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CM Orchestra porta i grandi degli anni ’80: special guest Tony Hadley

Puoi anche non ricordare l’anno preciso, ma certi ritornelli ti restano impressi . C’era chi negli anni ’80 li ha vissuti, chi li ha scoperti coi genitori, e chi… era lì per gridare “Baciami” a Tony Hadley.

Il Tones Teatro Natura ad Oira, ha radunato tantissimi amanti della musica: la CM Orchestra, affiancata dallo special guest Tony Hadley, ex frontman degli Spandau Ballet, ha infiammato la rassegna Tone on the Stones. Fondata da Claudio Mazzucchelli, la CM Orchestra è una compagine nata per dare vita a produzioni sinfoniche e crossover capaci di unire repertori classici e pop. Mazzucchelli, figura centrale del progetto, non è solo ideatore e produttore, ma anche arrangiatore e direttore artistico: una personalità poliedrica che ha saputo dare una forma identitaria a ogni produzione. L’orchestra è composta da molti musicisti talentuosi, guidati dalla direzione di Andrea Pollione, musicista e arrangiatore di grande esperienza, da anni legato alla CM Orchestra come direttore musicale.

Foto di Joy Santandrea

Sul palco si sono alternati sei vocalist – Paolo Airoldi, Andrea Casali, Silvia Fusè, Sonia Mosca, Roberta Orrù e Martina Lo Visco – accompagnati da un corpo di ballo coinvolgente. L’apertura è stata affidata a “Frozen” di Madonna, interpretata da Andrea Casali, brano che ha saputo creare il giusto raccoglimento iniziale. A seguire, “Broken Wings” dei Mr. Mister, cantata da Paolo Airoldi, ha portato una scarica emotiva che ha acceso definitivamente la platea. Uno dei momenti più trascinanti dello show è stata la travolgente esecuzione di “Relight My Fire”, brano interpretato coralmente da tutti i vocalist: energia pura, che ha mostrato la grande complicità e chimica tra i cantanti e la CM Orchestra.

Con l’ingresso di Tony Hadley sul palco è scattata la scintilla. L’inconfondibile voce degli Spandau Ballet ha esordito con “Chant No. 1 (I Don’t Need This Pressure On)”, brano dal testo emblematico che parla di rifiuto delle pressioni esterne, come a dire: lasciamo da parte le pressioni e godiamoci la serata. La sua apparizione ha scatenato un’ovazione tra i presenti, numerosissimi (posti sold out) e visibilmente emozionati. Da quel momento, la scaletta ha continuato a snodarsi tra reinterpretazioni di grandi classici: “Everybody Wants to Rule the World” dei Tear For Fears, affidata a Roberta Orrù, ha riportato il pubblico nel cuore del decennio; “What’s Love Got to Do with It”, cantata da Silvia Fusè, ha fatto risplendere le sonorità soul-pop di Tina Turner; “Hung Up” di Madonna, portata sul palco da Sonia Mosca, ha innestato una nuova energia. Non poteva mancare nemmeno “The Wild Boys”, uno dei brani simbolo dei Duran Duran – amici-rivali storici degli Spandau – cantato da Andrea Casali e Paolo Airoldi: adrenalina.

Foto di Joy Santandrea

Hadley è tornato protagonista con alcuni dei successi intramontabili degli Spandau Ballet: “Gold”, “I’ll Fly for You” e “Through the Barricades” – titoli che anche chi non ha vissuto direttamente quel decennio conosce e canta, come se appartenessero a una memoria collettiva. Il momento più divertente è stato senza dubbio l’introduzione di “True”, con Hadley che ha scherzato col pubblico: «If you love somebody and you wanna Bacio Bacio…» – e la platea, in coro, ha risposto «Bacio Bacio». Al suo ribattere con un ulteriore «Bacio Bacio», una fan ha urlato «Baciami!», Hadley, ridendo, ha concluso con un “This is the song. This is True!”, prima che l’orchestra attaccasse con il brano. La sua presenza scenica, il carisma e l’eccezionale qualità vocale hanno dimostrato quanto Hadley riesca ancora oggi a dominare la scena.

Ogni canzone è stata arricchita da coreografie eterogenee che hanno amplificato l’impatto emotivo del programma. Il palco del Tones Teatro Natura, incastonato nella roccia, ha giocato un ruolo fondamentale nella serata: grazie alle proiezioni sulle pareti della cava e a una regia posta sul fondo della platea, costruita all’interno di una struttura a forma di T composta da container, l’intero evento ha acquisito una qualità immersiva rara.

Foto di Joy Santandrea

In platea, tante persone che gli anni ’80 li hanno vissuti, ma anche giovani che quei brani li hanno scoperti grazie ai genitori, e perfino bambini, catturati anche loro dalla trappola del groove irresistibile delle canzoni. Il concerto ha lasciato negli spettatori una sensazione di festa, nostalgia ed entusiasmo contagioso.

Perché certe serate, come certe canzoni, restano. Come recita uno dei versi più noti degli Spandau Ballet: “This is the sound of my soul”.

di Joy Santandrea

Eugenio in Via Di Gioia: il tour l’amore è tutto al Flowers Festival 2025

Si sono fatti attendere e, con un ritardo di mezz’ora sulla tabella di marcia, gli Eugenio in Via Di Gioia sono saliti sul palco del Flowers Festival inaugurando, il 26 giugno, il loro tour estivo “L’amore è tutto”, omonimo del loro ultimo album e proseguimento ideale del giro di concerti di presentazione avvenuto in primavera nei principali club italiani.

