Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.
Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.
Un sabato tutto torinese quello del 5 aprile 2025 al Magazzino sul Po, grazie ai Sacrofuoco (prima One Dying Wish) e l’atteso release party dell’ultimo album dei Low Standards, High Fives Everything Ends, il tutto organizzato dal collettivo Turin Moving Parts.
Le due band sono molto diverse: i Sacrofuoco, con una commistione di chitarre dissonanti e urla distorte e ossessive, fanno un hardcore incalzante che tiene il pubblico in subbuglio e non fa riposare.
Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)
La setlist contiene sia canzoni del loro ultimo album Anni Luce, il primo sotto l’identità Sacrofuoco, sia canzoni uscite sotto il nome di One Dying Wish. Queste ultime sono quelle più conosciute e che nel corso della serata causano diversi momenti in cui qualcuno “ruba” il microfono per urlare le parole del testo, in un completo coinvolgimento tra musicisti e pubblico.
I brani di Anni Luce ci portano invece in un mondo caotico e immersivo, soprattutto quelli dalla durata maggiore come “Replica” e “Corpi Celesti”.
I Low Standards, High Fives, nati ormai più di 10 anni fa nel lontano 2012, riprendono le sonorità nostalgiche dell’emo di inizio anni 2000. Con le loro tre chitarre lavorano su melodie accoglienti e riconoscibili all’interno del genere, ma mai banali.
Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)
Everything Ends, uscito il 28 marzo, ci fa contemporaneamente compiere un viaggio di vent’anni nel passato e riscoprire di qualcosa di nuovo all’interno di temi e suoni che ci sono tuttavia così familiari, unendo influenze personali come indie e post-rock al classico sound che si può ascoltare nei gruppi, soprattutto esteri, che sono stati pionieri dell’emo dalla fine degli anni ‘90.
Per questa serata il Magazzino sul Po è sold out, dimostrando che le band dell’organismo torinese sono ancora e sempre supportate e amate dal pubblico della città, in una relazione di sostentamento reciproco che mantiene la scena in vita.
Rispettare l’orario d’entrata previsto per un concerto può risultare una scelta azzardata e a volte anche noiosa. Nelle lunghe attese si può rischiare di incollare gli occhi al piccolo schermo che ci troviamo sempre in tasca e perderci totalmente ma, se si resiste alla tentazione, l’arrivo in anticipo può trasformarsi in un’occasione per osservare le persone che entrano nel locale. Infatti, tra i coloratissimi vestiti tradizionali senegalesi e piccolissimi bambini che correvano a destra e sinistra, la serata all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 4 aprile si è aperta con tanta allegria. L’evento ha avuto il sapore di una vera festa, organizzata per celebrare il 65° anniversario dell’indipendenza del Senegal dal colonialismo francese, durato oltre tre secoli.
Per l’occasione, l’Associazione Africaqui e l’Associazione Culturale Tamra, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, hanno dato vita a un evento musicale che vuole essere anche simbolo di cooperazione tra Torino e Louga, città senegalese nel Nord-Est del paese, gemellate ufficialmente nel 2024. La serata è iniziata con gli Afrodream, gruppo afrobeat, seguito dalla cantautrice senegalese Mariaa Siga. Subito dopo, l’esibizione dell’Orchestra dell’Africa Subsahariana e un dj set a cura di Dj Noname per chiudere.
