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La bellezza della scoperta: Jazz Is Dead! raccontato da Alessandro Gambo

Dietro ogni festival c’è una visione, un’identità che prende forma attraverso scelte artistiche, intuizioni audaci e tanta passione. Alessandro Gambo, mente creativa del Jazz Is Dead!, ci porta dietro le quinte di un evento che non è solo musica.

Qual è la visione artistica dietro l’ottava edizione di Jazz Is Dead? Come è cambiata la direzione nel corso degli anni? È necessario reinventarsi per restare rilevanti? 

La visione di Jazz Is Dead, come ogni anno, è quella di esplorare la musica d’avanguardia a tutto campo: jazz, elettronica ma anche rock e pop. L’identità del festival è fortemente legata alla sua direzione artistica, perché lo stesso artista può trasmettere sensazioni diverse se ascoltato in un club o su un grande palco.

Costruiamo la line up seguendo tre grandi filoni, in base alle giornate: il venerdì la sperimentazione e l’avanguardia, il sabato suoni più accessibili con dei ritmi coinvolgenti e poi la domenica sonorità post-jazz. Visto che il jazz è morto andiamo a cercare quello che è successo dopo! (ride, ndr)

Quest’anno abbiamo aggiunto un quarto giorno, in collaborazione con Jazz:Re:found, dedicato alle sonorità dub, prettamente Oltremanica. Ci saranno artisti come Ghost Dubs, Mad Professor e The Bug, imperdibili!

Ogni anno seguiamo questi tre filoni e, in base a quello che ascolto e scopro durante i mesi precedenti, costruisco una line-up coerente e la propongo. 

A prima vista, il programma del festival può sembrare un “caos calmo”, un elenco di artisti senza apparente connessione. Qual è il filo rosso che li lega?

Io sono un DJ, quindi ho sempre immaginato e cercato suoni che stessero bene l’uno con l’altro indipendentemente dal fatto che un brano sia una hit o un pezzo sconosciuto. Lo stesso principio vale per gli artisti di Jazz Is Dead.

Un grande ringraziamento va al negozio di musica Ultrasuonisound, il mio pusher di fiducia di dischi da 25 anni (ride, ndr). Conosce le sonorità che cerco e spesso mi propone dischi in anteprima, addirittura ragioniamo insieme: da grandi consigli nascono grandi line-up.

Fino ad adesso il pubblico è stato sempre molto contento perché abbiamo affiancato nomi storici come Charlemagne Palestine, Godflesh e William Basinski a talenti emergenti, con la bellezza della scoperta. Proprio oggi, un nostro follower ci ha ringraziato per avergli fatto conoscere nuovi artisti, tornando a casa con un bagaglio di ascolti completamente nuovi.

Cosa rende speciale Jazz Is Dead?

La forza sta nella sua credibilità e nell’atmosfera unica che si crea. Le persone non vengono solo per i singoli artisti o per gli headliner, ma per vivere 3-4 giorni immersi in suoni sempre diversi.

La direzione artistica combacia con le esigenze del pubblico, ma non è solo la musica a far vivere il festival: c’è un mood di cui andiamo molto fieri.

Se potessi scegliere un artista impossibile—vivo, morto, fittizio—chi inviteresti al festival? C’è un artista che avete sempre sognato di avere nel festival?

Ho letto una frase che diceva «A meno che tu non sia John Lennon, Michael Jackson o James Brown, non aspettarti risposte per il booking!» credo che valga come risposta. (ride, ndr) 

Sono un beatlesiano, quindi la produzione di Harrison l’ho sempre trovata molto interessante, sicuro un Lennon o un Harrison non sarebbe male.

Mi piacerebbe portare Parliament-Funkadelic, George Clinton è ancora vivo…più o meno! (ride, ndr)

Adesso porterei volentieri Mondo Cane, un progetto bellissimo di Mike Patton in cui interpreta canzoni italiane anni ‘60. Sarebbe fantastico! Magari lo propongo a Stefano Zenni per il Torino Jazz Festival.

