Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals.
Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.
L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.
Foto di Fabiana Amato
Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente.
Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.
Foto di Fabiana Amato
A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.
Foto di Fabiana Amato
Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.
Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.
Dopo un primo giorno carico di aspettative e adrenalina, il secondo ha consolidato l’entusiasmo e confermato la qualità del festival.
Dagli headliner ai talenti emergenti, passando per la risposta del pubblico e l’organizzazione impeccabile, Jazz is Dead! non solo ha mantenuto le promesse, ma ha persino superato le aspettative.
Ad aprire la seconda giornata del Jazz is Dead! troviamo il collettivo Orchestra Pietra Tonale, ormai presenza fissa al festival da quattro anni. L’esibizione ha mescolato improvvisazione e materiali dal nuovo album del gruppo , uscito il 16 maggio, e ha avuto come filo conduttore l’esplorazione di territori sonori unici e innovativi, uno dei tratti distintivi del collettivo. Fase importante della performance, rappresentativa dello spirito sperimentale del gruppo, è stata l’orchestrazione improvvisata sotto la direzione di Simone Farò che ha lasciato il pubblico col fiato sospeso in balia di suoni di guerriglia, a volte disorientanti e frammentati, altre rassegnati alle mani di chi li dirige.
Subito dopo l’esibizione dell’Orchestra Pietra Tonale, il festival si è spostato sul palco all’aperto. Qui è salito ShrapKnel, duo americano composto da PremRock e Curly Castro, membri della Wreckin’ Crew di Philadelphia. Il loro set ha inaugurato il palco esterno trasportando il pubblico in un viaggio attraverso l’hip-hop/rap più visionario e sperimentale, arricchito da sonorità elettroniche. Nonostante l’orario ancora poco affollato, gli ShrapKnel sono riusciti a coinvolgere tutti i presenti: in pochi minuti il pubblico si è avvicinato sotto il palco, riempiendo velocemente lo spazio e creando un’atmosfera carica di energia. Il loro live, caratterizzato da rime taglienti e un sound ruvido e contemporaneo, ha dato il via ufficiale alla serata, mostrando la forza del rap underground americano.
È poi l’ora dei Funk Shui Project che per chiudere in bellezza il tour del loro ultimo album Polvere hanno scelto di tornare a casa, Torino. Il live è stato un susseguirsi di sorprese e ospiti d’eccezione, sin dalle prime canzoni. A salire sul palco per primo è stato Willie Peyote, che ha regalato al pubblico due brani iconici: “Anestesia Totale” e “SoulFul”. L’atmosfera si è poi accesa con l’arrivo di Ensi, maestro del freestyle e simbolo della scena rap italiana, che ha sfoderato il suo flow impeccabile e l’energia contagiosa che lo contraddistingue. Un’altra sorpresa della serata è stata Davide Shorty, artista dalla voce soul inconfondibile. A rendere il momento ancora più speciale è stato l’arrivo di Johnny Marsiglia, uno dei liricisti più raffinati della scena siciliana.
A chiudere il concerto, grazie agli scratch di Frank Sativa, tutti gli artisti si sono riuniti per una jam memorabile, rappando alcune delle loro barre più celebri su strumentali che hanno segnato la storia dell’hip hop: un vero e proprio omaggio alla cultura del rap.
Dopo la celebrazione del rap underground, il festival ha lasciato spazio a un ambiente più elettronico e all’esibizione di Herbert e Momoko, intimae sperimentale. I due artisti, Matthew Herbert produttore e musicista di musica elettronica e la cantante e batterista Momoko Gill, hanno presentato alcuni brani del loro prossimo album Clay, in uscita il 27 giugno, offrendo un’anteprima delle nuove sonorità elettriche e sognanti che lo caratterizzano. La performance si è sviluppata in un’atmosfera giocosa, con palle da basket a tenere il tempo, e raccolta, come se sul palco ci fossero due bambini a divertirsi dopo scuola. Nonostante la natura della loro esibizione, c’era una forte sintonia con il pubblico, diventato quasi parte attiva del processo creativo dentro il quale i due musicisti stavano viaggiando.
A seguire c’è stato l’arrivo di Meg, voce inconfondibile dei 99 Posse negli anni Novanta e icona della musica alternativa italiana: ha festeggiato i suoi 30 anni di carriera con un live intenso e carico di emozioni, portando sul palco il suo nuovo EP da solista Maria e i brani più conosciuti come “Sfumature” e “L’anguilla.”
Oltre alla musica, Meg ha scelto di usare il palco per parlare di temi urgenti e delicati. L’artista si è esposta riguardo al femminicidio di Martina Carbonaro ad Afragola, ribadendo l’importanza di educare le nuove generazioni sulla violenza di genere e sulla necessità di un cambiamento culturale. Un gesto potente, che ha dato ancora più valore al suo live e alla sua figura di musicista impegnata.
Un impegno che, forse, sarebbe stato ancora più significativo se anche alcuni colleghi uomini avessero preso posizione nei concerti successivi, facendo sentire la propria voce su un tema che riguarda tutti.
Ormai a notte inoltrata, l’ultimo artista a salire sul palco esterno è stato Egyptian Lover, autentico caposaldo e pioniere dell’hip-hop electro. Con un set alla console, ha chiuso la serata regalando bassi potenti, momenti vocali e sorprendenti incursioni di melodie mediorientali sapientemente remixate.
La sua performance, semplice ma estremamente efficace, si è distinta per una mimica minimalista ricca di carisma, perfettamente in linea con il suo personaggio. I ritmi travolgenti hanno coinvolto il pubblico, che nonostante le molte ore di festival alle spalle, si è lasciato trasportare dalla musica e si è scatenato fino all’ultimo beat grazie anche alla scelta di orientare le casse verso l’interno ha garantito una diffusione del suono equilibrata e avvolgente.
La giornata si è conclusa con i dj set di Los Hermanos, che hanno proposto una coinvolgente techno latina, seguiti da Andrea Passenger per chiudere la serata.
Anche il secondo giorno si è così concluso, confermando pienamente le aspettative del festival.
Torino e Milano si preparano ad accogliere la 19a edizione di MiTo Settembre Musica, il festival internazionale che dal 3 al 18 settembre celebrerà la musica attraverso il tema “Rivoluzioni”.
Durante la conferenza stampa del 20 maggio, in collegamento tra le due città coinvolte, l’Assessora alla Cultura di Torino, Rosanna Purchia, ha affermato che MiTo rappresenta non solo un appuntamento musicale, ma un vero e proprio dovere civile, culturale e sociale. Il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha invece evidenziato il valore della collaborazione tra le due città, sottolineando che l’internazionalità del festival rispecchia l’identità e le aspirazioni di Milano.
Alla sua ultima edizione come direttore artistico, Giorgio Battistelli ha messo in luce la necessità di rinnovare il concetto stesso di programmazione musicale. «Non si porta la cultura, si sollecita un’azione culturale» ha affermato, rimarcando la volontà di resistere all’omologazione e stimolare nuove connessioni.
I quattro perimetri su cui si sviluppa il programma sono: Mitjia e gli altri (per omaggiare Šostakovič nel cinquantenario dalla scomparsa), Berio e le avanguardie (con un omaggio al compositore nel centenario dalla nascita), Rivoluzioni – tempi di guerra, tempi di pace, e infine Ascoltare con gli occhi – la musica si intreccia con immagini e danza per creare un’esperienza multisensoriale.
Con 67 eventi in programma, MiTo porterà sui palchi artisti e orchestre di grande rilievo. Ad inaugurare il festival, il 3 settembre all’Auditorium del Lingotto di Torino, ci sarà la Filarmonica della Scala guidata dal futuro nuovo direttore artistico del Teatro, Myung-Whun Chung: in programma musiche di Šostakovič, Rachmaninov e Čajkovskij.
A seguire, il 4 settembre al Teatro alla Scala, Antonio Pappano dirigerà la London Symphony Orchestra in brani di Bernstein, Prokof’ev e Copland.
All’interno del programma dedicato a Šostakovič, sarà di rilievo l’esecuzione della Sinfonia n° 10 al Teatro Dal Verme con l’Orchestra Sinfonica di Lucerna diretta da Michael Sanderling, accompagnata dalla proiezione dell’artista William Kentridge: un suggestivo dialogo tra musica e immagini. Significativa sarà anche l’esecuzione integrale dei quartetti per archi di Šostakovič, proposta in sei giornate dal Quartetto Eliot.
Accanto alle esibizioni di grandi nomi, il festival conferma il suo impegno nella valorizzazione di talenti emergenti con il progetto Milano Mito d’Europa che offrirà spazio a giovani musicisti e compositori. In questo ambito, il 6 settembre al Teatro Alfieri di Torino, la Scuola di Perfezionamento Musicale di Saluzzo presenterà un’orchestra di giovani musicisti sotto la direzione di Donato Renzetti in un programma dedicato a Bernstein, Gershwin e John Williams.
Battistelli ha voluto sottolineare come MiTo sia un festival che resiste all’immobilità, abbracciando il cambiamento: «Più passa il tempo, più non so quale sia la musica contemporanea. La musica è un experimentum mundi». L’iniziativa si pone dunque come una riflessione sulla trasformazione culturale e sulle nuove modalità di ascolto e partecipazione.
MiTo si conferma una realtà dinamica capace di intrecciare tradizione e innovazione, di rivoluzionare la musica e la fruizione musicale.
Nei giorni successivi ai concerti del Festival Chopin, abbiamo intervistato i tre giovani musicisti che si sono esibiti. Abbiamo parlato dei loro diversi percorsi di formazione, del legame con la musica e di tanto altro.
Come e quando avete iniziato a studiare pianoforte?
David Irimescu: «Come spesso si dice, è successo per caso… ma evidentemente per caso non è successo. Avevo nove anni, distribuivano volantini fuori dalla scuola elementare, mia mamma me ne mostrò uno e mi chiese se mi interessava, e io risposi: «Perché no? Andiamo a provare». La prima lezione fu folgorante: mi sentii super gasato e bravo, apprendevo molto in fretta e mi piaceva tantissimo l’entusiasmo che leggevo negli occhi degli adulti. Questa cosa mi ha lasciato un segno profondo. Ho studiato un anno, poi sono passato a una scuola privata (Artemus) con un’insegnante bulgara molto severa. Questa educazione rigorosa mi ha portato a un livello tale da poter entrare in Conservatorio, dandomi un impulso fortissimo verso lo studio».
Matteo Buonanoce: «Nasco in una famiglia dove la musica è di casa: mia mamma è pianista, mio padre ha suonato la tromba. Questa predisposizione musicale era vista come un aiuto alla crescita. Inizialmente mia madre mi sconsigliò il pianoforte, così provai l’ukulele, ma le dita mi facevano male. Appena ho provato il pianoforte, non l’ho più lasciato, sentendo una connessione immediata».
Maria José Palla: «Non vengo da una famiglia di musicisti, è stato tutto molto casuale. A tre anni ho iniziato danza, verso i sei ascoltavo la musica del pianoforte durante le lezioni, specialmente Chopin, e ho pensato di voler suonare uno strumento. I miei genitori mi dissero di scegliere tra musica e danza. Ho aspettato fino agli undici anni, quando mi sono imposta sui miei genitori per la scelta di una scuola media a indirizzo musicale. La scelta del pianoforte è stata casuale, ero la prima nel test d’ammissione senza aver mai studiato nulla».
C’è stato un momento preciso in cui vi siete resi conto di volervi dedicare esclusivamente al pianoforte, alla musica?
D.I.: «A diciotto anni e mezzo ho deciso che sarebbe diventata la mia professione. Il pianoforte era un rifugio dove esprimere ciò che non potevo dire. Dopo poco, ho interrotto gli studi per quasi cinque anni a causa di una malattia. In questo periodo ho iniziato a insegnare per necessità, poi per amore. Non avendo soldi per le terapie, ho chiesto ai professionisti di insegnarmi, formandomi in diverse discipline olistiche. A ventitré anni ho ripreso gli studi, laureandomi al Conservatorio di Torino con lode: è stato un momento emozionante, tutte le parti della mia vita si sono ricongiunte. Ho proseguito la specializzazione a Torino e prossimamente mi trasferirò in Svizzera per un master. Spero di poter continuare a donare alla gente qualche cosa con i concerti, con la musica, con la passione».
M.B.: «Ho capito abbastanza tardi di voler fare il musicista, perché ho sempre coltivato sia la strada della musica che quella scolastica. Mia madre mi ha sempre tenuto con i piedi per terra, dicendo che è una carriera difficile. Ho finito il liceo scientifico l’anno scorso. È stato grazie a questa scuola che ho capito di voler fare il musicista, perché non mi interessava nient’altro. Tre anni fa ho deciso definitivamente di voler fare il musicista nella vita. L’importante è che la mia passione diventi il mio mestiere».
M.J.P.: «Da subito ho voluto dedicarmi alla musica in modo esclusivo. Ho detto: «Ok, questa cosa la farò per sempre», perché era così stimolante e arricchente, e mi dava la possibilità di esplorare me stessa. Questo spazio musicale mio, da sola, era magico; ho sempre desiderato farlo per tutta la vita. Il momento in cui ho dovuto scegliere se continuare professionalmente è stato al liceo. Frequentavo il liceo classico in Sardegna, in più c’era la danza che stava diventando professionale e il Conservatorio. Questo mi chiedeva troppe energie, per cui ho dovuto lasciare la danza: mi sono concentrata definitivamente sulla musica, ed è stato bellissimo».
Qual è il vostro rapporto con l’ambiente di formazione, i maestri che avete avuto e i metodi di insegnamento?
D.I.: «Nella formazione sono un ribelle, la mia integrità è un valore forte, se una cosa non suona vera non mi appartiene. A un certo punto non riuscivo più a mettere da parte me stesso e per questo mi ammalavo, non ascoltavo la mia voce interiore. Al liceo c’è stata un’insegnante che è stata come una seconda madre; mi ha salvato la vita moltissime volte. Attualmente anche l’insegnante del conservatorio è una figura paterna, una persona davvero molto buona e brava, con cui mi consulto e mi confronto. Il mio approccio alla musica è spirituale: prima mi consumava – si chiede spesso ai musicisti di dimostrare di essere migliori, ma sono derive narcisistiche. Suoniamo musica di altri, lo spartito è una chiave d’accesso al pensiero del compositore, io devo fungere da canale per la trasmissione viva, sono un servo del tempo, della musica e del compositore».
M.B.: «La mia prima insegnante, Maria Campaiola, è stata importantissima per farmi innamorare della musica: con lei non ci si fermava solo sulla tecnica, ma facevamo masterclass estive, pranzavamo, guardavamo opere e facevamo indovinelli sugli strumenti. Al Conservatorio, con Marina Scalafiotti, ho fatto un percorso lungo, di grande crescita. Ho imparato a essere organizzato e preciso, usando bene il tempo senza ansia. In Italia, nelle scuole spesso non si ha consapevolezza del Conservatorio, i professori preferiscono gli sportivi, ma la musica esercita un’attività psicologica senza paragone. Anche questa dovrebbe essere un vanto».