Foto dal profilo Instagram @afrodream_ foto didi Lorenzo Gianmario Galli
Alle 22 circa la musica ha iniziato a risuonare in tutta la sala dell’Hiroshima con ritmi incalzanti che hanno fatto ballare anche gli spettatori meno avvezzi al movimento. Gli Afrodream sono nati a Torino, e il loro cantante e percussionista Abdou Samb ha origini senegalesi. Grazie alla fusione tra musica europea e senegalese hanno creato un ambiente accogliente per tutti. C’è stata una piccola interruzione dovuta alla corda del basso che si è rotta proprio in mezzo alla performance ma, oltre a questo piccolo intoppo, tutto è filato liscio come l’olio. La band ha ottenuto un grande successo da parte del pubblico ma l’affluenza in sala ha subito un calo significativo con l’arrivo di Mariaa Siga, artista meno conosciuta rispetto agli Afrodream. Cantautrice dalle straordinarie doti vocali, Mariaa incanta con una voce potente e al tempo stesso delicata, capace di spaziare su un’estensione vocale notevole. Ha dedicato le sue canzoni principalmente a coloro che hanno sofferto, come i molti dispersi in mare nella speranza di raggiungere una vita più dignitosa in Europa e non solo. Una dedica speciale è stata fatta alle donne, in una giornata in cui, in Piazza Castello, in centro a Torino, si è svolta la manifestazione organizzata in risposta ai recenti femminicidi, tra cui quelli di Ilaria Sula e Chiara Campanella. Finale con una canzone in onore della sua madrepatria, il Senegal, con un pubblico finalmente molto più acceso.
Foto dal profilo Instagram @mariaasiga
L’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha dato di nuovo il via alle danze, scatenando tutta la sala. La loro scelta strumentale è particolarmente interessante poiché combinano strumenti tradizionali del Centro Africa, come la kora e il djembe, con una varietà di percussioni, elettronica e un sax, che si fonde perfettamente con gli altri elementi. Tra le parti cantate sono emersi momenti virtuosistici dei percussionisti e soprattutto del suonatore di kora. Sul palco sono stati fatti entrare anche di tanto in tanto dei ballerini che hanno creato uno spettacolo veramente esaltante. Per il gran finale, l’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha invitato sul palco Mariaa Siga e alcuni membri di Afrodream per eseguire insieme “Fatou yo”, un brano senegalese per bambini che sembra assumere un significato profondo per tutti: un finale sia maestoso che commovente, anche per chi non conosce pienamente la cultura del paese festeggiato. Il dj set conclusivo ha permesso chi aveva ancora energia di continuare a ballare.
Una festa indimenticabile che ha saputo intrecciare tradizione e modernità, regalando a tutti i presenti un’esperienza unica.
Seduzione, ossessione e un destino ineluttabile. La dama di picche. Capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij su libretto del fratello Modest, tratto dall’omonimo racconto di Puškin. L’opera, composta nel 1890, segna uno dei vertici espressivi del teatro musicale russo. Il compositore, in uno dei momenti più tormentati della sua vita, infonde nella partitura un’intensità drammatica e anche cinematografica, avvicinandosi alla tragica ossessione del protagonista Hermann, consumato dal gioco d’azzardo e dalla misteriosa formula segreta delle tre carte. Questo tormento prende forma nell’aria “Che cos’è la nostra vita? Un gioco!”, in cui il protagonista ripete ossessivamente il suo pensiero fisso.
La dama di picche è in scena al Teatro Regio di Torino in un nuovo allestimento prodotto dalla Deutsche Oper di Berlino, firmato dal regista Sam Brown, che raccoglie e sviluppa la visione del compianto Graham Vick. La direzione musicale è affidata a Valentin Uryupin, specialista del repertorio russo, mentre il cast vede protagonisti Mikhail Pirogov nel ruolo di Hermann, Zarina Abaeva in quello di Lisa e Jennifer Larmore nei panni della Contessa. Completano la compagnia Elchin Azizov (Tomskij), Vladimir Stoyanov (Eleckij) e Deniz Uzun (Polina).
foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz
La regia di Sam Brown presenta Hermann come un uomo qualunque, intrappolato in una realtà soffocante e monocorde. La sua esistenza, confinata in un dormitorio militare, è lo specchio di un desiderio frustrato di riscatto sociale. Lisa, il suo amore impossibile, incarna il contrasto tra il mondo del privilegio e la disperazione del protagonista, che cerca una via d’uscita nel segreto della Contessa. L’opera si trasforma così in un dramma psicologico in cui sogno e realtà si sovrappongono, portando Hermann verso un destino segnato dall’illusione e dalla follia. Lo spettatore col dubbio su cosa fosse reale.