Sul proprio sito il gruppo ci invita a immaginare cosa può succedere in un concerto che dura 2 ore. Ma, con assoluta certezza possiamo dire che: Eugenio Cesaro (il frontman), correrà e salterà forsennatamente da una parte all’altra dello stage; Paolo Di Gioia (percussioni) cercherà di riportarlo nel qui e ora, richiamando la sua attenzione e facendo il cantastorie; Emanuele Via (tastiere) tenterà il tutto per tutto con le sue battute sagaci capaci di suscitare risate tardive; Lorenzo Federici (basso) sembrerà sempre capitato lì per caso.  Tutto è confermato anche  questa volta! Il concerto è durato due ore con Eugenio scheggia impazzita, Paolo narratore attento, Emanuele e il suo humor non sempre fulmineo e Lorenzo imperturbabile e inossidabile come «il ferro ternano» ampiamente citato nei momenti più ilari della serata.

Foto di Alessia Sabetta

Proprio Paolo racconta che a volte, nei loro concerti, si chiudono dei cerchi e infatti la data di aprile a Venaria (di cui raccontiamo qui) si era chiusa con “Per ricominciare”, con cui, invece, hanno aperto questa data di Collegno, di nuovo a casa loro.  Il concerto, che ha dato maggiore spazio ai brani dell’ultimo album, è stato anche un tuffo nel passato più o meno lontano: “Giovani illuminati” e “Chiodo Fisso” tra i brani più datati, “Lettera al prossimo” e “Altrove” per Natura viva, “Giornalaio” e “Filastrocca per grandi” per Amore e rivoluzione. Un viaggio tra una carriera decennale celebrata con il brano “Tornano” per ricordare «Le corse al volo con lo zaino che salta le corde rotte, la musica alta, in sei schiacciati sulla stessa Panda». Ad un certo punto il concerto si è tinto di pennellate malinconiche quando Eugenio, visibilmente commosso, si è accorto della presenza tra il pubblico della sua professoressa di italiano del liceo, proprio nel momento della serata più intimo con in scaletta i brani più profondi come “Buio”.  Con grande sorpresa, però, non è arrivato il momento di “Prima di tutto ho inventato me stesso”, Eugenio non ha tirato fuori il suo cubo di Rubik gigante e quello che era il momento topico di ogni loro concerto rimane un ricordo, sostituito da quello che probabilmente diventerà il prossimo tormentone – ovvero Eugenio che fa incursione tra il pubblico su “Sette camicie”

Foto di Alessia Sabetta

La cosa sorprendente degli Eugenio osservati oggi è il modo in cui sta cambiando il loro pubblico,sempre più eterogeneo. Se per la maggiore è composto da giovani (sia coloro che li seguono da tempi immemori e riconoscono le canzoni ancor prima che la band faccia il primo accordo, sia coloro che si sono avvicinati con la crescente influenza sui social), non è difficile notare numerosi bambini e bambine (accompagnati dai genitori) urlanti, ma anche più anziani (che non accompagnavano nessun figlio o nipote) posizionati negli spazi meno affollati della Certosa a godersi il concerto. 

Per i fan di vecchia data, ritornare a un concerto degli Eugenio significa ritrovare l’allegria nascosta e passare una serata in cui non mancano momenti di riflessione sociale (sia per i brani più fortemente connotati, che per i discorsi consapevoli ed efficaci). Chi li vede per la prima volta, invece, è quasi sempre travolto da un turbinio quasi inaspettato. In definitiva, un concerto degli Eugenio in Via Di Gioia è molto più di una semplice esibizione musicale: è un’esperienza collettiva che unisce leggerezza e profondità. Lasciarsi coinvolgere dalla loro energia diventa quasi inevitabile grazie all’entusiasmo che solo una band genuina come loro sa regalare. 

Alessia Sabetta

Musidams consiglia: i 10 migliori singoli di giugno

Dieci tracce uscite a giugno 2025, tra ritmi coinvolgenti e riff distorti, che ci preparano per un’estate indimenticabile ma con qualche groppo alla gola.

“Denti perfetti” – Giovanni Truppi e Thru Collected

Brano dell’interessantissimo progetto di Giovanni Truppi e del collettivo napoletano Thru Collected, entrambi punte di diamante dell’underground italiano.

Le sonorità sono assolutamente fuori dal comune per gli standard italiani, con una produzione particolarmente curata che unisce svariate sonorità dal folk cantautorale alla breakcore.

Voto 26/30

“Death comes from the sky” – Unknown mortal orchestra

“Death Comes From the sky” è una sorta di ballata psichedelica che sembra uscita da un film horror degli anni Settanta: chitarre liquide, riverberi sparati e una sezione ritmica quasi minacciosa creano un’atmosfera onirica ed inquietante. Gli Unknown mortal orchestra tornano nel mercato con un disco meno sperimentale del precedente, ma che riesce sapientemente a farne evolvere stile.

Voto 29/30

“Irukandji Syndrome” – Tropical Fuck Storm

Il nuovo album della band australiana Fairyland Codex può già essere annoverato come una delle migliori uscite di quest’anno. La traccia di apertura “Irukandji Syndrome” ci porta subito in un universo fatto di ritmiche e riff storti, che ricordano le sonorità dei primi dischi dei Radiohead ma con una sferzata psichedelica in più.

Voto 29/30

“Home” – Mac DeMarco

Il cantautore canadese ritorna con il suo personalissimo stile, che non delude nemmeno questa volta.