M.J.P.: «Il mio ambiente è sempre stato una bolla di sperimentazione musicale. Ho avuto la fortuna di trovare nella mia prima insegnante del Conservatorio una persona magnifica. Con lei condividevo questo senso di ricerca creativa: mi sono trovata benissimo, mi spingeva a usare immaginazione, sperimentazione, improvvisazione… era una ricerca costante. Mi sentivo sempre più stimolata, verso la mia voglia di imparare e creare. Il primo approccio con la formazione è stato molto positivo e incoraggiante».
Veniamo ai concerti del Festival Chopin, come sono stati per voi? Che rapporto avete col repertorio? Quali composizioni hanno rappresentato una sfida maggiore?
D.I.: «È stata un’epopea: suonare quattro programmi chopiniani in due giorni richiede impegno emotivo e lucidità per attraversare flussi di depressione, tragedia e morte, ma non ero preoccupato. Il repertorio era così vasto che, vivendolo sinceramente, non c’è spazio per la preoccupazione. Studi il dramma prima, e poi diventa parte di te: se sono vero, non ho niente da temere. Vivendo le storie dei brani, interagivo con il pubblico, sentivo i pensieri e le reazioni, vivevo con gli altri, ero parte del pubblico mentre suonavo».
M.B.: «Questa occasione mi ha dato l’opportunità di rivalutare il mio legame con Chopin. La mia insegnante mi assegnò subito brani difficili. Ho sempre fatto fatica con questa musica: è complicato raggiungere quel livello di chiarezza e spontaneità. Studiare Valzer, Mazurche e Polacche mi ha permesso di scoprire altre sfaccettature e stili di Chopin. È stato bellissimo e stimolante. Sono arrivato a suonare meglio le composizioni che già conoscevo, e a legare di più con il compositore. Chopin è molto diretto nel suo messaggio, ed è stato bello rivedere in me queste qualità: essere onesto con il pubblico, trasmettere naturalmente. Tutto questo l’ho sviluppato in particolare nelle Mazurche che ho eseguito, dodici, diversissime tra loro. L’esecuzione dell’intera opera è un’esperienza bellissima, richiede un bagaglio culturale e di vita enorme. Le Mazurche sono quelle che mi hanno stupito di più e mi hanno dato il maggiore piacere: sono piccole chicche con tante sfaccettature».
M.J.P.: «Sono stati concerti molto intensi e faticosi, arrivando da altre sette esibizioni negli ultimi dieci giorni. La musica di Chopin è centrale per i pianisti. La mia prima insegnante odiava il modo ‘sdolcinato’ di eseguire Chopin. Mi disse di non studiare i Notturni, facendomi sentire le Mazurche più vicine alla verità della composizione. Avere l’occasione di sperimentare e comunicare opere così diverse è stato bello. Mi porto nel cuore tutti i pezzi, principalmente un Notturno, il Postumo in mi minore, una delle prime cose che ho suonato, e le Ballate. La Terza ballata è una composizione meravigliosa, con la sua discorsività e narrazione organica. Suonarla per la prima volta è stato bellissimo, come stare nel presente e parlare al pubblico, facendo un viaggio insieme».
C’è stata una figura, un artista, un musicista o un intellettuale che ti ha influenzato o che stimi particolarmente?
D.I.: «A undici anni, ascoltai un’interpretazione di Skrjabin da parte di Horowitz, e mi ritrovai in lacrime. Mi ha toccato, ha aperto in me la volontà di ascoltare anche dagli altri. La spiritualità, l’empatia, l’essere terapeuta, vedere le cose vissute dagli altri, mi aiuta ma mi devasta. Concerto viene da “concertare”, cioè fare qualcosa insieme. Io concerto con il pubblico, non per il pubblico. Quando ci sei tu ad ascoltarmi, quel brano non può più essere quello che ho preparato; essere flessibile è un tratto molto importante».
M.B.: «Durante gli studi al liceo ho confrontato le mie nozioni musicali con artisti, pittori, letterati. Molti compositori prendono spunto dall’arte, penso a Liszt con i Sonetti del Petrarca. Inizialmente vogliamo tutti aspirare a Liszt, grande interprete, amato dal pubblico, con tecnica pazzesca. Ma anche chi si mostra spavaldo ha un lato intimo, come Liszt che si ritirò alla vita religiosa. È bello avere tante competenze su stili e personalità. Chopin non suonava forte, ma la sua musica colpisce tutti perché inconfondibile, immediata. Chi sa suonare bene Chopin riesce a suonare quasi tutto, ti dà un bagaglio emotivo e di onestà che puoi riversare su qualsiasi cosa. È impossibile non avere un legame speciale con Chopin».
M.J.P.: «Direi sicuramente Horowitz. Lui è geniale, ha quella genuinità nel suo rapporto con la musica, nel puro stupore. Non possiamo frenarci quando proviamo qualcosa con la musica. Horowitz dava il cento percento in ogni esecuzione. Sbagliava, ma ti passava il messaggio. Poi stimo il mio insegnante Enrico Pace: è un pianista pazzesco, sono grata per ogni lezione con lui. Anche musicisti non famosi con cui ho collaborato mi hanno insegnato tantissimo. I miei colleghi di trio con i quali ogni giorno scopro qualcosa. Ogni situazione di vita è una fonte di ispirazione. La musica si sviluppa tantissimo attraverso le esperienze di vita. Bisogna essere grati per qualsiasi cosa si viva, avere il coraggio di viverla fino in fondo. Penso sia la più grande fonte di ispirazione».
Qual è la musica che ti fa più piacere ascoltare, che ti coinvolge o ti interessa maggiormente?
D.I.: «Adoro il barocco, Scarlatti e Bach. In Bach si toccano vette di contatto con Dio. Quando voglio essere purificato, vado da Bach. Adoro Scarlatti perché mi mette di buon umore, mi mette in un’estrema estroversione che è parte vera di me. C’è qualcosa di vibrante in Skrjabin, lui era un mistico, un compositore su cui torno quando ho bisogno di evadere o mi sento giù. Se c’è qualcosa che non ti piace, è perché non gli permetti di esistere dentro di te. Non mi piacevano Schumann e Brahms, poi a tredici anni ho pianto suonando Schumann. Un allievo non capiva Mozart, e io dissi: “Certo, perché sei troppo serio”».
M.B.: «L’unica che tendo a non apprezzare è quella priva di significato, dove si cerca solo una rima o il ritornello per l’estate, con uno scopo prettamente commerciale. Quella faccio fatica a digerirla. L’importante è che la musica abbia un messaggio, che arricchisca. Mi piace il jazz, la musica latino-americana, di cui sono un grande appassionato, che ho ballato e continuo a ballare, con la sua cultura e lo studio dietro a ritmi e percussioni. L’importante è sempre lo scopo, il messaggio che si vuole dare alle persone, perché con la musica si condivide. Chi fa musica condivide qualcosa di sé, un po’ come tramandare un messaggio».
M.J.P.: «Non ascolto quasi mai musica per pianoforte. Siamo condizionati, le orecchie pronte a carpire… Se ascolto un pezzo che suono, mi viene da riprodurre ciò che ho sentito. Ascolto molta musica sinfonica, da camera. Mi piace la musica folklorica di altri paesi, musica sconosciuta che mi porti lontana dal nostro punto di vista occidentale, mi piace spaziare. Da suonare, sono un’amante della musica da camera. Mi piace suonare con gli altri. Mi piace suonare anche da sola, mi dà una libertà che nessun altro contesto consente. Come autore, siamo tutti grati a Bach, lo suonerei tutti i giorni. Fra i moderni, sono innamorata della musica di Skrjabin, non mi stanco mai di lui, incarna la figura dell’esploratore artistico a trecentosessanta gradi. Ha cambiato stile compositivo più volte, era continuamente alla ricerca, connetteva la musica alla religione, ad altre dimensioni e colori. Ogni volta che suono un suo pezzo, c’è un universo da imparare, da esplorare, non ci si può stancare».
La musica si fa parola e la parola diventa musica. L’edizione 2025 del Salone del Libro ha dimostrato come letteratura, storia e musica possano intrecciarsi e fondersi in un’unica esperienza.
Il 16 maggio, quattro incontri diversi tra loro hanno seguito un filo rosso comune, dando voce a temi ricorrenti e parole che, come un’eco, si sono ripetute cambiando forma.
L’IO E IL NOI: LUCIANO LIGABUE E MATTEO ZUPPI
Chi lo avrebbe mai detto che un rocker di Correggio e un cardinale avrebbero formato un duo irresistibile? Eppure, Luciano Ligabue e Matteo Zuppi hanno regalato all’auditorium del Lingotto, colmo di persone, una conversazione densa di riflessioni sulla vita, sulla musica, sulla necessità di raccontarsi, ma anche di sorrisi e risate.
«Per vivere la Storia, con la S maiuscola, bisogna ascoltare e leggere tante storie per capire quanto sia importante passare dall’Io al Noi». Da questa riflessione di Gigio Rancilio è cominciato il dialogo tra queste due figure unite dal bisogno di raccontare e condividere storie. Ligabue, abituato a vivere i palchi, ha svelato quanto la parola cantata abbia un peso ben diverso da quella detta, «può essere più leggera o più pesante e profonda»; il cardinale ha ricordato che «chi canta prega due volte… la musica permette di raccontare ciò che non si riesce a dire. Mettere in circolo, è l’unico modo per relativizzare l’Io». Il potere della parola è infatti tema centrale nell’edizione 2025 del Salone che ha come slogan “Le parole tra noi leggere”.
Non è un caso che Ligabue abbia ripercorso la sua carriera parlando di responsabilità: «Quando ho cominciato non volevo lavorare… volevo esercitare una passione, volevo cantare. Ma quando ti rendi conto che ci sono persone che si tatuano una tua frase, vuol dire che non lo puoi più fare in maniera così leggera: si alza, per fortuna, un livello di responsabilità. Capisci che puoi essere utile, essere un sostegno e un supporto soprattutto per chi sta passando un momento difficile».
Come ha ricordato il cantautore, la musica ha cambiato forma e potenza: se una volta si cantava per il bisogno di dire qualcosa, questo bisogno oggi rischia e viene sopraffatto dalla necessità di apparire.
Foto di Giulia Fasano, da cartella stampa Salone del Libro
Il senso di comunità, quel Noi che per Zuppi è fondamentale per il benessere dell’Io, Ligabue lo ritrova nel legame con il suo pubblico: una fiducia incondizionata che i fan ripongono nel cantautore e che merita, in cambio, un’apertura emotiva autentica. Nella sua autobiografia, Unastoria, Ligabue apre il suo cuore e la sua vita ai lettori, condividendo anche il dolore più grande: la perdita del figlio appena nato.
«In pandemia, quando c’era una totale incertezza del futuro, e il presente era un limbo, non si poteva fare altro che guardare al passato. Ho capito che quella poteva essere l’occasione per fare chiarezza sulle emozioni che mi hanno accompagnato. Questo libro è l’atto più estremo di svelamento di me stesso».
Il dolore, per Zuppi, è difficile da classificare. Inizia da qui una riflessione su temi attuali che hanno toccato profondamente tutti.
«Come si fa a controllare il dolore quando i bambini muoiono di freddo? E quando muoiono nella Striscia di Gaza? Questa cosa ci deve fare paura! La guerra è la più grande paura. Oggi si parla di riarmo, si tracciano confini… è una follia. La paura deve diventare consapevolezza e speranza. L’individualismo non fa bene e il sovranismo non ha futuro».
Foto di Giulia Fasano, da cartella stampa Salone del Libro
“Chissà se Dio si sente solo”, brano del 2023, esplora le paure, quelle che ci rendono soli e che ci fanno perdere il senso del Noi, lasciandoci smarriti. Ligabue riflette su un decennio segnato da eventi drammatici, per citarne solo alcuni: la pandemia, la guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Seppur laico, il cantautore esprime un profondo bisogno di spiritualità e ricerca e, nel tentativo di umanizzare Dio, si chiede «e se anche Dio si sentisse abbandonato da noi?». Un pensiero che va al di là della religione e che si lega alla necessità di ritrovare una dimensione collettiva, una comunità che restituisca speranza.
La pace e la speranza sono state cantate nel 1999 da Ligabue, insieme a Piero Pelù e Jovanotti, nel brano “Il mio nome è mai più”. «Oggi – afferma il cantautore – è più difficile far arrivare le canzoni: escono tantissime canzoni che mediamente hanno una vita più breve e, forse, non lasciano una traccia profonda. Quando ho iniziato guardavo a Francesco (Guccini) e a Fabrizio (De André)… cantare era un atto istintivo, cantare era una conseguenza dello scrivere». Il brano, che denuncia la guerra, nasce dopo richieste esplicite da parte di figure politiche – presidente del consiglio e segretari di partito – che sollecitavano i musicisti a fare qualcosa. Ma Ligabue e i suoi colleghi hanno risposto chiaramente: «Non è la musica a dover fare qualcosa, ma è la politica che deve agire!».
Tuttavia il senso di responsabilità ha prevalso: hanno prodotto il brano e abbracciato la causa di Emergency, riuscendo a finanziare la costruzione di due ospedali in Afghanistan. È un chiaro segnale che dimostra come la musica possa essere qualcosa di più di un mero intrattenimento, può diventare un atto di protesta, di presa di coscienza, di speranza ma che purtroppo non può sostituirsi alla politica: può evidenziare i problemi, farli risuonare nelle menti e nei cuori, creare opportunità e nutrire l’anima ma, alla fine, è la politica l’unica ad avere il potere di prendere decisioni e di agire concretamente.
UNA RIVOLUZIONE MUSICALE: STEFANO PISTOLINI E ODERSO RUBINI
Nel libro Qual è quello che canta? Resoconto di una band minore, Stefano Pistolini ci porta in un’epoca in cui la musica non era solo un mezzo di intrattenimento, ma un atto di resistenza culturale, una vera e propria esperienza collettiva. Negli anni ’70 e ’80 nacque un fermento musicale che si opponeva alle logiche dei cantautori: il punk e la new wave trasformavano il suono in un manifesto di ribellione e appartenenza.
Impossibile non trovare punti di contatto con il dialogo tra Ligabue e Zuppi: la musica è cambiata, il modo di produrla è cambiato e anche il rapporto tra musica e società. Se negli anni ’70 e ’80 la musica si faceva per il piacere di farla, oggi – come sottolinea Pistolini– si tende a cercare la via più veloce per ottenere il successo. Afferma l’autore: «Fare musica era un’esperienza collettiva, i suoni avevano un valore trasgressivo, dissacrante e innovativo».
Pistolini ci porta in un’Italia di fine anni ’70, in particolare nella città di Bologna dove prende forma una scena musicale che mescola creatività, politica e sperimentazione. In quel periodo Oderso Rubini diventò un catalizzatore della rivoluzione musicale che stava nascendo (è interessante anche ricordare come in quegli anni al Conservatorio di Bologna sia nato il primo corso di musica elettronica). Rubini diede vita, insieme ad alcuni compagni di corso, ad un piccolo studio di registrazione in Via S. Felice che poi si trasformerà nella cooperativa Harpo’s Bazaar. Grazie alla produzione di una cassetta degli Skiantos, la cooperativa entrò in contatto con Gianni Sassi (capo della Cramps Records). Successivamente, la direzione artistica della Ricordi propose a Rubini un contratto che permise alla Harpo’s Bazar di diventare una vera casa discografica. Dopo il successo del Bologna Rock, evento musicale organizzato nel 1979 che riunì gruppi allora sconosciuti e radunò seimila persone, Rubini fondò la Italian Records.
