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Freak Film Festival 2ª Edizione: l’energia dell’hyperpop e delle nuove generazioni

Immagina di sfidare tutte le regole esistenti e di dare voce attraverso l’arte (cinema soprattutto) al disagio delle giovani generazioni, sensibilizzando sulla posizione di marginalità che ricoprono nella società. Tutto questo è possibile perché anche quest’anno il Freak Film Festival torna con la stessa irriverenza e vitalità che hanno segnato la prima edizione, nel 2024.

La prima conferenza stampa ufficiale del 29 ottobre, al Polo Culturale Lombroso, svela il programma del 2025: dal 14 al 16 novembre, il festival si conferma come uno degli appuntamenti più audaci della scena indipendente torinese, capace di mescolare cinema, musica e linguaggi digitali in un’unica piattaforma di sperimentazione giovanile. Il progetto ha formato una young board di under 30, affidando loro l’ideazione e la produzione dell’intero evento.

A inaugurare la conferenza è Carlotta Salerno, assessora alle politiche educative giovanili, che ribadisce l’importanza di lasciare spazio decisionale ai ragazzi: non più destinatari, ma veri e propri protagonisti dei processi culturali. «L’amministrazione si mette di fianco», dice, «offrendo supporto logistico e istituzionale, ma lasciando che contenuti e direzione restino nelle loro mani».

Un approccio condiviso anche dalle realtà di San Salvario, come ha sottolineato Alessandro Amato che spiega la scelta di investire sul ‘fare rete’ piuttosto che su strutture materiali: un tessuto collaborativo tra Lombroso 16, Casa del Quartiere, Cine Teatro Baretti. «Noi come Baretti ci nutriamo dell’energia e dell’entusiasmo di questi ragazzi, servono tantissimo a una sala come la nostra», afferma Cristina Voghera, direttrice artistica del Cine Teatro Baretti.

Il programma del festival incarna questa visione a partire dalla scelta stessa del nome. È il direttore artistico Antonio Perri a spiegare la linea curatoriale, definendo freak un termine ombrello scelto per descrivere tutte quelle personalità e persone solitamente marginalizzate dalla società. «Ci siamo appropriati in modo provocatorio del termine», spiega Perri, «perché vogliamo raccontare il disagio giovanile e il contrasto generazionale per rivendicare i nostri spazi, ma vogliamo farlo attraverso la rappresentazione artistica».

L’edizione 2025 ruota attorno al tema dell’hyperpop, estetica sonora e visiva nata dalla cultura internet, capace di fondere glitch, elettronica e digitale in un universo visivo esuberante.

Perri introduce la prima giornata di venerdì 14 novembre. Il film d’apertura, The People’s Joker di Vera Drew è un manifesto: la scelta è centrale per il festival poiché, come è stato sottolineato, la sua estetica dichiaratamente hyperpop e la sua portata volutamente caricaturale incarnano perfettamente il tema di quest’anno. La giornata si conclude con il DJ set di Kenobit, esponente della scena 8-bit.

Sabato 15 novembre promette un’immersione totale nel tema centrale di questa edizione, “ENTER THE GLITCH“.
La giornata è caratterizzata da un corpus di generi musicali che vanno dal glitch core ai suoni elettronici, con un focus particolare sull’hyperpop, nato come corrente musicale e rinato con figure come Charli XCX e il suo album Brat. Il genere sarà celebrato anche nel contesto italiano: ospite del festival, infatti, è Sillyelly, definita la “regina dell’hyperpop italiano”.

La giornata finisce con il Bodies party di Hi-Jinks: un evento che amplia l’offerta del festival e sottolinea come il corpo possa diventare mezzo espressivo della tensione tra individuo e società.

Si chiude il festival, domenica 16 novembre, con il concorso di cortometraggi: una selezione di quindici cortometraggi curata da Enrico Nicolosi, incentrata sul tema dell’ibridazione tra animazione, fiction e sperimentazione visiva. Il tutto culmina con la proiezione cult di Battle Royale di Kinji Fukasaku, simbolo estremo di ribellione generazionale e riconosciuto come il survival movie precursore di fenomeni globali come Hunger Games e Squid Game.

Dall’inizio alla fine della conferenza, emerge la fiducia nei progetti ideati dai giovani: possono creare un lavoro di squadra pieno di energia che porta ad un’esperienza freak, con identità diverse moltiplicate e mescolate che vengono proiettate su uno schermo.

Sarà un festival intenso non solo dal punto di vista visivo, ma anche sonoro. Una vera rivoluzione, proprio come suggerisce il nome.

Melika Nemati

 Musidams consiglia: i 10 migliori singoli di ottobre

Ottobre sembra non voler finire, probabilmente in accordo con le case discografiche. Singoli promettenti e irresistibili, le nuove uscite sono state davvero tante. Scegliere la top 10 non è stato facile ma eccola qui, pronta a farvi scoprire i brani che hanno fatto vibrare il mese.

“Io sono il viaggio”- Caparezza

Non sentivamo parlare di Caparezza dal suo ultimo album Exuvia (2021). Ecco ora il grande ritorno del rapper di Molfetta: un singolo per annunciare il nuovo lavoro Orbit orbit, uscito il 31 ottobre. Si tratta di concept album sullo spazio che è anche un fumetto ed è presentato in questi giorni al Lucca Comics. Lo stesso Caparezza consiglia di alternare la lettura dei capitoli con l’ascolto delle tracce. “Io sono il viaggio” racchiude molto bene questo spirito eclettico e multidisciplinare: Capa è pronto a partire per un viaggio tra atmosfere elettroniche, citazioni fumettistiche e riferimenti a personaggi letterari. Non ci resta che partire con lui.

“Pixelated Kisses” – Joji

Dopo tre anni di silenzio, Joji torna con “Pixelated Kiss”, un brano di due minuti che segna una svolta radicale nella sua estetica. L’artista giapponese-australiano abbandona le tipiche atmosfere malinconiche e raffinate per abbracciare un suono ruvido e distorto in cui l’imperfezione diventa linguaggio.
Il pezzo racconta l’amore nell’era digitale, tra schermi, distanze e connessioni instabili, trasformando la disconnessione in poesia.
Autoprodotto e pubblicato sotto la nuova etichetta Palace Creek, il singolo rappresenta un atto di emancipazione creativa: Joji torna a controllare pienamente la propria musica segnando l’inizio di una nuova fase, più libera e sperimentale.

“Pelle d’oca”- Rossana De Pace

Cantautrice classe ‘96 originaria di Mottola (TA), Rossana De Pace ha una penna politicamente impegnata, e tratta spesso di tematiche civili e ambientali. Fa parte del collettivo transfemminista Cantafinoadieci (con Anna Castiglia, Francamente, Irene Buselli e Cheriach Re). Non è quindi un caso che abbia partecipato al concorso Music for Change indetto da Musica contro le Mafie e abbia vinto proprio con questo brano: una denuncia commovente esplicita e potente contro il genocidio del popolo palestinese e l’indifferenza del mondo che «ha la pelle d’oca alle ossa perché la pelle non sente più niente». Brividi dall’inizio alla fine.

