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Never enough, la metamorfosi pop dei Turnstile

Dopo aver portato l’hardcore punk americano nel mainstream, i Turnstile ci riprovano con questo nuovo album, il successivo dopo Glow on, che ha consacrato il loro successo mondiale nel 2021.

La sperimentazione raggiunge nuovi livelli di complessità per quanto riguarda la ricerca elettronica e l’uso di strumenti non convenzionali per il genere. Le sonorità hardcore sono ancora presenti, ma la voglia di spostarsi sempre più verso il pop è evidente e si respira per tutta la durata dell’LP. Tracce come “I CARE” e “SEEIN’ STAR” sono la quintessenza del brano rock da classifica.

Gran parte di questa svolta si deve anche alla presenza del produttore A.G. Cook (lo stesso di Brat di Charli XCX), il cui tocco si percepisce in diversi momenti chiave: nell’ipnotica sezione ritmica che chiude “LOOK OUT FOR ME”, o nei sintetizzatori della title track, che danno vita a un anthem potente, capace di far cantare e pogare un intero stadio.

Nei testi, Brendan Yates riflette sullo scorrere del tempo e sui cambiamenti che comporta, probabilmente influenzati dal radicale cambiamento di vita dovuto al successo della band. Il titolo dell’album allude a un sogno che, nonostante gli sforzi e il passare degli anni, sembra destinato a non realizzarsi mai del tutto.

Il problema? Manca qualcosa di veramente memorabile. Se nei due dischi precedenti i Turnstile brillavano per potenza e scrittura, qui il tutto suona più “grande”, ma anche più generico, un arena rock che strizza l’occhio alle major e alle radio. Se i momenti interessanti si trovano nelle parti sperimentali, non sono più nei riff o nell’energia grezza della band, che qui suona un po’ stanca e ripetitiva. 

Voto 6.5/10

Alessandro Ciffo

Muti dirige «Babij Yar» di Šostakóvič

«T’ho visto: eri tu, –l’accusa di Quasimodo all’Uomo del mio tempo– con la tua scienza esatta, persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta»: è l’atto di dolore di quella menzogna («Andiamo ai campi») giunta sino a noi, che ha sostituito l’insegnamento del Cristo con la legge di Caino; coltivato la pietra e la fionda. Una riflessione che potrebbe prestarsi all’interpretazione implacabile di Riccardo Muti, che dirige Sinfonia n.13, op. 113, «Babij Yar» di Šostakóvič –con il basso Aleksej Tichomirov e Chicago Symphony Orchestra, per CSO Resound quest’anno. L’esecuzione massiccia contro la violenza di dimenticare, la mortificazione di negare, per una trasmutazione dei valori.

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Cage meets Satie

«Per interessarsi a Satie – sosteneva Cage – bisogna cominciare non avendo interessi, accettare che un uomo sia un uomo, lasciar perdere le nostre illusioni sull’idea di ordine, di espressione dei sentimenti e tutti gli imbonimenti estetici di cui siamo gli eredi. Non si tratta di sapere se Satie è valido. Egli è indispensabile»: è l’ago della bilancia della sua vita artistica. Sapientemente Jay Gottlieb e Anne de Fornel (pianisti) interpretano questo pensiero nel loro disco rilasciato da Paraty.

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