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L’esplosivo release delle Irossa con Stasi a sPAZIO211

A un mese dall’uscita dell’album, si è tenuto il 20 settembre il tanto atteso release party delle irossa a sPAZIO211 andato sold out.  L’album La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti, con delicatezza e ritmi ipnotici, spazia tra la necessità di trovare un senso e il desiderio della scoperta di sé stessi. Ne parliamo in maniera più approfondita nell’intervista alle irossa

Ad aprire l’evento è il cantante Elia Arduino, in arte Stasi, con il suo producer Egor. La sua voce sussurrata e il suo stile pop-elettrico raffinato attira il pubblico come un canto ammaliante: con “Nubi sparse” e “Domani (Yakamoz)” Stasi fa scatenare gli spettatori tra momenti riflessivi e puri istanti di balli sfrenati. 

Foto di Sofia Grosso

Il cantante, tra un brano e un altro, fa un appello di ringraziamento a chi si sta impegnando per la causa palestinese, con riferimenti alla manifestazione torinese di quello stesso giorno, allo sciopero generale del 22 settembre 2025 e alla Global Sumud Flotilla. Termina con “TU TU TU!” con la partecipazione del cantante Iang Vic: l’atmosfera è calda ed è pronta per l’arrivo delle irossa ma non prima di una breve pausa.

L’aria vibra di attese: le irossa, salgono sul palco. L’esibizione comincia con “Fango”, prima canzone del nuovo disco che mette in hype tutti: il pubblico non vede l’ora di sentire nella sua interezza il tanto atteso album per la prima volta live. La platea, con i brani più movimentati come “Potomac” e “Non conosco” non riesce più a stare composta e si scatena.

Si passa poi a pezzi dell’album d’esordio Satura, con “Onde in aprile”, che ci porta in una dimensione spensierata e malinconica, per continuare con “Secchio d’acqua”, una dolce rincorsa ad un passato ormai irraggiungibile cantata da Margherita Ferracini, mentre la celebre “Dove è lei” viene intonata dal cantante Jacopo Sulis, seguito a squarciagola dal pubblico.

Foto di Sofia Grosso

Con “Falso nueve”, il bassista, Simone Ravigliono, ruba il posto del cantante, che si riposa facendo un giro sulla folla, gettandosi sul pubblico, che lo solleva e lo trasporta per la sala.

Richiesto dalle irossa, ritorna sul palco Stasi per accompagnarle nella cover de “L’estate sta finendo” dei Righeira, con cui nostalgicamente ripensiamo l’estate appena passata, ricordo amplificato dai 30 e passa gradi dell’interno del locale.

Foto di Sofia Grosso

Quando arriviamo a “Fiori, fiori”, uscito nel maggio di quest’anno, il pubblico è ormai carico: tra un pogo e un altro, più di 5 persone vengono sollevate e trasportate facendo surf sulla folla in un clima di euforia generale.  

Quando le irossa si dileguano verso il backstage, la serata sembra volgere al termine, ma è solo un atto preparatorio per preparare il gran finale. 

Il palco rimane vuoto finché non sale Sofia Rodi, fan sfegatata della band, che comincia a recitare una poesia: è il momento del brano “Storia di un corpo che cade”. Gradualmente ritornano sul palco i sei membri delle irossa per accompagnare la poesia.

L’ultima canzone della scaletta è “La mia stella aggressiva”, ovvero il brano posto come chiusura dell’album. Alla performance di una canzone così cara alla band si unisce il loro producer Claudio Lo Russo, cantante degli Atlante, che le accompagna alla chitarra. Il pubblico, seppure stanco e accaldato, non si dà per vinto e per l’ultima volta si accende trasformandosi in un pogo sfrenato.

Foto di Sofia Grosso

La serata si conclude con la rapida uscita del pubblico all’aria aperta e con l’esigenza vitale di abbeverarsi dopo una fremente esibizione che non solo ha soddisfatto le nostre aspettative, ma le ha addirittura superate. 

Che dire, non vediamo l’ora di scatenarci di nuovo con le irossa e Stasi!

Maria Scaletta

Monitor festival: da un grande potere derivano grandi responsabilità

Vi siete mai chiesti perchè sui palchi dei concerti ci siano delle casse non rivolte al pubblico? Se sì, a cosa servono? Può sembrare un po’ controintuitivo, invece proprio quelle casse sono utili a connettere pubblico e artisti, che attraverso queste possono ascoltarsi e avere maggior controllo della performance. Si chiamano casse spia o MONITOR, proprio come il nuovo two days festival che si è appena concluso a sPAZIO211, con l’intento simile di creare unione tra pubblico e artisti, con nuove scoperte e grandi aspettative. 