“The Manifesto” – Gorillaz feat. Trueno and Proof

“The Manifesto”, ovvero sette minuti che richiedono qualche ascolto per essere metabolizzati. La produzione è arricchita da strumenti indiani (sarod, bansuri, ottoni e un coro montano tipico di alcune regioni dell’India). Il brano suona globale ma resta profondamente Gorillaz, riuscendo a combinare sperimentazione e identità. Le voce di Trueno e il campionamento vocale postumo di Proof creano momenti intensi, a tratti cupi. 

Dopo “The Happy Dictator”, questo singolo anticipa The Mountain in uscita il prossimo 26 marzo. L’album è stato registrato e prodotto in India, e quello che abbiamo potuto ascoltare per ora mostra la “band” di Damon Albarn massimo: collaborazioni brillanti, sperimentazione e identità chiara, in un viaggio musicale e geografico-culturale intenso.

“Io e io”- Angelina Mango feat. Madame

Un altro grande ritorno è quello di Angelina Mango con l’album Caramé, uscito il 16 ottobre.

Angelina porta in musica la sua quotidianità e descrive con energia e verità il periodo di vita passato lontano dai palchi e dagli schermi. Un album maturo e cangiante, capace di raccontare le tante sfaccettature e i cambiamenti dell’animo umano. “Io e io” è forse uno dei frammenti più luminosi di questo prisma, un dialogo con sé stessa, due metà, due mood musicali differenti: un inizio acustico stile ballad in cui i due inconfondibili timbri di Angelina e Madame si fondono, contrastano e si riappacificano. Pian piano il brano si gonfia, si alza il pathos, e l’atmosfera si fa più elettronica per esplodere e poi tornare ad una dimensione intima che chiude il cerchio.

“Oblivious” – Jake Bugg

Nuovo splendente singolo di Jake Bugg, che anticipa la versione deluxe del suo ultimo album, A Modern Day Distraction. Originario di Nottingham, cresciuto con in cuffia Oasis, Beatles e Bob Dylan reinterpreta con freschezza le sue radici brit pop, indie e folk.

Il brano è limpido e luminoso, in perfetto equilibrio con la sua energia cruda. Questo gioco di luce e ombra si riflette nel testo: nostalgia con uno slancio di vita nel presente e futuro. Il ritornello è accattivante e canticchiabile. Jake Bugg ci dimostra che le sonorità di ieri continuano a vivere e trasformarsi nelle nuove generazioni. 

“Guarda le luci”- Dutch Nazari

Altro singolo che anticipa un album: Guarda le luci amore mio, uscito il 3 ottobre. Dutch Nazari, baluardo dell’indie pop, qui conferma la grande capacità di descrivere il piccolo e il privato di ciascuno come specchio del mondo globale, frenetico e in guerra, in cui viviamo. I social, lo smog al semaforo rosso, le pubblicità. Tutto ciò accade mentre cadono bombe su Teheran. Al bar i discorsi si mischiano con l’attualità. Quel fischio, quel sibilo che precede la bomba noi abbiamo il privilegio di poterlo commentare, di poterci inorridire. «Guarda le luci amore mio» è la frase che racchiude al meglio questo contrasto: per noi sono le luci della città illuminata, per chi è sotto le bombe sono le luci dei missili e dei droni che quella città la distruggono. L’unica cosa in comune che si può fare, l’unico piano attuabile che ci unisce tutti e ci fa tornare umani «È stringerti e dirti che t’amo».

“Anna Karenina” – Cigarettes After Sex

Con “Anna Karenina”, i Cigarettes After Sex costruiscono un piccolo universo sonoro sospeso tra sogno e realtà. La chitarra riverberata si muove come un’eco lontana, mentre il basso caldo e la voce sussurrata guidano l’ascoltatore in un’atmosfera fragile e intima. Ogni nota sembra trattenere il respiro e le pause diventano parte del ritmo stesso, creando un senso di tensione quasi cinematografica. Il riferimento a Tolstoj non è narrativo, ma emotivo: il brano esplora il peso delle emozioni incontrollate e la sensazione di non avere via d’uscita, trattando  il sentimento di vulnerabilità. Con questo brano, la band conferma la capacità di mescolare minimalismo musicale e profondità emotiva, trasformando una canzone in un’esperienza sensoriale totale.

“Panda 2013”- Selton feat. Emma Nolde

Il gruppo italo-brasiliano con questo singolo ha annunciato il nuovo album Gringo vol. 2. Interessante la scelta di collaborare con Emma Nolde, cantautrice toscana classe 2000, che è sicuramente avvezza alla sperimentazione, ma alla bossa non era ancora approdata. Anche questo brano, come “Gasati un mondo”, è una critica ironica alla società. Qui però il tema è il conformismo, l’accontentarsi di una vita insoddisfacente. Ma allo stesso tempo il brano ci spinge a fare i conti con la disillusione, le aspettative troppo alte. Dobbiamo accontentarci o no della nostra Panda 2013? «C’è ancora tanto da fare ma la voglia non si fa più trovare» ci dice il cantante dei Selton. Alla fine in un modo come quello di oggi è davvero così illegittimo pensare che «Fuori c’è l’apocalisse, mi sento vivo, e finisce tutto qui»?

“Stay in Your Lane” – Courtney Barnett

Courtney Barnett ritorna con “Stay In Your Lane”: è un grido sincero e diretto, che riflette lo stress e la frustrazione di trattenere emozioni non espresse. Il ritornello, con la frase «This never would’ve happened if I stayed in my lane, stayed the same way», evidenzia come certe situazioni siano nate proprio dal superamento di limiti personali o convenzioni sociali. La canzone unisce tensione emotiva e schiettezza, restituendo l’intensità di un momento di auto‑riflessione senza filtri.
Il brano cattura fin dai primi secondi per la sua essenzialità: il riff di chitarra tagliente, immediatamente riconoscibile, si intreccia con basso e batteria che spingono il ritmo senza tregua. Si conferma il talento di Courtney Barnett nel creare musica autentica e viscerale.