Il nuovo singolo, che anticipa l’uscita dell’album Guitar, è una triste ninna-nanna in pieno stile bedroom pop: semplice, orecchiabile e con un testo strappalacrime sul lasciarsi le cose alle spalle. Potremmo chiedere di meglio?

Voto 28/30

“Lion” – Little Simz ft. Obongjayar

Non è un caso che Kendrick Lamar abbia definito Little Simz una delle migliori rapper in circolazione. Con il nuovo album Lotus, l’artista britannica alza ancora l’asticella. “Lion” è un brano potente e introspettivo, costruito su ritmi up-beat, inserti jazzistici e versi affilati, che raccontano di orgoglio con lucidità rara. Una prova d’autore intensa e senza compromessi.

Voto 29/30

“La lingua” –  Generic Animal

Generic Animal ci stupisce con una canzone su un amore non proprio rosa e fiori. Le sonorità sono delicate e minimali, una commistione tra folk e country. Le chitarre, il banjo e il violino si uniscono creando un arrangiamento estremamente commuovente.

Voto 26/30

“Il ricevimento” – Le Schiene Di Schiele

Dalla scena torinese arriva una ventata d’aria fresca: Le Schiene Di Schiele si confermano una delle realtà più interessanti del panorama indipendente con il nuovo album Danze della sfiga.

“Il ricevimento” è un brano che unisce in modo intelligente noise, ritmi ballabili e riff taglientissimi per sei minuti di pura adrenalina.

29/30

“Cutthroat” – Shame

Gli Shame si fanno più ironici ed esplosivi con una sfacciataggine che ricorda i primi Blur ma con la potenza dei gli Stooges.

Il singolo che anticipa il loro prossimo album omonimo è un concentrato di energia con un testo molto divertente, pieno di simpatici riferimenti alla internet-culture contemporanea.

Voto 28/30

“Nettles” – Ethel Cain

Ethel Cain è il nuovo nome del folk americano e questo singolo lo conferma nuovamente. Con “Nettles”, la cantautrice prosegue il suo viaggio nei territori sonori del dolore e della memoria, firmando uno dei suoi brani più oscuri e profondi.

Su una base minimale e dilatata, tra slowcore e folk, la sua voce diventa una preghiera carica di dolore ed autoespiazione. Probabilmente la migliore uscita del mese.

Voto 30/30

“Suzanne” – Mark Ronson e RAYE

Con questo singolo, Mark Ronson sembra voler ritrovare lo stile che aveva reso indimenticabili le sue collaborazioni con Amy Winehouse. Insieme alla bellissima voce di RAYE, dà vita a un perfetto singolo estivo, costruito su un solido impianto RnB e soul-pop.

Voto 27/30

Alessandro Ciffo

Never enough, la metamorfosi pop dei Turnstile

Dopo aver portato l’hardcore punk americano nel mainstream, i Turnstile ci riprovano con questo nuovo album, il successivo dopo Glow on, che ha consacrato il loro successo mondiale nel 2021.

La sperimentazione raggiunge nuovi livelli di complessità per quanto riguarda la ricerca elettronica e l’uso di strumenti non convenzionali per il genere. Le sonorità hardcore sono ancora presenti, ma la voglia di spostarsi sempre più verso il pop è evidente e si respira per tutta la durata dell’LP. Tracce come “I CARE” e “SEEIN’ STAR” sono la quintessenza del brano rock da classifica.

Gran parte di questa svolta si deve anche alla presenza del produttore A.G. Cook (lo stesso di Brat di Charli XCX), il cui tocco si percepisce in diversi momenti chiave: nell’ipnotica sezione ritmica che chiude “LOOK OUT FOR ME”, o nei sintetizzatori della title track, che danno vita a un anthem potente, capace di far cantare e pogare un intero stadio.

Nei testi, Brendan Yates riflette sullo scorrere del tempo e sui cambiamenti che comporta, probabilmente influenzati dal radicale cambiamento di vita dovuto al successo della band. Il titolo dell’album allude a un sogno che, nonostante gli sforzi e il passare degli anni, sembra destinato a non realizzarsi mai del tutto.

Il problema? Manca qualcosa di veramente memorabile. Se nei due dischi precedenti i Turnstile brillavano per potenza e scrittura, qui il tutto suona più “grande”, ma anche più generico, un arena rock che strizza l’occhio alle major e alle radio. Se i momenti interessanti si trovano nelle parti sperimentali, non sono più nei riff o nell’energia grezza della band, che qui suona un po’ stanca e ripetitiva. 

Voto 6.5/10

Alessandro Ciffo

Jazz is dead!: dance yourself clean

Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals. 

Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.

L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.

Foto di Fabiana Amato

Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente. 

Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.

Foto di Fabiana Amato

A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.

Foto di Fabiana Amato

Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.

Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.

Alessandro Camiolo e Sofia De March

Jazz is dead! e il mondo che brucia sotto la pioggia

Sotto al sole di un sabato torinese che si fa quasi miraggio, Jazz is Dead! apre la sua terza giornata tra loop infiniti, pioggia improvvisa e voci che reclamano spazio, identità, memoria. La domenica al Bunker è un atlante sonoro e umano. Ogni live è un territorio attraversato, ogni corpo sul palco diventa una frontiera abbattuta.

