiale che poi mettono su pentagramma? «La risposta» spiega Rebaudengo «è stata un fluire di partiture estremamente interessanti, geniali, coraggiose, in cui le appartenenze geografiche e stilistiche c’entravano fino a un certo punto. Forse più di tutto contava la curiosità del compositore/improvvisatore, la sua voglia di mettersi in gioco».

Il risultato è un percorso dentro la mente di artisti che, pur nati nell’improvvisazione, hanno scelto la scrittura come nuovo terreno di esplorazione. Non semplici improvvisazioni “cristallizzate”, ma pensieri musicali lunghi, forme controllate, racconti in musica.

Alla fine del concerto — che, per scelta programmatica, non ha mai cercato la facile seduzione — Rebaudengo rientra tra gli applausi e offre al pubblico un piccolo encore: Portolan. Un repertorio raffinato, difficile, e proprio per questo necessario.

di Joy Santandrea

Lakecia Benjamin al Teatro Colosseo: energia e lotta a suon di sax

Lunedì 28 aprile, ore 21, Teatro Colosseo. Nel pieno svolgimento del Torino Jazz Festival Lakecia Benjamin sale sul palco con la sua band.

Sassofonista newyorkese di origine e spirito, Benjamin porta con sé non solo la musica dell’album Phoenix, ma un’energia viva, bruciante, che si muove tra jazz, hip hop, gospel e ritmi funk. È difficile starle dietro, e ancora più difficile non farsi travolgere.

Apre la serata con il brano “Amerikkan Skin”. Prima di suonare, la musicista prende il microfono: «We have to go back to love and peace and joy and respect», dice al pubblico, ricordando che «we do not live in fear».

Mentre la band crea un tappeto sonoro pulsante, con stupore dei presenti Benjamin comincia a rappare, come se la sua voce, e poi il suo sax, fossero strumenti per dire ciò che spesso viene ignorato. È la New York dell’hip hop, delle lotte razziali, dei sogni e delle paure, che prende vita in teatro.

Foto di Ottavia Salvadori

Il sax parla, urla, s’infiamma, mentre sullo sfondo la band apparecchia uno sfondo limpido, melodico a tinte multietniche. Poi ritorna il flow anni ’90, ancora parole, ancora battiti lanciati contro la violenza e il razzismo.

Lakecia non è sola. Sul palco con lei una band affiatatissima: John Chin al pianoforte e alle tastiere, Elias Bailey al contrabbasso e Dorian Phelps alla batteria. E proprio la batteria è protagonista di un momento memorabile. Durante uno dei brani Phelps giovanissimo, da soli quattro mesi nella formazione, si prende il centro della scena con un assolo lunghissimo, energico, travolgente. Ho sentito male alle braccia per lui. Un’esplosione di tecnica e passione che lascia il pubblico senza fiato.

Quando arriva il turno di “My Favorite Things”, si avverte subito l’influenza della versione di Coltrane, che Benjamin omaggia con un tocco personale vivace, colorato, febbrile. I fraseggi si allungano in una sezione di grande espressione tecnica, eseguita tutta d’un fiato. Il pubblico applaude a scena aperta, trascinato da un’ovazione spontanea. Dopo una pausa di recupero, la performer grida al pubblico, aizzando ancor più la folla presente.

Foto di Ottavia Salvadori

L’atmosfera cambia ancora. Un brano si apre con una trama di pianoforte blues/gospel, su cui la leader e il pianista dialogano con dolcezza e intensità. È un momento intimo, spirituale, che ricorda quanto il jazz sappia essere anche preghiera, invocazione, conforto e comunità.

Verso la fine, la serata prende di nuovo una piega funky, con un brano trascinante, in cui Benjamin torna a rappare, chiudendo il cerchio iniziato con il primo brano.

Il finale è esplosivo: “Higher Ground” di Stevie Wonder, che trasforma il teatro in una pista da ballo. Nessuno può restare fermo, nemmeno sulle poltrone imbottite.

Foto di Ottavia Salvadori

Durante tutto il concerto, Lakecia lascia moltissimo spazio agli altri musicisti. E meno male: sono tutti straordinari, e la loro bravura contribuisce a rendere il live qualcosa di molto più grande della somma delle sue parti. Ma quando prende il centro della scena, lo fa senza mezze misure. Le sue note sono lunghe, ruvide, feroci. Il sax grida, si fa sentire, pretende attenzione. È una dichiarazione d’amore e una chiamata alla lotta. Durante tutto il concerto, Lakecia lascia moltissimo spazio agli altri musicisti. E meno male: sono tutti straordinari, e la loro bravura contribuisce a rendere il live qualcosa di molto più grande della somma delle sue parti. Ma quando prende il centro della scena, lo fa senza mezze misure. Le sue note sono lunghe, ruvide, feroci. Il sax grida, si fa sentire, pretende attenzione. È una dichiarazione d’amore e una chiamata alla lotta. 