L’allestimento si distingue per alcuni elementi visivi di grande impatto. Il coro, attraverso un gioco di ombre, si trasforma in una folla minacciosa, amplificando la paranoia e il senso di accerchiamento. Un ulteriore livello narrativo è dato dalla la proiezione di spezzoni del film La dama di picche del 1916, che dialogano con la messinscena come un secondo piano narrativo. A completare questa dimensione visiva, sopra il sipario utilizzato per i cambi scenografici appaiono dei veri e propri cartigli, in stile cinema muto, che forniscono un contesto alla scena o indicavano il luogo in cui si svolgeva l’azione.
foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz
In molti di questi cartigli comparivano anche citazioni da Dostoevskij, che aprivano ulteriori riflessioni. Lo spettatore più attento poteva così interrogarsi su ciò che vedeva: era tutto reale? O solo una proiezione dell’inconscio di Hermann? Era solo la caduta di un uomo nell’ossessione, o una riflessione più ampia sulla libertà individuale, la colpa, la coscienza? La presenza di Dostoevskij da lo spunto per guidare lo spettatore in un percorso parallelo, rendendolo forse più partecipe e consapevole di ciò che vede.
Scenografica la chiusura dell’opera. Hermann, ormai consumato dal pensiero ossessivo delle tre carte, si presenta al tavolo da gioco. Sebbene non sia un giocatore abituale, possiede esattamente tre carte, come predetto dalla dama di picche. Le prime due gli fanno vincere somme enormi, ma l’avidità – o forse il desiderio disperato di vedere la profezia compiersi fino in fondo – lo spinge a giocare anche la terza. A quel punto entra il principe Eleckij, l’unico disposto a sfidarlo. Ma nel momento decisivo, Hermann scopre che la sua ultima carta non è l’asso, bensì proprio la dama di picche. Ha perso tutto. E si toglie la vita.
Piccola nota di cronaca: durante il primo atto un semplice cambio di scenografia ha dato a molti spettatori l’illusione dell’intervallo, con tanto di esodo verso il foyer sventato dalla solerzia delle maschere. Tutto comprensibile vista la scarsa conoscenza di un titolo, che tuttavia è stato molto apprezzato a fine serata.
Questo allestimento di La dama di picche si è rivelato una produzione di grande impatto visivo, moderna ed emotiva. La regia di Brown ha offerto una prospettiva che mette in luce l’attualità del dramma umano di Hermann, sempre sospeso tra desiderio e autodistruzione.
L’Unione Musicale ci ha fatto un regalo prezioso la sera del 26 marzo, portando sul palco del Conservatorio «Giuseppe Verdi» uno dei musicisti più importanti a livello globale, Maxim Vengerov, di origine russa, che fin da bambino si è messo in luce come violinista. In questa serata è stato accompagnato al pianoforte dalla pianista Polina Osetinskaya, la quale condivide con il violinista non solo le origini russe, ma anche il talento mostrato sin da piccola.
Osservando il pubblico accomodarsi, si percepiva l’attesa: si potevano notare subito, sul palco, le custodie dei violini,come una muta promessa di quello che stavamo per ascoltare. Infatti, i due musicisti, al loro ingresso, sono stati accolti calorosamente con un lungo applauso.
