Pimpinone di Telemann esordisce a Torino

Il Teatro Regio ha messo in scena, nel cortile dell’Arsenale, un’opera mai vista a Torino: Pimpinone, o le nozze infelici di Georg Philipp Telemann. (Inutile ribadirlo, ma sempre siano rese grazie al Teatro Regio, che continua a proporre spettacoli nella procella del Covid e vi inserisce pure titoli raffinati come questo). Approfittando della rarità e facendo di ignoranza virtù, siamo andati all’opera con un atteggiamento che poche volte si ha l’occasione di mettere in pratica: sedersi senza sapere assolutamente nulla di ciò che si sta per vedere e ascoltare. Atteggiamento forse sbagliato per chi poi deve impersonarsi recensore, ma forse salutare per quanto riguarda il semplice rapporto spettacolo-spettatore. Uniche informazioni raccolte: è un’opera buffa, è andata in scena ad Amburgo nel 1725. Basta. Il resto lo si studierà tornati a casa.

Ci si accomoda e, poiché non c’è sipario, si vede già la scena: un fondale prospettico che raffigura i palchi lignei di un teatro all’italiana. Sulla destra, una specie di teatrino ambulante chiuso da due siparietti rossi. Davanti ad esso un cartello brechtiano con scritto ‘Theatter’ (la t in eccesso è crocettata). Del bric-à-brac assortito completa la scenografia. Origliando la conversazione di due vicini di posto si scopre che la scena è la stessa della Serva padrona da poco rappresentata, con cui Pimpinone forma un piccolo dittico buffo nel Regio Opera Festival. Entra in scena un attore (Pietro Pignatelli) nelle vesti di Prologo, mendicante monete e attenzioni dal pubblico: captatio benevolentiae? ciarlataneria? Beh, lo fa con accento napoletano, dunque ogni cosa gli è lecita. Dopodiché? Entra una fanciulla (Francesca Di Sauro) e comincia a cantare qualcosa, presumibilmente una cavatina, di cui non si capiscono tutte le parole – di sovratitoli neanche l’ombra – ma le due importanti sì: «son cameriera». («La parola scenica!» diceva il Verdi). Passa un po’ di tempo ed entra un vecchio signore in vestaglia viola (Marco Filippo Romano) che si riscalda guardando le forme della figliuola, la quale dal canto suo non si vergogna a metterle in mostra con inchini e riverenze. Vanno avanti così per un po’, con una recitazione retta sui poncif della giovine provocante e del vegliardo in fregola. Per farla breve, la storia è simile a quella di tante opere buffe, dalla Serva padrona a Don Pasquale a Die schweigsame Frau. Abbiamo cioè da un lato una giovane ragazza, bella, vispa, dall’altro lato un vecchio signore ricco i cui appetiti lo rendono poco intelligente: succede che il vecchio sposa la giovane ma finisce scornato e gabbato. Sicché una trama banale e bellissima (non c’è contraddizione), che lascia alla musica il compito d’illuminare tutto. Com’è la musica? La parte cantata ha meno melismi che nel contemporaneo Mr. Händel, e alla fine anche meno genialità melodica, ma è sostenuta da un contrappunto più denso tra i vari gruppi di strumenti, caratteristica che, sappiamo, Telemann abbandonerà progressivamente alla ricerca di quella semplicità che sarà poi cifra dello stile galante. Dall’orchestra d’archi del Regio, diretta da Giulio Laguzzi, emerge un bel suono legnoso e sferragliante, spesso con l’elemento ritmico a prevalere. Ma questo da sé non vuol dire nulla se non lo si lega alle parole e alla situazione scenica. Ed è qui, quando prova a concentrarsi sulla teatralità, che lo spettatore ignorante si smarrisce. Forse la chiave è fingere di essere ad Amburgo nel 1725? Ma no, impossibile. Primo perché è una mediazione intellettuale, dunque contraria alla natura del teatro, che è immediata e auto-esplicantesi; secondo perché, per quanti sforzi si facciano, non si possono guardare scene simili immedesimandosi in uno spettatore di trecent’anni fa: troppo diversi sono i codici della bellezza, della volgarità o della ripetitività, troppo è cambiata la storia del teatro per tornare alle neiges d’antan senza un velo di malinconica ironia. E mentre quelli lassù si sperticano in gesti e gestacci per alludere prima alla seduzione e poi al ricatto sessuale, quaggiù si riflette su cosa sia successo perché si sia diventati così cinici e smaliziati. Forse la soluzione è provare a guardare l’opera tornando bambini? La risposta la dà una bambina seduta qualche fila più avanti: gioca senza seguire nulla. La sua attenzione si ridesta solo quando Pimpinone canta – superbamente –  l’incredibile aria «So quel che si dice» colorata di falsetto, indubbiamente la punta comica di tutto lo spettacolo, e infatti la bambina ride. Poi, dopo pochi minuti, l’opera finisce (in tutto è durata un’ora) fra educati applausi.

