Rock ‘n’ roll will never die: i Guns N’ Roses a San Siro

I fan dei Guns N’ Roses hanno vissuto i giorni precedenti al concerto di San Siro con incertezza. I problemi alle corde vocali di Axl Rose avevano costretto la band californiana ad annullare il concerto di Glasgow dello scorso 5 luglio, minacciando la cancellazione anche del resto del tour. Si è trattato invece di un allarme rientrato: il 10 luglio la band californiana ha infatti regalato un mega-show al pubblico italiano, dopo l’ultima volta in Italia al Firenze Rocks nel 2018.

Sono le 20 spaccate e i 50.000 spettatori attendono con trepidazione l’inizio del live. «Inizieranno davvero puntuali?» ci si domanda tra i fan. Ebbene sì: i Guns (con un atteggiamento poco rock) si attengono alle regole e iniziano puntualissimi. Axl Rose, Slash, Duff McKagan e gli altri musicisti aprono le danze con l’energia di “It’s So Easy”, uno dei brani più movimentati di Appetite For Destruction, il primo album uscito nel 1987. Gli spettatori reagiscono in due modi: c’è chi si alza in piedi e canta a squarciagola e c’è chi resta impassibile, visibilmente ammaliato dal virtuosismo chitarristico di Slash o forse semplicemente in attesa dei singoli più famosi. Chissà. Il pubblico è eterogeneo: dall’adulto malinconico dell’epoca d’oro dell’hard rock al giovane che quando la band californiana cavalcava l’onda del successo non era neppure nato.

Axl Rose non è più il bad boy con la bandana e i capelli lunghi degli anni Novanta, ma dimostra di non aver perso lo smalto di un tempo. Nonostante i problemi degli ultimi giorni, il frontman sfodera la sua voce stridente e le sue movenze sfacciate, corre da una parte all’altra e solo in brevi istanti decide di prendersi una pausa per prendere fiato nel backstage e cambiare outfit.

I Guns propongono una scaletta in cui la maggior parte dei brani risalgono al quadriennio d’oro 1987-1991. “Mr Brownstone”, “Welcome to the Jungle”, “You Could Be Mine” sono solo alcuni dei pezzi in scaletta. Spazio anche per le cover: “I Wanna Be Your Dog” degli Stooges, che viene intonata da McKagan, in una convincente versione che dimostra le influenze punk del bassista e “Knockin’ On Heaven’s Door” di Bob Dylan, nella versione elettrica diventata un marchio di fabbrica del gruppo.

Uno dei momenti cardine del concerto è il momento riservato ad un lungo assolo di Slash, che, una volta rimasto solo sul palco, dimostra come il tempo per lui sembri essersi congelato. Lo starter pack del chitarrista è quello di sempre: cappello a cilindro, occhiali da sole scuri e folta chioma riccia, con l’aggiunta – per questa volta – di una semplice t-shirt dei Ramones. La tecnica, l’espressività e la velocità si fondono mentre suona, facendo sembrare (apparentemente) semplice ogni singolo suono prodotto dalla sua Gibson Les Paul. Il chitarrista si prende la scena e gli applausi, ma, non pienamente soddisfatto di quanto mostrato, alza ulteriormente l’asticella delle emozioni attaccando con l’intro leggendaria di “Sweet Child O’ Mine”.

Nelle tre ore abbondanti di concerto non può inoltre mancare il momento delle ballate in acustico: si susseguono “Patience” – introdotta da una versione strumentale di “Blackbird” dei Beatles – e “Don’t Cry”. Le ultime energie vengono riservate per “Paradise City”, che chiude la serata facendo scatenare i fan a colpi di headbanging.

A concerto finito, sulla strada della normalità, gli spettatori abbandonano San Siro con il passo lento di chi ha goduto di un concerto atteso da tempo: da prima della pandemia e, forse, da tutta la vita.

A cura di Martina Caratozzolo

(credits immagine in evidenza: © Dan Peled)

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