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Le Invisibili Signore della Musica: un tributo alla creatività femminile

L’8 marzo 2024 presso la nuova sede della Steinway & Sons a Milano, in occasione della Festa della Donna, è stato portato in scena un concerto tutto al femminile richiamando tanti appassionati e i pochi posti resi disponibili dalla Steinway sono andati subito ad esaurirsi.

Grazie alla determinazione di un affiatato gruppo di pianiste e pianisti, formatosi su Facebook durante la pandemia, e con la cura della pianista e musicologa (e narratrice del concerto) Ilaria Borraccetti, nasce il programma “Le Invisibili Signore della Musica”: un viaggio musicale che ci ha portati nel genio di compositrici rimaste ingiustamente nell’ombra della storia della musica.

Attraverso le biografie e le musiche di Mel Bonis, Amy Beach, Cécile Chaminade, musiciste e compositrici a cavallo tra XIX e XX secolo, veniamo guidati in un programma che vuole raccontare la loro vita, la loro musica e la lotta per ottenere un meritato riconoscimento.

L’incipit è venuto da Mel Bonis (1858-1937): compositrice francese. Talento straordinario fin dall’infanzia studiò al Conservatorio di Parigi, dove ebbe come insegnante César Franck. La sua musica, varia e complessa, spazia dal pianoforte alle composizioni orchestrali, dalle opere corali alla musica da camera. Nonostante le difficoltà dell’epoca riservate alle donne-artiste, Bonis è riuscita ad emergere come compositrice di grande talento. Il pianista Cristian Mari al suo debutto, nonostante la visibile emozione, ha eseguito la Berceuse immergendoci in questa ninna nanna cullata.

A seguire qualche brano di Amy Beach (1867-1944): compositrice e pianista americana. Anche lei infant-prodige: già a cinque anni componeva semplici valzer, tant’è che la sua carriera decollò molto presto. Beach divenne una delle prime compositrici americane ad ottenere riconoscimento internazionale per il suo lavoro nella musica colta senza aver studiato in Europa. I suoi lavori spaziano da opere orchestrali e da camera a pezzi per pianoforte e coro. La maestria di Cecilia Ferrari nell’eseguire Desdèmona ha saputo trasmette la drammaticità ispirata dal personaggio shakespeariano e catturata da Amy Beach col suo innovativo gusto musicale e le sue sonorità.

In chiusura di concerto, Cécile Chaminade (1857-1944): compositrice e pianista francese. Iniziò a studiare pianoforte con la madre. Perfezionatasi al Conservatorio di Parigi con Benjamin Godard e Martin Pierre Marsick, presto attirò l’attenzione, e divenne nota sia come pianista virtuosa che come compositrice. Chaminade viaggiò ampiamente in Europa e negli Stati Uniti, e fu la prima donna a ricevere la Légion d’honneur, per il suo contributo alla musica. Nonostante la fama e il successo in vita, il lavoro di Chaminade è stato in parte oscurato nel corso del tempo. Tuttavia, il suo corposo contributo alla musica francese, in particolare per pianoforte, è stato riscoperto e apprezzato da nuove generazioni di musicisti e appassionati. Tutte esecuzioni all’altezza della bellezza dei brani proposti. In particolare Angela Gallaccio e Raffaella Nardi con Sérénade d’automne (op. 55), una perla nascosta della musica pianistica romantica a 4 mani, hanno saputo portare l’ascoltatore in una passeggiata d’autunno di foglie cadenti e melodie giocose.

A cura di Joy Santandrea

Presentata la 18ª edizione di MiTo Settembre Musica

«È difficile scrivere musica in un momento in cui ci sono tante incertezze e paure; la musica non può cambiare il mondo ma la funzione di un operatore culturale, come un festival, è di far riflettere, mettere in comunicazione e suggerire connessioni»

Con queste parole Giorgio Battistelli – nuovo direttore artistico del biennio 2024-2025 – apre la conferenza stampa del festival MiTo Settembre Musica, tenutasi il 27 marzo presso il museo Rai della radio e della televisione. Un festival che dal 6 al 22 settembre connette le città di Milano e Torino: storie urbane diverse che cercano dialogo e mescolano le loro identità. Uno dei temi è proprio quello dei “MOTI”: gioco di parole per trasformare MiTo in elemento provocatorio che muove le menti, le scuote e le porta alla riflessione. MiTo crea relazioni tra città e connette musica e vita quotidiana.

Il 6 settembre si inaugura a Torino la diciottesima edizione in Piazza San Carlo con la Nona Sinfonia di Beethoven eseguita da orchestra e coro del Teatro Regio. La rassegna continua poi con altri trentaquattro appuntamenti che mescolano musica contemporanea e musica classica in un programma ricco e differenziato tra le due città – come nelle prime edizioni – per creare un palcoscenico condiviso e permettere uno scambio di idee e creare relazioni. Cinque sono i filoni tematici su cui si sviluppa il cartellone. Quest’anno grande punto fermo della programmazione sono le orchestre, non poteva dunque mancare il format “Mitologie Orchestrali” che porta sui palchi alcune grandi formazioni come la Filarmonica della Scala, l’orchestra dell’Opéra de Lyon e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Nella sezione “Artistiche Imprese” Stefano Massini racconterà con due monologhi la storia di due aziende storiche di Milano e Torino.
Il rapporto con la contemporaneità, dice Battistelli, è spesso problematico ma con “Ascoltare con gli occhi” si vuole dimostrare che è possibile far convivere queste apparenti dissonanze attraverso una proposta di ascolto che transita verso l’aspetto visuale e immaginifico.
Entrambe le città hanno una grande storia calcistica; pertanto sembrava doveroso, a 75 anni dalla tragedia di Superga, omaggiare questo tipo di cultura con “Musica su due piedi”.  Un altro anniversario caratterizza il 2024, il centenario dalla morte di Puccini, e “Puccini, la musica, il mondo” vuole proprio rendere omaggio a questo grande operista con tredici incontri: anche Toni Servillo interverrà con una narrazione degli aspetti più intimi di Giacomo Puccini.