Il secondo giorno ha offerto varietà musicale e geografica, con tanti artisti per la prima volta a Torino. Si inizia con Maria Chiara Argirò, musicista di origine romana ma residente a Londra, che ha presentato il suo ultimo disco Closer, accompagnata da Riccardo Chiaberta (batteria) e Christos Stylianides (tromba ed elettronica). Si notano da subito le radici jazz del progetto, con una lunga introduzione strumentale di tromba e batteria, che poi passa a un’esplorazione elettronica, attraverso effetti di eco e melodie oniriche del synth. La performance procede in modi imprevedibili attraversando territori sonori sfumati, tra momenti techno, in cui dominano ritmi intricati delle percussioni spartane e altri più ambient in cui semplici arpeggi di synth suonano come un tuffo dentro l’acqua. La voce di Maria Chiara tra loop e distorsioni, ricorda un po’ Beth Gibbons, per il modo di interagire con l’ambiente circostante, sta sempre al centro ma al tempo stesso sembra provenire da lontanissimo. 

Maria Chiara Argirò (Credits: Senza Futuro Studio)

Da Londra passiamo a Sheffield, con Gia Ford, che sale sul palco chitarra acustica in spalla insieme al suo chitarrista Connor. Il suo live è semplice per via della strumentazione ma molto intenso e divertente. Da una parte i suoi racconti delle sue canzoni, pieni di personaggi emarginati (“Housewife dreams of America”), abusati (“Paint Me Like a Woman”), alienati (“Car crash for two”) dall’altro il suo modo di stare sul palco quasi da crooner con una voce profonda a tratti rabbiosa, aspra e ruvida. Ogni brano è introdotto con frasi sarcastiche dallo stile british, a metà tra cinismo e autoironia, ma sempre rimanendo impassibile. Siamo giunti al tramonto, la luce si unisce all’oscurità, Gia ringrazia il pubblico e promette di tornare in futuro con tutta la band al seguito. 

Gia Ford (Credits: Senza Futuro Studio)

Subito dopo salgono sul palco YĪN YĪN, quartetto olandese formato da Kees Berkers (batteria), Remy Scheren (basso), Robbert Verwijlen (tastiere) e Erik Bandt (chitarra). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a degli abili sperimentatori che uniscono oriente e occidente, folk giapponese e rock psichedelico, funk e disco anni 80. Il loro approccio punta a espandere ogni brano, quasi alla ricerca di un effetto cosmico in cui ci si perde tra le melodie pentatoniche e i tempi irregolari della batteria. Qualcuno potrebbe pensare che sia solo dell’easy listening, utile per riempire le giornate, ma dal vivo è ottima musica per ballare e viaggiare con l’immaginazione verso un’isola tropicale immaginaria. 

Si conclude ritornando al jazz con il debutto torinese di Arooj Aftab, artista pakistana, cresciuta a New York, che sale sul palco insieme alla sua band composta da Perry Smith alla chitarra, Petros Klampanis al contrabbasso e Engin Kaan Günaydin alla batteria. Lei vestita di nero e con spessi occhiali scuri sembra una presenza misteriosa come il suo ultimo album Night Reign. Canta in inglese e urdu, sua lingua madre, in posizione di profilo al pubblico e avvolta da intense luci blu. Nelle pause familiarizza con il pubblico, non sapendo se ci siano veri fan, offre da bere e chiede scusa per non aver portato dischi da vendere o altri gadget. I brani lunghi e sognanti variano tra blues, R&B e bebop, la sua voce procede per ampi archi di sviluppo in modo inflessibile. Tra un assolo e l’altro, assistiamo a un continuo giro intorno al mondo, tra atmosfere e melodie differenti, come in “Bolo Na”, brano che prende spunto dalla sua passione giovanile per l’heavy metal, in cui le luci rosse e il riff grunge del basso prendono il sopravvento.
Il finale sembra tutto un sogno, Arooj svanisce tra il fumo denso, in realtà era solo andata a prendere il suo negroni e poi riappare per salutare il pubblico insieme alla band. 

Tornati alla realtà, il festival è finito, una rinascita necessaria anche se in forma contenuta, ma senza compromessi. All’ingresso sventolerà ancora il vecchio cartello di TOdays, ma forse a volte bisogna cambiare, perché tutto rimanga com’è. 

Alessandro Camiolo

Monitor Festival: il debutto che accende il futuro

Torino apre l’estate con una nuova proposta nel panorama dei festival: MONITOR, rassegna musicale che debutta presso lo SPAZIO211, storica sede della musica indipendente cittadina. 

