Intervista ad Andrea Liberovici

Non è cosa di tutti i giorni per un compositore della scena contemporanea arrivare a essere eseguiti all’Apollo Theatre di New York e vedere, alla fine del concerto, uno dei curatori del MoMA alzarsi e dire: “Questa è la prima cosa nuova vista a New York negli ultimi cinque anni!”. È successo ad Andrea Liberovici, compositore e regista di teatro, che, in quell’occasione, aveva presentato le sue Mephisto’s songs, la cellula madre dell’opera da camera Faust’s Box che avrebbe debuttato qualche anno dopo (nel 2016) alla Philharmonie di Parigi.

La composizione musicale, dal suo punto di vista, è una pratica “polifonica” che costruisce un contrappunto organico non solo di forme sonore tra loro eterogenee ma anche di diversi linguaggi artistici. Se il Novecento è il secolo delle Avanguardie che, in ogni disciplina, hanno sviscerato le possibilità combinatorie dei loro materiali, la nostra può essere l’epoca fertile per una sintesi corale e transdisciplinare di linguaggi diversi come la musica, l’arte visiva, il video, il testo, la recitazione, che parli all’uomo nella sua totalità. E faccia da contraltare alla cultura del mercato che vive sulla proposta di prodotti rinchiusi e catalogati in determinate isole identitarie. Da un po’ di anni infatti è sempre meno frequente ascoltare nuovi pezzi di musica contemporanea senza un abbinamento alla componente visuale. E lavori meravigliosi come The index of metals di Fausto Romitelli ne rappresentano un esempio compiuto e potente. Per Liberovici l’aspetto acustico è comunque la dimensione primordiale del suo linguaggio e la stella polare della sua ricerca. La passione per il Faust matura quando nel 2005 mette in scena la versione giovanile di quest’opera, ovvero l’Ur-Faust. E di lì comincia una suggestione artistica che non si è ancora esaurita perché quest’anno (14 anni dopo), ampliando il discorso del suo Faust’s Box, sul protagonista del capolavoro di Goethe è costruito il primo dei tre capitoli che formano il suo nuovo lavoro Trilogy in two, opera da camera contemporanea il cui tema è la “Bellezza” nelle sue diverse forme.

Il debutto sarà il 19 ottobre a Reggio Emilia dove resterà fino al 20, in occasione del Festival Aperto. Poi a Genova dal 22 al 30, e il 6 novembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma.

Sono andato ad intervistare questa interessantissima voce della contemporaneità e in questa nostra chiacchierata, più che parlare di questo o di altri suoi lavori nello specifico, ho preferito dare spazio alle sue idee sulla musica.

Sulla pagina di Wikipedia a te dedicata vieni definito, dal punto di vista musicale, come un compositore di “classica contemporanea”. Ti riconosci in questa definizione?

Direi di no. Perché è una definizione che può essere interpretata in due modi. Se interpretata in buona sede è tendenzialmente modesta perché i classici, se si va di logica, sono morti mentre i contemporanei, intesi più che altro come quelli che fanno una musica dello stesso genere oggi, sono vivi. Mentre la riflessione più maliziosa è che, in realtà, chi ha inventato questa definizione, ormai adottata in tutto il mondo, voglia semplicemente dire che siamo dei “morti viventi”! Perché un classico (cioè un morto) che però è contemporaneo (cioè vivente) non può che essere un “morto vivente”. Per cui non so se questa definizione sia stata fatta con malizia o perché non si sapeva proprio che pesci prendere ma, di sicuro, non mi ritengo parte di questo gruppo. E quindi colgo l’occasione (in quanto vivente) di esprimere il mio più vivo suggerimento ai musicologi presenti e futuri di inventarsi un’altra definizione che abbia un po’ più senso. Anche se mi rendo conto che sia oggettivamente molto complesso dare una definizione a chi fa una musica che può avere delle radici negli studi classici e nell’esperienza di ciò che è stato chiamato contemporaneo nel secolo scorso.

Leonard Bernstein, non convinto di “musica classica”, proponeva a suo tempo “musica esatta”. Per tracciare un perimetro intorno a una musica che è scritta nel dettaglio per essere eseguita così come l’autore l’ha voluta. Mentre gli altri generi musicali vivono del fatto che possono (e devono quasi) essere ridisegnati dai diversi interpreti a seconda delle esecuzioni.