Si mostra in tutta la sua voglia di condividere, di incantare, di vibrare, e – come ha detto almeno dieci volte – anche di bere vino. Ed è proprio per questi motivi che abbiamo amato Lakecia Benjamin.

Si è donata  completamente, con tutta la sua energia feroce, ipnotica, e con una passione che si sente addosso anche dopo che il concerto è finito.

Marco Usmigli

Blowin’ in the wind: jazz e pace al TJF

“Blowin’in the wind”, una delle canzoni più famose di Bob Dylan, è uscita nel 1962 diventando immediatamente un inno internazionale per la pace.
Furio Di Castri, figura di spicco del jazz italiano e direttore del Dipartimento Jazz del Conservatorio di Torino, in occasione del Torino Jazz Festival ha ideato un concerto con quel  titolo, concepito come un messaggio esplicito a favore della pace. Per questo progetto, Di Castri ha formato l’ensemble Furio Di Castri 8 riunendo sette musicisti di altissimo livello con cui ha collaborato nel corso della sua lunga carriera: Mauro Negri al clarinetto, Giovanni Falzone alla tromba, Federico Pierantoni al trombone, Nguyen Le alla chitarra, Andrea Dulbecco al vibrafono, Fabio Giachino alle tastiere e Mattia Barbieri alla batteria.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il concerto si è sviluppato come un vero e proprio viaggio musicale, il cui filo conduttore sono stati i conflitti che hanno segnato gli ultimi settant’anni, un arco temporale che coincide con l’età di Di Castri.

Il percorso sonoro è partito dal Vietnam, evocato da una ricca varietà di suoni e melodie eteree che ricorda le colonne sonore cinematografiche, per poi spostarsi in Irlanda con i ritmi allegri di una giga. Il viaggio è proseguito in Sud America, in Argentina e in Cile, dove la musica assume un carattere passionale. La band, verso il finale di questo brano, è riuscito anche a coinvolgere un pubblico inizialmente incerto in un canto di una semplice melodia.

Da lì siamo passati alla Bosnia, con i suoi ritmi incalzanti tipici dei Balcani, per poi arrivare in Palestina, dove emerge chiaramente l’influenza del sistema modale arabo. Di Castri ha specificato che ha conosciuto quest’ultimo brano durante un workshop a Gaza anni prima.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Le composizioni finali si sono distaccate leggermente da questa linea, portando l’ascoltatore in Europa con un Requiem dedicato al tribunale dell’Aia e infine in Cina.

Il concerto è stato un’esperienza sonora estremamente interessante e ben riuscita. I musicisti hanno dato il meglio di sé, eseguendo soli virtuosistici di grande varietà e mostrando una notevole capacità di adattamento alle diverse tradizioni musicali attraversate. Hanno evidenziato la versatilità degli strumenti che, pur essendo strutturati per seguire le “regole” europee, riservano sorprese sonore inaspettate grazie alla bravura degli strumentisti. La tromba tramite diverse sordine ha prodotto suoni gracchianti e strozzati, il vibrafono suonato con archetti in sostituzione delle bacchette ha creato suoni stridenti e risonanti.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

La batteria ha dato sfogo a tantissime possibilità sonore, è stata suonata con bacchette morbide per simulare il suono dei timpani, o usata per produrre rumori naturali come l’effetto dell’acqua che scorre, grazie all’utilizzo delle spazzole.

Il contrabbasso, base ritmica onnipresente, ha tenuto il concerto ancorato al jazz, elemento fondamentale del festival torinese.

Il finale è arrivato a sorpresa: le melodie precedenti sono state rielaborate nel ritornello di “Blowin’ in the Wind”, creando un effetto conclusivo di grande impatto e profondità, richiamando così una riflessione sulle guerre e i conflitti umani.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il pubblico non si è risparmiato negli applausi, che hanno portato  l’ensemble a dedicarci un fuoriprogramma. Prima di andar via, la band ha fatto cantare al pubblico la melodia sudamericana eseguita in precedenza creando un momento di condivisione e gioia che ha fatto uscire tutti dal teatro con un sorriso sul volto. 