La line-up della serata ha offerto un percorso sonoro variegato, capace di intrecciare estetiche locali e internazionali attraverso una selezione accurata di interpreti.

Del resto, a guidare il progetto è Gianluca Gozzi, già direttore artistico del festival TOdays, che per nove edizioni ha rappresentato un punto di riferimento per la città. 

Ad aprire la serata, la band torinese The Cherry Pies, unica formazione locale in cartellone. Il loro suono sporco e seducente rievoca gli Arctic Monkeys di Favourite Worst Nightmare; le chitarre sembrano uscite dai club dei primi anni 2000, mentre le melodie ricordano le ballad dei The Libertines. 

Con brani dalle suggestioni indie-rock britanniche tratti dal loro LP Don’t Just Say Things, la band ha saputo scaldare il pubblico dimostrando che la scena underground torinese ha ancora molto da dire.

Torino non è Sheffield, ma per un attimo lo è parsa.

A seguire, direttamente da Newcastle, Richard Dawson ha cambiato completamente la pelle della serata. 

Senza Futuro Studio

La sua voce, eterea e potente, ha riempito lo spazio con una grazia disarmante.

La padronanza della chitarra richiama i primi lavori solisti di John Frusciante, mentre la scrittura attinge a un immaginario lirico colmo di memorie personali e racconti familiari, evocando fantasmi e visioni surreali. 

Particolarmente toccante l’interpretazione di “Wildegeeses” di Michael Hurley, figura di riferimento del songwriting folk americano e fonte d’ispirazione per Dawson.

Terza artista in scaletta, Luvcat, alla sua prima esibizione italiana. Il suo stile fonde l’estetica pop di Sabrina Carpenter, la schiettezza di Lola Young e il romanticismo noir di Nick Cave. Sul palco ha portato un mix di sensualità e vulnerabilità, esplorando le complessità dell’amore con synth malinconici su cui lasciarsi andare.

Senza Futuro Studio

A chiudere la serata, gli attesissimi Shame, quintetto post-punk di South London che ha recentemente aperto i concerti dei Fontaines D.C. 

La band ha confermato la propria reputazione con un live viscerale e senza compromessi. Il frontman Charlie Steen, tra stage diving e urla catartiche, ha dimostrato ancora una volta di essere uno dei performer più magnetici della scena britannica: canta, suda, urla, si lancia, si dissolve.

Senza Futuro Studio

Ogni brano, da “Concrete” a “Cutthroat”, è un colpo allo stomaco che mescola rabbia e ironia come farebbe Mark E. Smith dei The Fall ma con l’urgenza generazionale dei millennial.

Non è solo un concerto: è una dichiarazione. E Shame la urlano tutta.

Nonostante si tratti della prima edizione, il MONITOR Festival ha mostrato una sorprendente maturità progettuale e una visione artistica nitida, ponendo le basi per un percorso destinato a evolversi e amplificarsi, coinvolgendo nuovi spazi e pubblici, e contribuendo in modo significativo alla vitalità culturale della città. La qualità della proposta, l’originalità della line-up e la risposta entusiasta del pubblico hanno confermato il potenziale di questa nuova realtà.

MONITOR Festival non è solo un debutto riuscito: è l’inizio di qualcosa di grande.

Sofia De March

Anteprima Torino Jazz Festival: High Fade in concerto a Spazio211

Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).  

Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it

Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.

Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it

Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme. 

Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it

La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.


Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.

Alessandro Camiolo

GNUT in concerto: un viaggio intimo tra chitarra, archi e amore

È iniziato, giovedì 20 marzo presso lo sPAZIO211, il nuovo tour di Claudio Domestico, alias GNUT. Il cantautore napoletano sceglie Torino come luogo di debutto del suo ultimo progetto live, caratterizzato da un trio composto dalla chitarra del cantante e da una coppia d’archi, suonati da Marco Sica (violino) e Mattia Boschi (violoncello). 

L’artista, con il piccolo ensemble, ripercorre la sua carriera mantenendo il focus sul suo stile legato al folk anglofono attraverso arrangiamenti che ampliano l’ambiente sonoro con i temi lenti e i numerosi pizzicati sviluppati dai due archi.

Questi si mantengono distanti dall’impronta classica e creano un “non-luogo”, dove il pubblico può seguire i passi da ballad tracciati dal trio strumentale, che accompagna GNUT nel suo tragitto autoriale.