Questa definizione ha dei limiti perché è piuttosto vaga. Anche la musica elettronica è una musica scritta. E non solo può essere scritta ma addirittura fissata, senza la possibilità di reinterpretarla. Tutta la musica elettronica non legata al live electronics (che può derivare sia da suoni concreti che da suoni di sintesi) tendenzialmente viene fissata, diventa un vero e proprio oggetto sonoro. In questo senso è come un’opera di pittura, un quadro temporale che ha un inizio e una fine e così sarà per sempre finché ci saranno degli strumenti che la potranno eseguire. Anche quella è musica scritta ma non penso sia la stessa musica che intendeva Bernstein. Lui pensava piuttosto ad una musica che per essere ascoltata andava eseguita, e quindi di volta in volta reinterpretata.

Come descriveresti la musica che ti interessa fare?

Per quanto mi riguarda, se devo dare una definizione al tipo di musica che desidero fare, mi piace chiamarla “musica larga”. Che vuol dire tutto e niente… ma parte dal fatto che nessun do è “vergine”: ogni nota temperata e “s-temperata” è già stata organizzata e utilizzata in mille modi diversi. Quel che vedo adesso è che ci si rinchiude molto in piccole gabbie autoreferenziali e di solito chi lo fa non vuole parlare con qualcuno ma costruirsi piuttosto un piccolo mausoleo portatile per esaltare la sua bravura. Siamo in un momento storico piuttosto paradossale perché abbiamo una tavolozza di “colori” diversi che è vastissima: migliaia di generi musicali e di forme sonore da cui possiamo attingere ma spesso, anziché usare la libertà, ci si rinchiude a riflettere solo sul “cobalto” o su una forma musicale specifica. Una musica finalmente “larga” significa per me prendere consapevolezza il più possibile di tutto questo perché il punto non è quale colore utilizziamo ma che cosa vogliamo dire. È la causa non l’effetto ad essere interessante. L’effetto fine a sé stesso mi sembra un qualcosa di puramente decorativo. A me interessa parlare ai miei contemporanei utilizzando i suoni necessari per creare dei ponti. E quindi, prima di cominciare un qualsiasi brano, è importante chiarirmi due cose: che cosa voglio dire e a chi la voglio dire.

“Musica di pensiero” invece ti piace? Se intendiamo per pensiero non solo un processo logico-matematico ma anche e soprattutto una realtà fatta di intuizione, immaginazione, memoria, metafora…

Anche qui no, non mi piace molto. Se consideriamo ad esempio il capolavoro su cui sto lavorando in questi ultimi decenni che è il Faust di Goethe, troviamo in ogni pagina una quantità di registri diversi che spaziano dal metafisico al mondo dell’osteria. È un modo di raccontare la complessità usando la complessità. Alla fine tutta la grande epica, i grandi romanzi, la grande scrittura musicale, sono fatti in questo modo. Tutti i grandi hanno sempre attinto dal basso per mischiarlo con l’alto (a volte anche viceversa). Il basso continuo della “follia”, ad esempio, è stato rimanipolato da tutti i compositori dell’epoca ed era, di fatto, un motivo popolare. Come giustamente dicevi tu, “musica del pensiero” può essere anche equivoco. Da questo punto di vista stiamo vivendo un paradosso interessante: al compositore è suggerito di relegarsi a una musica per il cervello, una per il cuore, una per le gambe, ecc. Ma questa parcellizzazione è un enorme fake perché la grande musica (e lo stesso vale per le altre arti) parla all’essere umano nella sua complessità. “Alto” e “basso” pari sono, a mio avviso. Il punto sta nell’utilizzarli col desiderio di portare avanti nel tempo una narrazione. E con questo non intendo né illustrazione né, ancor meno, un collage post-moderno (che poteva essere una possibilità interessante quando è venuta fuori ma che ora trovo del tutto consunta).

La narrazione così come la intendi tu che ruolo pensi che abbia nella grande musica di tutti i tempi?