Michele Bisio e Linda Signoretto

De Sono 2025/2026: non solo una stagione concertistica

L’Associazione De Sono è pronta per iniziare un nuovo anno ricco di iniziative. Venerdì 3 ottobre al Palazzo Costa Carrù della Trinità, è stata presentata la stagione 2025/2026, iniziata con le parole del direttore artistico Andrea Malvano: «Parleremo anche di una stagione di concerti, che però in realtà sono solo la punta dell’iceberg di tutta l’attività che dedichiamo ai giovani in tante maniere diverse, valorizzando il talento ma non solo». Infatti, l’Associazione, fondata nel 1988 da Francesca Gentile Camerana, è nata con quattro obiettivi fondamentali: sostenere i giovani musicisti; l’istituzione di masterclasses e la promozione di progetti volti principalmente all’educazione all’ascolto; la pubblicazione delle migliori tesi di laurea o di dottorato discusse in ambito musicologico; una stagione concertistica come vetrina per i musicisti emergenti.

Missione principale della De Sono è sicuramente il sostegno ai giovani musicisti, in particolare con l’attribuzione di borse di studio. Il presidente Benedetto Camerana ha sottolineato il fatto che i due terzi dei borsisti De Sono hanno affermato che senza la borsa di studio non sarebbero riusciti a continuare la propria carriera – un supporto prezioso, dunque, quello che l’Associazione offre. 

Da qualche anno ormai la De Sono organizza iniziative finalizzate a sviluppare competenze «complementari», come la gestione del digitale, in particolare deisocial media. Il progetto De Skills è di fatto finalizzato a migliorare le competenze digitali dei giovani musicisti, che si trovano ad avere in mano strumenti potentissimi, utili per l’autopromozione, spesso però senza essere propriamente in grado di gestirli. Il progetto offre quindi dei workshop specifici sull’apprendimento e sull’approfondimento del mondo della comunicazione. 
Come afferma il direttore didattico Carlo Bertola: «Ogni volta che ci si presenta in pubblico è come subire un esame continuativo, quindi è importante sviluppare strumenti per fronteggiare la tensione», dunque è fondamentale sostenere i musicisti anche sotto l’aspetto dell’emotività. A tal proposito è stato presentato il progetto C# -See Sharp, ideato da Gloria Campanera, per aiutare i giovani musicisti ad elaborare le emozioni. Il nome, non a caso, è un gioco di parole che allude al Do diesis, la nota musicale, e all’inglese “vedere nitido”, dunque vedere in modo più chiaro il complesso groviglio di emozioni che il musicista deve imparare a gestire.

«Siamo costantemente circondati da musica che non attiviamo intenzionalmente con la volontà di ascoltare. Serve creare un ascolto attivo». Così Andrea Malvano ha ricordato un altro fondamentale obiettivo della De Sono: l’educazione all’ascolto. Per questo filone continua la collaborazione con le scuole, attraverso lezioni-concerto dedicate a temi di rilevanza socio-culturale, e con l’Università degli Studi di Torino, grazie al progetto del Coro del D.A.M.S., iniziativa utile per creare competenze di ascolto oltre che di pratica musicale.

Interessante il progetto di digitalizzazione delle partiture manoscritte conservate all’archivio della 𝐒𝐨𝐜𝐢𝐞𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥 𝐖𝐡𝐢𝐬𝐭 𝐝𝐢 𝐓𝐨𝐫𝐢𝐧𝐨, sostenuto dal PNRR-Next Generation EU per la transizione digitale – è disponibile il link per la consultazione.

Altra importante missione dell’Associazione De Sono è il sostegno ai giovani musicologi, in particolare attraverso la pubblicazione di tesi di laurea, di dottorato o di argomento filologico. Quest’anno è stata selezionata la tesi dottorale di Matteo Quattrocchi intitolata Nerone di Arrigo Boito. I materiali dautore e la ricostruzione di Arturo Toscanini, che verrà presentata nel mese di dicembre al Conservatorio G. Verdi. 

Ed eccoci finalmente alla “punta dell’iceberg” dell’Associazione De Sono di cui si parlava all’inizio: la stagione concertistica. All’interno del cartellone il direttore artistico cerca di proseguire la missione per il sostegno ai giovani musicisti inserendo, per quanto possibile, borsisti ed ex borsisti.
L’attenzione è focalizzata sul dialogo con le arti e le varie discipline. Ad esempio, inaugurerà la stagione il concerto-spettacolo «Canzoni popolari e della Resistenza», già presentato nell’ambito della rassegna Note Libere, che unisce alcuni passi del Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio ai brani del repertorio della Canzone della Resistenza.

A ricordare l’impegno della De Sono nei confronti dei giovani musicisti è sicuramente Classical Swing, concerto costruito intorno a David Alecsandru Irimescu, borsista di quest’anno. Il repertorio è al confine tra musica colta, jazz e pop. 

Infine, si festeggeranno due compleanni molto importanti: i cinquant’anni dall’arrivo in Italia del metodo Suzuki e i cento dalla nascita di György Kurtág. 
«Sono dell’idea che la musica contemporanea debba essere suonata nei posti giusti»: queste le parole del direttore artistico per presentare il centenario di Kurtág. Il ciclo di concerti a lui dedicati, infatti, sarà eseguito al Museo di Arte Contemporanea di Rivoli, luogo in cui già quest’anno durante la quinta giornata di MiTo SettembreMusica musica e arte contemporanea hanno iniziato a dialogare.

Continua, inoltre, la collaborazione con la Fondazione Renzo Giubergia. Quest’anno sono state nuovamente numerose le domande da tutto il mondo. La commissione – composta da Andrea Lucchesini, Alessandro Moccia, Francesco Dillon, Carlo Bertola e Andrea Malvano – ha selezionato quattro finalisti che si confronteranno in una diretta online. Chi vincerà si esibirà il 24 novembre al Conservatorio G. Verdi durante la premiazione.

Al termine, con molto orgoglio, sono stati presentati i vincitori della borsa di studio di quest’anno: Matteo Fabi, violoncellista che gode del sostegno della De Sono per il secondo anno; Alessandro Vaccarino, pianista che andrà a studiare presso l’accademia di Basilea; David Alecsandru Irimescu, pianista esempio di resilienza; e Davide Trolton, che nasce come percussionista ma è già indirizzato verso la direzione d’orchestra, approdo insolito per la sua giovane età. 
Matteo Fabi, presente alla conferenza stampa, ha contribuito con un piccolo intervento: «Ci tenevo a ringraziare a nome di tutti i borsisti l’Associazione De Sono per il sostegno psicologico ed economico. Avere questa sicurezza di fondo fa sentire meglio e permette di concentrarci sulla crescita musicale. Detto ciò, non sono qui per parlare, ma per suonare». E così è stato: la conferenza si è conclusa sulle note della Suite per violoncello solo in 3 movimenti dello spagnolo Gaspar Cassadò

Anche quest’anno, insomma, l’Associazione De Sono si riconferma al passo coi tempi, rimanendo sempre fedele al focus sui giovani musicisti e cercando l’attenzione dei giovani ascoltatori.