Marta Miron


Sunday Morning Brings the Dawn In: korale in concerto al Teatro Vittoria

Come ogni festival che si rispetti, il Torino Jazz Festival nel programma di questa edizione presenta vari appuntamenti con giovani musicisti del jazz contemporaneo, offrendo così spazio per farsi conoscere alle nuove generazioni. Tra quelli più interessanti c’è l’esibizione del gruppo Korale che domenica mattina 27 aprile al Teatro Vittoria ha dato il via a una lunga giornata di concerti. 

Foto di Ottavia Salvadori

Il gruppo, nato lo scorso anno durante una residenza artistica presso il festival Grey Cat di Follonica, è composto da due talenti del panorama italiano come Michelangelo Scandroglio (contrabbasso) e Francesca Remigi (batteria) e due musicisti sudcoreani Youngwoo Lee (pianoforte) e DoYeon Kim (gayageum e voce). Alla base di tutto c’è l’incontro di diverse sensibilità e tradizioni musicali, che trovano il modo di rinnovarsi e ampliare i propri orizzonti. I brani eseguiti durante il concerto sono stati composti dai diversi membri del gruppo: un insieme sfaccettato di approcci creativi che mescola tecniche e stili esecutivi differenti, ma che coesistono solidamente.

Foto di Ottavia Salvadori

Una peculiarità di questo ensemble è la presenza del gayageum, strumento a corde pizzicate della tradizione coreana che DoYeon suona da seduta al centro della sala, come se fosse il crocevia degli scambi musicali che circolano durante l’esibizione. Ma non solo, anche il canto è l’aspetto portante di vari brani durante i quali DoYeon in piedi dirige i tempi di attacco del gruppo. Di tutt’altro stile invece il pianista Youngwoo che, in posizione defilata, quasi di spalle al pubblico e col volto chinato sul pianoforte, dialoga con gli altri quasi in un inseguimento reciproco di ritmi e suoni che si avvolgono tra di loro. Durante i momenti solisti il pianista segue un’idea frammentaria che però torna sempre, in una sorta di scrittura improvvisata. Chiudiamo il quadro con la batteria e il contrabbasso: Scandroglio è l’ideatore di tutta l’iniziativa che supervisiona e accompagna i brani, con incursioni sottili e raffinate, mentre la batterista, che chiude il concerto con un suo brano, è al centro dei cambi di ritmo e tempo che si sviluppano nelle singole composizioni.

Foto di Ottavia Salvadori

Più in generale il concerto ci restituisce una visione aperta della musica: come forma di scambio e connessione culturale che si può creare attraverso la sperimentazione di percorsi non canonici. Questi quattro giovani musicisti hanno saputo dimostrarlo e ci hanno reso partecipi delle loro ricerche. 

Alessandro Camiolo

Zoe Pia e il mito di Atlantide al Torino Jazz Festival

Il 25 aprile, giorno della Festa della Liberazione, la clarinettista e compositrice sarda Zoe Pia ha portato sul palco del Teatro Vittoria, nell’ambito del Torino Jazz Festival, il suo nuovo progetto Atlantidei. La sala era piena, anche se con un pubblico decisamente adulto: un peccato considerando l’energia fresca e sperimentale della proposta.

Atlantidei è una performance che va oltre la musica: è un viaggio sensoriale, una visione che mette insieme mito, natura e suono, pensata insieme al collettivo EIC – Eden Inverted Collective – composto da quattro percussionisti under 35 che hanno condiviso la scena con Zoe: Mattia Pia (suo fratello), Nicola Ciccarelli, Paolo Nocentini e Carlo Alberto Chittolina.

Foto di Colibrì Vision

Fin dalle prime note del brano d’apertura, “Oceanus”, si capisce che non sarà un concerto tradizionale. Le percussioni si mescolano a suoni liquidi generati da strumenti immersi in una bacinella d’acqua, mentre Zoe fa scivolare un medaglione sulle chiavi del suo clarinetto per produrre un suono arcaico, quasi sciamanico. 

È un momento che sembra arrivare direttamente dalla terra e dagli abissi, un suono che richiama qualcosa di antico ma che parla chiaramente anche al presente.

Tutto il progetto nasce infatti da un viaggio nel sud-ovest della Sardegna, nella zona dell’Iglesiente, dove la musicista ha immaginato una musica capace di raccontare paesaggi futuri intrecciati a suggestioni del passato e legati al mito di Atlantide. 

Tutto ciò prendendo ispirazione dalla teoria, affascinante quanto intricata, secondo cui la Sardegna possa essere l’antica isola sommersa.

Per Zoe Pia Atlantide è soprattutto un simbolo: «una metafora di bellezza naturale, necessaria da ricordare in una fase storica segnata da conflitti e fratture».