Sarà un festival intenso e vario, che guarda al presente, al passato e al futuro creando legami ma anche scuotendo gli animi.

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A cura di Ottavia Salvadori

Vercelli celebra Viotti con un indimenticabile pomeriggio musicale in Duomo

Il 4 marzo 2024, Vercelli ha reso omaggio a uno dei suoi figli più illustri, in occasione del bicentenario della morte: il celebre musicista Giovan Battista Viotti, con una sontuosa celebrazione nel Duomo che ha segnato un momento memorabile nella storia della città. La giornata è stata caratterizzata da una grande affluenza di persone, nonostante la pioggia battente.

(G.B. Viotti, monumento Fontanetto Po)

Il Festival Viotti, nato agli inizi degli anni ’90, rappresenta un omaggio vivo al genio musicale del virtuoso violinista e compositore vissuto nel XVIII secolo. Fondato inizialmente come un modesto evento locale a Vercelli, città natale di Viotti, il Festival ha gradualmente guadagnato fama e prestigio nel panorama musicale italiano. Sin dalle sue prime edizioni, ha proposto una selezione eclettica di concerti che spaziano dalla musica da camera ad eventi sinfonici, dalle esibizioni solistiche ai recital di violino.

Il violinista e direttore d’orchestra Guido Rimonda, dopo gli studi al Conservatorio di Torino e la specializzazione con Corrado Romano a Ginevra, ha affinato le sue abilità musicali sotto la guida di eminenti maestri come Giuliano Carmignola e Franco Gulli presso la Scuola di Alto Perfezionamento di Saluzzo. Successivamente ha dedicato la sua carriera alla valorizzazione dell’eredità musicale di Giovanni Battista Viotti, con riconoscimenti nazionali e internazionali. Nel 1992 costituisce la Camerata Ducale e due anni dopo fonda il Viotti Festival dove copre il ruolo di direttore musicale. Col suo strumento, lo Stradivari del 1721 Jean Marie Leclair, Rimonda continua a portare avanti la missione di far risuonare la “voce di un angelo” attraverso la musica di Viotti.

Rimonda assieme a don Luciano Condina, ex-flautista e direttore d’orchestra della Camerata Ducale, coinvolgendo monsignor Denis Silano, direttore della Cantoria Eusebiana e musicologo, ha organizzato quest’evento richiamando un folto pubblico costituito anche da famiglie e appassionati. Le celebrazioni sono iniziate a metà pomeriggio sotto il portico della facciata del Duomo, causa mal tempo, con un omaggio a Viotti della banda musicale di Fontanetto Po. L’evento è proseguito all’interno del Duomo dove è stata eseguita la Messa di Mozart “Dell’Incoronazione”; eseguita impeccabilmente dalla Camerata Ducale, assieme alla Cappella Musicale Eusebiana e al Coro da Camera di Torino diretto da Dario Tabia.

Riproporre la KV 317 nei sontuosi interni del Duomo ha contribuito a esaltare il carattere solenne dell’opera, anche dal punto di vista meramente visivo: gli elaborati interni del Duomo, i colori e soprattutto il tamburo della cupola, sono stati suggestivi. Inoltre, sotto il profilo acustico, i naturali riverberi dell’edificio hanno reso la musica più spazializzata e coinvolgente. Doveroso per la splendida esecuzione citare i quattro solisti: Arianna Stornello (soprano), Giulia Taccagni (contralto), Bekir Serbest (tenore) e Davide Sacco (basso).

Al termine del “Dona Nobis” è seguita la funzione liturgica celebrata dall’arcivescovo Arnolfo. Interessanti gli interventi musicali di composizioni da vari autori, tra cui: Orlando di Lasso (Oculi mei semper ad Dominum, 6 voci), Pierluigi da Palestrina (Justitiae Domini) e Francesco Antonio Vallotti (Ave Regina caelorum). Nonostante la densità del programma, questi interventi musicali hanno reso più scorrevole la funzione.

In serata, al termine della liturgia, ci viene dato il commiato dal Concerto per violino e orchestra n. 29 in mi minore di Viotti, dove Guido Rimonda (in veste di violino solista) ha fatto cantare il suo Stradivari sulle note del compositore vercellese, accolte da un grande applauso.

A cura di Joy Santandrea

Puccini: La Fanciulla del West al Teatro Regio

“Non siamo disposti a perdonare! Si perdona ciò che si vuole! Allora perdonerete!”

Sono frasi significative che inaugurano la messa in scena dell’Anteprima Giovani under 18-30 del 21 marzo 2024 al Teatro Regio con “La Fanciulla del West”, l’opera lirica in tre atti composta da Giacomo Puccini, su libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini. La sua prima rappresentazione è avvenuta al Metropolitan Opera House di New York nel 1910. L’Opera è stata presentata prima dell’Anteprima Giovani, mercoledì 20 marzo al Piccolo Regio alle ore 18, nella conferenza-concerto condotta da Susanna Franchi.