Roberta Durazzi

Glocal Sound 2025: rivelazioni sonore all’Hiroshima Mon Amour

Quest’anno la collaborazione tra due importanti realtà torinesi, Glocal Sound e Reset Festival, ha portato una ventata di freschezza all’Hiroshima Mon Amour. Tra il 9 e l’11 ottobre il club ha ospitato una serie di progetti musicali davvero interessanti. Particolare merito va al Glocal Sound: è riuscito a riunire sul palco artisti innovativi provenienti da tutta Italia, che con le loro performance hanno piacevolmente stupito il pubblico in sala. L’ultima giornata ha ospitato cinque progetti molto diversi fra loro.

Ad aprire la serata, i Ra di Spina, dalla Campania, con un sound che fonde tradizione popolare e ricerca sonora contemporanea. Le voci di Laura Cuomo e Alexsandra Ida Mauro si intrecciano in armonie originali e suggestive, mentre chitarre ed elettronica costruiscono un tappeto sonoro di grande raffinatezza. La musica mescola antico e moderno in modo sorprendente, dando vita a un’esperienza d’ascolto immersiva e a tratti ipnotica.

La seconda a salire sul palco è Alice Caronna, cantautrice proveniente dal Lazio, che conquista il pubblico con un’esibizione essenziale ma profondamente intensa. Accompagnandosi unicamente con la chitarra, Caronna è interprete di un cantautorato intimo e autentico, capace di alternare momenti di dolcezza a una sorprendente forza espressiva.

Dombre, cantautore vicentino, si presenta invece in duo con un tastierista che gestisce anche drum machine e laptop. La chitarra e la voce si fondono con le seconde voci e i tappeti ambient, creando una commistione affascinante tra cantautorato e sperimentazione elettronica.

L’atmosfera cambia con il quarto progetto della serata: gli Amore Audio. Il duo elettronico piemontese propone basi ritmate e sperimentali, costruite su un mix di diversi generi musicali come techno e jungle, mantenendo però sempre un linguaggio fortemente pop.

A chiudere l’evento (prima del Reset, il festival con cui ha collaborato il Glocal) ci pensano i Morama, duo lombardo composto da voce/violoncello e tastiera. Il loro sound fonde con equilibrio electro-pop e cantautorato italiano. La performance è una vera altalena emotiva in cui le atmosfere da club si intrecciano con la malinconia dei dischi più intimi di Luigi Tenco e Fabrizio De André, dando vita a un finale intenso e sorprendentemente coerente. 

Alessandro Ciffo

Chromogen: la camera oscura del suono

Da Bologna sul palco dell’Hiroshima Mon Amour, i Chromogen, un trio strumentale con l’omonimo EP d’esordio, i cui titoli dei brani richiamano sostanze chimiche usate nello sviluppo fotografico analogico. Si esibiscono dopo i Tendha in occasione di Glocal Sound, la vetrina che illumina nuovi talenti all’interno del Reset Festival.

Il chromogen, in chimica fotografica, è il reagente che trasforma lentamente un’immagine da bianco e nero al colore. Ed è proprio questa trasformazione lenta, che guida l’ascolto della loro musica: si parte da strutture quasi monocromatiche, per arrivare a composizioni sonore stratificate, in cui ogni suono e timbro agisce, come un reagente, sul successivo.

Basso elettrico, sax tenore e batteria: una formazione essenziale, ma tutt’altro che minimalista.  Il live è segnato da un imprevisto non da poco: il batterista ufficiale è sostituito all’ultimo minuto per motivi di salute. L’alchimia del trio non ne risente. Anzi: il set è rimasto coeso e in sintonia. Una tensione chimica, potremmo dire, dove ogni elemento sonoro trova il suo equilibrio.

Il basso, trattato con effetti e pedali, copre più registri, muovendosi tra ruoli armonici, melodici e ritmici. Scolpisce lo spazio, crea ponti, guida e suggerisce traiettorie, lavorando come collante armonico e tessitore di atmosfere. La batteria, insieme al basso, gestisce la macchina ritmica. Lavora a incastro, sostiene i tempi spezzati, crea e interrompe il flusso. Il sax tenore è la voce solista. Non accompagna, narra. Il suo fraseggio è fluido, espressivo, spesso malinconico. Dialoga, interrompe, riparte.

Il progetto si muove tra jazz contemporaneo, funk e post-rock dalle tinte post-punk. Le influenze si sentono, ma non sovrastano mai l’identità del gruppo, che lavora su una ricerca timbrica costante, con un’attenzione particolare agli spazi, ai vuoti, alla dinamica.

Il set alterna momenti dal ritmo incalzante, con groove trascinanti, ad altri più sospesi, in cui la musica si fa psichedelica. In questi passaggi, il trio costruisce ambienti sonori che sembrano muoversi in uno spazio onirico, quasi fuori dal tempo.
Non è solo una questione di effetti: è un uso consapevole della dinamica e della densità timbrica. L’alchimia è centrale: la struttura è complessa, ma mai rigida e lascia spazio all’improvvisazione. Tutto resta in equilibrio, con una direzione chiara che tiene insieme gli elementi.

Singolo dell’LP, la cover di “In Bloom” dei Nirvana, portata anche sul palco. Non è un omaggio meccanico: viene reinterpretata secondo la lente fotografica del trio. Non è grunge per nostalgia, ma una rielaborazione che la dissolve, la sfuma, la reinventa. Tra i brani c’è anche “Bleach, un titolo che richiama sia il reagente chimico sia, forse, un altro omaggio silenzioso al grunge e ai Nirvana.

Il progetto dimostra come anche una formazione essenziale, di soli tre strumenti, può creare un mondo sonoro complesso, coerente e ricco di sfumature. Come nelle vecchie camere oscure, ciò che all’inizio sembra indefinito può trasformarsi, lentamente, in un’immagine piena di colore. 

Linda Signoretto

La partita sonora dei Tendha: Glocal Sound

Chiunque sia cresciuto con una console tra le mani ricorderà sicuramente almeno una delle colonne sonore 8-bit: quelle melodie digitali codificate che accompagnavano i videogiochi dell’epoca. Possiamo affermare che sono a pieno diritto parte della memoria collettiva sonora, molto più di certi tormentoni estivi e jingle.
Queste musiche venivano generate in tempo reale dal chip audio integrato nella console, imponendo limiti tecnici molto rigidi.
I compositori dovevano programmare matematicamente il suono, nota per nota, con una manciata di frequenze, ritmi e timbri sintetici (soprattutto beep e toni squadrati) e con arpeggi rapidi che assomigliano ad accordi. Eppure, nonostante i confini strettissimi, sono riusciti a creare melodie memorabili, riconoscibili e, soprattutto, piacevoli anche dopo ore attaccati allo schermo.

