Opera Off: La traviata

Uno scandaloso amore, quello della Traviata. Opera scritta nel 1853, pensata da Giuseppe Verdi in meno di un anno ebbe una storia travagliata e discussa dagli storici e dai critici. Qui si commenta la versione allestita per il primo appuntamento in calendario della stagione OPERA OFF.

La Traviata non ha cattivi; il vero antagonista della vicenda, è la Società. Sono gli sguardi della cultura borghese (il pubblico verdiano, che ancora molto condivide con il pubblico contemporaneo) a rappresentare l’ostacolo all’amore non convenzionale di Violetta e Alfredo. Germont padre, così interpretato, è solo un triste messaggero che ricorda ai due amanti l’orrore che la loro unione arreca all’istituzione familiare allorquando il futuro genero del figlio, icona dello spirito borghese, rinuncerebbe alla sua promessa sposa per non macchiare la sua famiglia con una relazione scandalosa. Non a caso Verdi chiese a Francesco Maria Piave, il librettista, di trovare un soggetto per l’opera che fosse non solo accattivante, ma che sfidasse la moralità dello spettatore. La fine della protagonista allora, è la catarsi che punisce il vero cattivo della vicenda: destinatario dello stesso messaggio che trasmette, il pubblico assiste all’opera come alla rovina di un amore genuino perpetrata da quegli stessi occhi che l’hanno visto nascere, malgrado gli intrighi siano ormai risolti. La morte di Violetta è gratuita e dolorosa, perché ripaga con la stessa moneta la gratuità del disprezzo di chi l’ha giudicata.

In quest’ottica, la rappresentazione che la compagnia Opera OFF ha dato al capolavoro verdiano coglie indubbiamente nel segno. Il miglior modo per mostrare come il protagonista della vicenda sia colui che guarda è sicuramente quello di renderlo partecipe in prima linea. La scelta del castello del Valentino immerge lo spettatore in uno spazio intimo, dove i brindisi e le feste acquistano veramente un contesto pregno di senso e dove il dramma è veramente un dramma intimo, casalingo. Ma c’è di più. Lo spettatore qui è letteralmente sullo stesso piano degli attori, parte integrante della storia: conduce un’esperienza di simultaneità scenica. Il coro Francesco Tamagno, che vede impegnati cantanti di ogni età sotto la direzione di Gianluca Fasano, è fondamentale al processo: attraverso un’ottima recitazione che trasmette quanto più possibile il realismo della vicenda, l’ensemble amalgama sin dal primo momento il peculiare incontro fra attori e spettatori. Al famoso brindisi siamo già tutti dentro la festa.

Vista dall’alto della sala, al centro di spalle il direttore Gianluca Fasano

Giuseppe Raimondo, Bruno Pestarino e Ilaria Lucille De Santis (che segue fra l’altro la tradizione operistica con il difficilissimo mi bemolle sovracuto nella cabaletta de «È strano… Ah, forse è lui… Sempre libera») interpretano rispettivamente Alfredo, Germont padre e Violetta. Forti anch’essi di ottime doti recitative abitano lo spazio come fosse reale, come se ci trovassimo tutti concretamente all’interno della storia. Interessanti, a tal proposito, le entrate ed uscite di scena, a tutti gli effetti uscite reali dallo spazio teatrale, che estendono di fatto i confini verso spazi d’uso quotidiani come le porte, non allestite: le stesse da cui il pubblico passa per assistere alla rappresentazione. Giorgio Germont, giungendo da Violetta arriva davvero da fuori, dalla direzione che gli spettatori hanno seguito per arrivare al castello. Degni di nota anche i momenti recitati in mezzo agli spettatori, dove, appoggiandosi alle colonne per piangere o per chiamare qualcuno, viene trasmessa con maggiore forza la potenza del dramma; così come è stato possibile vedere Alfredo sedersi poco distante dal pubblico per cantare a Violetta il suo amore. Un’ ultima riflessione spetta poi alla musica, che, in accordo al particolare allestimento, è stata letteralmente personificata: divenuta reale personaggio, anche se verbalmente muto, ha visto impegnato per più di tre ore al centro della scena fisica il giovane Alessandro Boeri, che non solo ha suonato l’intera opera, ma ha anche recitato assieme ai cantanti stessi, interagendo direttamente con loro scambiando sguardi e movimenti. Lo stesso dicasi per il direttore, che, con sorpresa di molti, è intervenuto attivamente durante il ballo per il «Di madride noi siam mattatori», conducendo in prima persona la danza.

Ilaria Lucille De Santis in una scena dell’opera

La Traviata dunque, che nasconde una profondità e una valenza critica piuttosto incisiva viene appagata nell’allestimento che l’impresa lirica F. Tamagno ne ha voluto dare, grazie alla regia di Alberto Barbi. L’opera così proposta ha messo al centro elementi che nella tradizionale rappresentazione a teatro spesso si perdono, soddisfacendo l’accattivante presentazione della stagione: l’opera, dove non l’abbiamo mai vista.

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