Woody Allen alla Scala

Tra le molte iniziative del Teatro alla Scala c’è Progetto Accademia, ossia l’inserimento in cartellone di produzioni operistiche realizzate quasi interamente dagli allievi dell’Accademia Teatro alla Scala, a contatto per le prime volte con una esperienza formativa sul campo. Quasi interamente perché i giovani sono coadiuvati da professionisti e nomi celebri nel campo dell’opera e non solo, come, quest’anno, Woody Allen.

Sua è infatti la regia di Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, una produzione che ha debuttato a Los Angeles nel 2008 con un buon successo. Trattandosi di un breve atto unico, l’opera è abbinata, come spesso avviene, a un altro breve atto unico, in questo caso Prima la musica e poi le parole di Antonio Salieri, composta nel 1786 in occasione di una competizione teatrale contro il giovane Wolfgang Amadeus Mozart. Si tratta di una ‘metaopera’, genere teatrale piuttosto in voga nel Settecento, cioè di un’opera sul mondo dell’opera, che ne prende in giro cantanti, primedonne, compositori, librettisti e stereotipi vari; se ne ricorderà, in piena Seconda guerra mondiale, Richard Strauss con Capriccio. Tralasciando, a motivo di scarsa conoscenza dell’opera da parte di chi scrive, giudizi sulla qualità della direzione di Ádám Fischer, va tuttavia registrato il poco calore con cui è stata accolta la regia di Grischa Asagaroff, consistente in tanti strumenti musicali ingigantiti, messi qua e là sulla scena a mo’ di porta, tavolo e mobilia, e inondati di luci iper-sature quando cominciava un nuovo brano musicale, una specie di mix tra Evaristo Baschenis e David LaChapelle. Ottimi e applauditissimi invece i cantanti, tutti e quattro dotati di senso della parola, musicalità degli accenti e dizione controllata unita a un canto naturale e limpido.

Prima la musica e poi le parole

Ma il pezzo forte era Gianni Schicchi-Woody Allen. È nota la passione di Woody per la musica classica, protagonista di massime ormai divenute patrimonio culturale dell’umanità: il secondo movimento della sinfonia Jupiter di Mozart è una delle cose per cui vale la pena vivere (Manhattan); non posso ascoltare troppo Wagner, già sento l’impulso di occupare la Polonia (Manhattan Murder Mystery); ad ascoltare gli ultimi quartetti di Beethoven si diventa più intelligenti (Magic in the Moonlight). Oppure direttamente inserita in colonna sonora, con esiti ogni volta stupefacenti: da Mendelssohn a Mahler, da Schubert a Čajkovskij, ma forse la vetta più alta è la lunga sequenza dell’omicidio di Match Point commentata da un duetto dell’Otello di Verdi che si chiude sulle parole «Sangue! Sangue!! Sangue!!!». Insomma, non è un estraneo, e sebbene durante la conferenza stampa di presentazione abbia detto che questa, con molta probabilità, resterà l’unica sua regia d’opera, ha aggiunto che è stata una cosa che si è divertito molto a fare, raccogliendo una proposta lanciatagli, a suo tempo, nientemeno che da Plácido Domingo. Sarebbe un peccato non riportare, prima di parlare dell’allestimento, almeno due sue dichiarazioni regalate al mondo durante quella conferenza: «Amo andare all’opera, al Lincoln Center mi riservano sempre un’ottima poltrona, ma siccome il giorno dopo devo alzarmi presto per lavorare, sono spesso costretto a tornarmene a casa prima del terzo atto. Spero che un giorno facciano una serata con tutti i terzi atti che mi sono perso» e «Quando mi sono messo al lavoro su Gianni Schicchi, la prima idea che ho proposto a Santo [Loquasto, scenografo dell’allestimento e di molti film di Allen, ndr] è stata di vestire tutti quanti da topi e fare di Schicchi un grosso ratto. Mi ha detto che forse non era una buona idea. La mia seconda idea era di trasformare tutti quanti in cibi biologici e Gianni Schicchi in una sigaretta. Anche questa gli sembrava ridicola. Infine ho pensato di prendere ispirazione dal cinema neorealista, quello di De Sica e del primo Fellini. E finalmente ci siamo trovati d’accordo».