Il libro dipinge il ritratto di un’epoca che le nuove generazioni non hanno vissuto e probabilmente non avranno modo di sperimentare. Oggi la musica è sempre più accessibile, è presente ovunque e l’esperienza che un tempo accompagnava la creazione e la fruizione di musica, sembra dissolversi.
MUSICA E GIUSTIZIA IN DE ANDRÈ: FABRIZIO BARTELLONI
Esistono artisti che si limitano a raccontare il mondo, ma ci sono anche quelli che il mondo lo ribaltano, lo smontano, lo ricostruiscono guardandolo da un’altra prospettiva. Fabrizio De André appartiene a questa ultima categoria: è – come lo definisce Fabrizio Bartelloni – il più grande insinuatore di domande e non un dispensatore di certezze. La sua musica invita a liberarsi dalle proprie maschere e strutture sociali per poter indossare i panni altrui, a comprendere e non giudicare.
Fabrizio Bartelloni, avvocato e scrittore, ha pubblicato in concomitanza con il Salone del Libro Al vostro posto non ci so stare: un testo che ripercorre la carriera del cantautore genovese, De André, con una particolare attenzione alla visione dell’artista sul tema della giustizia e sul suo rifiuto di mettersi nella posizione di chi giudica. La Camera Penale di Pisa ha patrocinato il libro riconoscendo nella poetica di De André e nel testo di Bartelloni un potente veicolo di riflessione sulla giustizia e sulla pena.
Il cantautore, negli anni ’60, fu una figura rivoluzionaria e dirompente per l’epoca, tanto da essere spesso censurato. I temi dell’illegalità – come ricorda Bartelloni – erano stati sfiorati da altri autori come Fred Buscaglione, ma De André, ispirandosi al cantautorato francese di George Brassens, fu tra i primi a raccontare storie di personaggi marginali e marginalizzati. L’ossessione per la giustizia, l’emarginazione e la condizione umana è stata il filo conduttore della sua esistenza.
“Il pescatore”, secondo Bartelloni, è il brano in cui traspare maggiormente l’essenza della sua idea di giustizia: De Andrè/il pescatore rifiuta di prendere la posizione di giudice e accoglie l’essere umano per quello che è («versò il vino e spezzò il pane//per chi diceva ho sete ho fame»), saranno i gendarmi «in sella e con le armi» a giudicare la colpevolezza o l’innocenza dell’assassino che aveva «due occhi grandi da bambino//due occhi enormi di paura». De Andrè non riduce l’uomo al singolo gesto compiuto perché ritiene che il comportamento umano, attuato in un determinato momento, possa essere generato da mille ragioni. Il cantautore cerca di capire l’essere umano e il perché delle sue scelte.
Esiste una sproporzione tra il gesto e la punizione associata al punto da trasformare le carceri in luoghi di anime già morte. La società finisce per dimenticare coloro che stanno in carcere, relegando i detenuti a una condizione di abbandono. Invece di essere un luogo di rieducazione e reinserimento, diventa un limbo sociale, dove chi ha commesso un errore viene stigmatizzato. “La Ballata del Miché” ne è un esempio: Michele Aiello, uomo dall’identità incerta trasferitosi a Genova dal sud dell’Italia, ha ucciso un uomo per salvare la sua amata, viene condannato a venti anni di carcere ma si toglie la vita per ottenere la libertà. Persino la sua morte viene disprezzata: «Nella fossa comune cadrà//senza il prete e la messa//perché di un suicida non hanno pietà». Per De André negare un funerale e una degna sepoltura è l’ultimo impietoso atto di una giustizia cieca.
«Il carcere negli anni ’60 è un luogo dove la vita finiva» ha affermato Bartelloni «questo è un messaggio rivoluzionario per gli anni ’60, ma lo è anche oggi nel 2025… e forse è questo il vero problema». Negli anni ’90 De André visitò un carcere in Sardegna, e riconsiderò la sua posizione: il carcere, se pensato in modo diverso, può trasformarsi in un ambiente di reinserimento educativo. Il problema resta il sovraffollamento che impedisce agli strumenti di operare nell’ottica della risocializzazione.
In “Don Raffaè” il cantautore denuncia non solo le condizioni disumane delle carceri ma anche il vuoto lasciato dallo Stato nei territori in cui la criminalità organizzata diventa l’unica alternativa. Un tema attuale che riecheggia nelle parole di Ligabue quando afferma che la musica può evidenziare i problemi ma non può sostituirsi allo Stato.
Ancora una volta, anche con questa conferenza si evidenzia come le storie raccontate attraverso la musica si trasformino in un atto di denuncia e in una forma di presa di coscienza.
RACCONTI RESISTENTI: MODENA CITY RAMBLERS
Alzare il volume della musica dei Modena City Ramblers era quasi un rito in molte case: musica trascinante, sempre presente e che – diciamolo – faceva storcere il naso di qualche vicino… ma chi può lamentarsi di un po’ di sana musica folk-rock che racconta la lotta e la libertà? Se dobbiamo disturbare, meglio farlo con stile!
Generazioni intere si sono ritrovate, volenti o nolenti, a canticchiare le loro canzoni, a ballare sui ritmi trascinanti che mescolano tradizione e ribellione. È difficile toglierseli dalla testa e dalle orecchie e, forse, è giusto così perché certe storie vanno raccontate e tramandate. Anche ad anni di distanza, le loro musiche risuonano forti perché la Resistenza non è solo quella di ieri ma anche quella di oggi.
Al Salone del Libro, però, le parole hanno preso il posto delle note. In occasione dell’80° anniversario della liberazione dell’Italia e il 20° anniversario dell’album Appunti Partigiani, i MCR hanno deciso di assumere le vesti di scrittori (anche se lo sono sempre stati – ricordiamo la frase citata sopra: «cantare era una conseguenza dello scrivere»). Hanno scritto un libro intitolato Nati per la libertà. Racconti resistenti: un’opera corale letteraria che unisce fantasia e memoria.
Presentati da Carlo Greppi, storico e scrittore torinese, Davide (Dudu) Morandi, Franco D’Aniello, Francesco (Fry) Monetti, Leonardo Sgavetti e Massimo Ghiacci hanno raccontato la genesi del libro, rivelando piccoli squarci delle storie che lo compongono.
Foto di Fabrizio Fiore, da cartella stampa Salone del Libro
Il progetto ha preso forma in modo spontaneo, gli autori non hanno concordato preventivamente i contenuti specifici: ciascuno ha scritto con il proprio stile senza influenzare gli altri in alcun modo, dando vita, così, ad un’opera che riflette la diversità di approcci ma che mantiene – secondo Greppi e gli autori – una straordinaria coerenza narrativa. Proprio come accade quando compongono le loro canzoni: idee diverse che alla fine convergono in un unico racconto. Questa armonia nella diversità è una delle cose che rende il libro affascinante. La scelta di non firmare i racconti singolarmente, lasciando solo un riferimento nei titoli di coda, rafforza il senso comunitario del progetto; unisce la voci degli autori creando un’opera scritta da dieci mani ma con un’unica penna.
La profonda ricerca che ha accompagnato la scrittura dei racconti ha fatto riferimento alla Resistenza emiliana recuperando non solo documenti storici, ma anche testimonianze familiari e racconti tramandati oralmente.
Carlo Greppi ha evidenziato come la partecipazione di stranieri alla Resistenza italiana, sia stata spesso trascurata da molti storici e non. Il libro e i MCR, al contrario, hanno messo in luce figure che per anni sono rimaste ai margini della narrazione ufficiale perché «anche l’Italia ha avuto i suoi “Che Guevara”». Prigionieri di guerra evasi, combattenti scozzesi, il comandante Vladimiro… uomini venuti dall’estero ma che hanno combattuto per la libertà. «La libertà non ha colore, non ha appartenenza politica… è al di sopra di tutto. Si lotta per la libertà ovunque. Lontano da casa tu lotti per la libertà anche a casa tua» ha affermato Dudu, perché la lotta per la libertà non ha confini.
Foto di Fabrizio Fiore, da cartella stampa Salone del Libro
Raccontare la guerra è difficile; raccontare la morte, la distruzione, storie di bambini uccisi e storie di bambini e ragazzi che imbracciano le armi lo è ancora di più. Per trovare una voce adatta a queste storie, gli autori hanno sperimentato soluzioni narrative diverse: dare voce ai morti, agli oggetti e agli animali.
«Non riuscivo a mettermi nei panni degli uomini e donne che vivono e hanno vissuto queste cose. Ho scelto di immedesimarmi in un cane, solo così sono riuscito a raccontare questa cosa. È una cosa attuale, che vediamo anche in questi giorni e non capisco come non si possa provare empatia. Se oggi dovessi parlare di Gaza, lo farei fare ad un cane».
Ciò che più ferisce gli autori è il dolore nel vedere l’infanzia e l’adolescenza negata, la mancanza di empatia nei confronti dei bambini perché «i potenti che governano sanno che i loro figli non andranno mai a fare la guerra, ed è più facile mandare a morire gli altri». Franco ribadisce un pensiero comune «Se il mondo, nel 2025, pensasse di più ai bambini, non ci sarebbero guerre».
E così, tra parole, memoria e attualità, il Salone del Libro ha confermato che la musica e i musicisti da sempre lanciano gridi di protesta, ci costringono a sentire e ad aprire gli occhi, a riflettere e ad avere coraggio di prendere una posizione. La musica e la parola sono strumenti di libertà, fili invisibili che intrecciano storie e che si faranno per sempre interpreti di emozioni e sentimenti e, soprattutto, terranno viva la Resistenza.
«Io sono il mio DJ» cantava Samuel dei Subsonica alla fine dello scorso millennio. Sono parole che sembrano distanti da ciò che oggi fanno in molti, ovvero mettere in sequenza brani che il pubblico vuole ascoltare, senza una propria visione personale. Perché citarlo allora? Beh, oggi torna utile per illuminare il percorso musicale sfaccettato e personale di MACE (Simone Benussi), producer e DJ milanese, che dopo aver attraversato l’underground hip-hop agli inizi degli anni 2000, per poi passare all’elettronica e alla serate nei club, negli ultimi anni si è affermato nel mainstream come un artista unico, libero e riconoscibile.
Siamo stati a Milano per sentire il suo nuovo DJ set audio-visuale “Voodoo People” che per cinque sere consecutive, dal 14 al 18 maggio, ha presentato al club District 272. Lo show promosso dal Club To Club di Torino, che ha debuttato lo scorso novembre a Lingotto Fiere, è stato ripensato in una forma ristretta e familiare con l’aggiunta di ospiti diversi in apertura. Per la seconda data sono stati invitati per un set in collaborazione Lamusa II e XIII (del collettivo torinese Gang of Ducks).
Foto di Onofrio Petronella
Il locale è un ex strip club in cui sono ancora presenti i pali da lap dance, dal pavimento al soffitto svettano due grandi schermi verticali che, insieme alle luci soffuse, creano un grande portale verso altre dimensioni. Il viaggio e l’attraversamento fanno parte della visione musicale di MACE (vedi “breakthrough suite” in OLTRE), ne deriva la sua decisione di sperimentare con suoni che provengono da culture con cui è entrato a contatto durante i suoi viaggi esplorativi in giro per il mondo. La prima parte è piena di voci, percussioni e tamburi africani, baile funk brasiliano, che poi virano verso jungle e breakbeat. I generi continuano a sovrapporsi, mentre sugli schermi una maschera tribale si trasforma nel volto dell’artista. La seconda parte invece è una serie di produzioni inedite: MACE suona al sintetizzatore modulare brani che esplorano ulteriormente i generi e i ritmi dell’elettronica, mescolando techno industriale, ruvida e martellante a tracce psichedeliche e ipnotizzanti. Tutto questo si collega alla parte visuale che accompagna e sostiene ogni variazione, creando un percorso fitto di connessioni tra luci e immagini.
Foto di Onofrio Petronella
Nel finale MACE abbandona la consolle e passa dalla parte del pubblico, tra abbracci e balli di gruppo l’ultima traccia scatena le poche energie ancora rimaste e conclude questo lungo rito di passaggio musicale. Un progetto sincretico, come il culto voodoo che l’ha ispirato, sulla scia dell’omonimo brano di Prodigy e del documentario su Haiti realizzato da Maya Deren, che diventa un intenso invito al ballo sotto la guida di un DJ che ci salva la vita.
Negli occhi ho impresso
Il vuoto delle complessità di un buco nero
Che campiona anche l’aldilà
Per trasformare l’agonia delle parole
In forma d’onda, azioni, in tutto ciò che si muove
L’Anteprima Giovani del Teatro Regio di Torino rappresenta un’opportunità straordinaria per avvicinarsi all’opera, un genere che in queste occasioni dimostra di essere, più che mai, giovane e vivo.
In programma, il 13 maggio 2025, c’è Hamlet, opera composta nel 1868 dall’omonima tragedia di William Shakespeare con musiche di Ambroise Thomas e libretto di Michel Carré e Jules Barbier. Cinque atti che sfidano l’adattamento di un testo tanto complesso e intenso, a cui la regia di Jacopo Spirei offre una risposta brillante.
All’arrivo in sala, prima dell’inizio dello spettacolo, il sipario è già alzato, alcuni figuranti leggono appassionatamente un libro – presumibilmente l’omonima opera shakespeariana. Pian piano il palco si riempie di lettori e finalmente le luci si spengono. L’Orchestra del Teatro Regio, diretta da Jérémie Rhorer, comincia a suonare dopo essere stata annunciata da un rullo di timpani. Il preludio, inizialmente cupo e malinconico, si intensifica diventando una marcia reale: è proprio in un’ambientazione nobiliare ma decadente che la storia di Hamlet ha inizio.
Foto da cartella stampa Teatro Regio Torino, foto di Daniele Gatti e Mattia Gaido
Il Coro del Teatro Regio rompe il predominio orchestrale con un canto solenne, rappresentando lo sfarzo delle nozze tra Gertrude e Claudius, rispettivamente Re e Regina di Danimarca.
I protagonisti dell’opera, Hamlet e Ophélie sono rispettivamente interpretati dal tenore John Osborn, e dal soprano Sara Blanch. Si presentano in un duetto dove la voce tenorile di Hamlet e quella sopranile di Ophélie si fondono esprimendo tutta la spensieratezza della gioventù dei giovani innamorati, che purtroppo avrà breve durata.
Laerte, il fratello di Ophélie, entra in scena subito dopo, (l’interpretazione del personaggio si deve a Julien Henric), seguito poco dopo dai due amici di Hamlet, Horatio (Tomislav Lavoie) e Marcellus (Alexander Marev), che si presentano dando ad Hamlet la sconvolgente notizia di aver avvistato lo spettro del padre deceduto.
Un’orchestrina dietro al palco e dei rintocchi di campana annunciano la comparsa dello Spettro, interpretato dal basso Alastair Miles, sempre accompagnato da due bambini, presumibilmente Hamlet e Ophélie da piccoli. Il fantasma parla con un declamato su una nota fissa per tutto il discorso, variando raramente, per esempio durante la ripetizione di «Venge-moi! Venge-moi!» dove il canto si alza leggermente per sottolineare l’urgenza del messaggio.
