Prima rappresentazione in cartellone della la stagione 2019/2020: il teatro Regio ritorna, dopo sessant’anni esatti dalla sua prima apparizione sul palco torinese, a riallestire la famosa, quanto controversa, opera di Georges Bizet Les pêcheurs de perles, in lingua francese nella versione originale del 1863.
Colpiscono, indubbiamente, le scelte registiche di Julien Lubek e Cécile Roussat. I due, che collaborano insieme dal 2000, erano già stati presenti sulla scena torinese nel 2015 con Dido and Æneas. In quest’ultima produzione, che li ha visti impegnati non solo alla regia, ma anche alla scenografia, ai costumi, alla coreografia e alle luci, il tema è stato lo sdoppiamento fra realtà e immaginazione: le figure dei protagonisti, durante lo spettacolo, sono state accompagnate a più riprese da controfigure di ballerini, (specialmente nelle scene di Leïla, interpretata da Hasmik Torosyan) in cui, accanto ai cantanti, un doppelgänger vivo si muove nello spazio scenico, animando fisicamente la voce. Questa creazione di un doppio piano di realtà, dell’incarnazione-estensione a metà fra il sogno e la veglia, fra il ricordo e il presente concreto, porta alla luce quel processo di irrealizzazione che caratterizza da sempre l’opera di Bizet, elevata da alcuni critici come antesignana (anche se, forse, molto più incoscientemente di quanto si possa sperare) della poetica della memoria proustiana e bergsoniana. Il ricordo rappresenta il fil rouge invisibile che unisce i protagonisti in una trama che a mano a mano si scioglie nelle sue scene d’amore, di rabbia e gelosia. È quindi l’opera stessa che viene strutturata grazie all’astrazione mentale: fondamentalmente basata su avvenimenti del passato, il presente (anche scenico) non è tanto continuazione, quanto il riflesso di ciò che tempo addietro vissero i protagonisti. Lo stesso culmine dell’opera, la famosissima romanza di Nadir «Je crois entendre encore», è un rilancio del passato. Aria che, per altro, da generazioni raccoglie le sfide più ardite per i tenori, a causa della melodia che richiede notevoli perizie tecniche insieme alla sua espressività estatica; cantata esemplarmente in questa rappresentazione da Kévin Amiel. La messa in scena dunque di questo secondo piano narrativo richiede un alto grado di astrazione per lo spettatore, il quale spesso vede il doppio dei protagonisti sul palco; eppure, nell’affrontare lo scarso realismo scenico, egli guadagna in fin dei conti la giusta consapevolezza per guardare all’opera con l’occhio puntato direttamente sull’immaginazione.
In questo quadro vanno inserite anche le molteplici scenografie, sostituite durante lo svolgimento dell’azione e fatte calare direttamente dall’alto: palme per l’ambientazione della foresta, una facciata di palazzo per la romanza di Nadir, un fuoco stilizzato per il rogo, un cielo brillantato durante la veglia sul mare (questi ultimi due forse meno entusiasmanti per colori e fattezze). La trasparenza dei meccanismi produce indubbiamente il cattivo effetto di dissociazione dalla scena, essendo il pubblico abituato non solo ad un generale svolgimento realistico delle vicende (complice sicuramente l’educazione cinematografica imperante), ma ad una generale cura per il trapasso omogeneo delle azioni, anche in ambiente operistico. Tuttavia, sebbene non vengano offerti gli artifici classici che appagano l’occhio (e la mente), i cambi, inscrivendosi nella cornice su citata, rimangono coerenti con lo spirito generale: pagando il prezzo della momentanea dissociazione l’opera dimostra che il potere narrativo non è solamente nel “realismo fittizio”, ma anche nella musica, nella recitazione, nel ballo. Un esperimento forse alla fine in controtendenza verso un certo tipo di fruizione, quella contemporanea, che fa del trompe-l’oeil, della riproduzione, della copia, della mimesis l’unica unità di misura della realtà. Dunque, che se ne faccia o meno una questione di gusto e di abitudine, il 2019 del teatro Regio apre vantando la portata, paradossalmente anticonformista, della tradizione operistica.
- Leïla, sacerdotessa, soprano, Hasmik Torosyan
- Nadir, un pescatore, tenore, Kévin Amiel
- Zurga, capo dei pescatori, baritono, Fabio Maria Capitanucci
- Nourabad, gran sacerdote, basso, Ugo Guagliardo
- Direttore d’orchestra Ryan McAdams
- Regia, scene, costumi, coreografia e luci Julien Lubek e Cécile Roussat
- Direttore dell’allestimento Pier Giovanni Bormida
- Maestro del coro Andrea Secchi
- Orchestra e Coro Teatro Regio Torino