Come si costruisce un’esperienza coinvolgente per il pubblico? Hai notato un cambiamento negli anni nel modo in cui il pubblico vive il festival?

Il pubblico è rimasto sempre lo stesso, tra chi è cresciuto e chi è arrivato ex novo. La nostra idea è quella di rendere il festival accessibile: fino all’anno scorso era gratuito, quest’anno i prezzi sono calmierati, 15€ al giorno, per garantire un’esperienza alla portata di tutti. 

Essendo organizzato da tre associazioni: Arci, Magazzino sul Po e Tum, il festival ha un forte senso di convivialità, di accessibilità di fruibilità e questo ci distingue da quelli più commerciali. Non abbiamo interessi economici, il nostro obiettivo è che tutto stia in piedi, ma senza perdere libertà artistica e spirito inclusivo.

Se dovessi descrivere l’atmosfera e l’ambiente del festival con una sola canzone, quale sarebbe?

Direi “Yellow Submarine”, nei giorni di festival sembra davvero di essere dentro un gran bel sottomarino giallo, mentre il mondo fuori continua la sua routine e noi dentro ci divertiamo e facciamo festa. 

Quali sono gli album che ti hanno accompagnato durante i tuoi anni universitari?

Ho avuto la fortuna di nascere nel 1980, di conseguenza, quando sono diventato teenager dai 13 ai 19 sono usciti gli album più fighi della storia della musica alternativa.  Mtv passava in heavy rotation: “Smells Like Teen Spirit”, “Firestarter” dei Prodigy, Homework dei Daft Punk, “Black Hole Sun” dei Soundgarden e così via. 

Sono cresciuto in questo ambiente e mi sono subito legato alla musica alternativa, al reggae e all’hip hop. Secondo me non puoi non aver ascoltato SxM dei Sangue Misto o Marley. Credo che siano testi e suoni che sono la base della mia identità: mi ci ritrovo politicamente all’interno di questi suoni. Poi, nel 96 ho scoperto i rave ed ho iniziato a partecipare ai free party, da quella scena è uscito un mondo, come gli Underworld. 

Come immagini questo festival tra dieci anni? Qual è il sogno a lungo termine per questo festival?

Non me lo immagino tra dieci anni, perché lo costruisco anno dopo anno, in base a ciò che è successo nelle edizioni precedenti. Non so cosa succederà ma, come ho già detto dal comunicato stampa, posso dirti che sarà l’ultima edizione per come lo conosciamo.  

Stiamo entrando in delle logiche di mercato che non ci appartengono: non voglio giocare al rialzo per ottenere artisti, né trasformare il festival in una compravendita di nomi. 

Preferisco fare un downgrade preservando l’anima Jazz Is Dead: giorni di festa, di convivialità, accessibilità dove tutti possono avere il proprio spazio e tanta musica bella senza aver bisogno di rincorrere la moda o l’artista del momento.

Un consiglio che vorresti dare a chi vorrebbero lavorare nell’ambito musicale?

Il mio consiglio? Fate festa. Dalle feste nascono incontri, idee e progetti incredibili. È proprio quello che è successo a me: all’università ho conosciuto un amico con cui ho aperto il Magazzino sul Po.

Non aspettate che qualcuno dei “grossi” venga a pescarvi: l’auto-organizzazione è la chiave. Costruite qualcosa di vostro, e quando avrete una base solida, potrete collaborare con i grandi e imparare da loro. 

Guardate anche la video – intervista sul nostro profilo Instagram

di Sofia De March e Joy Santandrea

Torino is not dead: Sacrofuoco e release party dei Low Standards, High Fives

Un sabato tutto torinese quello del 5 aprile 2025 al Magazzino sul Po, grazie ai Sacrofuoco (prima One Dying Wish) e l’atteso release party dell’ultimo album dei Low Standards, High Fives Everything Ends, il tutto organizzato dal collettivo Turin Moving Parts.