Foto da cartella stampa Teatro Regio Torino, foto di Daniele Gatti e Mattia Gaido
La Regina Gertrude è interpretata dal mezzosoprano Clémentine Margaine, dalla voce calda e potente che contrastacon quella leggera e cristallina di Ophélie, dimostrando eccellentemente la differenza d’età tra i due personaggi. Analogo è il rapporto tra le voci di Claudius, interpretato dal basso Riccardo Zanellato, dalla voce piena e profonda, e quella tenorile di Hamlet, più acuta e giovanile.
Gli ultimi personaggi a comparire sono i due becchini, interpretati da Janusz Nosek e Maciej Kwaśniewski che in questa versione assumono le sembianze di medici legali in un obitorio umido e squallido.
Di grande effetto sono le scelte registiche, come l’uso delle luci, spesso impiegate come riflettori cinematografici. Le scenografie, realizzate da Gary McCann, hanno contribuito a rendere Hamlet un’esperienza visiva di forte impatto: edifici sontuosi ma decadenti, con pareti dall’intonaco scrostato, un evidente contrasto tra presente e passato. Particolarmente suggestiva è la messa in scena dello spettacolo L’assassinio di Gonzago da parte di Hamlet e degli istrioni, durante il banchetto di nozze: grazie all’utilizzo di tre marionette giganti che occupano quasi interamente il palcoscenico, la rappresentazione assume un carattere fortemente spettacolare e coinvolgente.
Foto da cartella stampa Teatro Regio Torino, foto di Daniele Gatti e Mattia Gaido
Prima dell’inizio di quest’ultima scena un delicato assolo di sassofono soprano rompe il silenzio della sala, regalando un momento di grande suggestione. Questo intervento è degno di nota perché, al tempo in cui l’opera fu composta, il sax era uno strumento appena inventato e poco diffuso. L’effetto sorpresa che suscitò allora si rinnova ancora oggi poiché lo strumento rimane una presenza rara e inaspettata nel repertorio operistico.
Il quarto atto si distacca dal resto dell’opera, creando un ambiente a parte, molto cupo, probabilmente una soffitta con molti mobili sullo sfondo coperti da teli. Ophélie ne è la protagonista indiscussa. La scena, per come è strutturata, può ricordare l’“Atto in bianco” del balletto romantico per eccellenza, Giselle, da cui il regista sembra prendere ispirazione per le ambientazioni e i costumi, grazie alla presenza di tante donne vestite in abito da sposa. Ophélie percorre la scena, apparendo fragile e sofferente, ma allo stesso tempo travolta dalla follia, come se cercasse di persuadersi della propria felicità inesistente. Il canto, ricco di sforzati e glissati, richiama l’aria della bambola meccanica “ Les oiseaux dans la charmille” dall’opera fantastica Les contes d’Hoffmann. Sara Blanch interpreta il personaggio magistralmente, con una voce agile ed espressiva, donando un punto di vista introspettivo e innocente della giovane ragazza.
Foto da cartella stampa Teatro Regio Torino, foto di Daniele Gatti e Mattia Gaido
Il finale mette in scena la morte di Claudius e l’incoronazione di Hamlet come nuovo re. Il coro enuncia solennemente «Vive Hamlet, vive notre Roi!» ma il protagonista appare profondamente triste: abbraccia la salma di Ophélie mentre si dondola su un cavalluccio a dondolo: un’immagine carica di malinconia.
Al termine dell’opera, il pubblico esplode in un lungo applauso, particolarmente caloroso per il Coro, diretto da Ulisse Trabacchin, e per le interpretazioni di Claudius, Gertrude e Ophélie che hanno profondamente commosso gli spettatori.
Questa messa in scena di Hamlet ha portato a Torino l’opera romantica francese, un repertorio poco noto nel nostro paese, ma che vale davvero la pena riscoprire e far conoscere meglio.
L’ascolto musicale è sempre più una pratica di adattamento, cambiano le tecnologie, le sale e i contesti di ritrovo, ma rimane una parte centrale della nostra esperienza.
Se parliamo poi di musica elettronica sperimentale, ovvero l’esplorazione del suono nelle sue molteplici forme, trovare un luogo adeguato non è semplice. Parte da qui il progetto Performing the Club curato da Cristina Baù, che punta a ripensare i club come spazi performativi unici e non convenzionali.
Il club in questione è l’Azimut: uno tra i più raffinati di Torino e con spiccata attenzione al pubblico più affezionato, in cui la qualità artistica e audio non è lasciata al caso. Dal contenitore passiamo al contenuto: “La Danza dell’Universo” in Cinque Movimenti, ideata da Domenico Sciajno e Riccardo Mazza con visual di Laura Pol, è la performance presentata in anteprima sabato 10 maggio, in apertura alla serata techno curata da GENAU. Sciajno e Mazza sono docenti di musica elettronica rispettivamente presso il Conservatorio di Torino e la Scuola di Alto Perfezionamento Musicale di Saluzzo, Pol è artista visuale e fondatrice di Project-TO insieme a Mazza.
Foto di Loris Turturro
All’ingresso ogni partecipante riceve una bustina con all’interno uno dei cinque elementi del Wu Xing (fuoco, acqua, legno, metallo, terra), ripensati sotto forma di ceneri, ghiaccio, minerali, polveri di metallo, germogli. Si arriva così nella sala principale. I tre artisti stanno in piedi attorno ad un tavolo centrale su cui è disposta la strumentazione necessaria: portatili, tablet, mixer audio. C’è anche una ciotola con sopra una telecamera collegata al computer di Laura che elabora il segnale video attraverso un algoritmo creando i visual proiettati sulle due pareti.
Foto di Loris Turturro
L’ordine seguito si potrebbe definire ascensionale, dall’esecuzione del movimento legato alla terra, caratterizzato da una bassa frequenza costante del sound System Funktion-One, che fa tremare la nostra stabilità. Si passa poi al legno e al fuoco, in cui i suoni iniziano a scontrarsi, sembra di raggiungere vette di altezze vertiginose per ricadere subito giù; poi tutto si trasforma in metallo, la fase più ritmata e veloce che precede il finale dell’acqua, in cui l’agitazione caotica diventa un flusso organizzato, sempre più calmo e avvolgente.
Foto di Loris Turturro
La performance è interattiva, il pubblico viene invitato da Laura a riversare il contenuto della propria bustina dentro la ciotola, creando così effetti visivi sempre nuovi a seconda dell’elemento: inversioni cromatiche, sovraimpressioni, illusioni quasi psichedeliche. Non si ricerca un equilibrio della forma, ma sempre una continua trasformazione sonora e visiva che non si arresta mai. Siamo completamente circondati da suoni e luci in un contesto diverso dal solito, in cui possiamo muoverci, esplorare, sederci e chiudere gli occhi. Un’esperienza di ascolto non riproducibile con altri mezzi, ma che si può trovare sulle piattaforme di streaming, così da poterla vivere almeno in parte.
Il 10 maggio al Teatro Vittoria si è conclusa la rassegna “Note tra di noi” dell’Unione Musicale con due giovanissimi e talentuosi musicisti: la violinista Yuki Serino e il pianista Martin Nöbauer. Lei nel 2024 si è aggiudicata il primo premio al Concorso Città di Cremona, lui nel 2023 è stato finalista al Concorso Internazionale Chopin su strumenti d’epoca di Varsavia.
Quando, dopo il saluto del direttore artistico della rassegna, sono entrati i due musicisti, entrambi con un grande sorriso sulle labbra, si è respirato un piacevole senso di leggerezza (fra l’altro, parte del pubblico ha preso posto su alcune sedie posizionate sul palco per abbattere le barriere tra platea e artisti).
Il primo brano che hanno scelto per questa serata è stata la Sonata in sol maggiore K. 379 di W. A. Mozart, che si apre con un “adagio” intimo e profondo introdotto dal pianoforte; il violino entra poco dopo, con un accordo pieno in imitazione delle prime note del pianoforte. Sono bastate poche battute per capire che davanti a noi avevamo degli autentici talenti nonostante la giovane età: questo inizio perfetto ci ha fatto subito entrare nel loro mondo. Il secondo movimento “allegro” cambia il carattere della sonata, con un gioco di imitazioni tra i due strumenti molto deciso e accattivante, mentre l’ultimo, “andantino cantabile”, contiene variazioni sul tema. Entrambi i musicisti hanno onorato la sonata mozartiana: se Yuki è riuscita a coinvolgere il pubblico con il suo modo unico di suonare, Martin non è stato da meno, e insieme hanno costruito un intreccio di colori e dinamiche che ha colpito gli ascoltatori.
foto da Unione Musicale
Il programma è proseguito poi con le Tre romanze op. 22 di Clara Schumann. Il primo di questi vellutati quadri sonori è stato particolarmente suggestivo: calibrando ogni nota, i musicisti sono riusciti a trasmettere qualcosa del carattere appassionato della compositrice. Nel secondo, siamo entrati più in profondità nel racconto: con il suo vibrato e la precisione assoluta nei passaggi, era come se la violinista avesse assorbito lo spazio intorno a lei: impossibile distogliere lo sguardo!
foto da Unione Musicale
In chiusura del concerto è stata eseguita la Sonata in la maggiore op. 13 di Gabriel Fauré. (Molto raffinata l’idea dei due musicisti di farci attraversare tre periodi diversi con composizioni che rappresentano a meraviglia il carattere musicale e stilistico dei rispettivi autori!). Nel primo movimento di Fauré, Martin Nöbauer ha brillato in particolare per un crescendo perfetto, eseguito con naturalezza e un’irresistibile tensione. Un momento che ha sicuramente lasciato una forte impressione è stato il climax creato dalle ottave del violino e dagli arpeggi del pianoforte: sono stati impeccabili, raggiungendo il secondo tema con una dolcezza inaspettata, fuori dagli schemi. In tutto il brano sono riusciti a dimostrare una padronanza notevole, combinando destrezza tecnica e sincera espressività emotiva, frutto indubbiamente di un duro lavoro in fase di studio.
Le reazioni del pubblico sono state molto positive: i due musicisti, stanchi ma visibilmente appagati, sono stati acclamati con calorosi applausi (e pazienza se i battimani avevano interrotto le sonate dove il rito concertistico non lo prevede: i musicisti non hanno perso né la concentrazione, né il sorriso!).
Per il loro nuovo singolo Ansia, abbiamo fatto un’ intervistare ai BRX!T, gruppo piemontese composto da Davide Barbieri/ Dave (basso e voce), Alessio Ferrara/ Ale (batteria) e Gabriele Ferrara/ Gabe (chitarra), scoprendo le ispirazioni dietro al brano, il loro processo creativo e cosa riserva il futuro per loro.
L’ultima volta era il 2022, cos’è successo in questi anni?
Gabe: Sono cambiate un bel po’ di cose…l’ultima volta eravamo in quattro ora siamo in tre.
(sorride, ndr). Abbiamo cambiato formazione e il modo di scrivere: siamo felici di aprire una nuova fase della nostra vita musicale.
Per chi non vi conosce, chi siete?
B: Siamo i BRX!T e veniamo da Nichelino. Fino a cinque anni fa ci conoscevate come Fratellislip, ma nel 2021 abbiamo deciso di cambiare nome. BRX!T era il titolo del nostro doppio EP, che avrebbe dovuto uscire nel 2020 ma è stato bloccato dalla pandemia. Quando abbiamo scelto di modificare genere e lingua, volevamo comunque restare fedeli alle nostre radici, ed è per questo che abbiamo deciso di chiamarci così… nonostante la grande rivoluzione che stavamo vivendo—una delle tante che abbiamo affrontato! (ridono, ndr)
Perché suonate e cosa vi ha spinto a far parte di una band?
Ale: Nel mio caso e in quello di mio fratello (Gabe), è stato nostro padre, da sempre appassionato di musica, a trasmetterci questa passione. Ricordo un Natale, o forse un compleanno, quando avevo otto anni: ci regalarono Guitar Hero, e da quel momento abbiamo preso in mano gli strumenti senza mai più abbandonarli.
Dave: io dovevo fare qualcosa e non mi piaceva il calcio, allora ho iniziato a suonare.
Se doveste descrivervi con tre parole, quali sarebbero?
Per descriverci, useremo HEAVY-POP, il genere in cui cerchiamo di identificarci oggi. Non crediamo molto nella categorizzazione musicale, ma se dovessimo sceglierne una, sarebbe questa.
Il 30 aprile è uscito il vostro ultimo singolo Ansia, com’è nata questa canzone? Avete un metodo preciso per scrivere i brani o, nasce tutto in modo spontaneo?
Dave: Non abbiamo un metodo fisso per scrivere: a volte lavoriamo individualmente, altre volte in gruppo. Ma la maggior parte delle volte componiamo jammando, lasciando che la musica nasca spontaneamente.
Ansiaè nata dalla necessità di esprimere un sentimento che tutti e tre proviamo, seppur in forme diverse. Io non la sento sul palco, ma nella vita quotidiana.
L’idea del testo è scaturita da un periodo di circa sei mesi in cui mi sono ritrovato a fare visite inutili, per poi scoprire che era “solo” ansia—quella che stringe il petto e ti fa sentire senza via d’uscita.
Quest’ansia che stringe la gola
Non prendermi, lasciami ora
Foto di Elisabetta Ghignone dal profilo Facebook dell’artista
L’ansia è un’emozione di cui si parla molto spesso, forse è anche uno dei temi che più accomuna la nostra generazione. Viene spontaneo chiedervi quale sia il vostro rapporto con lei?
Ale: L’ansia per me? Ogni secondo in cui respiro essenzialmente (sorride, ndr) …ogni istante della mia vita è soverchiato, occupato dall’ansia.
Dave: Per me è guidare fino a Torino. (ridono,ndr)
Gabe: È uno stato d’animo che provo quando mi sento sopraffatto da troppe cose. Quando mi sento pieno, l’ansia diventa intensa. La sfogo in modi diversi, ma in generale la percepisco come un peso che mi opprime.
Dave: Poi, secondo me, è un tema che accomuna tutti, qualsiasi persona e quindi ci sentivamo di scrivere qualcosa per noi e per tutti.
Qual è il vostro obiettivo come band? Quali sono i vostri progetti futuri e dove vi vedete tra 5 anni?
B: Conquistare il mondo vale come obiettivo? In realtà, il nostro sogno nel cassetto è vivere di questo.
Vederci tra cinque anni è molto difficile, non ci aspettavamo nemmeno che ci saremmo trovati in tre a fare musica ancora perché molti mollano per diversi motivi. È difficile vedersi ma saremo sicuramente sul palco.
Qual è il vostro featuring dei sogni?
Gabe: Abbiamo un sogno, si chiama Antonino Cannavacciuolo, è un feat difficile ma ci proviamo.
Lele adani è diventato un cantante, si può fare tutto. (ridono, ndr)
Dove possiamo venire a sentirvi suonare dal vivo?
B: Il primo giugno all’ Underdog Fest, un festival organizzato da noi, e il 12 luglio a Caselle.
Abbiamo pochi live estivi ma ci riscaldiamo per l’autunno quando usciranno gli altri singoli.
L’ultima domanda: se doveste creare un manifesto che rappresenti la vostra filosofia di vita e la vostra musica cosa ci scrivereste?
B: Fate quello che volete, fate ciò che vi rende felici e seguite quello che vi fa stare bene. Finché si è giovani, felici e spensierati, nulla peserà davvero. Non ponetevi confini.