Il concerto è stato aperto dalle Cinque melodie op. 35 bis di Sergej Prokof’ev. Dal primo attacco di Vengerov si è rimasti subito colpiti: un suono deciso ma allo stesso tempo dolce, che ha dato dimostrazione immediata della tecnica acquisita negli anni. Le Cinque melodie, però, erano soltanto l’antipasto. Nella Sonata n° 2 in re maggiore, op. 94 bisdello stesso compositore abbiamo assistito a qualcosa di unico. Nel secondo movimento, Scherzo. Presto, entrambi i musicisti hanno dato il meglio di sé: si percepiva il divertimento nel suonare questo brano. La pianista si muoveva a tempo di musica per accompagnare Vengerov e, per la carica di un fortissimo, ha anche sobbalzato sullo sgabello. Il movimento è stato eseguito con tale perfezione da scatenare un applauso vigoroso, fuori dalle normali consuetudini dei concerti cameristici e sinfonici (nei quali l’applauso è consentito solamente alla conclusa del brano), ma doveroso vista la perfezione della performance. La sonata si è conclusa ovviamente in modo impeccabile: ogni sfumatura delle dinamiche è stata eseguita in modo eccezionale, tra sorrisi accennati e precisione reciproca.
foto da Unione Musicale
La prima pausa del concerto è servita al pubblico per assimilare l’euforia e lo stupore nato da quello a cui avevano appena assistito. Il concerto è poi proseguito con la Sonatina in sol minore, op. 137 n° 3, D. 408 di Franz Schubert: un inizio forte e all’unisono, come scaturito dal primo respiro intenso del violinista che si è sentito fino alle ultime file della sala. Balzi dell’arco precisi, che nel secondo movimento si sono trasformati in un canto legato nato dal pianissimo: sembrava che i due musicisti stessero parlando tra di loro attraverso gli strumenti con estrema naturalezza.
La Sonata n° 3 in re minore, op. 108 di Johannes Brahms ha concluso il concerto, facendo già affiorare il dispiacere perché la serata volgeva al termine. Ad amplificare la sensazione ci ha pensato il secondo movimento, Adagio con la sua soavità venata di tristezza. Il suono di Vengerov era completamente legato: sembrava che l’arco non avesse inizio e fine per come riusciva a non staccare i suoni, facendoli continuare anche attraverso le doppie corde e trilli malinconici. Il Presto agitato ci ha riportato alla realtà. La pianista Osetinskaya, quando veniva richiesto il forte, ci metteva davvero tutta se stessa e Vengerov rispondeva con la stessa audacia.
foto da Unione Musicale
Vengerov e Osetisnskaya ci hanno regalato ben quattro bis, preceduti anche da un «grazie mille» nell’italiano impacciato del violinista russo. Eravamo noi a dover ringraziare, per quanto avevamo appena ascoltato e per ciò che stavamo per ascoltare. I primi tre bis sono stati Schön Rosmarin, LiebesleideLiebesfreuddi Fritz Kreisler e anche qui, in tutti e tre i brani, era impossibile non ammirarlo: siamo infatti stati avvolti da un fraseggio elegante e una cantabilità travolgente.
L’ultimo bis è stato un brano davvero emozionante di Rachmaninov, tratto da Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43: Variazione n° 18, Andante cantabile. Qui i due musicisti sono entrati in un altro universo: il vibrato di Vengerov è riuscito a scuotere gli animi, con una dolcezza, un’esplosione di suono che trasmette sia energia che malinconia, come solo lui sa fare.
Con i presenti visibilmente emozionati si conclude questo concerto. Sicuramente, quanti fra il pubblico erano violinisti o musicisti in generale sono tornati a casa con un bellissimo ricordo, ma anche con una lezione: se ha colpito il modo in cui Vengerov maneggia l’arco ed esegue passaggi tecnicamente complessi con estrema naturalezza, dando l’impressione che siano facili, forse più ancora ha impressionato l’umiltà con cui si è presentato sul palco. Non tutti, peraltro, avrebbero la generosità di offrire quattro bis, nonostante la grande fama che li precede. Vengerov ci ha ringraziato sempre con un sorriso, mentre era lui a donarci, per una sera, il suo suono inimitabile.