La giornata si apre con Ghosted, trio formato da Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che, nel caldo ancora opprimente del tardo pomeriggio, trasporta il pubblico in un viaggio ipnotico e minimalista. Un viaggio fatto di poche note di basso identiche e reiterate per più di quindici minuti, su cui la batteria danza tra controllo e abbandono mentre la chitarra si trasfigura tra effetti riverberati alla The Shadows – in perfetto pendant con il clima da vecchio Far West – e arpeggi robotici e metallici.

I brani – pochi, lunghissimi, quasi senza fine – costruiscono un loop sonoro che, complice le alte temperature, induce una vera e propria alterazione percettiva, data dal lavoro per accumulo. Un inizio silenziosamente travolgente prepara corpo e mente a lasciarsi andare per il resto della serata, che fa a questo punto ben sperare. 

Foto di Fabiana Amato

Subito dopo salgono Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly che portano un’idea sonora tanto fluida quanto le loro origini: Bolivia e Porto Rico, avant jazz, funk e noise. L’inizio è quieto: suoni semplici e chiari e atmosfere dilatate, poi all’improvviso l’impatto frontale con bassi distorti e tiratissimi, che fanno vibrare l’aria e costringono a spostare l’attenzione al palco. 

Il live si muove tra suggestioni latine e scosse elettriche, ma col passare dei minuti l’energia sprigionata dagli amplificatori inizia ad affievolirsi, non riuscendo a proporre un live colorato fino alla fine. Forse per colpa anche della pioggia, che arriva di colpo mettendo in fuga in poco tempo il folto pubblico pronto a fiondarsi sui poveri baristi sballottati sotto la tettoia. 

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’acquazzone, si materializza la figura di Alabaster De Plume, sassofonista inglese la cui musica è un viaggio tra atmosfere tremolanti e irregolari, che si muovono agilmente dal jazz più morbido e caldo ai territori più sperimentali e ruvidi. La musica di Alabaster non è solo un’esperienza sonora, ma una vera e propria narrazione emotiva: il sax dialoga con il basso e la batteria in un crescendo di tensione e rilascio, giocando con dinamiche contrastanti che tengono il pubblico sospeso, come in un grande rito collettivo. Le sue parole, scandite con calma e carica emotiva – mentre imbraccia una bandiera palestinese – si trasformano in mantra di autenticità, collettività e resistenza denunciando con forza le ingiustizie di Gaza in un lungo discorso di protesta. È un concerto che va ben oltre la musica, un’esperienza che lascia nel pubblico un segno profondo e vibrante.

Foto di Fabiana Amato

Dalla Palestina passiamo al Kurdistan, col duo HJirok, composto dalla cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e Andi Toma dei Mouse on Mars. Un progetto musicale che unisce suoni raccolti durante viaggi nel Kurdistan iracheno con registrazioni elaborate di ritmi di tamburi sufi e melodie di setar. Sul palco la cantante danza e ondeggia in un paesaggio sonoro ammaliante che non lascia indifferenti. La sua voce estesa e versatile, si amalgama all’elettronica e alla musica tradizionale, cercando di sfumare le differenze ed emancipandosi da ogni stile già consolidato. La tradizione curda si basa sulla trasmissione orale come forma di resistenza alle imposizioni dominanti, da questo punto di vista possiamo configurare il HJirok come un ulteriore gesto politico di sfida e proposta di un futuro utopico in cui coesistono pacificamente paesaggi sonori, culture e modi di vita diversi.

Foto di Fabiana Amato

L’ultimo concerto all’aperto di quest’edizione è l’esibizione dell’ensemble svizzero Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: dodici musicisti tra strumenti a fiato, a corde e percussioni. Un concerto colorato, luminoso, dall’ispirazione africana, sia per i ritmi che per certi canti corali che travolge con energia il pubblico in un centrifuga di rock, punk e folk. Abbiamo apprezzato l’equilibrio tra i vari musicisti fusi in un unico organico nonostante i tanti timbri e voci differenti. Una comune musicale fatta anche di ascoltatori che con i loro applausi hanno più volte richiamato la band sul palco per ulteriori brani. 

Foto di Fabiana Amato

Una giornata di celebrazioni collettive e di unione politica veicolate dalla musica in vari modi. Citando uno dei discorsi di De Plume possiamo dire che vivere in questo mondo è difficile, ma solo restando uniti ed umani possiamo farcela con coraggio.

Alessandro Camiolo e Marco Usmigli

Jazz is dead! Day2: un viaggio musicale tra suoni e impegno sociale

Dopo un primo giorno carico di aspettative e adrenalina, il secondo ha consolidato l’entusiasmo e confermato la qualità del festival. 

Dagli headliner ai talenti emergenti, passando per la risposta del pubblico e l’organizzazione impeccabile, Jazz is Dead! non solo ha mantenuto le promesse, ma ha persino superato le aspettative.

Ad aprire la seconda giornata del Jazz is Dead! troviamo il collettivo Orchestra Pietra Tonale, ormai presenza fissa al festival da quattro anni. L’esibizione ha mescolato improvvisazione e materiali dal nuovo album del gruppo , uscito il 16 maggio, e ha avuto come filo conduttore l’esplorazione di territori sonori unici e innovativi, uno dei tratti distintivi del collettivo. Fase importante della performance, rappresentativa dello spirito sperimentale del gruppo, è stata l’orchestrazione improvvisata sotto la direzione di Simone Farò che ha lasciato il pubblico col fiato sospeso in balia di suoni di guerriglia, a volte disorientanti e frammentati, altre rassegnati alle mani di chi li dirige.