Dal punto di vista del genere, La Fanciulla del West mescola elementi di dramma e lirismo. È un’opera che si colloca nel contesto del verismo, un movimento artistico che rappresentava la vita reale e le emozioni umane in modo crudo e sincero. Tuttavia, quest’opera si distingue per la sua ambientazione americana e per l’inclusione di temi legati al Far West, raggiungendo una certa originalità tra i titoli di Puccini. Sotto il punto di vista musicale, utilizza melodie popolari americane, come le “ballate del West”, insieme a motivi più operistici. La partitura è caratterizzata da una scrittura vocale impegnativa e da un’orchestrazione incalzante che riflette i sentimenti e le atmosfere dell’ambientazione.

La direzione orchestrale viene affidata a Francesco Ivan Ciampa, il quale con grande maestria crea una forte sinergia tra la componente orchestrale e quella canora. La regia viene condotta da Valentina Carrasco, la quale si ispira nell’allestimento al genere cinematografico degli “spaghetti Western”: manca solo la figura di John Wayne in Ombre Rosse per chiudere in bellezza! Il palco del tempio lirico del Regio diventa “un set cinematografico” in cui tutte le scene vengono girate e riprese dal vivo dai macchinisti, coordinate dal regista e infine proiettate sullo schermo visibile in sala dagli spettatori per cogliere i momenti più significativi e precostituiti dall’Industria degli effetti speciali cinematografici. I momenti solistici ribaltano la situazione di ripresa di realtà in cui viene meno la dimensione cinematografica ritornando alla dimensione operistica.

Le scene sono realizzate da Carles Barga e Peter Van Praet grazie all’utilizzo di tecnologie quali pannelli digitali retrostanti removibili in cui si ha la proiezione della neve (rappresenta la stagione invernale) e delle immagini collinari (il tipico finale Western dei due innamorati che si dirigono verso terre sconosciute e inesplorate). Si ha un’intuizione geniale nell’utilizzo dei cantanti secondari (i nativi americani, i cosiddetti “pellerossa”), con un cartello di protesta per effettuare un attacco satirico ed ironico contro la discriminazione razziale e l’integrazione forzata di comunità minoritarie all’interno della cultura bianca dominate.

La fanciulla del west
Foto di Daniele Ratti

Grande lavoro è stato svolto da Ulisse Trabacchin nella direzione corale della sezione maschile (baritoni e tenori), i quali hanno saputo mescolarsi con le voci solistiche creando una comunanza di cuori verso la storia d’amore tra la cameriera del Saloon Minnie (il soprano Oksana Dyka) e il bandito Ramerezz (il tenore Amadi Lagha) osteggiata dallo sceriffo Jack Rance (il baritono Massimo Cavalletti).

La Fanciulla del West, rispetto alle altre opere pucciniane, si conclude con un finale inaspettatamente lieto in cui è la donna a dominare sulla scena rispetto alla presenza maschile, ed essa non diviene vittima dell’uomo, anzi diviene figura che redime, mitiga ed espia le colpe di tutto il genere maschile.

A cura di Angelica Paparella

Beyond: uno spettacolo che va ‘‘oltre’’ un classico concerto di musica barocca

La sala concerti del Conservatorio «G. Verdi» di Torino è considerata un luogo composto, in cui vige una sorta di sacralità. Il 6 dicembre 2023 qualcosa è cambiato: il controtenore Jakub Jòzef Orliński, accompagnato dall’orchestra Il Pomo d’Oro, ha portato in scena non solo un concerto di musica barocca, ma un vero e proprio «show» come lui stesso l’ha definito. Beyond – che tradotto significa “oltre” – vuole proprio essere la dimostrazione che la musica barocca vada oltre i tempi e, quindi, sia sempre attuale.

Protagonista indiscusso della serata è stato, appunto, il controtenore polacco Jakub Jòzef Orliński che, diplomatosi alla Juillard School di New York nel 2017, è riconosciuto come uno degli interpreti più vivaci e attivi della scena musicale classica internazionale, si è affermato sia nelle esecuzioni live sia in studio. Inoltre è un grande appassionato di danza. Egli stesso avverte un collegamento tra la musica barocca e la breakdance: entrambe rappresentano la libertà di espressione e aiutano a trovare l’equilibrio psicofisico. Inaspettatamente ha voluto condividere questa passione mercoledì sera con il suo pubblico, abbinando la danza all’esecuzione di La certezza di tua fede da Antonino e Pompeiano di Sartorio. L’orchestra Il Pomo d’Oro, fondata nel 2012, si è presto affermata come un ensemble di qualità eccezionale nel campo dell’esecuzione storicamente informata. La collaborazione tra Orliński e l’orchestra nasce nella stagione 2020-2021 per concerti in Nord Europa con una selezione dall’album Facce d’amore. Negli anni la collaborazione è proseguita, arrivando a grandi successi come il premio Opus Klassik per l’album Anima Sacra, fino ad oggi con l’album Beyond.

Unione Musicale – ph Luigi De Palma

La chimica tra il cantante e l’orchestra si è percepita fin dalle prime note: non sono mancati sguardi e sorrisi tra di loro. A sottolineare quest’affinità gli abiti che, avendo lo stesso colore e ricamo, creavano ancora più armonia sul palco.

Il pubblico era attento alle parole, ai gesti e alle espressioni del cantante che si è esibito con una teatralità affatto stucchevole. Per creare sempre più contatto con gli spettatori, durante l’esecuzione della Sonata per 2 violini in fa maggiore di Johann Kaspar Kerll, il controtenore, tenendo in mano la luce posizionata al centro del palco, è sceso in platea. Ha girato tra le poltrone e da qui ha iniziato a cantare L’amante consolato da Cantate, ariette e duetti op. 2 di Barbara Strozzi, generando commozione e incanto. Molto apprezzata è stata la sua cura per la dizione: si riusciva a seguire e capire ogni parola senza leggere il testo. Orliński ha riservato grande attenzione anche alla sua immagine. Voleva apparire moderno e assolutamente non composto… e ci è riuscito abilmente. Riguardo propriamente ai suoi abiti, il cantante ha fatto un uso molto saggio di un capo in particolare: il mantello. In alcuni momenti era il soggetto con cui dialogava e ballava, mentre in Quanto più la donna invecchia – Son vecchia, pazienza da L’Adamiro di Giovanni Cesare Netti l’ha utilizzato per immedesimarsi anche visivamente in un’anziana signora.