Il percorso definito rimane fedele a se stesso, in una coerenza che non è solo sonora ma che è anche garantita dal tema universale dell’amore: amore che viene messo sotto la lente d’ingrandimento, e che GNUT indaga nella sua molteplicità.

È quello  spensierato in “Se cucini tu” e in “Semplice”, malinconico in “Dimmi cosa resta”, quello da dimenticare e da abbandonare centrale in “Luntano ‘a te”, ultimo inedito pubblicato a febbraio, nel quale GNUT si mette a nudo e racconta della sua personale esperienza con un «amore tossico che – dice il cantante – mi ha sconvolto».  

La libertà espressiva di GNUT, oltre alla scelta del trio sul palco, si vede anche nel modo in cui alterna canzoni in italiano e in napoletano. Ogni lingua porta con sé un’emozione diversa, e GNUT sa come usarla per raccontare le sue storie in modo autentico. Non è solo una questione di parole, ma di sensazioni che si mescolano e prendono vita, in modo unico ma al contempo universale. 

Foto da cartella stampa

Durante un momento strumentale apparentemente transitorio GNUT cattura l’attenzione degli ascoltatori emettendo con la sua voce un suono soffiato simile a un flauto, sollevando gli occhi dagli schermi di chi dopo un’ora di live iniziava a sentirsi, evidentemente, affaticato. Il suono, lontano e misterioso, ha creato un’atmosfera rituale, richiamando tutti i presenti in uno spazio fuori dal tempo.

E poi, c’è stato il momento finale con “Nu poco ‘e bene”, la canzone che tutti conoscono e che il pubblico ha cantato in coro, in un momento comunitario e intimo che ha fatto da perfetta chiusura alla serata. 

Un live che ha dimostrato, ancora una volta, come la musica di GNUT sappia toccare le corde più profonde dell’animo umano, mescolando folk, emozioni e parole in un viaggio che promette di continuare a incantare nelle prossime tappe del tour.

Marco Usmigli

Intervista a Gnut

Claudio Domestico, in arte Gnut, classe ‘81, è un cantautore, chitarrista e produttore napoletano.

Con uno stile intimista e influenze che spaziano dal folk alla tradizione napoletana, Gnut riesce a trasmettere emozioni profonde attraverso testi sinceri e arrangiamenti raffinati. La sua musica è un viaggio tra sentimenti universali e radici culturali, capace di creare un’autentica connessione con il pubblico. Amato per la sua autenticità e sensibilità è un artista che parla al cuore di chi lo ascolta. 

In occasione della prima data del nuovo tour, svoltasi giovedì 20 marzo allo Spazio211, abbiamo avuto modo di incontrarlo e fargli alcune domande.

Per iniziare ti chiedo come stai e come ti senti per questa sera? Hai aspettative riguardo al pubblico torinese, che ha avuto più occasioni di vederti suonare negli ultimi anni?

Sto bene, è un periodo molto bello artisticamente perché sto lavorando ai provini del nuovo disco.

Questo tour, con il pretesto del nuovo inedito, “Luntano ‘a te”, pubblicato il 28 febbraio, è un giro di boa in cui, con dei vecchi amici musicisti, Mattia Boschi e Marco Sica, vado a rivisitare un paio di canzoni che toglierò dalla scaletta con l’uscita del nuovo progetto. È un modo per salutare questo repertorio che mi ha accompagnato negli ultimi anni, rivedere vecchi amici e dare un suono diverso a quello che ho proposto negli ultimi anni.

È sempre bello tornare a Torino, ho lavorato anni fa con un’etichetta torinese, mi sentivo parte della scena torinese per una parte della mia vita (ride ndr), è sempre una grande emozione.

Questa volta hai deciso di presentarti sul palco con altri due musicisti, curioso peraltro che abbia scelto violino e violoncello, solitamente associati al mondo della musica classica.

L’idea iniziale era quella di realizzare un mio vecchio sogno: realizzare un tour con un quartetto di archi solo che, dopo una serie di esperimenti e prove, il risultato era troppo classicheggiante quindi ho lavorato di sottrazione coinvolgendo questi due vecchi amici che hanno un approccio poco classico allo strumento e hanno un suono molto moderno.

È interessante che usiamo degli strumenti classici, come violino e violoncello, ma lo faremo in una chiave molto distante dalla musica classica.

“Luntano ‘a te” è il tuo ultimo inedito, prodotto da Piers Faccini con cui da molti anni collabori, pezzo che annuncia l’uscita di un nuovo album. In diverse occasioni hai affermato che per te i dischi sono come dei diari, nei quali riassumi la tua vita. Sorge spontaneo chiederti di che cosa racconterà il disco? Musicalmente quali influenze avrà?

