Die tote Stadt debutta alla Scala

È andata in scena per la prima volta a Colonia e ad Amburgo nel 1920. Quasi cento anni dopo trova finalmente il suo debutto (o meglio, la sua consacrazione) nel Tempio: stiamo parlando dell’opera Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold, di cui abbiamo visto la recita del 3 giugno al Teatro alla Scala.

Nell’anno della prima Korngold era uno dei più perfetti esempi di enfant prodige: un austriaco ebreo appena ventitreenne che aveva già dimostrato, con le sue due opere precedenti, di aver assimilato e interpretato il meglio del teatro musicale europeo di quel momento. A Die tote Stadt ha aggiunto il cinema espressionista, chiaramente tradotto in musica, nei suoi tratti più riconoscibili: dal ritratto stregato all’«era tutto un sogno» (come in Genuine di Robert Wiene), dal tema del doppio (Lo studente di Praga, e tutti gli studentelli dei film successivi) a quello dell’amata defunta, fino, ovviamente, all’ambientazione in una tote Stadt, una città morta. Come diventano questi concetti musica? Primo, con una straordinaria corrispondenza tutta cinematografica tra gesto e suono, dove anche un piccolo movimento delle mani è commentato da uno strumento che fruscia in un’orchestra timbricamente ricchissima. Secondo, con un discorso musicale che alterna da un lato accumuli sonori densi, nervosi, movimentati, straussiani, e dall’altro pause liriche, sospese, cantabili, pucciniane, come al cinema si alternano azioni inseguite da frenetici movimenti di macchina e sentimenti rivelati nell’immediatezza di un primo piano.

L’opera ebbe un grande successo e Korngold sembrava uno degli eredi più promettenti della grande tradizione operistica europea. Ma la Storia prese una brutta piega. Anche lui fuggì negli Stati Uniti, nel 1934, per evitare la persecuzione nazista. Troncata così la carriera di operista, Korngold diventò celebre come compositore di colonne sonore. A lui si deve non poco di quell’impasto al confine tra il kitsch e il tardoromanticismo che si chiama ‘suono di Hollywood’: se si chiudono gli occhi si sentono già le fanfare in Technicolor. Non si capisce tuttavia come Die tote Stadt, che ha tutte le carte in regola per meritarsela, non abbia avuto una popolarità duratura dopo la seconda guerra mondiale. Non è un’opera ‘difficile’, né manca di coinvolgimento ed emozione. Ci sono diverse melodie cantabili. La sua somiglianza con il cinema ce la rende familiare. Eppure niente.

Eccoci dunque alla Scala. Oltre che per la novità, il pubblico scaligero è stato attirato da altri due motivi principali: il soprano Asmik Grigorian e la regia di Graham Vick. Cast tutto azzeccato: dal tenore Klaus Florian Vogt, perfetto nella parte di Paul con quel tono lamentoso nella sua voce, al baritono Markus Werba, impeccabile Frank. Ma la stella era lei, Asmik Grigorian, nella parte di Marietta: una vocalità sicura, sostenuta, tecnicamente insuperabile, unita ad un’ampia gamma timbrica. Tutti i cantanti insomma, comprimari compresi, sono stati più che soddisfacenti. Forse non lo è stata altrettanto la direzione di Alan Gilbert, che, pur ottima nei momenti più distesi e melodici, non sempre è riuscita ad esprimere con incisività e forza i coaguli espressionisti, le accelerazioni e le convulsioni dell’orchestra. Le va tuttavia riconosciuto il merito di non aver sovrastato le voci dei cantanti con un suono troppo poderoso.

L’altro grande motivo di curiosità era Graham Vick. Al di là della riuscita o meno delle sue produzioni, Vick è ormai entrato nella storia della regia d’opera. Vedere un suo spettacolo dal vivo, quindi, è qualcosa che richiama diversi appassionati desiderosi di rimanere, se non sconvolti, quantomeno aggiornati. Con Die tote Stadt, però, tocca registrare una delusione. Il primo difetto di questa regia è un’atmosfera, un mood, che non corrisponde a quanto succede in musica. La vicenda dell’opera e la musica di Korngold sono espressionismo puro: sanno di distorsione, contrasto, malattia, disfacimento, recessi oscuri dell’inconscio. La regia di Graham Vick, invece, ha abbaglianti luci al neon, fari cinematografici, schermi HD che mostrano tutto quello che non è necessario mostrare e, stonatura massima, riferimenti politici in un’opera che di politico ha ben poco: nel secondo atto, infatti, compaiono dal nulla dei soldati nazisti, cui si aggiungono, nella scena della processione del terzo, deportati con il pigiama a righe e bambini in divisa della Hitlerjugend. L’unico possibile appiglio è l’ebraismo di Korngold, ma preferirei escludere che un regista intelligente come Vick sia incappato nel tranello di confondere l’opera e il suo autore. Il secondo difetto è l’assenza del title role: la città. Non necessariamente Bruges, ma proprio una città. Gran parte del fascino di Die tote Stadt sta proprio nella malata compenetrazione tra la città e la defunta, nella ossessiva presenza degli spazi urbani nell’inconscio di chi vede in quelle volumetrie il volto della persona amata. Eppure sul palco non c’è nulla che riconduca alla geografia di una qualsiasi città del mondo. Gli schermi che popolano la scenografia mostrano anonime finestre su cui si stagliano silhouette nere; su uno di essi vediamo per un po’ di tempo dell’acqua, ma così isolata dal contesto che potrebbe rappresentare tanto l’Hudson quanto un rigagnolo padano. Insomma, togliere la città da un’opera che si intitola La città morta significa snaturarne lo spirito.

Questo non ha impedito allo spettacolo di raccogliere ampio consenso, anche tra i critici: un entusiasmo che si deve anche agli ottimi cantanti e al debutto di un’opera così bella alla Scala. A sipario chiuso, non un applauso, ma una standing ovation.

Die tote Stadt

  • Musica: Erich Wolfgang Korngold
  • Libretto: Paul Schott
  • Direttore d’orchestra: Alan Gilbert
  • Regia: Graham Vick
  • Scene e costumi: Stuart Nunn
  • Luci: Giuseppe di Iorio
  • Coreografia: Ron Howell
  • Interpreti: Klaus Florian Vogt (Paul); Asmik Grigorian (Marietta / Marie); Markus Werba (Frank / Fritz); Cristina Damian (Brigitta); Sascha Emanuel Kramer (Il conte Albert / Gaston); Marika Spadafino (Juliette); Daria Cherniy (Lucienne); Sergei Ababkin (Victorin); Hwan An (Una voce nel quintetto)
  • Orchestra e coro del Teatro alla Scala
  • Maestro del coro: Bruno Casoni

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