Unione Musicale – ph Luigi De Palma

Il pubblico ha capito fin da subito il messaggio trasmesso dai musicisti: andare oltre il classico concerto si può e, nonostante il target d’età presente, lo spettacolo è stato accolto molto positivamente. Alla fine la sala rimbombava di applausi e complimenti, e dalla grande approvazione non è mancata la standing ovation. Contagiati da questo entusiasmo i musicisti, pur mantenendo la concentrazione, hanno eseguito più rilassati tre bis: Chi scherza con amor da Eliogabalo di Giovanni Antonio Boretti, Lucidissima face da La Calisto di Francesco Cavalli, Che m’ami ti prega da Nerone di Giuseppe Maria Orlandini, tutti e tre presenti nel loro album Facce d’amore. L’atmosfera creata era più divertita, sembrava di essere ad una serata tra amici. È stato coinvolto anche il pubblico, improvvisando un duetto con il cantante, il quale ha dato sfoggio della sua grande estensione vocale, toccando note molto basse e molto alte. In conclusione hanno replicato La certezza di tua fede da Antonino e Pompeiano di Sartorio. Orlinski ha inaspettatamente accompagnato l’assolo di chitarra con il beatbox, generando stupore e curiosità negli ascoltatori, e infine ha nuovamente ballato, suscitando un grande visibilio nel pubblico.

Non solo musica barocca, quindi, ma uno spettacolo davvero originale e coinvolgente che va ‘‘oltre’’ le aspettative di un concerto di musica classica.

A cura di Roberta Durazzi

La Tragédie De Carmen: un’opera attuale e imprevedibile

L’opera torna al Teatro Concordia di Venaria Reale grazie alla collaborazione con la Compagnia Lirica Tamagno: un’impresa fondata nel 1992 attiva nei territori piemontesi per portare in scena opere liriche di tradizione e diffondere la cultura musicale ad un pubblico popolare, privilegiando teatri i cui cartelloni non prevedono una programmazione operistica.

Tutti conoscono la celeberrima opéra-comique di Bizet, Carmen, ma pochi conoscono l’adattamento di Peter Brook: La tragédie de Carmen, un progetto radicale che ridimensionò la partitura originale in un atto unico per orchestra da camera, spogliandola delle scene corali. Brook non si limitò solo a questo, ma accelerò il ritmo del racconto adeguando il tempo musicale e esplorò gli intricati legami tra i quattro personaggi principali: Carmen, Don José, Micaela, Escamillo.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

Dopo il debutto a Savigliano, va in scena al teatro Concordia quest’opera controversa, con la nuova edizione del Circuito Lirico Piemontese guidata alla regia da Alberto Barbi, attore e regista torinese con una
formazione artistica eterogenea che va dal teatro di parola al teatro fisico, dal circo al musical. Barbi propone un’opera che si rifà all’idea di spazio vuoto teorizzata da Brook: il palco è una scatola bianca, chiusa su tre pareti, dove recitazione e canto si uniscono per far emergere solo i personaggi e i loro drammi attraverso un mescolamento di parlato e canto. Accanto alle arie in francese dei quattro personaggi principali, vi sono – al posto dei recitativi – momenti di prosa parlata in italiano; personaggi come il tenente Zuniga e il taverniere Lillas Pastia si esprimono con semplici parole declamate.

Si apre il sipario, dieci rintocchi di un timpano solo, la scena deserta con un solitario tavolo posizionato in verticale al centro del palco; tutto contribuisce a creare un’atmosfera funerea. Accovacciata e nascosta dietro di esso, Carmen indossa vestiti neri, un velo scuro sul volto e tiene tra le mani le carte, simbolo del tragico destino che la vita le riserva ed elemento fondamentale per la rappresentazione della sua personalità. Da questo momento Carmen, donna emancipata e indipendente, non abbandonerà praticamente mai la scena. Personaggio affidato a Irene Molinari, mezzosoprano laureatosi al Conservatorio di S. Cecilia di Roma e vincitrice di concorsi nazionali e internazionali, con la sua potenza vocale incanta il pubblico grazie alla sua capacità di passare da un registro grave ad uno più acuto con grande versatilità.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

La scena, spoglia di tutti quegli elementi considerati superficiali, presenta solo pochi oggetti: il tavolo, presente per tutto lo spettacolo e che assume diverse funzioni – come per esempio quella di prigione – e delle sedie che nel finale circondano Carmen e la imprigionano in un cerchio, simbolo del suo destino ormai segnato, e che rappresentano, forse, la solitudine nella quale ormai si trova; nessuno al suo fianco ma, a proscenio, la sua antagonista Micaela che sembra trasformarsi nello spirito di Carmen e non trova il coraggio di rivolgere lo sguardo verso il suo vero corpo. Altro elemento pregnante della scenografia sono le luci che virano dal blu al rosso passando per il verde: giochi di luci omogenee che talvolta creano ombre misteriose sulle pareti di grande effetto scenico.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

Alcune scelte puntano ad attenuare il dinamismo che domina nell’opera di Bizet. L’habanera, una delle arie più famose dell’opera e che nella versione originale stimola grande fisicità, corporeità e imprevedibilità, viene trasformata da Barbi in una scena priva di danza e di movimento. I pochi gesti di Carmen appaiono rigidi e la scena immobile. Anche l’orchestra Bartolomeo Bruni, affidata al giovane Takahiro Maruyama, accoglie le novità proposte da Brook. I timbri si disgregano e i colori si disperdono nell’ambiente. Non solo, dunque, una scena priva di elementi decorativi ma anche l’ambiente sonoro viene spogliato e reso essenziale.