Immersi in un mare di persone che saltano, ballano e cantano a squarciagola, l’energia travolgente di Simone Panetti e la frenesia collettiva trasformano il parterre dell’Hiroshima Mon Amour in un vortice di adrenalina e pogo sfrenato.
Noto a molti per il suo passato da streamer, Panetti è un artista romano che ha saputo rompere ogni etichetta dimostrando che si può creare ottima musica senza essere vincolati al mondo di internet e dei social. Ritorna live con un mini-tour di quattro date tra Bologna, Roma, Torino e il Mi Ami (Milano), portando sul palco un disco dalle sonorità completamente diverse rispetto ai suoi due album precedenti, Profondo rosa e Titolo provvisorio.
TOMBINO, il nuovo albumuscito ildue maggio, è nato in un pomeriggio di pura noia con l’intento di fare un “disco metallaro” sulla scia di “Cara Buongiorno”, prodotta da Greg Willen.
Panetti sale sul palco indossando una salopette animalier, affiancato da una band d’eccezione composta da Auroro Borealo, Valerio Visconti, Sebastiano Cavagna e Greg Dallavoce. Per mantenere un filo diretto con le sue origini da streamer, sull’asta del microfono campeggia una videocamera: il suo volto viene proiettato sullo schermo alle spalle, creando un ponte visivo con il mondo dello streaming e di Twitch.
Sin dalle prime note di “ALLE 6”, il pubblico viene travolto dal caos: sacchi dell’immondizia, usati come palloni da spiaggia, volano tra la folla.
Alla provocazione «A Bologna hanno pogato di più», il parterre risponde scatenandosi sulle note di “TOUCHDOWN”. Con “PEGGIORE IN CITTÀ”, Panetti lancia una sfida di viralità dei fan, chiedendo loro di fare piegamenti per tutta la durata del brano.
Lo show alterna momenti di puro disordine a interazioni folli con il pubblico, come la torta lanciata in faccia a un fan per festeggiare il suo compleanno. Commovente il momento di “Cagna”, la canzone da cui tutto ha avuto inizio ma, per non lasciare spazio a troppa introspezione. “CCCP” arriva a provocare il pensiero fascistoide con un moshpit confusionario e fuori tempo che Simone non manca di deridere.
Il manifesto di una generazione.
Come nei suoi lavori precedenti Panetti si mette a nudo affrontando senza filtri temi come ansia, paura, rabbia e frustrazione. Dice quello che la sua e la nostra generazione pensa, senza retorica né compromessi, mettendo in discussione il presente e interrogandosi sul futuro,
Le sue canzoni suonano bene in cuffia a volume massimo, ma dal vivo raggiungono la loro resa migliore. Panetti prende a schiaffi l’ascoltatore dalla prima all’ultima traccia, con un ritorno al punk ignorante e senza regole. Tra delirio, caos e imprevedibilità, il concerto si trasforma in un’esperienza collettiva senza schemi. Auroro Borealo si rivela una spalla solida e rassicurante per Simone, un supporto fondamentale sul palco.
Live perfetto? No. Ma forse è proprio questo il senso: stare insieme, divertirsi e prendersi qualche calcio in faccia, il prezzo di un live indimenticabile.
Vale la pena tornare a casa con i piedi distrutti, le orecchie che fischiano e qualche livido in più? Assolutamente sì. Ogni salto, ogni nota assordante e ogni spinta tra la folla diventano il segno di una serata vissuta al massimo, dove la musica non si è solo ascoltata, ma sentita sulla pelle.
Quindi, prendete il vostro paio di anfibi e non perdete tempo: comprate i biglietti per le prossime date perché passerete una serata di paura e delirio.
Torino accoglie con entusiasmo la presentazione della nuova stagione del Teatro Regio che prevede un cartellone che combina tradizione e innovazione.
Il 6 maggio al Foyer del Toro, in apertura della conferenza stampa, il sovrintendente Jouvin ricorda due grandi figure del teatro lirico che sono venute a mancare in questi giorni: PierreAudi, direttore del Festival d’Aix-en-Provence e il baritono Alberto Mastromarino. Poche parole, molto sentite, in ricordo di due persone che lasceranno un grande vuoto.
Il titolo scelto per la stagione, Rosso, nasce da un’attenta riflessione collettiva. Il colore, simbolo di passione e desiderio, nasconde anche un lato oscuro: quello della violenza e del sangue. Jouvin cita un passaggio di La scrittura o la vita di Jorge Semprùn: «Cerco la regione cruciale dell’anima in cui il Male assoluto si oppone alla fratellanza», una frase che riflette sul dualismo insito nell’essere umano. E proprio da questo tema prende vita il cartellone della nuova stagione: conflitti tra bene e male che raccontano la duplicità dell’animo in continua lotta tra amore e odio.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino
Ad inaugurare il nuovo anno operistico sarà Francesca da Rimini¸ opera di Zandonai nata nel 1914 per la città di Torino. Diretta da AndreaBattistoni, l’opera è un esempio di literaturoper basata sulla tragedia di D’Annunzio e rappresenta un viaggio tra influenze italiane, della scuola di Mascagni, e suggestioni da Debussy, Ravel e Strauss. Il direttore artistico Cristiano Sandri sottolinea l’importanza dell’equilibrio tra opere di repertorio e titoli meno noti che vogliono essere riscoperti e riportati in vita. In questa visione si inserisce Francesca da Rimini affidata alla regia di Andrea Berna, giovane regista vincitore del Premio Abbiati nel 2024.
Più volte, nel corso della conferenza, viene enfatizzata la fiducia che gli artisti nutrono nei confronti del Teatro Regio, riconosciuto come ambiente accogliente in cui tornano sempre con entusiasmo. Prova ne è l’opera di apertura, che ha visto il Teatro riunire un cast di attori-cantanti di prestigio disposti ad accettare anche i ruoli minori, brevi nella loro durata ma estremamente impegnativi dal punto di vista vocale; tra questi vi sono i due fratelli di Francesca, Samaritana e Ostasio, interpretati rispettivamente da Valentina Boi e Devid Cecconi. Tra gli interpreti si evidenzia la presenza di Roberto Alagna, nel ruolo di Paolo, che torna a Torino dopo 20 anni, e la giovane Barno Ismatullaeva che ha lasciato il segno nel 2023 nella Madama Butterfly.
La stagione inizia già ad ammorbidire i toni con Il Ratto del Serraglio, diretto da Gianluca Capuano e la regia di Michel Fau. Il Singspiel di Mozart mescola serietà e comicità lasciando un messaggio di speranza che scava approfonditamente nelle passioni dei personaggi. L’allestimento dello spettacolo viene dall’Opéra Royal de Versailles e preannuncia una produzione evocativa e colorata capace di trasportare il pubblico nei paesaggi turchi e nel palazzo del Pascià Selim.
Dicembre sarà il mese dedicato ai balletti e vedrà il grande ritorno di Roberto Bolle, che accende gli animi degli appassionati. Quest’anno, sul palco del Regio, Bolle non porterà il consueto gala “Bolle and Friends”, ma presenterà uno spettacolo intitolato “Caravaggio” su musica di Bruno Moretti. L’anno si concluderà con altri due titoli importanti e due compagnie estere: la Compagnia di Balletto del Teatro Nazionale di Praga che porterà sul palco Romeo e Giulietta, e il Balletto Nazionale della Lettonia di Riga, per la prima volta ospite a Torino con Il lago dei Cigni.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino
Come afferma Jouvin, dopo le festività natalizie e il freddo del mese di dicembre è necessario riscaldare i cuori con un titolo più leggero e sognante. A gennaio, con l’allestimento del Maggio Musicale Fiorentino e la regia di Manu Lalli, andrà in scena La Cenerentoladi Rossini. La produzione vuole recuperare la fiaba di Perrault per divertire il pubblico e farlo tornare un po’ bambino, una coccola prima del grande ritorno del maestro Riccardo Muti con la cupa riflessione proposta da Macbeth.
Tratta dalla tragedia di Shakespeare, l’opera scava nell’animo umano per meditare sulle tematiche del male, del potere, del destino e della colpa: un esempio lampante di come la musica e il teatro permettano di comprendere, o quantomeno interrogarsi, sulla profondità delle emozioni. Ad affiancare il direttore d’orchestra, tornerà la regia di Chiara Muti e un cast di interpreti fedeli al maestro Muti, tra cui Luca Micheletti (Macbeth) e Giovanni Sala (Macduff).
L’unico titolo di cui, durante la conferenza, viene raccontata brevemente la trama è Dialoghi delle Carmelitane: per la prima volta a Torino verrà raccontato il tragico episodio della Rivoluzione Francese. L’allestimento proviene dal Dutch National Opera & Ballet, da una produzione che ha debuttato nel 1997 ad Amsterdam, e a dirigere l’orchestra ci sarà Yves Abel.
La stagione continuerà con uno titolo belliniano, IPuritani, affidato a Francesco Lanzillotta e Pierre-Emmanuel Rousseau, duo artistico che aveva collaborato nel 2023 per la produzione de La Rondine.
In chiusura dia stagione, tornerà sul podio Andrea Battistoni con un caposaldo del repertorio operistico: Toscadi Puccini, definita dal direttore un «thriller musicale ante litteram». Tosca, opera che ha accompagnato Battistoni in diversi debutti in prestigiosi teatri internazionali, sarà diretta dal maestro per la prima volta in Italia proprio sul palco del Teatro di Torino. La regia è affidata a Stefano Poda, che torna dopo il premio Abbiati per il miglior spettacolo del 2023 (Juive), e il cast vede il ritorno del baritono Roberto Frontali nel ruolo di Vitellio Scarpia, dopo il successo nel ruolo di Gianni Schicchi. A interpretare Tosca e Cavaradossi, saranno Chiara Isotton e Martin Muehle.
Per concludere la conferenza, vengono presentati i progetti e le attività dedicate a famiglie, giovani e scuole. «Il pubblico giovane è il nostro futuro» afferma il sovrintendente, ribadendo l’impegno del Regio nei confronti delle nuove generazioni con sconti per gli Under30, la creazione di una Card Under16 e la prosecuzione della campagna “Il Regio è di tutti”. Tra le iniziative al Piccolo Regio figurano Hänsel e Gretel, Pierino e il Lupo, Brundibàr, Il Piccolo Principe e la riduzione di La Cenerentola, proposta con una drammaturgia ad hoc per avvicinare bambini, giovani e adulti al mondo del teatro operistico.
La stagione 2025-2026 preannuncia un anno intenso, capace di emozionare e incantare il pubblico.
Anche nel 2025 il Torino Jazz Festival si conclude con la Giornata Internazionale del Jazz, celebrata il 30 aprile. Più che una conclusione, questa giornata sancisce ogni anno un nuovo inizio: apre a una riflessione su un genere che abbraccia sempre di più la sua natura libera e la sua capacità di unire tecniche vocali e strumentali, strumenti e tradizioni diverse, uscendo così dai suoi confini “classici”.
A coronare il Festival ci sono due main concert: quello di Dudù Kouate al Teatro Juvarra, un piccolo gioiello nascosto tra i palazzi di Torino, e quello di Jason Moran al Lingotto, in una sala grande e moderna. Due concerti e due luoghi agli antipodi ma che raccontano un’unica storia.
Dietro una piccola porticina discreta, quasi timida, il Teatro Juvarra accoglie il pubblico in un’atmosfera intima e familiare. L’impressione iniziale è quella di varcare la soglia di un’abitazione privata, ma basta qualche rampa di scale per scoprire una sala elegante e raccolta e un quartetto musicale che trasforma il teatro in un universo utopico.
Dudù Kouate ha attraversato confini geografici e culturali per dare forma alla sua arte. Senegalese di origine, cresce in una famiglia di Griot ma presto si trasferisce in Italia per diffondere la tradizione tra le strade di Bergamo (e non solo). Musicista affermato in tutto il mondo, Kouate entra a far parte dello storico Art Ensemble of Chicago, uno dei gruppi jazz più longevi che unisce avanguardia, free jazz e la tradizione africana.
Foto di Ottavia Salvadori
«Il palco è grande quanto il mondo… però riusciamo a starci» afferma Kouate durante il concerto, e in queste parole si cela l’essenza della sua musica e della sua visione artistica. In un mondo vasto e complesso, ognuno può trovare il proprio posto per esprimersi, vivere e comunicare attraverso l’arte. Il palco non è solo il luogo in cui stanno i musicisti, ma è il nucleo vitale da cui si originano connessioni umane, culturali e spirituali. È lo spazio in cui ogni suono diventa dialogo e crea ponti tra storie, emozioni e vissuti.
Per il TJF Kouate ha messo insieme un quartetto esclusivo, riunendo talenti da diversi parti del mondo: Simon Sieger (Francia) al pianoforte, ai fiati e voce, Alan Keary (Irlanda) al basso elettrico a cinque corde, al violino e voce, Zeynep Ayse Hatipoglu (Turchia) al violoncello.
Descrivere e dare nome ad ogni strumento utilizzato durante il concerto sarebbe quasi impossibile: Kouate, seduto su una piattaforma rialzata, è circondato da decine di strumenti, dallo xalam al talking drum, dal thunder drum a set di piatti e campane di varie dimensioni e tipologia. A rendere il paesaggio sonoro ancora più unico e affascinante sono gli strumenti artigianali, frutto della sua ricerca sul suono: tubi in plastica fatti volteggiare in aria e sezioni di bottiglia legate a bastoni in legno ed immerse nell’acqua – oggetti reinventati che diventano veri strumenti musicali.
Foto di Ottavia Salvadori
Irlanda, Francia, Turchia e Senegal (e Italia) si intrecciano in un unico organismo sonoro che espande lo spazio trasformando il concerto in un’esperienza collettiva di ascolto e condivisione. A fondersi non sono solo gli strumenti, ma anche le voci di Kouate, Sieger e Keary che talvolta emergono o si amalgamano al sound complessivo. La voce avvolgente del leader evoca le radici della terra, le tradizioni e la natura ricercata dal gruppo. Al suo fianco, Simon Sieger utilizza la tecnica della throat voice, graffiante e ritmica, avvicinandosi talvolta ad un beatbox raffinato per creare tensioni e dinamismi. In contrasto, la voce dolce ed eterea di Alan Keary che con il suo canto melodico inglese restituisce un senso di calma, armonia e di una natura idilliaca.
Ogni suono, strumentale o vocale, è calibrato con estrema precisione: ogni pianissimo e ogni fortissimo trova il proprio specifico significato, così come i momenti di vuoto e di pieno sonoro. La capacità di fondere ritmi ancestrali, suoni naturali e sensibilità moderne è un invito a riscoprire la potenza della musica come potente strumento di comunicazione e connessione. Ogni nota è un frammento di viaggio, ogni strumento una voce, ogni vibrazione racconta una storia trasmettendo l’eco di tradizioni lontane.
Foto di Ottavia Salvadori
Nulla è appariscente, né il luogo né la presenza scenica dei musicisti. Tutto è semplice, naturale, ma è proprio questa semplicità che genera una forza straordinaria che catapulta altrove, lontano nel tempo e nello spazio.