Tornati a casa, ci si informa su cosa si è visto e si scopre qualcosa che già si sospettava: che Pimpinone è in realtà un intermezzo giocoso, precisamente andato in scena, dice Wikipedia, per una ripresa del Tamerlano di Händel, opera seria in tre atti. Nella sua accezione teatrale, l’intermezzo, come ognun sa, è una breve opera buffa collocata tra un atto e l’altro di un’opera seria per alleggerire gli umori del pubblico. Si aggiunga che, sebbene rappresentato in una sola tirata, dall’inizio alla fine, in realtà anche Pimpinone sarebbe diviso in tre minuscoli atti, di circa venti minuti ciascuno, presumibilmente collocati tra il primo e il secondo atto, tra il secondo e il terzo e alla fine dell’opera seria händeliana. E qui cominciano a schiarircisi le idee.

Pimpinone, messo in scena come l’abbiamo visto, non è adatto allo spettacolo d’opera così come lo conosciamo. Per ‘così come lo conosciamo’ intendiamo con un pubblico attento e composto che al buio di una sala (o di una notte d’estate) assiste in silenzio alla rappresentazione. Vale quel che Savinio diceva a proposito dell’Elisir d’amore: «Al buio, l’esile musica di questa operetta diventa più esile ancora, la sua superficialità, le sue marcette da banda militare, le sue arie aggiunte che strappano l’applauso si troverebbero meglio in una sala illuminata a festa, sotto un lampadario sfavillante, fra dame e gentiluomini che nei palchetti si scambiano pettegolezzi dietro il ventaglio». Voilà. Non è colpa del compositore, né dei cantanti-attori, né del direttore, né del teatro, né del pubblico: è colpa dell’epoca in cui viviamo se Pimpinone, l’esile intermezzo buffo, nato per intrattenere Damen und Herren nell’atto della sorbitura del cioccolatte, si sente estraneo e intimorito di fronte a decine di occhi puntati addosso, taluni appartenenti a una cricca navigata e up-to-date ed espertissima d’opera. Insomma aveva ragione la bambina: giocare per i fatti propri e seguire quel che avviene sul palco quando la musica ‘acchiappa’ è il modo migliore di godersi Pimpinone, o almeno quello filologicamente più corretto.

Ciò significa che non ha più senso rappresentare Pimpinone oggi? Ma no, la soluzione c’è, è stata inventata più di cento anni addietro: si chiama regìa. Fino alla fine dell’Ottocento il metteur en scène era quello che diceva: tu entra da lì, tu esci di là, tu cambia la luce qui. Poi qualcuno ha avuto l’idea di filtrare l’opera originale attraverso un pensiero, per i più vari fini: riscoprire le intenzioni dell’autore? raccontare il presente? raccontare se stessi? épater le bourgeois? Vale tutto, naturalmente. Di questa cosa chiamata regìa non abbiamo scorto traccia nel nostro Pimpinone, per quanto abile sia sicuramente stato il lavoro del metteur en scène. E il fondale meta-teatrale? Il siparietto ambulante? Il cartello brechtiano? Tutti elementi decorativi – se si vuole, evocativi – ma, tocca dirlo, nulla di più. Tutto si reggeva sui birignao recitativi, sulla musica (ma grazie tante: è Telemann) e sulla simpatia del mendicante partenopeo (che, per inciso, tra un atticello e l’altro si è anche profuso in due arie da The Beggar’s Opera di Gay-Pepusch – cantate col microfono, dunque due canzoni pop – che contestualizzano un po’ il cartello brechtiano). È un peccato che una regìa, intesa in senso moderno, non ci fosse: le rarità del teatro musicale barocco sono un parco giochi per molti registi che, senza il fantasma della Tradizione da proseguire o smantellare con giubilo o dispitto di quello a cui piacciono le regìe tradizionali o di quello a cui aggradano le regìe innovative, possono esprimersi più liberamente che nei titoli cosiddetti ‘di repertorio’.

La morale in tutto questo? La conferma di due antiche convinzioni: quanto indispensabile sia il regista oggi e, estendendo, quanto difficile sia l’arte della commedia in questo faticoso presente.

Pimpinone, o le nozze infelici (foto di copertina di Diego Dìaz Morales © Teatro Regio Torino)

Pimpinone, o le nozze infelici

  • Musica: Georg Philipp Telemann; Ouverture e due arie tratte da The Beggar’s Opera, musica di Johann Christoph Pepusch
  • Libretto: Pietro Pariati; inserti di John Gay e Johann Philipp Praetorius; Prologo e traduzione ritmica italiana di Mariano Bauduin
  • Interpreti: Francesca Di Sauro (Vespetta), Marco Filippo Romano (Pimpinone), Pietro Pignatelli (Mendicante)
  • Maestro al cembalo: Carlo Caputo
  • Direttore d’orchestra: Giulio Laguzzi
  • Regia: Mariano Bauduin
  • Scene a cura di: Claudia Boasso
  • Costumi: Laura Viglione
  • Luci: Andrea Anfossi
  • Direttore dell’allestimento: Claudia Boasso
  • Orchestra Teatro Regio Torino

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