È proprio dentro i limiti rigidi dei chip sonori che la band, scelta per il primo appuntamento di Glocal Sound, si muove con consapevolezza e inventiva. Siamo nel vivo di una rassegna che, nella cornice del Reset Festival, presenta, sotto i riflettori dell’Hiroshima Mon Amour alcuni tra i più interessanti progetti emergenti della scena musicale italiana.
Sul monitor scorrono pixel e frammenti video tratti da storici videogiochi 8-bit, mentre sul palco suona il trio milanese Tendha (per appassionati e curiosi: il nome è un omaggio al rifugio del videogioco Final Fantasy).
L’atmosfera e la musica riescono a teletrasportarsi nel passato, recuperando il suono dell’infanzia digitale e di molte generazioni.

Il concerto prende vita attorno al loro album di debutto Soap doesn’t exist because it can’t be told. Ma non è solo un album, e nemmeno solo un’esibizione: è un concetto, un mondo sonoro che parte dal passato e guarda avanti, costruendo un insieme di suoni attraverso il layering di loop in evoluzione sovrapposti e manipolati in tempo reale.

La vera sorpresa è il clarinetto basso dotato di setup elettrico. Uno strumento classico che, grazie all’elaborazione elettronica, si reinventa e acquisisce nuove sfumature timbriche. 

Un duo di voci, maschile e femminile, svincolate da parole e testi convenzionali, esplorano fonemi, suoni articolati, sillabe isolate che ripetute, distorte e trasformate, assumono una consistenza sonora propria. Le linee vocali si rincorrono, si scontrano, si fondono, esplodono e mutano tonalità, dando vita a un intreccio dinamico e imprevedibile. Diventano strumenti, parte integrante della trama musicale, intrecciandosi con naturalezza in un dialogo continuo con le pulsazioni della batteria e il timbro del clarinetto basso. Tastiera, sintetizzatori ed effetti elettronici lavorano dietro le quinte per elaborare loop e layering.

Voci e clarinetto si muovono entro confini e registri ben precisi, ma si divertono a giocare con ritmi spezzati e sincopati, creando un senso di sorpresa e movimento continuo. Questi sbalzi ritmici richiamano cambi di scena tipici dei videogiochi, dando vita a una performance mai scontata.

Nonostante i limiti imposti dall’estetica sonora 8-bit riescono comunque a modulare il suono con grande espressività. Sfuggono, di tanto in tanto, alla meccanicità del loop, spezzando la rigidità robotica e restituendo all’ascolto un’improvvisa autentica presenza umana.

Dopo questo viaggio tra pixel e loop, Tendha dimostra come i limiti tecnici possano stimolare la creatività. La partita è stata salvata lasciando aperta la curiosità per i prossimi livelli del loro percorso artistico.

Linda Signoretto

MiTo Settembre Musica, quattordicesima giornata

Lotta. Giustizia. Libertà. Resistenza. Orgoglio. Identità. Protesta. Ribellione.
Parole come detonatori; eppure non bastano per evocare l’anima del pensiero e della musica di Julius Eastman. Sono urla, gesti, temi che bruciano, azioni che scuotono: Eastman non ha avuto paura di impugnarle e trasformare in suono, in verità. Parlarne è un atto di resistenza.

Mentre la città si paralizza per una partita della Juve, c’è chi cerca tutt’altro: non il grido per un gol, ma per una rivoluzione fatta di musica, parole, identità. Altrove si corre dietro ad un pallone, alle Officine Caos si corre incontro ad una verità urgente e necessaria, seppur scomoda.

Without Blood There Is No Cause” è lo spettacolo che MiTo Settembre Musica, il 16 settembre, ha dedicato a Eastman: figura radicale e visionaria che ha trasformato la sua arte in atto politico.
Inizia a studiare pianoforte a quattordici anni e prosegue al Curtis Institute of Music di Philadelphia. Lui, nero e gay, con una musica minimalista e sperimentale fatta di suoni che mutano e degenerano (‘musica organica’), si fa strada tra l’élite musicale dell’epoca, bianca e benestante.

Foto di Simone Benso per Colibrì Vision

Fabio Cherstich, regista dello spettacolo, apre la performance recitando con voce profonda un testo che ripercorre la vita di Eastman, svelando alcune scelte drammaturgiche e il significato dei brani. Ad accompagnare il racconto, immagini storiche scattate al compositore e il suono ripetitivo di una tastiera, suonata da Oscar Pizzo.

Il viaggio musicale procede sulle note di Pizzo addentrandosi in “Turtle Dreams”, brano composto da Meredith Monk. È il sogno «lento e fragile» di una tartaruga – Neutron – che si aggira in una Manhattan fantasma. Il gruppo vocale SeiOttavi, che ha interpretato e rielaborato liberamente il pezzo, è accompagnato da un filmato: la tartaruga passeggia in ambienti naturali e sopra mappe del mondo, fino ad arrivare in una città desolata, senza vita. Si ascolta, non serve capire.

Versi stridenti, gutturali, profondi, stranianti evocano un canto recitato più che una melodia tradizionale. Attorno ad una lampadina calata dal soffitto, i performers fissano la luce in uno stato ipnotico, muovendosi in modo meccanico, quasi rituale, occupando lo spazio con una presenza (fisica e sonora) inquieta e totalizzante. Le voci alternate e spezzate sembrano procedere ciascuna per conto proprio, ma in realtà costituiscono un unico organismo sonoro, dissonante e coerente allo stesso tempo; un urlo compatto di resistenza. Il risultato è un paesaggio acustico disturbante e magnetico, dove la voce diventa corpo e il corpo diventa suono.

L’ingresso nel mondo sonoro di Eastman avviene subito con “Evil Nigger”, «un flusso ossessivo e implacabile». Quattro pianoforti, un unico suono: singole note martellate all’infinito, abbellite da leggerissime variazioni. Un ritmo incalzante cattura e ipnotizza. Il tempo sembra dilatarsi, eppure corre. Lo scorrere dei secondi sui monitor posizionati sopra i pianoforti detta la precisione chirurgica dei suoni. La concentrazione dei pianisti si fa palpabile: una sincronia perfetta tra musica e parole è fondamentale.
Alcune scritte compaiono e scompaiono sullo schermo tinto di rosso: «noi siamo ovunque e vogliamo una rivoluzione», «lotta», «resistenza», «protesta», «ribellione», «orgoglio».

Foto di Simone Benso per Colibrì Vision

Parole che graffiano, che raccontano la rabbia, la forza e la rivendicazione di chi rifiuta l’invisibilità. Temi urgenti: razzismo, identità di genere, orientamento sessuale e violenza sistemica.