A conclusione del concerto, Dudù Kouate si avvicina al pubblico e canta una melodia. Quel che succede è magia: il pubblico, intonato e perfettamente in sintonia, raccoglie il testimone e continua a cantare senza sosta. Intanto il palco si svuota lentamente: uno alla volta, a partire da Kouate, i musicisti lasciano la scena, trascinando con loro persino il cavo del basso ancora collegato all’amplificatore. Ma la musica non si ferma. Il pubblico diventa l’unico protagonista, riempiendo il vuoto del palco con l’energia del canto.
Il palco è vuoto ma il pubblico non si arrende e chiama i musicisti a gran voce. Dopo una brevissima pausa, tra risate e applausi, la melodia riparte spontaneamente come un’onda. A quel richiamo sincero e potente, i musicisti non possono resistere: ritornano sul palco per raccogliere l’ovazione che meritano, tra applausi scroscianti e una standing ovation che conferma come la musica abbia dato vita ad un legame condiviso.
E così, quella sensazione di entrare in una “casa” si è rivelata autentica. Siamo tutti parte di un unico palco, siamo tutti uniti e il legame familiare che si crea è generato dalla musica. Perché la musica non è solo suono, è un ponte che collega, un abbraccio che cancella le distanze e un sorprendente mezzo che riesce a creare comunità.
Jazz Blitz è un evento che porta il jazz nei luoghi della vita quotidiana, trasformandoli in palcoscenici inaspettati. Si tratta di momenti musicali in luoghi di assistenza, di accoglienza e di incontro dedicati agli utenti e agli ospiti delle strutture.
Parte del programma è anche aperto al pubblico esterno che può quindi visitare e scoprire le realtà sociali che operano attivamente nei vari quartieri della città. Abbiamo avuto l’occasione di partecipare al blitz organizzato negli spazi di Housing Giulia nel pomeriggio di martedì 29 aprile. La residenza, nata dalla cooperazione dell’Opera Barolo e dell’impresa sociale CoAbitare, fornisce residenza temporanea e risponde a bisogni abitativi diversificati.
Per l’occasione, lo staff della struttura ha preparato un ricco buffet di benvenuto in cortile. Mentre i musicisti del quartetto della Jazz School Torino provavano i loro brani, si sono radunati diversi gruppi di ospiti, tra cui bambini, studenti stranieri e anziani, che hanno preso subito posto.
Un incontro con la musica, in cui ciò che conta è la condivisione del momento con le altre persone: per molti infatti ascoltare musicisti suonare dal vivo non è certo una consuetudine, basta poco quindi per sentirsi più leggeri, sorridenti e rilassati. I bambini soprattutto hanno iniziato a saltare e scherzare tra di loro proprio attorno alla band, in uno spazio di totale libertà, che in altri contesti non sarebbe possibile.
Il quartetto ha alternato brani canonici di Dexter Gordon e Bill Lee ad altri del jazz “bianco”, una selezione accurata che ha reso unica questa mezz’ora di musica.
Un’iniziativa riuscita, certamente lodevole, ben strutturata e con un chiaro obiettivo: creare senso di comunità e unione attraverso la musica, senza lasciare indietro nessuno.
Lunedì 28 aprile, ore 21, Teatro Colosseo. Nel pieno svolgimento del Torino Jazz Festival Lakecia Benjamin sale sul palco con la sua band.
Sassofonista newyorkese di origine e spirito, Benjamin porta con sé non solo la musica dell’album Phoenix, ma un’energia viva, bruciante, che si muove tra jazz, hip hop, gospel e ritmi funk. È difficile starle dietro, e ancora più difficile non farsi travolgere.
Apre la serata con il brano “Amerikkan Skin”. Prima di suonare, la musicista prende il microfono: «We have to go back to love and peace and joy and respect», dice al pubblico, ricordando che «we do not live in fear».
Mentre la band crea un tappeto sonoro pulsante, con stupore dei presenti Benjamin comincia a rappare, come se la sua voce, e poi il suo sax, fossero strumenti per dire ciò che spesso viene ignorato. È la New York dell’hip hop, delle lotte razziali, dei sogni e delle paure, che prende vita in teatro.
Foto di Ottavia Salvadori
Il sax parla, urla, s’infiamma, mentre sullo sfondo la band apparecchia uno sfondo limpido, melodico a tinte multietniche. Poi ritorna il flow anni ’90, ancora parole, ancora battiti lanciati contro la violenza e il razzismo.
Lakecia non è sola. Sul palco con lei una band affiatatissima: John Chin al pianoforte e alle tastiere,Elias Bailey al contrabbasso e Dorian Phelps alla batteria. E proprio la batteria è protagonista di un momento memorabile. Durante uno dei brani Phelps giovanissimo, da soli quattro mesi nella formazione, si prende il centro della scena con un assolo lunghissimo, energico, travolgente. Ho sentito male alle braccia per lui. Un’esplosione di tecnica e passione che lascia il pubblico senza fiato.
Quando arriva il turno di “My Favorite Things”, si avverte subito l’influenza della versione di Coltrane, che Benjamin omaggia con un tocco personale vivace, colorato, febbrile. I fraseggi si allungano in una sezione di grande espressione tecnica, eseguita tutta d’un fiato. Il pubblico applaude a scena aperta, trascinato da un’ovazione spontanea. Dopo una pausa di recupero, la performer grida al pubblico, aizzando ancor più la folla presente.
Foto di Ottavia Salvadori
L’atmosfera cambia ancora. Un brano si apre con una trama di pianoforte blues/gospel, su cui la leader e il pianista dialogano con dolcezza e intensità. È un momento intimo, spirituale, che ricorda quanto il jazz sappia essere anche preghiera, invocazione, conforto e comunità.
Verso la fine, la serata prende di nuovo una piega funky, con un brano trascinante, in cui Benjamin torna a rappare, chiudendo il cerchio iniziato con il primo brano.
Il finale è esplosivo: “Higher Ground” di Stevie Wonder, che trasforma il teatro in una pista da ballo. Nessuno può restare fermo, nemmeno sulle poltrone imbottite.
Foto di Ottavia Salvadori
Durante tutto il concerto, Lakecia lascia moltissimo spazio agli altri musicisti. E meno male: sono tutti straordinari, e la loro bravura contribuisce a rendere il live qualcosa di molto più grande della somma delle sue parti. Ma quando prende il centro della scena, lo fa senza mezze misure. Le sue note sono lunghe, ruvide, feroci. Il sax grida, si fa sentire, pretende attenzione. È una dichiarazione d’amore e una chiamata alla lotta. Durante tutto il concerto, Lakecia lascia moltissimo spazio agli altri musicisti. E meno male: sono tutti straordinari, e la loro bravura contribuisce a rendere il live qualcosa di molto più grande della somma delle sue parti. Ma quando prende il centro della scena, lo fa senza mezze misure. Le sue note sono lunghe, ruvide, feroci. Il sax grida, si fa sentire, pretende attenzione. È una dichiarazione d’amore e una chiamata alla lotta.
Si mostra in tutta la sua voglia di condividere, di incantare, di vibrare, e – come ha detto almeno dieci volte – anche di bere vino. Ed è proprio per questi motivi che abbiamo amato Lakecia Benjamin.
Si è donata completamente, con tutta la sua energia feroce, ipnotica, e con una passione che si sente addosso anche dopo che il concerto è finito.
Come ogni festival che si rispetti, il Torino Jazz Festival nel programma di questa edizione presenta vari appuntamenti con giovani musicisti del jazz contemporaneo, offrendo così spazio per farsi conoscere alle nuove generazioni. Tra quelli più interessanti c’è l’esibizione del gruppo Korale che domenica mattina 27 aprile al Teatro Vittoria ha dato il via a una lunga giornata di concerti.
Foto di Ottavia Salvadori
Il gruppo, nato lo scorso anno durante una residenza artistica presso il festival Grey Cat di Follonica, è composto da due talenti del panorama italiano come Michelangelo Scandroglio (contrabbasso) e Francesca Remigi (batteria) e due musicisti sudcoreani Youngwoo Lee (pianoforte) e DoYeon Kim (gayageum e voce). Alla base di tutto c’è l’incontro di diverse sensibilità e tradizioni musicali, che trovano il modo di rinnovarsi e ampliare i propri orizzonti. I brani eseguiti durante il concerto sono stati composti dai diversi membri del gruppo: un insieme sfaccettato di approcci creativi che mescola tecniche e stili esecutivi differenti, ma che coesistono solidamente.
Foto di Ottavia Salvadori
Una peculiarità di questo ensemble è la presenza del gayageum, strumento a corde pizzicate della tradizione coreana che DoYeon suona da seduta al centro della sala, come se fosse il crocevia degli scambi musicali che circolano durante l’esibizione. Ma non solo, anche il canto è l’aspetto portante di vari brani durante i quali DoYeon in piedi dirige i tempi di attacco del gruppo. Di tutt’altro stile invece il pianista Youngwoo che, in posizione defilata, quasi di spalle al pubblico e col volto chinato sul pianoforte, dialoga con gli altri quasi in un inseguimento reciproco di ritmi e suoni che si avvolgono tra di loro. Durante i momenti solisti il pianista segue un’idea frammentaria che però torna sempre, in una sorta di scrittura improvvisata. Chiudiamo il quadro con la batteria e il contrabbasso: Scandroglio è l’ideatore di tutta l’iniziativa che supervisiona e accompagna i brani, con incursioni sottili e raffinate, mentre la batterista, che chiude il concerto con un suo brano, è al centro dei cambi di ritmo e tempo che si sviluppano nelle singole composizioni.
Foto di Ottavia Salvadori
Più in generale il concerto ci restituisce una visione aperta della musica: come forma di scambio e connessione culturale che si può creare attraverso la sperimentazione di percorsi non canonici. Questi quattro giovani musicisti hanno saputo dimostrarlo e ci hanno reso partecipi delle loro ricerche.
Il 25 aprile, giorno della Festa della Liberazione, la clarinettista e compositrice sarda Zoe Pia ha portato sul palco del Teatro Vittoria, nell’ambito del Torino Jazz Festival, il suo nuovo progetto Atlantidei. La sala era piena, anche se con un pubblico decisamente adulto: un peccato considerando l’energia fresca e sperimentale della proposta.
Atlantidei è una performance che va oltre la musica: è un viaggio sensoriale, una visione che mette insieme mito, natura e suono, pensata insieme al collettivo EIC – Eden Inverted Collective – composto da quattro percussionisti under 35 che hanno condiviso la scena con Zoe: Mattia Pia (suo fratello), Nicola Ciccarelli, Paolo Nocentini e Carlo Alberto Chittolina.
Foto di Colibrì Vision
Fin dalle prime note del brano d’apertura, “Oceanus”, si capisce che non sarà un concerto tradizionale. Le percussioni si mescolano a suoni liquidi generati da strumenti immersi in una bacinella d’acqua, mentre Zoe fa scivolare un medaglione sulle chiavi del suo clarinetto per produrre un suono arcaico, quasi sciamanico.
È un momento che sembra arrivare direttamente dalla terra e dagli abissi, un suono che richiama qualcosa di antico ma che parla chiaramente anche al presente.
Tutto il progetto nasce infatti da un viaggio nel sud-ovest della Sardegna, nella zona dell’Iglesiente, dove la musicista ha immaginato una musica capace di raccontare paesaggi futuri intrecciati a suggestioni del passato e legati al mito di Atlantide.
Tutto ciò prendendo ispirazione dalla teoria, affascinante quanto intricata, secondo cui la Sardegna possa essere l’antica isola sommersa.
Per Zoe Pia Atlantide è soprattutto un simbolo: «una metafora di bellezza naturale, necessaria da ricordare in una fase storica segnata da conflitti e fratture».
Ogni brano si muove tra queste coordinate: il recupero delle origini, del rito, e allo stesso tempo la sua decostruzione, attraverso suoni contemporanei e un uso creativo degli strumenti. Le launeddas, tipico strumento a fiato sardo, ad esempio, vengono soffiate e percosse in modo da produrre suoni sporchi e destrutturati, amplificati con riverberi profondi che creano rumori bassi e distorti.
Le percussioni spesso ricordano marce tribali e ritmi antichi, ma rimescolati con un linguaggio moderno, mentre il clarinetto lavora in continuo dialogo con vibrafono e marimba, dando vita a paesaggi sonori evocativi.
Il brano più diretto e politico della serata è “America”, che si apre con una vecchia registrazione radiofonica in inglese, forse di un discorso del periodo del Vietnam, coperta da un suono acuto e insistente di launeddas.
Poi arriva un intervento al megafono, una voce che si scaglia contro la guerra, mentre le percussioni si muovono su una ritmica boom bap sincopata e il clarinetto accelera in fraseggi jazz energici. È un momento forte, uno dei più coinvolgenti dell’intero concerto.
Foto di Colibrì Vision
Il gran finale arriva con “Africa”, che parte come una marcia accompagnata dalle voci dei percussionisti. Il pubblico viene trascinato a battere le mani a tempo, mentre i musicisti si muovono ai lati della platea. È un brano definito da Zoe «green», per sottolineare quel legame continuo tra suono, natura e vita.
Tra un pezzo e l’altro, Zoe parla al pubblico con un tono semplice e diretto. Presenta il progetto, racconta come l’idea sia nata percorrendo le sue terre.
Più volte ricorda il 25 aprile, citando la Festa della Liberazione come un momento da onorare, ricordare ed esporre a gran voce, anche attraverso la libertà e la forza della musica.
Atlantidei nasce inoltre dall’incontro con i pittori Luca Zarattini e Denis Riva in occasione della mostra Post Eden, e ne prende apertamente spunto: una visione post-edenica, un mondo nuovo che parte dal suono, dalla terra e dall’acqua, per ricostruire qualcosa di umano, sensibile e urgente.
“Disobbedire è l’unico modo per crescere”: così Fausto Ferraiuolo presenta il concerto “Disobbedire sempre”, un percorso musicale che ci riporta all’infanzia e al percorso di crescita di ciascuno di noi. L’evento è nel programma del Torino Jazz Festival.
Ferraiuolo compositore e pianista, insieme al clarinettista Gabriele Mirabassi danno vita a un concerto capace di riportarci indietro nel tempo e infonderci sentimenti di pace e libertà.
Il concerto comincia e i suoni dei due strumenti si intrecciano sin da subito. Ferraiuolo accompagna il clarinetto al pianoforte, tenendo allo stesso tempo una lieve linea melodica con la mano sinistra.
Foto dal profilo Facebook @Gabriele Mirabassi
Ogni clarinettista sa quanti anni e quante ore di studio servono per produrre il suono “perfetto”, ma Mirabassi disobbedisce alla tecnica classica producendo note ariose e gracchianti. Giocando con i passaggi da suoni caldi ad altri taglienti, fa vibrare le corde vocali mentre emette il fiato per produrre una melodia roca in contrasto con il timbro pulito del pianoforte e quello caldo tipico del clarinetto classico, in un’interpretazione ricca di glissati che riporta subito alla celeberrima introduzione della Rhapsody in Blue di Gershwin. Mirabassi mostra la sua bravura tecnica riempiendo la sua interpretazione di virtuosismi, scale e arpeggi velocissimi di una pulizia sorprendente. Nella ninna nanna riesce a eseguire metà brano in pianissimissimo senza mai lasciare che il suono si perda tra il fruscio del fiato a dimostrare la sua capacità di gestire sia i momenti di forte che di piano.