Ogni brano si muove tra queste coordinate: il recupero delle origini, del rito, e allo stesso tempo la sua decostruzione, attraverso suoni contemporanei e un uso creativo degli strumenti. Le launeddas, tipico strumento a fiato sardo, ad esempio, vengono soffiate e percosse in modo da produrre suoni sporchi e destrutturati, amplificati con riverberi profondi che creano rumori bassi e distorti.

Le percussioni spesso ricordano marce tribali e ritmi antichi, ma rimescolati con un linguaggio moderno, mentre il clarinetto lavora in continuo dialogo con vibrafono e marimba, dando vita a paesaggi sonori evocativi.

Il brano più diretto e politico della serata è “America”, che si apre con una vecchia registrazione radiofonica in inglese, forse di un discorso del periodo del Vietnam, coperta da un suono acuto e insistente di launeddas. 

Poi arriva un intervento al megafono, una voce che si scaglia contro la guerra, mentre le percussioni si muovono su una ritmica boom bap sincopata e il clarinetto accelera in fraseggi jazz energici. È un momento forte, uno dei più coinvolgenti dell’intero concerto.

Foto di Colibrì Vision

Il gran finale arriva con “Africa”, che parte come una marcia accompagnata dalle voci dei percussionisti. Il pubblico viene trascinato a battere le mani a tempo, mentre i musicisti si muovono ai lati della platea. È un brano definito da Zoe «green», per sottolineare quel legame continuo tra suono, natura e vita.

Tra un pezzo e l’altro, Zoe parla al pubblico con un tono semplice e diretto. Presenta il progetto, racconta come l’idea sia nata percorrendo le sue terre. 

Più volte ricorda il 25 aprile, citando la Festa della Liberazione come un momento da onorare, ricordare ed esporre a gran voce, anche attraverso la libertà e la forza della musica.

Atlantidei nasce inoltre dall’incontro con i pittori Luca Zarattini e Denis Riva in occasione della mostra Post Eden, e ne prende apertamente spunto: una visione post-edenica, un mondo nuovo che parte dal suono, dalla terra e dall’acqua, per ricostruire qualcosa di umano, sensibile e urgente. 

Una musica che respira insieme al pianeta.

Marco Usmigli

 Disobbedire Sempre: viaggio musicale tra regole infrante e libertà

“Disobbedire è l’unico modo per crescere”: così Fausto Ferraiuolo presenta il concerto “Disobbedire sempre”, un percorso musicale che ci riporta all’infanzia e al percorso di crescita di ciascuno di noi.
L’evento è nel programma del Torino Jazz Festival.

Ferraiuolo compositore e pianista, insieme al clarinettista Gabriele Mirabassi danno vita a un concerto capace di riportarci indietro nel tempo e infonderci sentimenti di pace e libertà.

Il concerto comincia e i suoni dei due strumenti si intrecciano sin da subito.
Ferraiuolo accompagna il clarinetto al pianoforte, tenendo allo stesso tempo una lieve linea melodica con la mano sinistra.

Foto dal profilo Facebook @Gabriele Mirabassi

Ogni clarinettista sa quanti anni e quante ore di studio servono per produrre il suono “perfetto”, ma Mirabassi disobbedisce alla tecnica classica producendo note ariose e gracchianti. Giocando con i passaggi da suoni caldi ad altri taglienti, fa vibrare le corde vocali mentre emette il fiato per produrre una melodia roca in contrasto con il timbro pulito del pianoforte e quello caldo tipico del clarinetto classico, in un’interpretazione ricca di glissati che riporta subito alla celeberrima introduzione della Rhapsody in Blue di Gershwin. Mirabassi mostra la sua bravura tecnica riempiendo la sua interpretazione di virtuosismi, scale e arpeggi velocissimi di una pulizia sorprendente. Nella ninna nanna riesce a eseguire metà brano in pianissimissimo senza mai lasciare che il suono si perda tra il fruscio del fiato a dimostrare la sua capacità di gestire sia i momenti di forte che di piano.

Foto dal profilo Facebook @Fausto Ferraiuolo music

Intanto il pianoforte funge d’accompagnamento, suona all’unisono o si dedica a soli virtuosistici; spesso riprende le frasi del clarinetto con la mano destra, mentre con la sinistra rilancia l’accompagnamento che offriva prima. La melodia pulita del pianoforte spesso viene esasperata in sforzati e suoni estremamente risonanti che danno idea di libertà. 

Ferraiuolo nelle sue composizioni crea melodie libere da barriere che trasmettono immagini naturali dal carattere giocoso e spensierato, varie nella dinamica e con continui passaggi dall’adagio all’allegro, che ci riportano con i pensieri ai giochi che facevamo da bambini.