Tra le parole anche numeri. Dati freddi, taglienti come lame: il 30% delle 13.000 persone uccise dalla polizia sono afroamericani; durante la presidenza di Trump, i crimini a sfondo razziale sono aumentati del 17%; nelle contee in cui si sono tenuti i suoi comizi, l’aumento è stato del 226%; in Italia, solo nell’ultimo anno, ci sono stati 1106 crimini d’odio. Numeri che non possono essere taciuti.

Eastman non accetta compromessi: «Voglio essere al massimo. Nero al massimo, musicista al massimo, omosessuale al massimo». L’ossessività della musica si intreccia, così, con un’altra forma di insistenza: quella dell’identità che rifiuta di essere silenziata, quella dei diritti che rivendicano la loro presenza.

La rivendicazione della propria identità compare con forza in “Gay Guerrilla”; la musica non chiede permesso, afferma la ‘presenza’ con determinazione: io sono qui e non me ne vado. Sullo sfondo, immagini di manifestazioni LGBTQ+ con cartelli alzati al cielo. In primo piano, la foto di una lapide anonima («a gay Vietnam veteran») dice: «when I was in the military they gave me a medal for killing two men and discharge for loving one». Immagini potenti non lontane da quelle che vediamo e viviamo oggi: all’orgoglio e alla protesta pacifica si affiancano gli scontri con la polizia.

Foto di Simone Benso per Colibrì Vision

Echeggia in “Stay on it” la dialettica tra passato e presente. Non ci si arrende di fronte all’ingiustizia, si ‘sta sul pezzo’. Cherstich pensa «alla lotta per le libertà: al popolo palestinese, all’Ucraina, al Sudan… e a tutti i popoli che vivono l’orrore, alle persone che subiscono discriminazioni, aggressioni, alla violenza maschile sulle donne». “Stay on it” diventa un invito urgente e necessario: restare svegli, coraggiosi, uniti e trasformare la voce in coro, l’indignazione in musica condivisa.
Il balafon e lo djembé di Mustapha Dembélé, griot del Mali, si fondono in un unico respiro con l’Happy Chorus Gospel Choir di Sondrio, il gruppo vocale SeiOttavi e i quattro pianisti. Una danza collettiva prende vita, potente e magnetica, fino e sfociare in un lungo applauso.

Da quell’onda di emozione, si leva un ultimo grido dal pubblico: «Free, free Palestine!».
«Senza giustizia non avremo alcuna pace»: è questo l’urlo cantato dalla musica.

Ottavia Salvadori

L’esplosivo release delle Irossa con Stasi a sPAZIO211

A un mese dall’uscita dell’album, si è tenuto il 20 settembre il tanto atteso release party delle irossa a sPAZIO211 andato sold out.  L’album La mia stella aggressiva si nasconde nelle virgole e nei punti, con delicatezza e ritmi ipnotici, spazia tra la necessità di trovare un senso e il desiderio della scoperta di sé stessi. Ne parliamo in maniera più approfondita nell’intervista alle irossa

Ad aprire l’evento è il cantante Elia Arduino, in arte Stasi, con il suo producer Egor. La sua voce sussurrata e il suo stile pop-elettrico raffinato attira il pubblico come un canto ammaliante: con “Nubi sparse” e “Domani (Yakamoz)” Stasi fa scatenare gli spettatori tra momenti riflessivi e puri istanti di balli sfrenati. 

Foto di Sofia Grosso

Il cantante, tra un brano e un altro, fa un appello di ringraziamento a chi si sta impegnando per la causa palestinese, con riferimenti alla manifestazione torinese di quello stesso giorno, allo sciopero generale del 22 settembre 2025 e alla Global Sumud Flotilla. Termina con “TU TU TU!” con la partecipazione del cantante Iang Vic: l’atmosfera è calda ed è pronta per l’arrivo delle irossa ma non prima di una breve pausa.

L’aria vibra di attese: le irossa, salgono sul palco. L’esibizione comincia con “Fango”, prima canzone del nuovo disco che mette in hype tutti: il pubblico non vede l’ora di sentire nella sua interezza il tanto atteso album per la prima volta live. La platea, con i brani più movimentati come “Potomac” e “Non conosco” non riesce più a stare composta e si scatena.

Si passa poi a pezzi dell’album d’esordio Satura, con “Onde in aprile”, che ci porta in una dimensione spensierata e malinconica, per continuare con “Secchio d’acqua”, una dolce rincorsa ad un passato ormai irraggiungibile cantata da Margherita Ferracini, mentre la celebre “Dove è lei” viene intonata dal cantante Jacopo Sulis, seguito a squarciagola dal pubblico.

Foto di Sofia Grosso

Con “Falso nueve”, il bassista, Simone Ravigliono, ruba il posto del cantante, che si riposa facendo un giro sulla folla, gettandosi sul pubblico, che lo solleva e lo trasporta per la sala.

Richiesto dalle irossa, ritorna sul palco Stasi per accompagnarle nella cover de “L’estate sta finendo” dei Righeira, con cui nostalgicamente ripensiamo l’estate appena passata, ricordo amplificato dai 30 e passa gradi dell’interno del locale.

Foto di Sofia Grosso

Quando arriviamo a “Fiori, fiori”, uscito nel maggio di quest’anno, il pubblico è ormai carico: tra un pogo e un altro, più di 5 persone vengono sollevate e trasportate facendo surf sulla folla in un clima di euforia generale.  

Quando le irossa si dileguano verso il backstage, la serata sembra volgere al termine, ma è solo un atto preparatorio per preparare il gran finale. 

Il palco rimane vuoto finché non sale Sofia Rodi, fan sfegatata della band, che comincia a recitare una poesia: è il momento del brano “Storia di un corpo che cade”. Gradualmente ritornano sul palco i sei membri delle irossa per accompagnare la poesia.

L’ultima canzone della scaletta è “La mia stella aggressiva”, ovvero il brano posto come chiusura dell’album. Alla performance di una canzone così cara alla band si unisce il loro producer Claudio Lo Russo, cantante degli Atlante, che le accompagna alla chitarra. Il pubblico, seppure stanco e accaldato, non si dà per vinto e per l’ultima volta si accende trasformandosi in un pogo sfrenato.

Foto di Sofia Grosso

La serata si conclude con la rapida uscita del pubblico all’aria aperta e con l’esigenza vitale di abbeverarsi dopo una fremente esibizione che non solo ha soddisfatto le nostre aspettative, ma le ha addirittura superate. 

Che dire, non vediamo l’ora di scatenarci di nuovo con le irossa e Stasi!

Maria Scaletta

MiTo Settembre Musica, undicesima giornata

Entrare al Teatro Vittoria è sempre un gesto d’amore verso sé stessi: una coccola per il cuore e una carezza per l’udito. Nella sua sala intima e priva di barriere tra palco e platea, il suono riesce ad abbracciare lo spettatore con calore ed energia.
Il 13 settembre, nell’ambito di MiTo Settembre Musica, il teatro ha registrato il sold out – almeno sulla carta: qualche poltrona vuota è rimasta, ma questo non ha intaccato la magia della serata.