La Posa Bulb, band emergente di Civitavecchia, debutta sulla scena musicale italiana il 21 marzo 2025 con il singolo “Fine del mondo” che anticipa l’uscita del loro primo album. Il nome della band richiama una tecnica fotografica che cattura il soggetto in movimento mantenendo lo sfondo fisso, un concetto che si riflette perfettamente nella loro musica.
Il gruppo è composto da Lorenzo Ceccarelli, Diego Tranquilli e Fabrizio Campogiani: personalità differenti che arricchiscono il progetto con influenze che spaziano dal rock all’indie, riuscendo a creare un sound originale.
Il singolo non racconta di una fine catastrofica, ma propone una riflessione sulla consapevolezza della realtà. Sebbene il titolo evochi l’idea di un epilogo, in realtà è una «presa di coscienza» di fronte ad un presente incerto, come la definiscono gli stessi membri della band.
Nel verso «E anche se domani tutto finirà, no non sarà per colpa tua» emerge il tema della disillusione e dello smarrimento vissuto da molti giovani. La struttura musicale caratterizzata da un inizio delicato che sfocia in un crescendo, rappresenta un viaggio nell’emotività umana, simboleggiando il confronto con la realtà.
“Fine del mondo” è solo un assaggio del loro primo album, ma già mette in luce una band capace di esplorare temi profondi. Chi si avvicina a loro troverà una voce distintiva nella scena musicale italiana.
Nella serata del 24 marzo la Filarmonica TRT ha proposto sul palco del Teatro Regio un programma raffinato e avvincente, con un ospite, Fabio Biondi, che ha offerto un’esperienza intensa, nelle vesti sia di direttore, sia di solista. Biondi è il Fondatore di Europa Galante, un ensemble italiano che grazie ad un’intensa attività concertistica ha ottenuto fama e riconoscimenti a livello internazionale.
Al momento dell’ingresso in sala il pubblico ha trovato l’orchestra già sistemata sul palco, con i musicisti che accordavano i loro strumenti, rivedevano qualche passaggio impegnativo, o riordinavano le parti. Tutto molto naturale: un ingresso all’americana, utile per far mettere il pubblico a più stretto contatto con l’orchestra. La sala in poco tempo si è riempita totalmente.
Allo spegnimento completo delle luci entra il primo violino che fa accordare gli orchestrali, per poi far entrare il direttore Biondi. Il concerto inizia con l’Overture in do maggiore, op. 24 di Fanny Mendelssohn, un tenero omaggio a una compositrice che dovette usare la musica solo come ornamento della sua vita: le convenzioni sociali dell’epoca non le permisero di intraprendere una carriera da compositrice. L’attacco è stato molto dolce: fin dalle prime note si è colta tutta la finezza di questo direttore, ma anche la bravura del primo violino, che è riuscito, nell’inizio di questa Overture, a ‘trainare’ per qualche secondo i violini che stavano rallentando. Biondi unisce controllo e scioltezza: tiene d’occhio tutti (perfino i contrabassi, che di solito vengono praticamente ignorati!), e molleggia a tempo, trasmettendo tutta la propria energia.
Foto da gallery di «Europa Galante»
Conclusa l’Overture, il direttore esce, seguito dai fiati, per poi rientrare da solo con il suo violino, per suonare da solista il Concerto in re minore per violino e archi, MWV 03 di Felix Mendelssohn-Bartholdy (lui sì che, a differenza della sorella, poté dedicare tutta la propria vita alla musica!). Inusuale scegliere questo concerto rispetto a quello in mi minore op. 64, spesso eseguito anche per concorsi e recital solistici; ma questa scelta è piaciuta molto, proprio perché è più raro ascoltarlo. Fabio Biondi con l’archetto dà il via all’orchestra, che esegue la piccola introduzione dell’Allegro: è sempre bello sentire gli archi uniti che danno corposità al movimento, e anche qui nella dolcezza della sua entrata si percepisce come Biondi si sia perfettamente sintonizzato con il mondo sonoro ed espressivo del compositore.