Subito dopo l’esibizione dell’Orchestra Pietra Tonale, il festival si è spostato sul palco all’aperto. Qui è salito ShrapKnel, duo americano composto da PremRock e Curly Castro, membri della Wreckin’ Crew di Philadelphia. Il loro set ha inaugurato il palco esterno trasportando il pubblico in un viaggio attraverso l’hip-hop/rap più visionario e sperimentale, arricchito da sonorità elettroniche.
Nonostante l’orario ancora poco affollato, gli ShrapKnel sono  riusciti a coinvolgere tutti i presenti: in pochi minuti il pubblico si è avvicinato sotto il palco, riempiendo velocemente lo spazio e creando un’atmosfera carica di energia. Il loro live, caratterizzato da rime taglienti e un sound ruvido e contemporaneo, ha dato il via ufficiale alla serata, mostrando la forza del rap underground americano.

È poi l’ora dei Funk Shui Project che per chiudere in bellezza il tour del loro ultimo album Polvere hanno scelto di tornare a casa, Torino. Il live è stato un susseguirsi di sorprese e ospiti d’eccezione, sin dalle prime canzoni. A salire sul palco per primo è stato Willie Peyote, che ha regalato al pubblico due brani iconici: “Anestesia Totale” e “SoulFul”. L’atmosfera si è poi accesa con l’arrivo di Ensi, maestro del freestyle e simbolo della scena rap italiana, che ha sfoderato il suo flow impeccabile e l’energia contagiosa che lo contraddistingue. Un’altra sorpresa della serata è stata Davide Shorty, artista dalla voce soul inconfondibile. A rendere il momento ancora più speciale è stato l’arrivo di Johnny Marsiglia, uno dei liricisti più raffinati della scena siciliana.

A chiudere il concerto, grazie agli scratch di Frank Sativa, tutti gli artisti si sono riuniti per una jam memorabile, rappando alcune delle loro barre più celebri su strumentali che hanno segnato la storia dell’hip hop: un vero e proprio omaggio alla cultura del rap. 

Dopo la celebrazione del rap underground,  il festival  ha lasciato spazio a un ambiente più elettronico e all’esibizione di Herbert e Momoko, intimae sperimentale. I due artisti, Matthew Herbert produttore e musicista di musica elettronica e la cantante e batterista Momoko Gill, hanno presentato alcuni brani del loro prossimo album Clay, in uscita il 27 giugno, offrendo un’anteprima delle nuove sonorità elettriche e sognanti che lo caratterizzano. La performance si è sviluppata in un’atmosfera giocosa, con palle da basket a tenere il tempo, e raccolta, come se sul palco ci fossero due bambini a divertirsi dopo scuola. Nonostante la natura della loro esibizione, c’era una forte sintonia con il pubblico, diventato quasi parte attiva del processo creativo dentro il quale i due musicisti stavano viaggiando.

A seguire c’è stato l’arrivo di Meg, voce inconfondibile dei 99 Posse negli anni Novanta e icona della musica alternativa italiana: ha festeggiato i suoi 30 anni di carriera con un live intenso e carico di emozioni, portando sul palco il suo nuovo EP da solista Maria e i brani più conosciuti come “Sfumature” e “L’anguilla.”

Oltre alla musica, Meg ha scelto di usare il palco per parlare di temi urgenti e delicati. L’artista si è esposta riguardo al femminicidio di Martina Carbonaro ad Afragola, ribadendo l’importanza di educare le nuove generazioni sulla violenza di genere e sulla necessità di un cambiamento culturale. Un gesto potente, che ha dato ancora più valore al suo live e alla sua figura di musicista impegnata.

Un impegno che, forse, sarebbe stato ancora più significativo se anche alcuni colleghi uomini avessero preso posizione nei concerti successivi, facendo sentire la propria voce su un tema che riguarda tutti.

Ormai a notte inoltrata, l’ultimo artista a salire sul palco esterno è stato Egyptian Lover, autentico caposaldo e pioniere dell’hip-hop electro. Con un set alla console, ha chiuso la serata regalando bassi potenti, momenti vocali e sorprendenti incursioni di melodie mediorientali sapientemente remixate.

La sua performance, semplice ma estremamente efficace, si è distinta per una mimica minimalista ricca di carisma, perfettamente in linea con il suo personaggio. I ritmi travolgenti hanno coinvolto il pubblico, che nonostante le molte ore di festival alle spalle, si è lasciato trasportare dalla musica e si è scatenato fino all’ultimo beat grazie anche alla scelta di orientare le casse verso l’interno ha garantito una diffusione del suono equilibrata e avvolgente.

La giornata si è conclusa con i dj set di Los Hermanos, che hanno proposto una coinvolgente techno latina, seguiti da Andrea Passenger per chiudere la serata. 

Anche il secondo giorno si è così concluso, confermando pienamente le aspettative del festival.

Sofia De March, Marta Miron e Claudia Meli

Jazz is dead!: prima giornata tra ritualità ed elettronica sintetica

Tra le mura grezze del Bunker, dove il cemento risuona di bassi profondi e laser accecanti, il jazz – se davvero è morto – ha risposto con un ghigno e sonorità distorte. La prima giornata di Jazz is Dead! è stata un rituale urbano che ha fatto vibrare Torino tra improvvisazioni, scariche elettroniche e sorprendenti ibridazioni.