Brook decide di mettere in luce gli aspetti più crudi della vita e i conflitti tra i personaggi sacrificando, così, gli elementi più sensibili e romantici. L’aria “La fleur que tu m’avais jetée” viene, infatti, deliberatamente separata dal duetto tra José e Carmen per fare spazio ad una scena in cui emerge il lato più violento di José che uccide Zuniga e si scontra con Escamillo in una lotta posticcia a “colpi di navaja”.  L’atmosfera passionale del duetto viene pertanto bruscamente interrotta dal lato oscuro e cruento della storia. “La fleur”, ridotta ad una sola strofa, appare come un momento solitario: José solo in scena rivolge lo sguardo e il suo canto al pubblico. Carmen entra in scena in modo furtivo ma si mantiene a distanza per contemplare le parole proferite da José. Ignaro della presenza della sua amata, continua a cantare e, solo dopo la sua dichiarazione esplicita del suo amore con le parole “Carmen ti amo!”, si volta verso di lei come se avesse intuito la sua presenza. Perfino Micaela viene rappresentata come una donna a tratti violenta, che litiga con Carmen. Lei, donna spirituale che sin da subito dimostra la sua devozione nei confronti di un Dio, donna semplice portatrice del bacio materno a Don José, viene aizzata dalla donna seduttrice e passionale. Una lotta che diventa antitesi del finale: dopo l’uccisione di Carmen, Micaela piange disperata accanto ad un altarino. È proprio in questo momento che si tornano a sentire i rintocchi funebri del timpano che diventano eco di un viaggio umano che ha attraversato l’amore e la perdita portando lo spettatore a meditare sulle sfumature dell’animo e a riconoscere l’eterno divenire della vita.

Foto di Lunasoft Video Produzioni

Forse la regia, consapevole della complessità della storia, ha deciso di non inviare un messaggio univoco al pubblico, evitando di schierarsi esplicitamente dalla parte di Carmen o da quella di José. In questo spettacolo aperto a diverse interpretazioni, la storia di un femminicidio 800esco diventa specchio della tragica attualità nella quale ancora oggi siamo immersi.

A cura di Ottavia Salvadori

Max Gazzè e un concerto dal sapore rarefatto e fluttuante

“Arte, maestria, sapienza, sacrificio, professionalità” scriverebbe qualcuno su X (Twitter) per descrivere lo spettacolo che Max Gazzè sta presentando sui palchi italiani da fine ottobre. Anche il Teatro Colosseo di Torino ha ospitato il tour “Amor Fabulas − Preludio” nelle due date di giovedì 23 e venerdì 24 novembre.

Nella sala semibuia del teatro appare Anna Castiglia – incaricata dell’opening act – che, seduta sul bordo del palco inizia a cantare accompagnata dalla sua chitarra acustica. Il pubblico, catturato, la osserva attentamente, cercando di cogliere ogni significato nascosto tra i versi delle canzoni in cui si sentono le influenze, tra gli altri, di Gaber e De Andrè. Castiglia padroneggia benissimo il palco: oltre a riuscire a guadagnarsi l’assoluto silenzio e l’attenzione di tutti senza il minimo sforzo, per ben due volte dal fondo della sala partono dei fragorosi applausi a metà dei brani (oltre che alla fine). Qualcuno la cerca su Internet per capire chi sia questa ragazza così talentuosa che ha avuto l’onore di aprire il concerto di Gazzè. I più informati, invece, la riconoscono subito: la cantautrice si era presentata a X Factor con “Ghali”, conquistando anche i giudici del programma che le avevano assegnato 4 sì. Il brano è una riflessione sul doversi assumere sempre le proprie responsabilità, e infatti «La colpa non è di tutti, la responsabilità sì», sussurra al microfono prima di intonare proprio quella canzone, per chiudere la sua esibizione e lasciare spazio al protagonista della serata.

Quando si accendono le luci e inizia la musica, Gazzè assume le sembianze di un sacerdote durante l’omelia: un telo semitrasparente su cui è proiettata una città in rovine e una persona che dondola su un’altalena, lascia intravedere solo la sua ombra mentre lui recita un monologo sull’indifferenza e sul senso del grave, concludendo che, forse, abbiamo perso del tutto il senso.Dopo i primi brani il telo viene ritirato e sul palco compare la formazione completa: Cristiano Micalizzi alla batteria, Daniele Fiaschi alla chitarra, Clemente Ferrari alle tastiere e synth, Max Dedo ai fiati, Greta Zuccoli a cori e autoharp e Nicola Molino alle percussioni.

L’idea alla base del tour è rappresentata dalla volontà di portare in scena brani mai suonati dal vivo, ma che sono stati scelti appositamente per essere valorizzati dall’atmosfera aulica del teatro. Tra questi “Niente di Nuovo” e “Siamo come siamo” che apre con una considerazione sull’inesistenza del tempo e sul fatto che si tratti solo di un’elaborazione del cervello.