Il prossimo album sarà diverso rispetto a quelli pubblicati fino ad adesso sia nei testi che nelle sonorità. Rispecchia una fase particolare della mia vita, tutto è nato da una canzone che poi ha creato il percorso da seguire per tutte le altre.

I testi sono di matrice spirituale…dal punto di vista musicale le ispirazioni arrivano dai mantra, dalla musica africana, da quella popolare del Settecento, la taranta… Sarà un disco molto percussivo.

Sarà vicino a quell’approccio di quando non esisteva l’industria musicale e la musica era una cura per la mente e per il corpo. Credo che sia la forma d’arte migliore per metterci in contatto con tutte le entità che esistono, ma che non possiamo percepire con i nostri sensi. Questo disco parlerà di questo.

Ieri, 19 marzo, sarebbe stato il compleanno di Pino Daniele, il quale diceva «Napoli è un modo di essere».  Quanto è importante Napoli nelle tue canzoni? Che rapporto hai con la città e come la tradizione napoletana influisce sulla tua musica?

In realtà io sono quello che sono, sia come persona sia come musicista, perché sono nato e ho vissuto a Napoli. Quando ho iniziato a suonare ero adolescente ed ero affascinato dalla musica che arrivava da lontano, erano gli anni ’90, c’era il grunge; quindi, non mi interessava molto la tradizione.

Poi, crescendo, mi sono reso conto dell’importanza delle radici, credo che valga per ogni forma d’arte.

Confrontarsi con le proprie radici, con il percorso storico del posto in cui sei nato diventa una chiave molto interessante nel momento in cui lo vai a fondere con quello che ti piace e con quello che arriva da molto lontano.

Da qualche anno ho fatto pace con il repertorio della tradizione napoletana, è una cosa che ho iniziato a studiare negli ultimi anni e, diciamo, ha chiuso un cerchio facendomi trovare una direzione più consapevole artisticamente.

Continuando a citarlo, Pino Daniele, cantava: «E si chest nunn è ammore ma nuje che campamme a fa’». Penso che l’amore abbia la capacità di influenzare non solo la musica ma anche il modo in cui percepisci il mondo. Nel corso della tua carriera hai sempre cercato di raccontare l’amore nelle sue diverse sfumature. Non si può dare una definizione ma, se dovessi chiederti cos’è oggi l’amore per Gnut cosa risponderesti? 

È difficile non rispondere in modo banale… Posso citare John Lennon: quando gli chiesero perché scrivesse solo canzoni d’amore, lui disse «perché cosa c’è più importante di cui parlare?»

L’amore un argomento così ampio che effettivamente quando poi ci si allontana dal racconto del classico amore da coppia ma si va ad indagare in tutte le forme dell’amore diventa un campo universalmente enorme. È il motore che fa girare il mondo nonché il sentimento più importante tra quelli che esistono, quindi per un autore è fonte di ispirazione totale.

La tua musica ha un tono molto intimo e personale, ho sempre pensato che tu riuscissi a trovare poche e semplici parole per descrivere qualcosa di grande, riesci a creare immagini nelle quali le persone si rispecchiano. Come vivi il rapporto con il pubblico durante i concerti? Lo vedi come osservatore della tua arte o, in qualche modo, influenza il tuo modo di scrivere e fare musica?

Non credo ci sia molta influenza. Il mio approccio alla musica è un percorso personale di ricerca.

Il rapporto con il pubblico è di condivisione che si crea soprattutto durante i concerti. Io la chiamo selezione naturale. Quando fai un determinato tipo di musica, in un determinato modo, è come se selezionassi un pubblico con una sensibilità simile alla tua. Si crea una condivisione reale dove nelle canzoni, nate in maniera sincera e spontanea, qualcuno si può riconoscere. 

È un incontro tra spiriti affini.

Qual è stato il momento che ti fatto capire che valeva la pena inseguire i tuoi sogni?

Ci sono stati diversi momenti quando ho dovuto approcciarmi al mondo del lavoro facendone alcuni che non mi interessavano.  Avendo coltivato sempre la passione della musica ho sempre confidato nel fatto che insistere su quello che ti piace, sulle tue passioni, su quello che ami fare fosse importante. Quando poi riesci a trasformarlo in un lavoro è la vittoria più grande.

C’è stato un momento, intorno al 2009-2010, dove ho lasciato tutti i lavori che stavo facendo e mi sono impegnato solo nella musica, da là la mia vita è migliorata.