Alle 18:30, con il sole ancora alto e una calura che farebbe sciogliere anche le intenzioni migliori, Skylla apre il festival sul palco esterno. Il pubblico è sparso; molti cercano rifugio all’ombra, ma basta poco perché l’attenzione si concentri su di loro: una batteria incalzante, il basso magnetico di Ruth Goller – mente del progetto – e due voci che si rincorrono tra acuti, glissati e sillabe inventate. Nessun testo: solo un canto che sembra provenire dai bassifondi. Il mix è originale e potente: jazz, lirica e post-rock che si fondono in un flusso sonoro continuo, senza pause, capace di ipnotizzare. Niente maschere, solo suono puro che si impone sull’afa e sul disorientamento iniziale. In pochi minuti, il pubblico è rapito. Si entra nel festival così, seguendo l’istinto. 

Dopo una breve pausa il programma prosegue. The Necks, trio jazz australiano, sale sul palco e dà inizio alla performance.

Il gruppo è composto da pianoforte, contrabbasso e batteria, strumenti che, grazie a microfoni posizionati in modo inusuale (ad esempio molto vicini alle corde del pianoforte), creano effetti sonori particolari e mutevoli. Gli strumenti non vengono suonati secondo la prassi tradizionale: il contrabbassista, ad esempio, talvolta utilizza l’archetto in modo pesante, quasi sgraziato, mentre il batterista preferisce bacchette con punte più grandi e morbide, che, usate sui piatti, producono un suono lieve e avvolgente.

La performance si sviluppa come un lungo flusso musicale dall’evoluzione graduale: si apre con un inizio etereo, caratterizzato da arpeggi del pianoforte che richiamano melodie orientali, che si evolve in una progressiva intensificazione, sempre più “caotica” ma ordinata allo stesso tempo.

Foto di Fabiana Amato

Dopo un’ora puramente strumentale, le voci tornano protagoniste sul palco con Tarta Relena, duo catalano composto dalle voci di Marta Torrella e Helena Ros, in grado di  creare un’atmosfera suggestiva e ancestrale. L’esecuzione di brani della tradizione mediterranea e di composizioni originali, arricchita da una base elettronica, contribuisce a costruire un ambiente suggestivo. Il repertorio spazia da un poema cantato del Seicento in latino rielaborato in forma polivocale – con due voci separate da un’ottava–fino a “Tamarindo”, una loro composizione nata da un errore in sala di registrazione con una traccia riprodotta al contrario, come spiegato poi sul palco.

Il rapporto tra sperimentazione e tradizione ha dato vita a un’esibizione capace di emozionare profondamente gli ascoltatori.

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’ipnotico inizio, l’atmosfera del festival si carica di elettricità con l’arrivo di Bendik Giske. Il sassofonista norvegese trasforma il palco in un rituale fisico e sensoriale, dove ogni respiro, ogni vibrazione dello strumento diventa parte del linguaggio corporeo. Con una tecnica impeccabile, Giske utilizza fiato continuo e microfonazioni creative per generare un suono percussivo e soffiato, costruito su arpeggi ripetuti, forte ritmicità e continui giochi di dinamiche. Il risultato è un’esperienza immersiva, dove la potenza del corpo e del gesto performativo si fondono in un atto di resistenza e bellezza. Tuttavia, nonostante le capacità tecniche e la presenza scenica, la performance tende col tempo a ripiegarsi su se stessa, sfumando in una continua dimostrazione stilistica che non amplia la modalità esecutiva già consolidata.

Foto di Fabiana Amato

Le esibizioni all’aperto si concludono con Loraine James, produttrice londinese di musica elettronica che in un’ora di live set ci ha colpiti con tracce intricate, piene di glitch, voci in loop che creano linee di suono costanti e momenti di rottura, in cui i bassi sferzano il ritmo. Flash di luci rosse fanno da sfondo al caldo serale, proviamo a stento a seguire il ritmo che è un continuo sali e scendi di BPM riempito di suoni sempre nuovi, che emergono di continuo come in un magma ribollente di emocore, ambient e IDM. 

La notte nel club inizia con il duo techno Dopplereffekt, direttamente da Detroit, sono marito e moglie: Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel. Entrambi indossano una maschera nera che annulla i loro volti e suonano due sintetizzatori Korg Triton, attraverso i quali creano suoni fantascientifici, simili a spade laser che vibrano nell’aria. La loro è techno minimale, ipnotica, che tende a una forma cerebrale quasi da canone infinito. I campioni e le sequenze utilizzati plasmano un percorso di accrescimento, si parte da materiale minimo, per tessere elaborazioni con sempre più ingredienti in un composto denso e multiforme. I visual che vengono proiettati lo confermano, vediamo prima un enorme volto grigio simile a quello umano, pieno di connessioni elettriche, per poi ampliare la visione al resto del corpo, ai suoi movimenti e infine decine di suoi simili che formano una grande tribù umanoide. Nel finale, tutto si spegne all’improvviso trovando equilibrio e quiete nell’immobilità dei corpi e del suono di cui possiamo solo sentire un’eco lontana nella nostra mente. 

Foto di Fabiana Amato

La serata prosegue con le esibizioni di Kreggo e Dualismo, che chiudono una giornata intensa, sperimentale e all’avanguardia, capace di esplorare i lati più opposti e affascinanti della musica. Un ottimo inizio per un festival che si preannuncia ricco di esperienze sonore uniche e coinvolgenti.

Marco Usmigli, Marta Miron e Alessandro Camiolo

Oltre la concorrenza: Underdog Fest, la ribellione musicale della provincia

Tra “Cigarettes & Alcohol”, dischi che girano sul piatto e musica dal vivo, domenica 1° giugno l’Open Factory di Nichelino ha ospitato Underdog, il primo festival targato The Vinyl Club. Un evento che celebra la riscoperta del vinile e il piacere dell’ascolto collettivo, portando nuova energia nella scena musicale della provincia torinese.