L’eclettismo di Gazzè è noto da sempre e sarebbe inutilmente didascalico parlare di quanto sia preparato tecnicamente a livello musicale; questa bravura però è sicuramente amplificata da quella dei suoi compagni sul palco che gli tengono testa in modo egregio. “Cara Valentina”, introdotta dallo standard jazz “My funny Valentine” in un dialogo tra la voce più acuta di Gazzè e quella più calda e profonda di Zuccoli, diventa apoteosi musicale quando il pubblico viene incitato a cantare continuamente “per esempio non è vero che poi mi dilungo così spesso su un solo argomento”. Nel mentre i musicisti si divertono a eseguire delle variazioni su tema spaziando tra i generi più disparati come lo ska e un simil flamenco, con una facilità disarmante. Lo spazio per l’improvvisazione trova posto anche ne “La favola di Adamo ed Eva” con gli assoli di synth, chitarra e basso ricchi di virtuosismi, tecnicismi e cambi di tempo.

Una menzione speciale va fatta alla scenografia con la proiezione di video art a cura di Stefano Di Buduo, co-protagonista mai troppo invadente ma a tratti necessaria. Proprio con la proiezione che spoilera i titoli dei brani dell’album in cantiere, si conclude la parte di concerto.

Per la seconda parte, invece, sono state lasciate le canzoni più famose e ritmate, che il pubblico non vede l’ora di poter ascoltare: “Ti sembra normale”, “La vita com’è”, “Sotto casa”, “Una musica può fare”, diventano un momento di festa con la platea in piedi che balla, canta e si diverte dimenticandosi di quell’atmosfera così tanto solenne che era stata colonna portante della prima ora e mezza di spettacolo.

Forse, in fin dei conti, non tutti sono preparati alla rarefazione dovuta a brani per la maggior parte molto lenti e decompressi che sembrano fluttuare in un’atmosfera densissima di solennità. Anche perché sono bastati primissimi accordi di “Ti sembra normale” per far ritornare tutti sulla terraferma. L’unica cosa certa è che Gazzè si conferma geniale e anche in questo caso, come sempre, spiega quanto la musica di un certo livello faccia ancora così tanto effetto.

a cura di Alessia Sabetta

“La Rondine” di Puccini in un particolare omaggio al Teatro Regio

Al Teatro Regio continua il successo di anteprime per ragazzi under 30. Ancora una volta la sala è piena di giovani che vogliono avvicinarsi ad un mondo lontano da quello contemporaneo. 

Il 16 novembre 2023 è andata in scena La Rondine, commedia lirica poco conosciuta del celebre Giacomo Puccini. La direzione dell’orchestra è stata affidata a Francesco Lanzillotta, direttore d’orchestra e attento esperto del panorama operistico italiano contemporaneo. Lanzillotta ha dimostrato la sua grande abilità, riuscendo a comunicare la forza di quest’opera, che si muove a ritmi di danza tipici dell’epoca pucciniana, tra cui il tango, il one-step e soprattutto il valzer. Quest’ultimo è centrale in tutta la rappresentazione e dona momenti di sensualità e passione. 

Degna di nota è la regia di Pierre-Emmanuel Rousseau, che torna a Torino dopo l’inaugurazione della stagione scorsa. Il nuovo allestimento de La Rondine vuole essere un omaggio innanzitutto al Teatro Regio, ma anche agli anni Settanta francesi, anni di fermento successivi alle rivolte del Sessantotto. Rousseau ha collocato, quindi, l’azione in un anno ben preciso, il 1973, momento della riapertura del Teatro dopo la ricostruzione progettata dall’architetto Carlo Mollino, a seguito del tragico incendio del 1936. 

Il primo atto si svolge in un loft minimalista dell’alta borghesia francese durante un after party. La scena è arredata con piccole sculture che fanno riferimento a Mollino, mentre i colori si concentrano sul nero e sull’oro, alimentando l’idea di ricchezza dei personaggi coinvolti. Nel secondo atto si viene catapultati in una grande festa proprio nel foyer del Teatro Regio, ben rappresentato in ogni dettaglio. Infine, nel terzo atto ci si ritrova in Costa Azzurra, evocata dallo sfondo celeste, simile al colore del mare e, soprattutto, dagli abiti indossati dai protagonisti: costumi da bagno e camicie leggere.

L’esibizione corale del secondo atto è stata sicuramente la più coinvolgente: sembrava davvero di partecipare, insieme ai protagonisti, ad un party anni Settanta. Il coro, istruito dal maestro Ulisse Trabacchin, si è ben inserito nella scena e i ballerini, su coreografie di Carmine de Amicis, si sono esibiti in danze tra cui il vogueing. In questo quadro, oltre alla scenografia, un altro omaggio al Regio: i costumi di scena sono stati presi in prestito direttamente dal magazzino della sartoria teatrale. La performance è stata accolta molto positivamente da tutto il pubblico in sala, il quale ha espresso il suo consenso con un lungo e caloroso applauso.

I cantanti sono emersi bene durante tutta la rappresentazione, senza mai essere sopraffatti dall’impianto scenografico. In particolare, la protagonista Magda, interpretata dal soprano di origine russa Olga Peretyatko, che grazie alle sue capacità e alla grande estensione vocale, è riuscita a rendere leggeri e piacevoli acuti, senza mai mostrare fatica. 

Interessante la realizzazione del progetto Contrasti per questa serata. L’artista ospite è stato Marquis, giovane promettente che nell’ultimo anno ha collaborato alla composizione delle musiche per la colonna sonora della serie I leoni di Sicilia, tratta dall’omonimo romanzo di Stefania Auci. Come d’abitudine l’esibizione si è svolta nel Foyer del Toro, questa volta però non in conclusione della serata, ma come sottofondo durante gli intervalli, generando veri e propri “contrasti” all’atmosfera del teatro.