Viviamo in un paese e in una società in cui è quasi impossibile lavorare con quello che ti appassiona. Che consiglio daresti ai ragazzi, come noi, che si assumono il rischio di seguire il proprio sogno e la propria passione?

È complicato perché ogni vita ha un universo di esperienze diverse… il consiglio che posso dare è di non farsi ossessionare dall’idea del successo, ma cercare di trovare una strada che porti alla serenità.

Si può fare musica senza stare in classifica o nelle radio, anche se non ne parlano. Non serve per forza mirare al successo commerciale: si può sempre fare la musica che ti interessa, usarla come una tua forma di espressione, l’importante è che ti faccia stare bene. 

È complicato però si può fare. (ride ndr)

Sofia De March

Marta Del Grandi in concerto a sPAZIO211

È una cantautrice, è in tour da un anno e mezzo, canta in inglese e suona la chitarra… potrebbe essere Taylor Swift, ma si tratta di Marta Del Grandi, che ha infine concluso la sua ​​tournée sabato 15 marzo allo sPAZIO211. L’esibizione, inizialmente in programma a fine febbraio e poi rimandata per motivi di salute, è diventata l’ultima tappa di un lungo giro tra nazioni e continenti diversi con al centro lo stesso viaggio interno, quello dentro il suo album Selva, pubblicato nel 2023 e già candidato alla targa Tenco opera prima.

Apre la serata Giulia Impache, compositrice e cantante torinese, che lo scorso gennaio ha pubblicato IN:titolo, il suo primo disco. L’artista, in compagnia del chitarrista Jacopo Acquafresca, ha presentato i brani principali dell’album in versione ridotta in un palco illuminato di viola psichedelico che ben si coniuga con la sua musica intima, sorprendente e accidentale.

Foto a cura di Michela Talamucci per polveremag.it

Rapido cambio di scena e vediamo subito salire Marta e i musicisti Vito Gatto al violino e Gabriele Segantini alle percussioni. Il pubblico tende ad avvicinarsi per trovare un punto di vista migliore, il chiacchiericcio di fondo svanisce, nel silenzio inizia la magia. La presenza sul palco di Marta è magnetica, il suo lungo abito verde si staglia tra i fumi leggeri del palco/selva, tra il pubblico c’è chi canta a memoria i versi delle canzoni e chi si abbandona al ritmo ammaliante dei primi brani.

Foto a cura di Michela Talamucci per polveremag.it

Ma a un certo punto Marta libera il microfono dall’asta e inizia a muoversi con gesti rigidi e spezzati, si volta continuamente da parti opposte e ci fissa sempre di più.

Con le esecuzioni di “Good Story” e “First Swim, A Water Chant” riesce a esprimere al massimo le sue doti vocali e l’ottima sinergia con i musicisti. Ripesca anche alcuni brani dal suo primo EP Untile We Fossilize, per poi dedicare “Stay” a una donna del pubblico, su una richiesta fatta via Instagram dalla fidanzata. Marta interagisce in modo spontaneo col pubblico, con battute che creano un clima amichevole: si scherza sul cantare in inglese in Italia, d’altronde Elisa lo fa da sempre. C’è anche tempo per reinterpretare da capo a coda un classico di De Andrè come “Hotel Supramonte” senza avere nostalgia dei tempi passati, ma in modo semplice e libero. 

Foto a cura di Michela Talamucci per polveremag.it

Gli applausi si fanno sempre più lunghi e calorosi, il pubblico, nonostante la lunga giornata di pioggia, è qui per farle sentire un affetto sincero. Marta conclude con un breve discorso di ringraziamento e un invito a sostare dopo la fine del concerto, un buon modo per confrontarsi e dialogare tutti insieme. La conclusione di un capitolo, speriamo che il prossimo inizi prima possibile.

Alessandro Camiolo

Coca Puma: tra viaggio onirico e balli ancestrali 

Si è tenuto a Torino, venerdì 21 febbraio, all’interno dello sPAZIO211, l’undicesima data del Tour Panorama Olivia, che riprende il nome dall’album di debutto di Coca Puma, uscito ad aprile 2024 e che in meno di un anno ha suscitato grande curiosità e interesse, soprattutto nel panorama pop e jazz, ambienti che la musicista romana – vero nome Costanza Puma –  naviga senza avere una rotta troppo definita.

La serata è stata aperta da Edera, cantante del gruppo torinese irossa, la cui voce chiara e sospesa abbraccia e viene abbracciata dalle morbide sonorità dei synth eterei, dalle arie d’atmosfera sognanti diteggiate dalla Gretsch color rubino del chitarrista e dalla ritmicità originale e sfalsata della batteria. Sebbene l’emozione fosse palpabile, Edera ha dimostrato di essere a suo agio sul palco, riuscendo a condividere il proprio stile con l’intimo pubblico all’interno dello spazio.