Prima dei concerti degli artisti emergenti, il pubblico ha potuto partecipare a Vinyl On the Sofà, un talk curato da Polvere, Duedischi e Backdoor, incentrato sull’ascolto collettivo di una selezione di dischi.

Particolarmente interessante è stata la scelta di coinvolgere Sun 16 Zine ed Eterogenesi, due fanzine indipendenti torinesi che raccontano e valorizzano la scena musicale locale, offrendone una prospettiva genuina.

PIT COCCATO: “When my loneliness is through/ Won’t you sit on the throne beside me?”

Vinile consigliato dall’artista: Songs:Ohia, Jason Molina- Magnolia Electric Co.

Pit Coccato, cantautore di Novara, sale sul palco interpretando alcuni brani di Tales of Lonely Night, un album accompagnato da un progetto originale: un fumetto, disegnato da giovani illustratori, che traduce ogni traccia del disco in immagini. Un’idea creativa che aggiunge una dimensione visiva alla sua musica.

Foto di Joy Santandrea

L’EP, intimo e avvolgente, si muove tra sonorità folk e rock, costruendo atmosfere malinconiche che cullano l’ascoltatore. Durante il live, Pit ha regalato anche alcuni inediti in italiano, che non vediamo l’ora di ascoltare in loop appena usciranno.

BEST BEFORE: “Giorni persi per ricordi che non ho”

Vinile consigliato dalla band: Egyptian Blue – A Living Commodity, da cui abbiamo ascoltato “Nylon Wire”.

Se Ian Curtis fosse ancora vivo e cantasse in italiano, probabilmente sarebbe il frontman dei Best Before. La loro musica è un’esplosione di tensione e urgenza, con una vocalità tesa, ossessiva, quasi rituale, capace di catturare e inquietare.

Foto di Joy Santandrea

Il gruppo non si limita a suonare, ma sputa emozioni senza filtri. Le chitarre taglienti dai toni metallici si intrecciano con un basso cupo e pulsante, perfettamente in linea con le atmosfere crank wave.

La sezione ritmica martella senza tregua, alternando momenti di frenesia claustrofobica a pause che aumentano la tensione. La combinazione tra ritmi, atmosfere alienanti e testi intensi rende il live magnetico. Impossibile restare immobili: chi sta sotto il palco resta completamente incollato alla band, incapace di distogliere lo sguardo.

I Best Before riescono a coniugare rabbia e lucidità, incanalando il caos in un suono che non è semplicemente un grido generazionale, ma una vera e propria esperienza sensoriale.

BRX!T: “Notti a caso sporcano questa città e adesso/ portami via di qua

Vinile consigliato dalla band: Soundtrack from Twin Peaks, da cui abbiamo ascoltato “Twin Peaks Theme”.

I BRX!T, da veri padroni di casa, hanno coinvolto il pubblico con un pogo sottopalco esplosivo, partendo da brani carichi di energia come “Salta l’intro” e “Notti a caso”, tra rock alternativo e influenze pop oscure.

Foto di Joy Santandrea

La band ha poi regalato un’anteprima: “Voyager”, il nuovo inedito in uscita a settembre, che segna l’inizio di un nuovo percorso sonoro destinato a lasciare il segno questo autunno. L’energia sul palco è stata contagiosa, con la band sempre in movimento e Dave, bassista e cantante, che ha persino raggiunto il pubblico nel pogo finale, amplificando l’adrenalina del live.

A chiudere la serata, un finale perfetto: “Song For the Dead” dei Queen of the Stone Age, un pezzo iconico che ha scatenato l’ultima ondata di salti e urla lasciando il pubblico soddisfatto, chiudendo il festival con entusiasmo.

Underdog: il palco dove la musica indipendente si fa sentire

In un’industria dominata dalla concorrenza feroce, Underdog è una boccata d’aria fresca, un palco dove le nuove proposte possono esibirsi e trovare il proprio spazio. Molte band meriterebbero più attenzione, e un festival come questo offre uno spazio essenziale per scoprire nuovi suoni, creare connessioni e portare avanti la realtà musicale torinese indipendente.

Non è stata solo una serata di musica e pogo sottopalco: Underdog ha acceso i riflettori sulla musica italiana, ricordandoci che esiste, resiste e sa farsi sentire.

Sofia De March

Musidams consiglia: i 10 migliori singoli di maggio

Dieci tracce uscite a maggio 2025 che si distinguono per stile, atmosfera e innovazione sonora, offrendo uno sguardo fresco e variegato, tra chi segue le tendenze e chi le sfida.


“I’m Dirt I’m Your Love” – Yung Lean

Yung Lean ritorna con un brano che è un manifesto esistenziale sotto forma di cloud rap post-apocalittico.

Con la sua voce satura di riverbero e una produzione minimalista e disturbante, il rapper svedese ci accompagna in una riflessione cupa sull’identità, la dipendenza emotiva e l’autodistruzione. Yung Lean continua a essere uno degli artisti più inclassificabili del nostro tempo, capace di trasformare la fragilità in linguaggio pop contemporaneo.

Voto: 29/30

“Man of the Year” – Lorde

Dal nuovo album Virgin il singolo sorprende per intensità e direzione artistica: è una riflessione sul ruolo del potere, della visibilità e del desiderio di riconoscimento, vista attraverso lenti ironiche e sfocate. La voce di Lorde è distante, robotica, ma le parole colpiscono dritte: «I dressed like the part / They gave me the prize / But forgot who I am».