Protagonista dell’evento l’Eliot Quartett, approdato a Torino per concludere il viaggio musicale attraverso i quindici quartetti di Šostakovič: un percorso iniziato con tre appuntamenti a Milano e proseguito con tre giornate nella nostra città.

L’Eliot Quartett, fondato nel 2014, si è rapidamente affermato come una delle formazioni cameristiche più significative del panorama internazionale. Vanta numerosi riconoscimenti ed è spesso ospite di importanti sale da concerto in Europa. L’esecuzione integrale dei quartetti di Šostakovič è stata un traguardo e un sogno raggiunto nella stagione 2024-2025 con date in Germania, in Austria, in Canada e oggi anche in Italia.

Con la prima data torinese, sabato, il quartetto ha portato sul palco il Quartetto n° 4, il Quartetto n° 13 e il Quartetto n° 9, offrendo al pubblico un percorso musicale denso di contrasti. Troppo spesso entriamo in sala, leggiamo il programma (se ci spinge la curiosità) e usciamo senza mai sentire la voce dei musicisti. Il secondo violino Alexander Sachs, invece, ha scelto di rompere il silenzio e di introdurre i pezzi, sottolineando la profonda diversità che caratterizza i quartetti. Composti da Šostakovič in periodi differenti della sua vita, ciascuno riflette un contesto storico e personale differente. È difficile, infatti, separare le scelte musicali dalle tensioni politiche che lo circondavano.

Foto di Simone Queirolo per Colibrì Vision

A quarantatré anni Šostakovič compose il Quartetto n° 4 in un clima di forte repressione culturale, consapevole che la sua musica sarebbe rimasta inascoltata a causa della censura del regime sovietico. Il compositore sapeva che il nuovo pezzo – che conteneva citazioni dirette della musica popolare ebraica – non avrebbe potuto essere eseguito almeno fino alla morte di Stalin, ma decise di comporlo ugualmente come atto di resistenza ‘silenziosa’ e testimonianza artistica.

Ai quattro musicisti è bastato uno sguardo per dare avvio al primo movimento che, con il suo impasto sonoro che richiama una cornamusa, ha trasportato subito il pubblico in un paesaggio remoto. Era come se l’intreccio di violini e viola, sostenuti dal bordone del violoncello, stesse dichiarando l’intento del concerto: non una semplice esecuzione, ma un’immersione nell’anima di Šostakovič.
Un gusto orientaleggiante è affiorato lentamente, insinuandosi tra dissonanze che non hanno generato mai conflitti ma piuttosto tensioni emotive. I violini di Maryana Osipova e Alexander Sachs, pur essendo due voci distinte e contrapposte, hanno dialogato senza farsi la guerra, come due anime che si sfiorano senza mai scontrarsi. Il tono dolce e malinconico ha saputo mescolarsi alla perfezione con note profonde, gravi, a tratti dissonanti.
È però nel quarto movimento che il pezzo ha raggiunto il suo apice emotivo: una danza macabra, straziante, i cui motivi ebraici si sono intrecciati a ritmi agitati e vorticosi che hanno animato il suono, rendendolo denso e coeso.

La potenza sonora creata dal quartetto è riuscita a materializzare timbricamente un’intera orchestra: non più dunque quattro strumenti, ma un intero organico. La danza vorticosa improvvisamente ha lasciato il suo posto a pizzicati in pp che sembravano voler insinuare dubbi e domande nell’ascoltatore.

Foto di Simone Queirolo per Colibrì Vision

Mentre il silenzio si faceva sacro e l’arco di Dmitry Hahalin (alla viola) era pronto a dare vita al Quartetto n° 13, una notifica squillante (anzi, due notifiche consecutive) – inequivocabilmente Samsung – ha rovinato il rituale. Hahalin, pronto in posizione per iniziare, ha reagito con un gesto potente che ha mostrato il suo disappunto: ha abbassato la viola staccandola dalla spalla e dal mento, l’ha appoggiata sulle sue gambe, e poi ha atteso fermo, con lo sguardo abbassato, finché la sala non ha ritrovato silenzio e concentrazione. Un giorno, forse, assisteremo ad un concerto in cui nessun telefono squillerà, nessuna notifica ad alto volume interromperà il flusso armonico della musica, e nessun cellulare scivolerà dalle poltrone. Ma evidentemente quel giorno, il 13 settembre, non era ancora arrivato.

Le condizioni di salute di Šostakovič erano tutt’altro che stabili quando compose il tredicesimo quartetto, completato nel 1970 dopo diversi ricoveri. Ogni nota sembra, infatti, portare il peso di una vita vissuta sul filo, tra fragilità interiori e una traiettoria esistenziale troppo ‘rivoluzionaria’ rispetto al contesto storico. Attendere il silenzio non è stato solo un gesto di rispetto nei confronti dei musicisti stessi e della musica del compositore, ma un tributo alla vita di Šostakovič, per non dimenticare la sua storia e le difficoltà che ha incontrato lungo il percorso.

La malattia si sente sin dalle prime note che con leggerezza, ma tragicità, si addentrano con passo felpato in una storia drammatica che vuole, forse, evocare l’imminenza della morte. Il violoncello di Michael Preuß, con le sue note gravi, ha dialogato con quelle acutissime e taglienti dei violini, creando un paesaggio desolato ma vibrante. Sforzati-piano dei violini nel registro acuto, staccati fortissimi omoritmici, continue dissonanze, colpi secchi d’archetto sul legno degli strumenti – che, come frustate sonore, hanno risvegliato lo spettatore – e il nervosismo crescente hanno saputo rendere palpabile la sofferenza, il dolore e la malattia. L’atonalità ha dominato la scena, ma senza soffocare la melodia, che è rimasta centrale.

Nonostante la potenza e la capacità del quartetto di ipnotizzare il pubblico – soprattutto i più giovani, sempre troppo pochi nelle sale –, qualche testa brizzolata e qualche palpebra hanno ceduto alla forza di gravità. Per un pubblico poco avvezzo a suoni ‘rivoluzionari’ e alle tensioni imprevedibili che questi generano, anche solo ascoltare il Quartetto di Šostakovič può diventare una sfida contro sé stessi. Il magnetismo dell’Eliot Quartett ha però incantato tutti coloro che hanno avuto il coraggio di lasciarsi attraversare da questa rivoluzione sonora.

Il tormento di quest’ultimo pezzo ha lasciato poi spazio alla spensieratezza del Quartetto n° 9, che cita apertamente l’overture del Guillaume Tell di Rossini. Un galoppo senza fine verso la libertà, che sembra essere non solo musicale ma anche emotiva. Dopo aver attraversato l’oscurità, l’Eliot Quartett ci ha invitato a correre insieme, verso un futuro – forse – migliore.

