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Blowin’ in the wind: jazz e pace al TJF

“Blowin’in the wind”, una delle canzoni più famose di Bob Dylan, è uscita nel 1962 diventando immediatamente un inno internazionale per la pace.
Furio Di Castri, figura di spicco del jazz italiano e direttore del Dipartimento Jazz del Conservatorio di Torino, in occasione del Torino Jazz Festival ha ideato un concerto con quel  titolo, concepito come un messaggio esplicito a favore della pace. Per questo progetto, Di Castri ha formato l’ensemble Furio Di Castri 8 riunendo sette musicisti di altissimo livello con cui ha collaborato nel corso della sua lunga carriera: Mauro Negri al clarinetto, Giovanni Falzone alla tromba, Federico Pierantoni al trombone, Nguyen Le alla chitarra, Andrea Dulbecco al vibrafono, Fabio Giachino alle tastiere e Mattia Barbieri alla batteria.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il concerto si è sviluppato come un vero e proprio viaggio musicale, il cui filo conduttore sono stati i conflitti che hanno segnato gli ultimi settant’anni, un arco temporale che coincide con l’età di Di Castri.

Il percorso sonoro è partito dal Vietnam, evocato da una ricca varietà di suoni e melodie eteree che ricorda le colonne sonore cinematografiche, per poi spostarsi in Irlanda con i ritmi allegri di una giga. Il viaggio è proseguito in Sud America, in Argentina e in Cile, dove la musica assume un carattere passionale. La band, verso il finale di questo brano, è riuscito anche a coinvolgere un pubblico inizialmente incerto in un canto di una semplice melodia.

Da lì siamo passati alla Bosnia, con i suoi ritmi incalzanti tipici dei Balcani, per poi arrivare in Palestina, dove emerge chiaramente l’influenza del sistema modale arabo. Di Castri ha specificato che ha conosciuto quest’ultimo brano durante un workshop a Gaza anni prima.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Le composizioni finali si sono distaccate leggermente da questa linea, portando l’ascoltatore in Europa con un Requiem dedicato al tribunale dell’Aia e infine in Cina.

Il concerto è stato un’esperienza sonora estremamente interessante e ben riuscita. I musicisti hanno dato il meglio di sé, eseguendo soli virtuosistici di grande varietà e mostrando una notevole capacità di adattamento alle diverse tradizioni musicali attraversate. Hanno evidenziato la versatilità degli strumenti che, pur essendo strutturati per seguire le “regole” europee, riservano sorprese sonore inaspettate grazie alla bravura degli strumentisti. La tromba tramite diverse sordine ha prodotto suoni gracchianti e strozzati, il vibrafono suonato con archetti in sostituzione delle bacchette ha creato suoni stridenti e risonanti.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

La batteria ha dato sfogo a tantissime possibilità sonore, è stata suonata con bacchette morbide per simulare il suono dei timpani, o usata per produrre rumori naturali come l’effetto dell’acqua che scorre, grazie all’utilizzo delle spazzole.

Il contrabbasso, base ritmica onnipresente, ha tenuto il concerto ancorato al jazz, elemento fondamentale del festival torinese.

Il finale è arrivato a sorpresa: le melodie precedenti sono state rielaborate nel ritornello di “Blowin’ in the Wind”, creando un effetto conclusivo di grande impatto e profondità, richiamando così una riflessione sulle guerre e i conflitti umani.

Foto dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il pubblico non si è risparmiato negli applausi, che hanno portato  l’ensemble a dedicarci un fuoriprogramma. Prima di andar via, la band ha fatto cantare al pubblico la melodia sudamericana eseguita in precedenza creando un momento di condivisione e gioia che ha fatto uscire tutti dal teatro con un sorriso sul volto. 

Marta Miron