Pochi minuti dopo è stato il turno di Coca Puma e la sua band, composta da Davide Fabrizio alla batteria, Antonio Falanga alla chitarra elettrica e Stefano Rossi al basso e al sintetizzatore Moog.

Foto di Silvia Marino, «Due Libri»

Fin dall’intro strumentale è stato chiaro come il non-silenzio dell’ambiente intimo e intimista dello sPAZIO211 fosse la cornice perfetta per il gruppo. Si mescolavano così il leggero brusio del pubblico, qualche tintinnio di bicchieri provenienti dal bar in fondo alla sala e le calde ma soffuse sonorità create dagli artisti sul palco, sviluppando una massa sonora composta dai rumori dell’ambiente e dalla musica.

Coca Puma riesce in poco più un’ora di concerto a sviluppare atmosfere alterne attorno a sé, passando da momenti di pura emotività vissuta ad occhi chiusi, come durante l’esecuzione di “Sparks” dei Coldplay o della sua “Tardi”, a brani intrisi di puro istinto primitivo quali “Quasi a casa” (ripetuto anche in chiusura su esplicita richiesta del pubblico) e due nuovi pezzi inediti, in grado di creare vibrazioni che partono dal ventre e che si diramano verso tutti gli arti del corpo, sviluppando movimenti liberi e irrazionali, come se fossero connessi direttamente al suono proveniente dalle casse e dall’anima di Costanza.

Foto di Silvia Marino, «Due Libri»

Attraverso sonorità che si fondono insieme nella creazione di un universo opaco, costellato di nu-jazz, elettronica, post-rock, funk e percussioni afro-latine, Coca Puma conferma la sua acclamata duttilità, mantenendo uno stile vario ma ben pensato e soprattutto autentico, visibile anche attraverso la sicurezza che porta sul palco, che si contrappone alla timidezza nascosta dietro al suo immancabile cappello da pescatore, e disegnata sul viso da un sincero e perenne sorriso ricco di gratitudine verso chi ha ascoltato, cantato e ballato con lei.

A cura di Marco Usmigli

Il rock next generation infiamma il Rockish Festival

Lo scorso giovedì 12 luglio ha avuto luogo il Rockish Festival. Sette band, rappresentanti la nuovissima scena rock torinese, si sono esibite alternandosi tra main e side stage per quattro ore ininterrotte di musica rock declinata in tutte le sue forme. Una scelta che riesce a portare sul palco dello Spazio211 diversi progetti artistici, tra cui anche gruppi di giovanissimi under 25, che ormai rappresentano un punto di riferimento per il rock torinese

Nonostante la presenza della band di fama internazionale, i Melody Fall, la protagonista della serata era proprio la next generation. Dal pop punk al rock di protesta e all’art pop, la line up di quest’anno propone i progetti di I boschi bruciano, Narratore Urbano, Irossa, Xylema, Tramontana, Breathe me in.

Foto di William Fazzari

I Narratore Urbano nascono nel 2019 definendo, da subito, la volontà di coniugare il rock ad una finalità diversa dell’esibizione fine a sé stessa. Hanno una voce e affermano di volerla usare -e lo fanno bene‐ anche per pronunciarsi su tematiche sociali e politiche.

Gli Xylema ripartono e convincono dopo un cambio di formazione e, dal Reset Festival 2023, sono una certezza del panorama torinese con un sound punk rock e melodie d’impatto. Da poco i loro testi sono in italiano e trattano delle loro esperienza personali.

Foto di William Fazzari

Irossa sono l’ultima novità dell’underground sabaudo. Di impatto è sicuramente l’immagine definita e contemporaneamente caotica, pienamente colta nelle grafiche del loro merchandising, nell’outfit e nei loro movimenti durante la performance.

Camaleontici. Se in un primo momento si è trasportati dal sax in una dimensione onirica e malinconica, un attimo dopo l’attenzione viene rubata dalle chitarre, decise e mai aggressive, che accompagnano, chi ascolta, alla comprensione delle immagini suscitate dai loro testi.

Foto di William Fazzari

L’inconveniente della pioggia non ha fermato il pubblico che, seppur ridotto, ha saputo compensare in energia e partecipazione. Cantando e ballando il repertorio di tutti gli artisti, hanno sicuramente contribuito alla realizzazione di una serata piacevole all’insegna della scoperta musicale.