Foto di Simone Queirolo per Colibrì Vision

Il quartetto ha saputo restituire la complessità di queste pagine con un equilibrio perfetto fra melodie dubbiose e malinconiche, poi nervose, e infine allegre e libertine. Il dialogo tra strumenti non è stato soltanto udito ma è stato anche visibile: le espressioni dei volti dei quattro musicisti hanno fatto trasparire una profonda immedesimazione, come se ogni nota fosse vissuta ancor prima di essere suonata. Occhi chiusi, sopracciglia tese e respiri profondi: tutti i loro gesti hanno parlato, trasformando il dialogo musicale in narrazione visiva.

L’Eliot Quartett ha dato voce a Šostakovič, trasformando ogni nota in testimonianza e ogni gesto in racconto.

Ottavia Salvadori

MiTo Settembre Musica, quinta giornata 

All’interno della sua programmazione, MiTo Settembre Musica ha creato dei percorsi tematici per agevolare il proprio pubblico. Il concerto di domenica 7 settembre al Museo di Arte Contemporanea del Castello di Rivoli è rientrato nel percorso «Ascoltare con gli occhi», dedicato alla multisensorialità e alle esperienze che vanno oltre al concerto classico. Questo titolo sembra un errore, una cosa quasi impossibile da realizzare, poiché ovviamente si ascolta con le orecchie e si osserva con gli occhi. Alberto Navarra, però, con il suono del suo flauto traverso, ha fatto capire agli spettatori quanto l’udito e la vista siano due sensi complementari e come la musica e l’arte contemporanea possano creare un dialogo tra loro e con il pubblico.

Foto di Alessio Riso per Colibrì Vision

Il flautista piemontese, nonostante la giovane età, può già vantare numerosi riconoscimenti, tra cui il titolo di «Alumno más sobresaliente», conferitogli dalla Regina di Spagna nel 2019 a Madrid, e il primo posto alla Carl Nielsen International Flute Competition del 2022. Da questo stesso anno si è unito ai Berliner Philharmoniker come membro della Karajan-Akademie, grazie alla quale si sta perfezionando sotto la supervisione di Emmanuel Pahud e Sébastian Jacot.

Il programma scelto ha cercato di seguire con coerenza le sale dell’esposizione permanente del Castello di Rivoli, come fosse una vera e propria visita guidata. Infatti, il concerto è iniziato dall’androne della galleria con Syrinx, brano per flauto solo composto nel 1913 da Claude Debussy. Un inizio inaspettato: il pubblico, abituato alla tradizionale sala da concerto, probabilmente non si immaginava di ascoltare la composizione in parte seduto, in parte in piedi sulle scale. 
Poi finalmente l’interazione vera e propria: aiutato anche dalla disposizione della sala dedicata a Piero Gilardi, il pubblico si è ritrovato circondato dalle installazioni ad ascoltare la Sonata appassionata op. 140 di Sigfrid Karg-Elert. Il brano solistico, in un unico movimento, è molto breve e indaga le potenzialità espressive e tecniche del flauto. Si alternano momenti in pp e in mf, dando sfogo a virtuosismi e momenti più intimi dell’interprete. 
Nella sala seguente, dedicata a Panels and Tower with Colours and Scribbles di Sol Lewitt, è continuata l’esplorazione delle potenzialità dello strumento. Qui il flautista ha eseguito Sequenza per flauto solo di Luciano Berio, composizione che spinge il flauto oltre i limiti convenzionali e tradizionali, trasformandolo, in alcuni momenti, da strumento a fiato in strumento a percussione.
Continuando il percorso ci si è ritrovati nella sala de Larchitettura dello specchio di Michelangelo Pistoletto, per il momento probabilmente più interessante del concerto. Alberto Navarra, infatti, ha eseguito Soliloquy op. 44 di Lowell Liebermann suonando davanti all’installazione, composta da quattro enormi specchi, dando, così, le spalle al proprio pubblico. Questo per rimanere coerente con il significato dell’opera di Pistoletto: il flautista è diventato esso stesso arte, creando quasi un quadro di sé stesso attraverso il riflesso dello specchio. Durante l’esecuzione ha cercato spesso l’attenzione del pubblico, osservandolo da un punto di vista particolare.
Proseguendo, musica e arte sono diventate un tutt’uno, grazie anche all’installazione HellYeahWeFuckDie di Hito Steyerl. Navarra, in questa sala, si è ritrovato circondato dalle persone e dalle note di Density 21.5 di Edgard Varèse. Infatti, le scritte tridimensionali che sono parte dell’installazione e occupano l’intera sala hanno fatto da sedute per gli spettatori, rendendo difficile per il musicista riservarsi uno spazio distante dal pubblico. Il titolo del brano allude alla densità fisica del platino, materiale di cui può essere fatto il flauto traverso, e alla consistenza del suono che esso può generare. Infatti, nonostante la sua brevità, Density 21.5 è ricco di cambi di registro ed esplora l’intera estensione dello strumento, alternando note molto acute a note molto gravi.
In ultimo, il momento più spiazzante: la Partita in la minore per flauto solo BWV 1013 di Johann Sebastian Bach eseguita sotto l’installazione Novecento di Maurizio Cattelan. Chissà se il compositore barocco avrebbe apprezzato questa esecuzione – considerando la sua indole sperimentatrice, è possibile –, ma di sicuro il pubblico è rimasto colpito e inaspettatamente affascinato. Non sono mancati lunghi applausi e commenti molto positivi da parte degli spettatori.

Foto di Alessio Riso per Colibrì Vision

Il pubblico si è ritrovato, insomma, catapultato in una modalità insolita, un concerto itinerante tra le sale di una galleria d’arte contemporanea, dove Alberto Navarra era al tempo stesso musicista e cicerone. I tempi erano quelli di una classica visita al museo, dove le opere venivano spiegate non più a parole ma attraverso la musica. Nonostante non fossero abituati a questa modalità, i partecipanti non si sono fermati davanti ad alcun pregiudizio, anzi erano incuriositi e molto attenti. Il rispetto per la musica e per l’arte hanno fatto da padrone, i visitatori si invitavano al silenzio a vicenda pur di ricreare ad ogni cambio di sala la giusta atmosfera. Forse avremmo bisogno di più «guide turistiche» di questo genere. 

L’esperimento creato grazie alla collaborazione dell’associazione De Sono e di MiTo Settembre Musica è stato sicuramente un successo. La speranza, uscendo da questo concerto, è che non rimanga solamente un momento di sperimentazione fine a sé stesso, ma che si continui a far entrare le arti sempre più in dialogo tra di loro, creando sempre più occasioni di incontro ed eliminando il più possibile le distanze.

Roberta Durazzi