La nota dolente di questo concerto è stato il pubblico: non preparato, non “educato” ai concerti sinfonici. Applaudendo a sproposito dopo ogni movimento ha rotto la concentrazione del solista, che infatti nel secondo tempo non ha dato il massimo come prima. Il concerto è comunque proseguito, ovviamente, e si è notata la perfetta intesa fra Biondi e l’orchestra che lo ha ospitato, un’intesa che traspariva dal gioco di sguardi, dalla direzione sempre precisa impartita con i movimenti del corpo e dell’archetto, e perfino dal suo avvicinarsi ai leggii delle prime file per dare gli attacchi con ancora più chiarezza. Alla fine dei tre movimenti il pubblico scoppia in un applauso (finalmente al momento giusto!), e Biondi si volta a godersi i battimani. Nella breve pausa prima della seconda parte del concerto, va detto, il pubblico dà nuovamente il meglio di sé: cosa mai vorrà dire l’abbassarsi delle luci, se non che bisogna tornare ai propri posti, ma soprattutto fare silenzio?
Foto da gallery di «Europa Galante»
La chiusura del concerto è affidata alla Sinfonia n°6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale” di Ludwig Van Beethoven, una delle sue opere più evocative. Avevo grandi aspettative per questa parte del programma, e devo dire che sono state più che soddisfatte. Tutta l’orchestra era perfettamente connessa: impeccabili nelle dinamiche, hanno fatto sentire benissimo ogni singola sfumatura di crescendo, invitandoci a entrare nel paesaggio sonoro beethoveniano con “un’espressione di sentimenti” che ha fatto commuovere.
(Purtroppo ci risiamo, con una parte del pubblico che rompe l’incanto applaudendo dopo il primo movimento: qualcuno però intima il silenzio, e forse stavolta il messaggio arriva a destinazione…).
La sinfonia procede in modo eccellente: davvero bello vedere come il direttore e l’orchestra fossero fusi insieme. Biondi imperversa: balza sul posto, incita le viole, e porta la serata a una conclusione trionfale. Nessun bis, purtroppo, probabilmente per la grande concentrazione che questo programma ha richiesto. In ogni caso, nonostante le piccole disavventure con il pubblico, è stato un concerto memorabile: vedere un musicista che combina ai massimi livelli il ruolo di direttore e quello di solista è sempre un’esperienza speciale!
“Puzzolente” non è l’aggettivo più comune per descrivere una composizione musicale, ma fu proprio così che il celebre musicologo Eduard Hanslick descrisse il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op.35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1878) dopo aver assistito alla prima esecuzione viennese nel 1881. L’opera in questione ha inaugurato la serata del 20 marzo 2025 all’Auditorium “Arturo Toscanini” di Torino: sul palco a dirigere l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, per la terza volta quest’anno, Robert Treviño e, al violino solista, un entusiasmante Augustin Hadelich. A seguire l’orchestra ha eseguito la Sinfonia n°2 in mi♭ maggiore, op.63 di Edward Elgar: sinfonia composta nel 1911 ma non molto conosciuta, tanto che l’Orchestra Rai (allora ancora Orchestra Sinfonica di Torino della Radio Italiana) non la eseguiva dal lontano 22 maggio 1953.
Il Concerto in re maggiore op.35, è l’unico concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. Questa composizione non ebbe un facile lancio: stroncata dai critici appunto come Hanslick, la consideravano musica rozza, vede il violino quasi provare a contorcersi per esprimere emozioni intense attraverso suoni non prettamente puri e puliti. Oggi questa caratteristica, tanto criticata all’epoca, viene considerata proprio come un tratto distintivo e di grande interesse dell’opera. Oltre a problemi con la critica, il compositore russo ebbe difficoltà a trovare un interprete solista che accettasse il lavoro. Dopo molti rifiuti da parte di grandi violinisti del calibro di Josif Kotek, Čajkovskij riuscì, nel 1881, a fare eseguire la composizione da un giovane Adol’f Brodskij.
Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Se i rifiuti da parte di molti violinisti dell’epoca furono dovuti anche alla difficoltà tecnica del concerto, Hadelich non ne è sembrato per nulla intimidito: ci ha regalato, anzi, un’interpretazione magistrale, con tecnica impeccabile e un suono ammaliante. Alla fine dell’esecuzione, la sua bravura ha scatenato uno scroscio di applausi entusiasti. E così Hadelich ha imbracciato nuovamente lo strumento per eseguire, fuori programma, “Por una Cabeza”, un tango di Carlos Gardel in una versione per violino solo che ha realizzato lui stesso.
Dopo la pausa il concerto riprende con la Seconda di Elgar (1911): meno celebre della sua Prima sinfonia, si articola in quattro movimenti (Allegro vivace e nobilmente, Larghetto, Rondò, Moderato e maestoso) che cercano un equilibrio tra tradizione e innovazione. La sinfonia si sviluppa così in un arco espressivo ampio, che viaggia dal romanticismo alle sperimentazioni novecentesche trasmettendo sbalzi emotivi e sentimenti profondi, ma con i suoi 53 minuti può talvolta risultare alquanto impegnativo per l’ascoltatore. L’interpretazione di Robert Treviño ne enfatizza la complessità, restituendo i contrasti tra lirismo e drammaticità tipici del compositore.
Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Il concerto ha insomma unito capolavori riscoperti e talenti contemporanei, dimostrando come la musica possa ribaltare i giudizi del passato. Per chi se lo fosse perso, è stato registrato e trasmesso in diretta su Rai Radio 3 per Il Cartellone di Radio 3 Suite, quindi è disponibile su RaiPlay Sound. Inoltre la serata è stata ripresa per Rai Cultura e sarà trasmessa il 22 maggio 2025 su Rai 5.
Nella classifica dei singoli usciti a febbraio avevamo consigliato i Queen of Saba, duo veneto fondato nel 2019 dalla cantante Sara Santi e il producer Lorenzo Battistel. La loro musica si contraddistingue per l’attivismo queer che partendo dai loro testi si allarga ad altre dinamiche che ruotano attorno agli artisti, come i concerti dal vivo. Non abbiamo perso occasione e siamo andati a sentirli venerdì 21 marzo all’Hiroshima Mon Amour per la prima data del loro nuovo tour CIRCOMEDUSA.
Entrando nel club si percepisce subito un’intenzione diversa dal solito. All’ingresso troviamo un breve manifesto che ci invita ad avere cura degli spazi e dei corpi che ci circondano, a comunicare eventuali disagi o malesseri, a scambiarci un semplice sorriso e dare un senso all’esserci nel qui e ora di questo concerto. La sala si riempie in fretta: in apertura siamo travolti dall’esibizione del gruppo di drag queen TheNerve, con un piacevole spettacolo di cabaret, tra canzoni e piccoli sketch.
Salgono sul palco i Queen of Saba, vestiti entrambi da circensi. Sara porta attorno al collo una kefiah, il simbolo della solidarietà nei confronti del popolo palestinese, mentre Lorenzo siede lateralmente alla batteria elettronica. Attacca il primo pezzo e il pubblico subito salta e canta come la tribù arcaica di “Principe Regina”.
Foto a cura di Alessandro Aimonetto per polveremag.it
Si passa poi a un vero e proprio momento karaoke: Sara ci invita a cantare tutti insieme un paio di brani del primo album del duo, Fatamorgana, mentre sugli schermi scorrono i testi. Si crea così uno scambio costante di battute tra artisti e spettatori, viene chiesto ad esempio di alzare il volume della voce, che a volte risulta poco comprensibile.