Un pezzo denso, enigmatico, che si presta a molteplici letture e riconferma la neozelandese come una delle penne più intelligenti del pop contemporaneo.

Voto: 27/30

“Gli occhi (outro)” – Gioia Lucia

Gioia Lucia conclude il suo primo album con un brano che è al contempo un epilogo e un nuovo inizio. Gli occhi (outro) è una ballata lo-fi che mescola malinconia e speranza, con testi che esplorano la vulnerabilità e la ricerca di autenticità.

La produzione è essenziale, con chitarre acustiche e sintetizzatori minimali che creano un’atmosfera intima e riflessiva. La voce di Gioia Lucia è delicata e intensa, accompagnata da armonie vocali che aggiungono profondità al brano.

Il testo, che gioca con l’immagine degli occhi come specchio dell’anima, invita l’ascoltatore a guardarsi dentro e a confrontarsi con le proprie emozioni.

Voto: 27/30

“breeze!” – Kali Uchis

Kali Uchis continua a fluttuare tra i generi e con “breeze!” ci regala un brano che è puro sapore estivo in chiave soul-pop.

La sua voce morbida e sensuale si posa su una base leggera di synth avvolgenti e ritmi downtempo, che richiamano un dream pop etereo e un reggaeton lento ma raffinato.

Il testo è una dichiarazione d’amore serena, quasi sospesa nel tempo, e il titolo – “breeze!” – non è casuale: ogni elemento del brano pare muoversi con la leggerezza di una brezza calda sul collo, di quelle che fanno chiudere gli occhi e dimenticare il resto.

Voto: 28/30

“Oltreoceano” – Collettivo Immaginario

Il Collettivo Immaginario propone un viaggio musicale che unisce con naturalezza jazz, funk ed elettronica. Il trio, diviso tra Italia e Stati Uniti, costruisce un brano strumentale basato su un groove solido e rilassato, arricchito da tastiere dettagliate, una batteria ricca di sfumature e un basso fluido. Il brano in questione e l’album da cui prende il nome confermano l’ottimo lavoro del collettivo e la loro capacità di creare un sound internazionale, raffinato e in continua evoluzione.

Voto: 29/30

“Sar Oh Dedida” – Pietra Tonale

Un enigma musicale, Sar Oh Dedida è uno di quei brani che non si spiegano, si attraversano. Pietra Tonale, collettivo torinese tra i più sfuggenti e creativi della scena indipendente, costruisce una traccia divisa in due movimenti: il primo, etereo e rarefatto, sembra un sussurro mormorato tra due stanze vuote; il secondo si apre invece in un vortice più ritmico e circolare, dove la voce si fa più incisiva e lo spazio sonoro si contrae, come se il pezzo si stesse ripiegando su se stesso.

L’arrangiamento, curato a più mani, porta con sé echi di minimalismo, post-rock e sperimentazione elettronica, il tutto avvolto da un alone di mistero che non cerca spiegazioni, ma vibrazioni.

Il risultato è una composizione sospesa, intensa, destinata a lasciare una traccia emotiva più che razionale.

Voto: 30/30

“Sottocosto” – Golden Years feat. Fulminacci

Uno dei singoli più riusciti di Fuori Menù, l’album pop dell’estate 2025 che sarà impossibile ignorare. Golden Years, insieme a Fulminacci, crea un brano dall’energia fresca e ironica, perfetto per le giornate più calde. L’album, ricco di collaborazioni eccellenti con artisti come Calcutta, Franco 126 e Tutti Fenomeni, si conferma un must-listen per chi vuole restare al passo con la scena pop italiana contemporanea.

Voto: 28/30

“Kiss the Sky” – Tash Sultana

Tash Sultana ci regala un’esperienza sonora intensa e liberatoria. La musicista australiana combina magistralmente elementi di psichedelia, soul e alternative rock in un brano che cresce gradualmente fino a esplodere in un finale carico di emozione e groove.

La sua abilità multi-strumentale emerge in ogni sfumatura, con chitarre avvolgenti e una voce che sa essere sia fragile che potente. Kiss the Sky è un inno al riscatto personale e alla ricerca di uno spazio di libertà interiore, perfetto per chi cerca musica capace di elevare lo spirito.

Voto: 25/30

“Vorrei.” – Rkomi feat. Ernia

Un duetto che graffia con sincerità, mettendo a nudo fragilità e contraddizioni di due voci ormai iconiche del rap italiano odierno. Tra beat essenziali e atmosfere cupe, Rkomi ed Ernia si confrontano senza filtri, raccontando desideri e rimpianti con un’intensità che non si fa scappare.

Il brano è un viaggio emotivo crudo e diretto, dove la forza delle parole si intreccia con una produzione minimale, lasciando spazio a ogni sfumatura del loro racconto personale, e un ritornello che si lascia ascoltare.

Voto: 26/30

“Cool About It” – Aminé feat. Lido

Cool About It è un equilibrio sottile tra groove e introspezione, dove Aminé si muove con disinvoltura su una produzione stratificata e sfuggente di Lido. Il brano evita i cliché del rap mainstream, puntando su un flow rilassato che rivela in controluce pensieri personali e ironia tagliente.

La contaminazione tra sonorità R&B e beat elettronici crea un’atmosfera sognante ma inquieta, perfetta per chi cerca un sound fresco senza rinunciare a profondità e originalità.

Voto: 28/30

Marco Usmigli