Dunque, ancora una volta il Regio è riuscito a incuriosire e avvicinare un pubblico giovane, contestando una visione elitaria del teatro lirico.

A cura di Roberta Durazzi

Maat Saxophone Quartet e le mille sfumature del sax

La Fondazione Renzo Giubergia e la De Sono nel corso degli anni sono riuscite a creare una solida famiglia che si impegna a dare un supporto ai talenti della scena musicale. 
La Fondazione Giubergia dal 2012 sostiene i giovani musicisti assegnando annualmente il Premio «Renzo Giubergia» a solisti e, dall’anno scorso, ad ensembles da camera: un premio in denaro ma il cui valore va ben oltre quello materiale, perché l’onore e il prestigio che vengono riconosciuti a questi giovani è ciò che lo rende speciale ed importante.

Con il 20 novembre 2023 si conclude anche quest’anno un intenso e appassionato lavoro che ha visto la commissione raccogliere novanta ore di musica, selezionare quattro gruppi che si sono sfidati in una diretta streaming e, infine, premiare presso il Conservatorio «Giuseppe Verdi» il vincitore di questo premio, ormai giunto alla sua decima edizione: il Maat Saxophone Quartet.

A inizio serata, la presidente della fondazione Paola Giubergia e il direttore artistico Andrea Malvano, annunciano le novità apportate durante l’anno: l’apertura di un sito della Fondazione che funge da archivio degli eventi passati e le nuove modalità di partecipazione al Premio. Da quest’anno il bando si estende anche a talenti internazionali under 26 permettendo alla Fondazione di ottenere credibilità anche fuori dall’Italia e consentendo a giovani – proprio come l’ensemble portoghese/olandese Maat Quartet – di aderire all’iniziativa.

Foto da ufficio stampa De Sono

Continua così la stagione 2023-24 della De Sono – dopo un grande concerto di apertura realizzato insieme a Lingotto Musica – con una collaborazione con la Fondazione Giubergia in un concerto più intimo che vede protagonista della scena una formazione quartettistica diversa da quella consueta: sassofono soprano, sassofono contralto, sassofono tenore e sassofono baritono.

Il Maat Quartet è un gruppo di giovani musicisti di origine portoghese il cui sodalizio nasce nel 2018 ad Amsterdam in seguito agli studi di sassofono al conservatorio. Ottengono sin da subito grandi riconoscimenti: nel 2018 vincono il prestigioso Prémio “Jovens Músicos” e nel 2022 il Dutch Classical Talent Award. L’ensemble ha una visione della propria produzione di ampio respiro: ha collaborato con una compagnia teatrale per la produzione di uno spettacolo per bambini e ha lavorato a stretto contatto con importanti compositori della scena contemporanea olandese come Nuno Lobo e Arnold Marinissen. 
Non stanco di perfezionare il proprio lavoro, il gruppo ancora oggi frequenta la NSKA (Accademia olandese del quartetto d’archi), dove lavora sul repertorio per quartetto d’archi con gli opportuni arrangiamenti.

Foto da ufficio stampa De Sono

Il giro del mondo in Sax, così viene intitolato da Andrea Malvano il concerto del 20 novembre. E cosa se non meglio di queste parole può raccontare ciò a cui il pubblico ha assistito durante la serata. Per la prima volta in Italia con questo concerto di premiazione, il gruppo ricorda quale è la poetica che sta alla base del loro lavoro: “mostrare tutto ciò che un quartetto di sassofoni può fare” utilizzando repertori che attraversano i secoli e tutti i territori del mondo.
Il programma ha toccato culture differenti: dall’operetta viennese al folk iraniano fino ad arrivare al fado portoghese. Dunque, un repertorio con il quale il pubblico – fedele e affezionato delle due associazioni – non è particolarmente avvezzo.

Sin dall’inizio, con il primo brano, si capisce quali sono le sonorità più classiche che l’ensemble vuole approfondire. Con un arrangiamento per sassofoni, realizzato dal sassofonista soprano Daniel Ferreira, portano in scena l’Overture dell’operetta Dichter und Bauer di Suppè. Sembra aprirsi sul palco una vera e propria scena teatrale, in un ambiente ottocentesco romantico attraverso una melodia lirica iniziale di grandissimo effetto espressivo, pieno di sentimento, che si unisce ad un leggero valzer aggraziato.
Con soli quattro ottoni, sono riusciti abilmente a creare suoni leggerissimi e, allo stesso tempo, una grande massa sonora portando lo spettatore ad immaginare una vera e propria orchestra sul palco. Il Maat Quartet dimostra come lo strumento sia capace di creare un timbro del tutto singolare a seconda dell’utilizzo che se ne fa. Complice di questa atmosfera suggestiva, sicuramente è la straordinaria sinergia e maestria del quartetto di amalgamare perfettamente le quattro voci.

Foto da ufficio stampa De Sono

Il Maat Quartet è riuscito a raccontare una storia attraverso ogni brano, materializzando diversi sentimenti ed emozioni, da quelle più allegre e festose a quelle più malinconiche e introverse, trasformando anche i silenzi in momenti pieni di significato. La profondità espressiva con la quale sono riusciti ad entrare in ogni singola nota ha fatto sì che il pubblico si immedesimasse e immaginasse veri e propri quadri scenici. 

Dall’Asia all’Europa, questo è il viaggio nel quale ci hanno trasportato con gli ultimi due brani. Con un lavoro originale, composto dal giovane amico e compositore iraniano Ramin Amin Tafreshie, emergono le sonorità più particolari e contemporanee che forse lasciano più interdetto quella parte del pubblico abituato solo a sonorità “classiche”. Con glissando e suoni instabili, in continuo movimento, sembra addirittura di non avere più sul palco quattro sassofoni ma gli strumenti tipici della cultura iraniana e curda, come il duduk. Anche con questo brano il quartetto dimostra la sua abilità e apertura nei confronti di tutte le sonorità possibili.