Il pubblico entusiasta riempie la sala di applausi in ogni momento di silenzio. Alla fine del concerto il calore del pubblico è tale  che i musicisti offrono un fuori programma inizialmente più calmo e lento ma che ha sviluppato un crescendo ideale per un finale grandioso.

“Disobbedire Sempre” si rivela una metafora illuminante per descrivere l’essenza stessa del jazz: un genere che, proprio come l’infanzia, fiorisce dalla libertà di rompere gli schemi, di sovvertire le regole classiche per creare qualcosa di nuovo e inaspettato.

Marta Miron


Don Karate al Bunker: tra maschere e groove camaleontici

Siete stufi di dover sistemare sempre le vostre playlist di Spotify? Bene, probabilmente è stato così anche per Don Karate, e stanchi di questo, hanno deciso di assemblare diversi generi e panorami sonori e metterli tutti insieme tutti in un unico eclettico live. 

Il progetto Don Karate, nato come trio, prende vita dalla mente del batterista Stefano Tamborrino. Viene proposto al Torino Jazz Festival in versione rivisitata come sestetto composto da Simone Graziano (tastiere), Francesco Ponticelli (basso e synth), Nazareno Caputo (vibrafono), Annarita Cicoria (flauto) e Rebecca Sammartano (flauto e voce). 

La serata si è svolta all’interno del Bunker, alle 23 di giovedì 24 aprile. Una mossa strategica per avvicinare i giovani dell’ambiente al Festival. Questi però, evidentemente, vista la coda all’entrata per l’evento techno nell’area adiacente, sono stati per lo più attratti da quest’ultimo. 

Il live comincia con la salita sul palco scaglionata dei vari strumentisti, vestiti con tuniche colorate e copricapo a mo’ di maschera, marchio di fabbrica del gruppo. L’ultimo a calpestare il palco è Stefano Tamborrino, che si fa spazio tra la folla del Bunker per raggiungere la sua batteria. 

I primi brani scelti per la serata preparano la tavola per i piatti forti, mantenendo sonorità leggere e semplici che la batteria movimenta con accenti sul levare e un forte groove che a tratti diventa sincopato. 

Foto di Ottavia Salvadori

Le atmosfere, da qui, iniziano a intrecciarsi in un continuo groviglio a tratti confuso, ma che funziona proprio perché stupisce, porta a muoversi e a divertirsi. 

Si passa dai suoni percussivi di “You Don’t Know Me” ai colori viola vaporwave di “Plinsky 1988”, che pare un’ode al mondo dei videogame arcade di quegli anni. 

La prassi esecutiva rimane praticamente simile per tutto il concerto. I flauti traversi, il vibrafono e le tastiere creano motivi che entrano nella testa e non se ne vanno più, mentre il basso e, soprattutto, la batteria decidono quanto e come far muovere i fianchi degli ascoltatori. 

Fianchi che vengono mossi e scossi specialmente durante l’esecuzione di “Bubinga”, brano dai suoni mediterranei e dalle forti influenze afro-funk, e dalla stilisticamente opposta “Monte Wolf”, proposta in una versione live che si discosta leggermente da quella registrata: cassa dritta e atmosfera da club tech house. 

Per non farci mancare niente, all’interno dell’eclettico caleidoscopio che è la matrice salda del pensiero musicale di Don Karate, non poteva mancare il rimando politico e satirico di “Ice Age” (2020).  

Sulla base ritmica hip-hop scuola East Coast viene inserito il celebre motivo di “Kalinka”, famosa canzone popolare russa, unendo in qualche modo l’ex URSS e gli Stati Uniti in una specie di messaggio premonitore del contemporaneo. 

L’effetto evocativo viene reso esplicito, inoltre, dall’uso dei visuals di Daniele Biondi, che proietta alle spalle del collettivo le facce distorte di Trump e Putin. 

Il gruppo, e specialmente Tamborrino, si diverte, gioca e fa ballare, portando in scena un live che sembra – appunto – una playlist esplosa sul palco, ma non una qualsiasi: una che dimostra che non serve avere i paraocchi su un solo genere musicale. 

Foto di Ottavia Salvadori

Jazz, techno, hip-hop, afro-funk, elettronica: nel mondo di Don Karate tutto può convivere, contaminarsi e sorprendere. 

Un concerto che, più che chiedere di scegliere, invita ad ascoltare tutto assieme e a goderselo. 

Perché, a volte, la miglior playlist è proprio quella che non hai bisogno di sistemare. 

Marco Usmigli