Quello che posso notare è che tutti i grandi compositori che a me piacciono avevano sostanzialmente una sorta di discorso extraterritoriale rispetto alla musica stessa, che veniva quindi usata come uno strumento per veicolarlo. Ti faccio alcuni esempi molto tranchant e quindi suscettibili a critiche. Per capirci: Luigi Nono aveva Marx, Šostakóvič aveva sicuramente qualche problema con Stalin (e questo comunque era un motivo che gli faceva scrivere certa musica in un certo periodo storico e con una certa intensità), e Bach aveva una grande domanda su Dio. Tutte le musiche che a me interessano hanno dentro un’idea di mondo e quando un compositore desidera utilizzare la materia sonora per veicolarla generalmente quella musica resta e parla in qualsiasi secolo. Mentre tanta altra musica è interessante e legittima come possono esserlo tutte le musiche ma magari nel setaccio della storia non lascia grandi cose se non ha una necessità al suo interno.

Il tuo lavoro lo hai chiamato da diversi anni “composizione transdisciplinare”. Immagino che la differenza stia proprio nella scelta di quel “trans-” piuttosto che “inter-”, “multi-”, ecc.

Credo che ormai non la utilizzerò più in futuro… Comunque, rispetto a tutte le altre definizioni quella di “transdisciplinare”, nell’accezione dello psicologo e pedagogista Jean Piaget, è una multidisciplina che non lavora più per ottenere una sommatoria delle sue parti, ma per arrivare ad un ulteriore oggetto, che le comprende tutte, e che si colloca oltre i confini delle discipline stesse. In pratica si basa sul famoso detto che 1+1 fa 3. Essendo io l’artefice di tutte le discipline ho la possibilità di regolarle organicamente l’una sull’altra. Nei lavori multidisciplinari solitamente c’è il regista che fa il regista, il musicista che fa il musicista, lo scrittore che fa lo scrittore, l’artista visivo che fa l’artista visivo e nessuno lascia che gli altri intervengano sul proprio lavoro. “Transdisciplinare” invece significa che lavoro con tutte le discipline, in modo quasi sincronico, per un progetto organico che sarà altro rispetto alla loro semplice sommatoria. Trovo che questa modalità abbia un aspetto umanistico, che parli agli esseri umani in quanto, da sempre, transdisciplinari.

Pensi di non usarla più questa definizione?

Mi piace di più “musica larga”, una musica che possa comprendere anche altre discipline oltre alle diverse forme sonore da cui può attingere.

Ti senti più vicino al sogno dell’opera d’arte totale come poteva intenderlo Wagner, o lo Schönberg de La mano felice, o a quello che diceva Carmelo Bene a proposito di tutte le arti: “non si può fare cinema col cinema, poesia con la poesia, pittura con la pittura, bisogna sempre fare altro”?

Concordo con Carmelo Bene. Ma ora abbiamo degli strumenti tecnologici che ci permettono concretamente di avvicinarci a quelle magnifiche intuizioni di colossi come Wagner, Schönberg e Kandinsky nel celebre dialogo a inizio Novecento su Il suono giallo, La mano felice, se pensiamo che solo con gli smartphone possiamo avere in un attimo degli oggetti audiovisivi da condividere. Bisogna però cominciare a trattare queste nuove macchine in modo più laico e meno mistico perché sono in fondo degli altri elettrodomestici. I primi ci servivano a lavare i calzini e a stirare, questi invece ci permettono di creare delle comunicazioni e anche dei placebo artistici.

Io ho lavorato molto al “Groupe de Recherches Musicales” di Parigi (quello fondato da Pierre Schaffer) dove insieme alla commissione di un nuovo lavoro danno anche libero accesso ai loro studi di sperimentazione. Il fatto è che in quei luoghi ho impiegato molto più tempo a smontare che a creare perchè con qualsiasi pulsante avevo già delle soluzioni acustiche di notevole bellezza e raffinatezza, ma il punto era come trovare la mia voce all’interno di quel grande strumento. Se non c’è un approccio dialettico con queste nuove tecnologie abbiamo l’illusione di poter fare tutto quando, in realtà, stiamo soltanto scegliendo dei “ precotti” che alcuni algoritmi hanno già realizzato per noi.

A cura di Giacomo di Scala

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