Si può già avere un’idea di quanto il suo Gianni Schicchi, trasposto nel dopoguerra dall’originale ambientazione nella Firenze di Dante, sia uno spettacolo colto e solido, messo in piedi da un grande saggio che, con l’arguzia e la leggerezza di chi ha vissuto e capito il mondo, evita di rischiare ridicolaggini in un ambiente a cui in fondo non appartiene, senza impelagarsi in regie wannabe sconvolgenti, epocali, rivoluzionarie e chi più ne ha più ne metta, ma preferendo stare nel suo e chiedere aiuto ai grandi nomi di una tradizione cinematografica italiana di cui è profondo e appassionato conoscitore. All’apertura del sipario sulle note saltellanti e assertive di Puccini, la sensazione di chi guarda è quella di aver trovato per miracolo un dvd con il seguito di Paisà che Rossellini non ha mai girato, ambientato a guerra appena finita. Anche qui c’è l’episodio “Firenze”. Tra le macerie di una terrazza è stato sistemato alla buona un letto per farci morire il vecchio Buoso Donati. I parenti, vecchi, giovani e bambini, scorrazzano qua e là sperando che nel testamento gli venga lasciato quel tanto che basta per permettere loro di ricominciare. Si scopre però che Buoso ha lasciato tutto ai frati. Si escogita così una italianissima mascherata per raggirare uno Stato non ancora riformatosi, pieno di vecchie leggi che in quella congiuntura storica nessuno stava a guardare per il sottile, tante erano le cose più importanti a cui pensare. Sotto le fila di panni stesi al sole, tra le cadenti scenografie in bianco e nero, sullo sfondo di un panorama di Firenze virato seppia, Woody fa brulicare un’umanità che per sopravvivere ha trasformato il suo senso del tragico in humour nero, diventando forse cinica, ma più accorta. Il tocco di cinema – questo davvero tutto alleniano – emerge soprattutto in una vivacità di gesti e movimenti che si susseguono col ritmo giusto, in tanti piccoli dettagli, spesso esilaranti, che colorano la vicenda nei pochi attimi della loro durata; tutte cose che nascono, muoiono e hanno senso in quel preciso istante in cui avvengono, succedendosi e sovrapponendosi come i temi della partitura di Puccini, una delle più trascinanti della storia dell’Opera… Insomma, bilancio: ottimi i cantanti, eccellente Ambrogio Maestri nei panni di Schicchi, non troppo male la direzione (mancava forse un po’ di incisività e di colore), ma il tributo e l’applauso più grande vanno a lui, Woody Allen, genio e conoscitore della vita, una grande farsa teatrale su uno sfondo di macerie.

O mio Babbino caro (da Gianni Schicchi)

Prima la musica e poi le parole

  • Musica: Antonio Salieri
  • Libretto: Giovan Battista Casti
  • Direttore d’orchestra: Ádám Fischer
  • Regia: Grischa Asagaroff
  • Scene e costumi: Luigi Perego
  • Luci: Marco Filibeck
  • Interpreti: Ambrogio Maestri (Un Maestro di cappella); Maharram Huseynov (Un Poeta); Anna-Doris Capitelli (Donna Eleonora); Francesca Pia Vitale (Tonina)
  • Solisti e Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala

Gianni Schicchi

  • Musica: Giacomo Puccini
  • Libretto: Giovacchino Forzano
  • Direttore d’orchestra: Ádám Fischer
  • Regia: Woody Allen (ripresa da Kathleen Smith Belcher)
  • Scene e costumi: Santo Loquasto
  • Luci: York Kennedy (riprese da Marco Filibeck)
  • Interpreti: Ambrogio Maestri (Gianni Schicchi); Francesca Manzo (Lauretta); Daria Cherniy (Zita); Chuan Wang (Rinuccio); Hun Kim (Gherardo); Marika Spadafino (Nella); Gianluigi Sartori (Gherardino); Lasha Sesitashvili (Betto di Signa); Eugenio di Lieto (Simone); Giorgi Lomiseli (Marco); Caterina Piva (La Ciesca); Ramiro Maturana (Maestro Spinelloccio); Jorge Martínez (Ser Amantio di Nicolao); Hwan Han (Pinellino); Maharram Huseynov (Guccio); Fabio Vannozzi (Buoso Donati)
  • Solisti e Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala

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