Le due band sono molto diverse: i Sacrofuoco, con una commistione di chitarre dissonanti e urla distorte e ossessive, fanno un hardcore incalzante che tiene il pubblico in subbuglio e non fa riposare.

Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)

La setlist contiene sia canzoni del loro ultimo album Anni Luce, il primo sotto l’identità Sacrofuoco, sia canzoni uscite sotto il nome di One Dying Wish. Queste ultime sono quelle più conosciute e che nel corso della serata causano diversi momenti in cui qualcuno “ruba” il microfono per urlare le parole del testo, in un completo coinvolgimento tra musicisti e pubblico. 

I brani di Anni Luce ci portano invece in un mondo caotico e immersivo, soprattutto quelli dalla durata maggiore come “Replica” e “Corpi Celesti”.

I Low Standards, High Fives, nati ormai più di 10 anni fa nel lontano 2012, riprendono le sonorità nostalgiche dell’emo di inizio anni 2000. Con le loro tre chitarre lavorano su melodie accoglienti e riconoscibili all’interno del genere, ma mai banali.

Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)

Everything Ends, uscito il 28 marzo, ci fa contemporaneamente compiere un viaggio di vent’anni nel passato e riscoprire di qualcosa di nuovo all’interno di temi e suoni che ci sono tuttavia così familiari, unendo influenze personali come indie e post-rock al classico sound che si può ascoltare nei gruppi, soprattutto esteri, che sono stati pionieri dell’emo dalla fine degli anni ‘90.

Per questa serata il Magazzino sul Po è sold out, dimostrando che le band dell’organismo torinese sono ancora e sempre supportate e amate dal pubblico della città, in una relazione di sostentamento reciproco che mantiene la scena in vita.

Enea Timossi

Un viaggio psichedelico sulle rive del Po

In una fredda serata di aprile al Magazzino sul Po si suona dal vivo. Giovedì 18, in uno dei locali più gettonati dei Murazzi torinesi, un doppio live vede gli Electric Circus e gli Psyché regalare alcune ore di ottima musica strumentale. Il locale si riempie poco prima dell’inizio, alcuni conoscono i progetti presenti, altri meno. Ma alla fine il risultato è lo stesso: l’intera platea presente, sin dalla prima nota, viene trasportata in un viaggio fatto di suoni e sensazioni.

Electric Circus – foto di Erika Musarò

Ad aprire ci pensano gli Electric Circus, band nata in Trentino e attualmente di base a Torino, formata da Francesco Cretti, Paolo Urbani, Paolo Pilati, Giuliano Buratti e Gabriele Perrero. Sul palco hanno portato vecchi singoli come “Malibu” dall’album Canicola o “Boogaloo”, ma anche nuovi inediti. Infatti la band, durante la serata, ha annunciato la pubblicazione di un nuovo album. La loro esibizione abbatte i confini dei generi musicali: jazz, funk e blues si fondono con la world music. I loro arrangiamenti elaborati e suoni di influenza psichedelica rapiscono il pubblico, che estasiato li congeda prima di una piccola pausa.

Psyché – foto di Erika Musarò

Poi è stata la volta degli Psyché, progetto “parallelo” dei Nu Genea nato nel 2018. Marcello Giannini, Andrea De Fazio e Paolo Petrella, infatti, fanno parte della sezione ritmica del duo composto da Massimo Di Lena e Lucio Aquilina; oltre ad essere musicisti attivi nella scena musicale napoletana da diversi anni. Il nome, che in greco significa “anima” o “mente”, è un riferimento all’amore per il funk psichedelico, ma anche all’ampia gamma di influenze mediterranee. Il loro live è un viaggio sonoro che parte dall’Italia, per poi arrivare nella penisola balcanica, in Anatolia e nel Maghreb. Portano sul palco il loro omonimo album d’esordio, regalando un’esibizione quasi onirica, di quelle che difficilmente possono essere dimenticate.

Psyché – foto di Erika Musarò

A cura di Erika Musarò

In copertina: Electric Circus (foto di Erika Musarò)