Inoltre il pubblico in modo spontaneo urla spesso slogan dei cortei pro Palestina, come «Torino lo sa da che parte stare…» o «Tout le monde déteste la police», ma è l’arrivo sul palco di alcuni ospiti a trasformare il concerto in un vera manifestazione. Il primo a sorpresa – ma è pur sempre di casa a Torino – è Willie Peyote, che col brano “ACAB” ci trasporta in val di Susa tra lacrimogeni e cariche della polizia. La seconda già annunciata è la drag Ava Hangar che insieme a Lorenzo al charango (strumento a corde tipico dell’America latina) canta “El pueblo unido jamás será vencido”. Si aggiungono poi La Qualunque e il producer torinese Ale Bavo, che insieme al duo creano una festa sempre più collettiva e intersezionale.
Foto a cura di Alessandro Aimonetto per polveremag.it
Per concludere Sara invita il pubblico a far spazio in sala per l’esibizione del gruppo torinese Folamurga, che sfila tra tamburi e danze circensi ispirati al carnevale di Buenos Aires. I Queen of Saba sono riusciti a manifestare dal vivo tutto ciò che contiene la loro musica: un megafono per cause sociali reali che raggiunge una connessione vitale col pubblico e dà la forza di sopravvivere e lottare sempre in direzione ostinata e contraria.
È iniziato, giovedì 20 marzo presso lo sPAZIO211, il nuovo tour di Claudio Domestico, alias GNUT. Il cantautore napoletano sceglie Torino come luogo di debutto del suo ultimo progetto live, caratterizzato da un trio composto dalla chitarra del cantante e da una coppia d’archi, suonati da Marco Sica (violino) e Mattia Boschi (violoncello).
L’artista, con il piccolo ensemble, ripercorre la sua carriera mantenendo il focus sul suo stile legato al folk anglofono attraverso arrangiamenti che ampliano l’ambiente sonoro con i temi lenti e i numerosi pizzicati sviluppati dai due archi.
Questi si mantengono distanti dall’impronta classica e creano un “non-luogo”, dove il pubblico può seguire i passi da ballad tracciati dal trio strumentale, che accompagna GNUT nel suo tragitto autoriale.
Il percorso definito rimane fedele a se stesso, in una coerenza che non è solo sonora ma che è anche garantita dal tema universale dell’amore: amore che viene messo sotto la lente d’ingrandimento, e che GNUT indaga nella sua molteplicità.
È quello spensierato in “Se cucini tu” e in “Semplice”, malinconico in “Dimmi cosa resta”, quello da dimenticare e da abbandonare centrale in “Luntano ‘a te”, ultimo inedito pubblicato a febbraio, nel quale GNUT si mette a nudo e racconta della sua personale esperienza con un «amore tossico che – dice il cantante – mi ha sconvolto».
La libertà espressiva di GNUT, oltre alla scelta del trio sul palco, si vede anche nel modo in cui alterna canzoni in italiano e in napoletano. Ogni lingua porta con sé un’emozione diversa, e GNUT sa come usarla per raccontare le sue storie in modo autentico. Non è solo una questione di parole, ma di sensazioni che si mescolano e prendono vita, in modo unico ma al contempo universale.
Foto da cartella stampa
Durante un momento strumentale apparentemente transitorio GNUT cattura l’attenzione degli ascoltatori emettendo con la sua voce un suono soffiato simile a un flauto, sollevando gli occhi dagli schermi di chi dopo un’ora di live iniziava a sentirsi, evidentemente, affaticato. Il suono, lontano e misterioso, ha creato un’atmosfera rituale, richiamando tutti i presenti in uno spazio fuori dal tempo.
E poi, c’è stato il momento finale con “Nu poco ‘e bene”, la canzone che tutti conoscono e che il pubblico ha cantato in coro, in un momento comunitario e intimo che ha fatto da perfetta chiusura alla serata.
Un live che ha dimostrato, ancora una volta, come la musica di GNUT sappia toccare le corde più profonde dell’animo umano, mescolando folk, emozioni e parole in un viaggio che promette di continuare a incantare nelle prossime tappe del tour.
Marco Usmigli
La webzine musicale del DAMS di Torino
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