Ancora una volta, dunque, la commissione del Premio Giubergia non delude. Nonostante non tutti gli spettatori siano riusciti a cogliere la sensibilità e la bravura dei giovani sassofonisti, il concerto ha rivelato le numerose sfumature che la musica può assumere, confermando l’importanza della commistione di differenti culture.

A cura di Ottavia Salvadori

Grigory Sokolov: un inno alla musica sull’altare del Lingotto

Quando la musica trasforma la sala da concerto in un vero e proprio tempio, quasi sacro, gli elementi esibizionisti e l’esteriorità dei gesti diventano superflui. La musica diventa un flusso continuo, l’attenzione si concentra sui suoni precisamente eseguiti e calibrati in ogni singolo parametro portando così lo spettatore ad assumere un atteggiamento di completa devozione nei confronti di quello che succede sul palco.

Questo è proprio quanto accaduto all’auditorium Lingotto «Giovanni Agnelli»,l’8 novembre 2023 in una serata realizzata in collaborazione tra Lingotto Musica e Unione Musicale.
Ancora una volta la sala torna a vedere tutti i suoi posti a sedere occupati: i biglietti per il concerto del grande pianista Grigory Sokolov sono sold out.

Nel 1966, a soli sedici anni, Sokolov vince il Primo Premio al Concorso Internazionale Čajkovskij di Mosca guadagnandosi grande fama internazionale. Lo studio del pianoforte inizia, però, già all’età di cinque anni per poi procedere, due anni dopo, con l’ammissione al conservatorio di Leningrado. Consueto collaboratore di prestigiose orchestre come la Philharmonia Orchestra, decide di dedicarsi alla carriera solistica. Considerato uno dei più grandi pianisti di oggi, Sokolov è conosciuto per la sua totale devozione nei confronti della musica, per la sua grande attenzione – quasi maniacale – dei dettagli e per il suo repertorio che vede spaziare dalla polifonia medievale al repertorio classico-romantico fino ad arrivare al Novecento. Negli ultimi anni lascia però spazio a concerti cameristici incentrati su brani più intimi prediligendo compositori come Bach, Chopin, Beethoven, Mozart, Schubert.

Dalla pagina web di Lingotto Musica

Non una parola e non un gesto fuori posto, Sokolov sale sul palco e, dopo un inchino, senza alcun tentennamento appoggia le mani sulla tastiera del pianoforte e immediatamente dà avvio ad un programma bachiano senza soluzione di continuità che coinvolge il pubblico in un vero e proprio rito. Nessuna pausa e nessuna parola, solo la musica che diventa protagonista facendo quasi dimenticare che sul palco c’è un soggetto in carne ed ossa.

Le note fluiscono con scale veloci, trilli, cromatismi delicati che Sokolov riesce a rendere con una freddezza tecnica ed espressiva che dimostra perfettamente il suo approccio alla musica: rigore e un intenso studio dei brani. La sua tecnica e rigidità paradossalmente però riescono a trasmettere qualcosa al pubblico, che resta tutto il tempo con gli occhi fissi su di lui.
Gli accordi e le singole note acquistano vita propria grazie all’abilità di Sokolov di creare polifonie che sembrano modificare il timbro del pianoforte, trasformando anche i suoni più leggeri, delicati e impalpabili in sostanza consistente. La sua abilità nel modulare perfettamente l’intensità di ogni singola nota , di avere una precisissima sensibilità nella pressione dei tasti, dà vita ad un pianissimo di grandissimo effetto che sospende il fiato del pubblico.

Con il prosieguo della serata, Sokolov porta sul palco la Sonata n.13 e l’Adagio K540 di Mozart dimostrando la sua maestria nell’interpretazione della complessa struttura mozartiana. L’esecuzione ricca di dettagli e sfumature trasporta gli spettatori all’interno di un’intensa gamma di emozioni: come ipnotizzati o in uno stato di catarsi, si lasciano trasportare dalle note perfette eseguite dal pianista e diventano partecipi di un viaggio che si è trasformato in un’esperienza sempre più spirituale e profonda.

Dalla pagina web di Lingotto Musica

Per concludere Sokolov non ha deluso le aspettative del pubblico che attendeva con ansia di sapere quanti bis avrebbe riservato alla platea torinese. Sei piccole miniature poetiche, hanno visto come protagonisti tre compositori di epoche differenti: Rameau, Chopin e Rachmaninov. Il programma si è tinto di un’espressività e di sonorità inesplorate fino a quel momento. Forse più stanco e più libero dalla pressione di dover eseguire perfettamente ogni brano, ha messo da parte la perfezione tecnica per creare emozioni sempre più intense.

Anche le entrate e uscite di scena hanno contribuito a creare la sensazione di partecipare ad un rituale musicale. Il pianista attraverso pochi e semplici movimenti, sempre uguali, ha creato sul palco un ambiente teatrale ed ipnotico. Il suo corpo improvvisamente sembrava essere un automa che eseguiva alla perfezione ogni singolo ingresso e uscita di scena, persino la regolarità dei tempi era scandita con una precisione metronomica. 

Uno spettacolo dunque ricco di emozioni contrastanti, di silenzi devoti, ricco di dettagli curati che hanno contribuito alla realizzazione di un atto di preghiera nei confronti di compositori che ci hanno lasciato in eredità grandi opere.

A cura di Ottavia Salvadori