Foto in copertina di William Fazzari

TOdays Festival: DAY THREE

La fine di un’avventura mette sempre un po’ di malinconia: lo sa bene il pubblico della terza ed ultima serata del TOdays Festival, che domenica 27 agosto ha sfidato la pioggia per godersi i quattro live in programma a sPAZIO211. Porridge Radio, Ibibio Sound Machine, L’Impératrice e Christine and The Queens: una line-up che ha regalato spettacolo.

Muniti di k-way e tanta forza di volontà, i primi spettatori si avvicinano timidamente al palco per ascoltare la prima band in scaletta: i Porridge Radio. La band di Brighton, per due quarti al femminile, propone un mix di art-rock, indie-pop e post-punk. Al centro della scena c’è la frontwoman Dana Margolin, che imbraccia la sua Fender e inizia a intonare i brani dell’ultimo album Waterslide, Diving Board, Ladder To The Sky(2022), in cui è stato lasciato più spazio alle tastiere rispetto al precedente Every Bad (2021) dove invece emergono maggiormente le chitarre. Immancabile “7 seconds”, il brano che piace proprio a tutti. Una band in evoluzione, ma senza dubbio piacevole da ascoltare.

Porridge Radio (foto di Martina Caratozzolo)

La serata si accende con il groove degli Ibibio Sound Machine. Sul palco sono sette e suonano una massiccia dose di strumenti: tromba, trombone, sassofono, synth, mandolino, basso e chitarra elettrica. Il loro afro-funk elettronico fa muovere il pubblico, che si scatena a ritmo in un clima di festa collettiva di fine estate. La personalità frizzante della cantante Eno Williams non passa di certo inosservata: dal primo momento incita al divertimento e lasciarsi trasportare dal sound funky, mentre, con voce intensa, intona i brani della band.

Ibibio Sound Machine (foto di Martina Caratozzolo)

Come annunciato, la pioggia comincia a scendere pesantemente proprio mentre il buio fa capolino su Torino. L’entusiasmo, però, non si spegne e finalmente arriva L’Impératrice per l’ultima tappa del tour dopo due anni in giro per il mondo. La band francese sale sul palco e gli occhi sono tutti per loro: i sei musicisti si schierano davanti al pubblico con delle sagome di cuori attaccate al petto che si illuminano a ritmo. Un impatto visivo considerevole, che sarà una costante della loro performance, così come le sonorità funky e i giri di basso ostinato. Il loro sound disco trasforma l’open air di sPAZIO211 in una discoteca a cielo aperto, in cui il pubblico, su invito in un italiano quasi impeccabile della frontwoman parigina Flore Benguigui, è invitato a lasciarsi andare e ad essere se stesso. Uno show totale che coinvolge e fa dimenticare dei vestiti inzuppati di pioggia. L’applauso finale conferma quanto di buono mostrato e li piazza direttamente nella top tre delle performance migliori di questa edizione. Chapeau, come si direbbe dalle loro parti.

L’Impératrice (foto di Martina Caratozzolo)

Un palco trasformato in un museo neoclassico con statue di leoni, angeli e il David di Michelangelo di schiena. Più che ad un semplice live musical si è assistito ad una performance artistica e teatrale, quando sul palco è salito Christine and the Queens. L’artista francese, attesissimo nella sua prima apparizione italiana, ha partecipato ai maggiori festival del mondo, tra cui il Coachella, il Primavera Sound e il Glastonbury e, come ci si immaginava, ha regalato una performance ipnotica e di grande impatto emotivo. Il fil rouge del concerto sono i brani dell’ultimo album Paranoia, Angels, True Love (2023) – al quale ha collaborato anche Madonna – che vengono interpretati sul palco in maniera eccelsa, in una catarsi di trasformazione, accettazione e bellezza. Abbraccia le statue, lancia fiori, si sveste e riveste da un abito rosso e infine indossa delle ali nere: la trasformazione in angelo è completa dopo un burrascoso percorso, musicale e di vita. La sensazione, una volta finito, è quella di aver assistito ad uno spettacolo di rara bellezza.

Christine and The Queens (foto di Martina Caratozzolo)

Il TOdays è un festival che di anno in anno alza l’asticella nel prendersi il rischio di puntare su artisti validi, ma che in Italia spesso non sono ancora conosciuti. La nona edizione si conclude e sulla strada verso la normalità e la fine dell’estate la sensazione comune è che è stato bello ampliare il proprio bagaglio musicale in un clima di amore e libertà in nome della musica. 

A cura di Martina Caratozzolo