Foto dal profilo Facebook @Fausto Ferraiuolo music
Intanto il pianoforte funge d’accompagnamento, suona all’unisono o si dedica a soli virtuosistici; spesso riprende le frasi del clarinetto con la mano destra, mentre con la sinistra rilancia l’accompagnamento che offriva prima. La melodia pulita del pianoforte spesso viene esasperata in sforzati e suoni estremamente risonanti che danno idea di libertà.
Ferraiuolo nelle sue composizioni crea melodie libere da barriere che trasmettono immagini naturali dal carattere giocoso e spensierato, varie nella dinamica e con continui passaggi dall’adagio all’allegro, che ci riportano con i pensieri ai giochi che facevamo da bambini.
Il pubblico entusiasta riempie la sala di applausi in ogni momento di silenzio. Alla fine del concerto il calore del pubblico è tale che i musicisti offrono un fuori programma inizialmente più calmo e lento ma che ha sviluppato un crescendo ideale per un finale grandioso.
“Disobbedire Sempre” si rivela una metafora illuminante per descrivere l’essenza stessa del jazz: un genere che, proprio come l’infanzia, fiorisce dalla libertà di rompere gli schemi, di sovvertire le regole classiche per creare qualcosa di nuovo e inaspettato.
Siete stufi di dover sistemare sempre le vostre playlist di Spotify? Bene, probabilmente è stato così anche per Don Karate, e stanchi di questo, hanno deciso di assemblare diversi generi e panorami sonori e metterli tutti insieme tutti in un unico eclettico live.
Il progetto Don Karate, nato come trio, prende vita dalla mente del batterista Stefano Tamborrino. Viene proposto al Torino Jazz Festival in versione rivisitata come sestetto composto da Simone Graziano (tastiere), Francesco Ponticelli (basso e synth), Nazareno Caputo (vibrafono), Annarita Cicoria (flauto) e Rebecca Sammartano (flauto e voce).
La serata si è svolta all’interno del Bunker, alle 23 di giovedì 24 aprile. Una mossa strategica per avvicinare i giovani dell’ambiente al Festival. Questi però, evidentemente, vista la coda all’entrata per l’evento techno nell’area adiacente, sono stati per lo più attratti da quest’ultimo.
Il live comincia con la salita sul palco scaglionata dei vari strumentisti, vestiti con tuniche colorate e copricapo a mo’ di maschera, marchio di fabbrica del gruppo. L’ultimo a calpestare il palco è Stefano Tamborrino, che si fa spazio tra la folla del Bunker per raggiungere la sua batteria.
I primi brani scelti per la serata preparano la tavola per i piatti forti, mantenendo sonorità leggere e semplici che la batteria movimenta con accenti sul levare e un forte groove che a tratti diventa sincopato.
Foto di Ottavia Salvadori
Le atmosfere, da qui, iniziano a intrecciarsi in un continuo groviglio a tratti confuso, ma che funziona proprio perché stupisce, porta a muoversi e a divertirsi.
Si passa dai suoni percussivi di “You Don’t Know Me” ai colori viola vaporwave di “Plinsky 1988”, che pare un’ode al mondo dei videogame arcade di quegli anni.
La prassi esecutiva rimane praticamente simile per tutto il concerto. I flauti traversi, il vibrafono e le tastiere creano motivi che entrano nella testa e non se ne vanno più, mentre il basso e, soprattutto, la batteria decidono quanto e come far muovere i fianchi degli ascoltatori.
Fianchi che vengono mossi e scossi specialmente durante l’esecuzione di “Bubinga”, brano dai suoni mediterranei e dalle forti influenze afro-funk, e dalla stilisticamente opposta “Monte Wolf”, proposta in una versione live che si discosta leggermente da quella registrata: cassa dritta e atmosfera da club tech house.
Per non farci mancare niente, all’interno dell’eclettico caleidoscopio che è la matrice salda del pensiero musicale di Don Karate, non poteva mancare il rimando politico e satirico di “Ice Age” (2020).
Sulla base ritmica hip-hop scuola East Coast viene inserito il celebre motivo di “Kalinka”, famosa canzone popolare russa, unendo in qualche modo l’ex URSS e gli Stati Uniti in una specie di messaggio premonitore del contemporaneo.
L’effetto evocativo viene reso esplicito, inoltre, dall’uso dei visuals di Daniele Biondi, che proietta alle spalle del collettivo le facce distorte di Trump e Putin.
Il gruppo, e specialmente Tamborrino, si diverte, gioca e fa ballare, portando in scena un live che sembra – appunto – una playlist esplosa sul palco, ma non una qualsiasi: una che dimostra che non serve avere i paraocchi su un solo genere musicale.
Foto di Ottavia Salvadori
Jazz, techno, hip-hop, afro-funk, elettronica: nel mondo di Don Karate tutto può convivere, contaminarsi e sorprendere.
Un concerto che, più che chiedere di scegliere, invita ad ascoltare tutto assieme e a goderselo.
Perché, a volte, la miglior playlist è proprio quella che non hai bisogno di sistemare.
«Libera la musica» è il tema della tredicesima edizione del Torino Jazz Festival (TJF). Provando a riformularlo, possiamo affermare che la musica libera orizzonti inauditi che percepiamo come esperienze catartiche; ma, considerando quel “libera” un aggettivo, possiamo pensare la musica come fenomeno umano indomabile, senza barriere, se non quelle che decidiamo di imporre o seguire.
A partire da questa seconda accezione cerchiamo di analizzare la produzione originale che TJF ha proposto come primo concerto della giornata inaugurale di mercoledì 23 aprile al Teatro Juvarra. L’evento, in collaborazione con il Salone del Libro, è stato presentato come un dialogo di suoni e silenzi tra la poesia e la voce di Domenico Brancale e la batteria preparata e amplificata di Roberto Dani.
Il primo ha già collaborato in passato con musicisti realizzando lavori con al centro la voce e suoni, spesso registrati, mentre il secondo ritorna al Festival dopo un’esibizione solistica nel 2021, che anche in quel caso ruotava attorno al silenzio, allo spazio e al corpo. Insieme hanno creato una performance dal titolo “Chi sono queste cose”: un incrocio tra reading poetico e improvvisazione musicale.
Foto di Colibrì Vision
Sul palcoscenico già aperto e illuminato di blu vediamo delle orecchie dorate sparse a proscenio, un leggio al centro e la batteria subito dietro. L’ingresso dei due artisti è silenzioso, al buio, nessun applauso, solo una voce registrata che elenca nomi di poeti, pittori, attori e musicisti del passato e le loro date di morte. Lo spazio scenico si riempie di luce calda e Brancale, con voce tonante, recita i versi su uno sfondo sonoro lento e meditativo. Dani si inserisce nelle pause tra un verso e l’altro, cambiando spesso il modo di produrre suoni: con bacchette diverse, piatti di varie dimensioni e oggetti comuni appositamente riadattati. La fusione tra la voce e i suoni delle percussioni è calibrata attentamente, l’amplificazione della batteria è regolata al continuo cambio di timbri, e al tono di Brancale che in alcuni momenti recita sotto voce.
Foto di Colibrì Vision
I due corpi sul palco vibrano in modo diverso: se Brancale, sempre fisso sul posto, ci trasmette passione e adesione al contenuto dei suoi versi attraverso la mimica facciale e alcuni gesti delle mani, Dani sta in piedi, curvato, in continuo movimento tra balzi e scatti frenetici. A dividere in due l’esibizione è un assolo energico di Dani, che riempie la sala di suoni profondi e sempre più ravvicinati, sembra quasi inaspettato dopo la prima parte molto pacata, ma riesce ad aumentare la tensione del concerto e guidarci fino alla conclusione.
Il ritmo si fa quindi incalzante, in un continuo singhiozzo di suoni gravi e acuti, Brancale elenca tutte le azioni e atteggiamenti possibili che compiamo nella nostra vita prima di sgretolarci.
Sta di fatto che anche la musica è uno di questi modi per sopravvivere e nelle conformazioni che può assumere rimane sempre libera e inafferrabile.
Il jazz, spesso etichettato come genere “vecchio” o fuori moda, dimostra di avere ancora molto da dire anche alle nuove generazioni. A testimoniarlo è la serata di giovedì 17 aprile al Blah Blah di Torino, con uno degli eventi gratuiti che anticipano il Torino Jazz Festival.
Appena AleLoi & The Toxic Jazz Factory salgono sul palco del piccolo club, infatti, la sala interna si riempie in un attimo, tanto che per i piú piccoli di statura diventa difficile provare a farsi strada per vedere qualcosa. Il suono degli strumenti si diffonde sotto i portici di via Po e, schiacciati in mezzo alla folla, si percepisce chiaramente una cosa: il jazz non è affatto passato di moda. Anzi, è più vivo che mai.
AleLoi & The Toxic Jazz Factory è un ensemble guidato da Alessandro Loi, bassista e compositore, che porta sul palco del Blah Blah il suo disco d’esordio It Smells Funny,dove il jazz, il blues, il gospel e il funk coesistono, creando un jazz raffinato e moderno allo stesso tempo. Loi è accompagnato da un ensemble musicale composto da Simone Garino ai sassofoni, Alberto Borio al trombone, Nicola Meloni alla tastiera e Giulio Arfinengo alla batteria.
Foto dal profilo Facebook @AleLoi
Le sezioni d’insieme, energiche e coinvolgenti sono intervallate da assoli strumentali che mettono in luce la bravura di tutti i componenti del gruppo. L’uso del basso elettrico fretless a 5 corde garantisce una maggiore flessibilità espressiva, particolarmente evidente nel brano inedito “Last Beer with Friends”, dove il timbro dello strumento viene ulteriormente arricchito da un distorsore.
Nota di merito anche per il sassofonista e il trombonista che, nei momenti collettivi, rivelano con una tale sintonia da far percepire in certi istanti un suono unico, nonostante la notevole differenza timbrica tra i due strumenti.
Il concerto è durato circa un’ora: forse troppo corto per gli appassionati, ma perfetto per chi desidera avvicinarsi al jazz in modo leggero, passando una piacevole serata tra drink, chiacchiere tra amici e buona musica. Un evento piacevole e ben riuscito, che mette il jazz al centro, ma che non ne “impone” l’ascolto attento prolungato.
Al Comala il 16 aprile 2025 si è tenuta la Marmellata Jam, esibizione completamente improvvisata (o quasi). Per l’organizzazione della serata, il collettivo Marmellata Jam ha optato per l’utilizzo di un canale su Telegram, nel quale chi voleva partecipare ha avuto modo di iscriversi per facilitare la ripartizione dei tempi e degli spazi di chi avrebbe improvvisato durante la serata.
L’esibizione era programmata all’esterno ma a causa della pioggia, si è tenuta in una saletta interna.
La serata è stata divisa in due parti: la prima focalizzata sulla lettura di poesie con libero accesso da parte di persone dal pubblico, con sottofondo musicale improvvisato e disegni proiettati realizzati sul momento. Nella seconda parte, è stata privilegiata la parte musicale, sempre con un libero accesso al microfono, all’iPad per disegnare e soprattutto, questa volta, agli strumenti.
Foto di Giulio Santullo
Si sono susseguiti innumerevoli cantanti e strumentisti, da alcuni nomi noti della scena torinese, come la cantante Caterina Ciari degli EDEN4ALL , ai meno conosciuti, i quali hanno sperimentato improvvisando attraversando i generi.
La serata si è conclusa verso mezzanotte ed è stata un grande successo nonostante il nubifragio in corso.
Degna di nota è stata la poesia di Viola Cicoria, la quale ha tenuto sospeso il pubblico:
”Salve. Salve, dunque di quale cifra si tratterebbe? Ah. E per quanto tempo? Dunque, per una settimana? Per una settimana, bene, me lo assicura? Cento milioni per una settimana. Mi assicura, dunque, che la luna si spegnerà per una settimana. Una settimana di luna spenta per cento milioni.
Sì, sì, siamo d’accordo. Sì, proceda pure. Sì, la spenga.
Prima notte di luna spenta: ma perché nessuno ci fa caso? Ha senso che nessuno ci faccia caso. Una volta al mese succede. Soltanto in pochi, in pochissimi, in così pochi nel mondo che li si potrebbe tutti stipare in uno di quegli autobus inglesi rossi a due piani, se ne sono accorti.
Foto di Giulio Santullo
Prima notte di luna spenta, un normale cielo blu (quasi) per tutti.
Seconda notte di luna spenta: qualcuno ci fa caso. Non dovrebbe crescere la luna? Prima o poi, non dovrebbe crescere? No, ma dico, oggi non dovrebbe crescere la luna? E se non crescesse mai più?
[…]
Quarta notte di luna spenta: più di più di qualcuno ci fa caso. È un guaio. Signore, signori, è un guaio. E gli astronauti di che si occuperanno ora? E cos’altro possiamo misurare se non la distanza tra qui e là? Ora che si fa? E chi costruisce i razzi? E chi cuce le tute degli astronauti? E le aste delle bandiere dove verranno piantate? E le foto? E il Paese? Quanto spenderemo per i lampioni? E perché nessuno costruisce astronavi intergalattiche?
[…]
Sesta notte di luna spenta: tutti (o quasi) ci hanno fatto caso. E i misteri? E gli dèi? E Dio? E l’amore? E l’amore, vi prego, l’amore? E le idee? Ma dico, le idee? Sono duemilaquattrocento anni che stanno da un’altra parte, lì, mentre noi le copiamo, non è che di punto in bianco si può fare così. E dove dovrei camminare ora? Con i piedi piantati in terra? Dovrei camminare sulla Terra? E dove dovrei sognare? Come dovrei sognare? A cosa, a chi dovrei dedicare? E dove, come, quando, perché dovrei dedicare ora che la luna è spenta? Quali luoghi dovrei abitare? Dove dovrei vivere? Dove potrei essere? E il mio fine quale sarà?
Settima notte di luna spenta: poveri conigli, son scomparse tutte le loro tane.
Settima notte di luna spenta, il cielo è blu.
E lei ci pensa mai a quante cose abbiamo proiettato lassù?”
Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.
Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.
Un sabato tutto torinese quello del 5 aprile 2025 al Magazzino sul Po, grazie ai Sacrofuoco (prima One Dying Wish) e l’atteso release party dell’ultimo album dei Low Standards, High Fives Everything Ends, il tutto organizzato dal collettivo Turin Moving Parts.
Le due band sono molto diverse: i Sacrofuoco, con una commistione di chitarre dissonanti e urla distorte e ossessive, fanno un hardcore incalzante che tiene il pubblico in subbuglio e non fa riposare.
Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)
La setlist contiene sia canzoni del loro ultimo album Anni Luce, il primo sotto l’identità Sacrofuoco, sia canzoni uscite sotto il nome di One Dying Wish. Queste ultime sono quelle più conosciute e che nel corso della serata causano diversi momenti in cui qualcuno “ruba” il microfono per urlare le parole del testo, in un completo coinvolgimento tra musicisti e pubblico.
I brani di Anni Luce ci portano invece in un mondo caotico e immersivo, soprattutto quelli dalla durata maggiore come “Replica” e “Corpi Celesti”.
I Low Standards, High Fives, nati ormai più di 10 anni fa nel lontano 2012, riprendono le sonorità nostalgiche dell’emo di inizio anni 2000. Con le loro tre chitarre lavorano su melodie accoglienti e riconoscibili all’interno del genere, ma mai banali.
Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)
Everything Ends, uscito il 28 marzo, ci fa contemporaneamente compiere un viaggio di vent’anni nel passato e riscoprire di qualcosa di nuovo all’interno di temi e suoni che ci sono tuttavia così familiari, unendo influenze personali come indie e post-rock al classico sound che si può ascoltare nei gruppi, soprattutto esteri, che sono stati pionieri dell’emo dalla fine degli anni ‘90.
Per questa serata il Magazzino sul Po è sold out, dimostrando che le band dell’organismo torinese sono ancora e sempre supportate e amate dal pubblico della città, in una relazione di sostentamento reciproco che mantiene la scena in vita.
Rispettare l’orario d’entrata previsto per un concerto può risultare una scelta azzardata e a volte anche noiosa. Nelle lunghe attese si può rischiare di incollare gli occhi al piccolo schermo che ci troviamo sempre in tasca e perderci totalmente ma, se si resiste alla tentazione, l’arrivo in anticipo può trasformarsi in un’occasione per osservare le persone che entrano nel locale. Infatti, tra i coloratissimi vestiti tradizionali senegalesi e piccolissimi bambini che correvano a destra e sinistra, la serata all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 4 aprile si è aperta con tanta allegria. L’evento ha avuto il sapore di una vera festa, organizzata per celebrare il 65° anniversario dell’indipendenza del Senegal dal colonialismo francese, durato oltre tre secoli.
Per l’occasione, l’Associazione Africaqui e l’Associazione Culturale Tamra, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, hanno dato vita a un evento musicale che vuole essere anche simbolo di cooperazione tra Torino e Louga, città senegalese nel Nord-Est del paese, gemellate ufficialmente nel 2024. La serata è iniziata con gli Afrodream, gruppo afrobeat, seguito dalla cantautrice senegalese Mariaa Siga. Subito dopo, l’esibizione dell’Orchestra dell’Africa Subsahariana e un dj set a cura di Dj Noname per chiudere.
Foto dal profilo Instagram @afrodream_ foto didi Lorenzo Gianmario Galli
Alle 22 circa la musica ha iniziato a risuonare in tutta la sala dell’Hiroshima con ritmi incalzanti che hanno fatto ballare anche gli spettatori meno avvezzi al movimento. Gli Afrodream sono nati a Torino, e il loro cantante e percussionista Abdou Samb ha origini senegalesi. Grazie alla fusione tra musica europea e senegalese hanno creato un ambiente accogliente per tutti. C’è stata una piccola interruzione dovuta alla corda del basso che si è rotta proprio in mezzo alla performance ma, oltre a questo piccolo intoppo, tutto è filato liscio come l’olio. La band ha ottenuto un grande successo da parte del pubblico ma l’affluenza in sala ha subito un calo significativo con l’arrivo di Mariaa Siga, artista meno conosciuta rispetto agli Afrodream. Cantautrice dalle straordinarie doti vocali, Mariaa incanta con una voce potente e al tempo stesso delicata, capace di spaziare su un’estensione vocale notevole. Ha dedicato le sue canzoni principalmente a coloro che hanno sofferto, come i molti dispersi in mare nella speranza di raggiungere una vita più dignitosa in Europa e non solo. Una dedica speciale è stata fatta alle donne, in una giornata in cui, in Piazza Castello, in centro a Torino, si è svolta la manifestazione organizzata in risposta ai recenti femminicidi, tra cui quelli di Ilaria Sula e Chiara Campanella. Finale con una canzone in onore della sua madrepatria, il Senegal, con un pubblico finalmente molto più acceso.
Foto dal profilo Instagram @mariaasiga
L’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha dato di nuovo il via alle danze, scatenando tutta la sala. La loro scelta strumentale è particolarmente interessante poiché combinano strumenti tradizionali del Centro Africa, come la kora e il djembe, con una varietà di percussioni, elettronica e un sax, che si fonde perfettamente con gli altri elementi. Tra le parti cantate sono emersi momenti virtuosistici dei percussionisti e soprattutto del suonatore di kora. Sul palco sono stati fatti entrare anche di tanto in tanto dei ballerini che hanno creato uno spettacolo veramente esaltante. Per il gran finale, l’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha invitato sul palco Mariaa Siga e alcuni membri di Afrodream per eseguire insieme “Fatou yo”, un brano senegalese per bambini che sembra assumere un significato profondo per tutti: un finale sia maestoso che commovente, anche per chi non conosce pienamente la cultura del paese festeggiato. Il dj set conclusivo ha permesso chi aveva ancora energia di continuare a ballare.
Una festa indimenticabile che ha saputo intrecciare tradizione e modernità, regalando a tutti i presenti un’esperienza unica.
Seduzione, ossessione e un destino ineluttabile. La dama di picche. Capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij su libretto del fratello Modest, tratto dall’omonimo racconto di Puškin. L’opera, composta nel 1890, segna uno dei vertici espressivi del teatro musicale russo. Il compositore, in uno dei momenti più tormentati della sua vita, infonde nella partitura un’intensità drammatica e anche cinematografica, avvicinandosi alla tragica ossessione del protagonista Hermann, consumato dal gioco d’azzardo e dalla misteriosa formula segreta delle tre carte. Questo tormento prende forma nell’aria “Che cos’è la nostra vita? Un gioco!”, in cui il protagonista ripete ossessivamente il suo pensiero fisso.
La dama di picche è in scena al Teatro Regio di Torino in un nuovo allestimento prodotto dalla Deutsche Oper di Berlino, firmato dal regista Sam Brown, che raccoglie e sviluppa la visione del compianto Graham Vick. La direzione musicale è affidata a Valentin Uryupin, specialista del repertorio russo, mentre il cast vede protagonisti Mikhail Pirogov nel ruolo di Hermann, Zarina Abaeva in quello di Lisa e Jennifer Larmore nei panni della Contessa. Completano la compagnia Elchin Azizov (Tomskij), Vladimir Stoyanov (Eleckij) e Deniz Uzun (Polina).
foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz
La regia di Sam Brown presenta Hermann come un uomo qualunque, intrappolato in una realtà soffocante e monocorde. La sua esistenza, confinata in un dormitorio militare, è lo specchio di un desiderio frustrato di riscatto sociale. Lisa, il suo amore impossibile, incarna il contrasto tra il mondo del privilegio e la disperazione del protagonista, che cerca una via d’uscita nel segreto della Contessa. L’opera si trasforma così in un dramma psicologico in cui sogno e realtà si sovrappongono, portando Hermann verso un destino segnato dall’illusione e dalla follia. Lo spettatore col dubbio su cosa fosse reale.
L’allestimento si distingue per alcuni elementi visivi di grande impatto. Il coro, attraverso un gioco di ombre, si trasforma in una folla minacciosa, amplificando la paranoia e il senso di accerchiamento. Un ulteriore livello narrativo è dato dalla la proiezione di spezzoni del film La dama di picche del 1916, che dialogano con la messinscena come un secondo piano narrativo. A completare questa dimensione visiva, sopra il sipario utilizzato per i cambi scenografici appaiono dei veri e propri cartigli, in stile cinema muto, che forniscono un contesto alla scena o indicavano il luogo in cui si svolgeva l’azione.
foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz
In molti di questi cartigli comparivano anche citazioni da Dostoevskij, che aprivano ulteriori riflessioni. Lo spettatore più attento poteva così interrogarsi su ciò che vedeva: era tutto reale? O solo una proiezione dell’inconscio di Hermann? Era solo la caduta di un uomo nell’ossessione, o una riflessione più ampia sulla libertà individuale, la colpa, la coscienza? La presenza di Dostoevskij da lo spunto per guidare lo spettatore in un percorso parallelo, rendendolo forse più partecipe e consapevole di ciò che vede.
Scenografica la chiusura dell’opera. Hermann, ormai consumato dal pensiero ossessivo delle tre carte, si presenta al tavolo da gioco. Sebbene non sia un giocatore abituale, possiede esattamente tre carte, come predetto dalla dama di picche. Le prime due gli fanno vincere somme enormi, ma l’avidità – o forse il desiderio disperato di vedere la profezia compiersi fino in fondo – lo spinge a giocare anche la terza. A quel punto entra il principe Eleckij, l’unico disposto a sfidarlo. Ma nel momento decisivo, Hermann scopre che la sua ultima carta non è l’asso, bensì proprio la dama di picche. Ha perso tutto. E si toglie la vita.
Piccola nota di cronaca: durante il primo atto un semplice cambio di scenografia ha dato a molti spettatori l’illusione dell’intervallo, con tanto di esodo verso il foyer sventato dalla solerzia delle maschere. Tutto comprensibile vista la scarsa conoscenza di un titolo, che tuttavia è stato molto apprezzato a fine serata.
Questo allestimento di La dama di picche si è rivelato una produzione di grande impatto visivo, moderna ed emotiva. La regia di Brown ha offerto una prospettiva che mette in luce l’attualità del dramma umano di Hermann, sempre sospeso tra desiderio e autodistruzione.
L’Unione Musicale ci ha fatto un regalo prezioso la sera del 26 marzo, portando sul palco del Conservatorio «Giuseppe Verdi» uno dei musicisti più importanti a livello globale, Maxim Vengerov, di origine russa, che fin da bambino si è messo in luce come violinista. In questa serata è stato accompagnato al pianoforte dalla pianista Polina Osetinskaya, la quale condivide con il violinista non solo le origini russe, ma anche il talento mostrato sin da piccola.
Osservando il pubblico accomodarsi, si percepiva l’attesa: si potevano notare subito, sul palco, le custodie dei violini,come una muta promessa di quello che stavamo per ascoltare. Infatti, i due musicisti, al loro ingresso, sono stati accolti calorosamente con un lungo applauso.
Il concerto è stato aperto dalle Cinque melodie op. 35 bis di Sergej Prokof’ev. Dal primo attacco di Vengerov si è rimasti subito colpiti: un suono deciso ma allo stesso tempo dolce, che ha dato dimostrazione immediata della tecnica acquisita negli anni. Le Cinque melodie, però, erano soltanto l’antipasto. Nella Sonata n° 2 in re maggiore, op. 94 bisdello stesso compositore abbiamo assistito a qualcosa di unico. Nel secondo movimento, Scherzo. Presto, entrambi i musicisti hanno dato il meglio di sé: si percepiva il divertimento nel suonare questo brano. La pianista si muoveva a tempo di musica per accompagnare Vengerov e, per la carica di un fortissimo, ha anche sobbalzato sullo sgabello. Il movimento è stato eseguito con tale perfezione da scatenare un applauso vigoroso, fuori dalle normali consuetudini dei concerti cameristici e sinfonici (nei quali l’applauso è consentito solamente alla conclusa del brano), ma doveroso vista la perfezione della performance. La sonata si è conclusa ovviamente in modo impeccabile: ogni sfumatura delle dinamiche è stata eseguita in modo eccezionale, tra sorrisi accennati e precisione reciproca.
foto da Unione Musicale
La prima pausa del concerto è servita al pubblico per assimilare l’euforia e lo stupore nato da quello a cui avevano appena assistito. Il concerto è poi proseguito con la Sonatina in sol minore, op. 137 n° 3, D. 408 di Franz Schubert: un inizio forte e all’unisono, come scaturito dal primo respiro intenso del violinista che si è sentito fino alle ultime file della sala. Balzi dell’arco precisi, che nel secondo movimento si sono trasformati in un canto legato nato dal pianissimo: sembrava che i due musicisti stessero parlando tra di loro attraverso gli strumenti con estrema naturalezza.
La Sonata n° 3 in re minore, op. 108 di Johannes Brahms ha concluso il concerto, facendo già affiorare il dispiacere perché la serata volgeva al termine. Ad amplificare la sensazione ci ha pensato il secondo movimento, Adagio con la sua soavità venata di tristezza. Il suono di Vengerov era completamente legato: sembrava che l’arco non avesse inizio e fine per come riusciva a non staccare i suoni, facendoli continuare anche attraverso le doppie corde e trilli malinconici. Il Presto agitato ci ha riportato alla realtà. La pianista Osetinskaya, quando veniva richiesto il forte, ci metteva davvero tutta se stessa e Vengerov rispondeva con la stessa audacia.
foto da Unione Musicale
Vengerov e Osetisnskaya ci hanno regalato ben quattro bis, preceduti anche da un «grazie mille» nell’italiano impacciato del violinista russo. Eravamo noi a dover ringraziare, per quanto avevamo appena ascoltato e per ciò che stavamo per ascoltare. I primi tre bis sono stati Schön Rosmarin, LiebesleideLiebesfreuddi Fritz Kreisler e anche qui, in tutti e tre i brani, era impossibile non ammirarlo: siamo infatti stati avvolti da un fraseggio elegante e una cantabilità travolgente.
L’ultimo bis è stato un brano davvero emozionante di Rachmaninov, tratto da Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43: Variazione n° 18, Andante cantabile. Qui i due musicisti sono entrati in un altro universo: il vibrato di Vengerov è riuscito a scuotere gli animi, con una dolcezza, un’esplosione di suono che trasmette sia energia che malinconia, come solo lui sa fare.
Con i presenti visibilmente emozionati si conclude questo concerto. Sicuramente, quanti fra il pubblico erano violinisti o musicisti in generale sono tornati a casa con un bellissimo ricordo, ma anche con una lezione: se ha colpito il modo in cui Vengerov maneggia l’arco ed esegue passaggi tecnicamente complessi con estrema naturalezza, dando l’impressione che siano facili, forse più ancora ha impressionato l’umiltà con cui si è presentato sul palco. Non tutti, peraltro, avrebbero la generosità di offrire quattro bis, nonostante la grande fama che li precede. Vengerov ci ha ringraziato sempre con un sorriso, mentre era lui a donarci, per una sera, il suo suono inimitabile.
Marzo è un buon mese: tanti singoli in vista dell’uscita dei nuovi album e dei tour estivi e primaverili. Ecco la nostra top10.
“L’arte di lasciare andare” – Baustelle
Non c’è molto da dire su questo brano, se non che per fortuna i Baustelle sono tornati a fare i Baustelle rock folk, con un brano dal significato quasi esistenziale. La canzone tratta del difficile processo di imparare a lasciar andare, di abbandonare la frenesia che ci spinge a vivere le giornate sempre di corsa, accettando la nostra mortalità. Il tutto è accompagnato da un ritmo incalzante che richiama i “vecchi” Baustelle di “Charlie fa surf”, con quella miscela unica di introspezione ed energia. Un ritorno alle origini, che sa essere riflessivo e al tempo stesso potente.
Voto: 28/30
“Sigarette” – Lucio Corsi
Se Zeno Cosini fosse vivo, “Sigarette” sarebbe la sua canzone. Lucio Corsi, invece, come un Philippe Delerm contemporaneo, riesce a rendere piccoli momenti quotidiani delle poesie degne di tutta l’attenzione possibile. Infatti, il momento della sigaretta diventa un pretesto per una riflessione esistenziale, dove ogni boccata scandisce il ritmo dei pensieri tra desiderio e nostalgia. La melodia degli archi, delicata e avvolgente, alleggerisce il testo e lascia spazio a una profondità che (come per ogni brano di Corsi) non si può ignorare.
Voto: 29/30
“Buio” – Eugenio in Via Di Gioia
“Buio” è il singolo con cui gli Eugenio hanno lanciato il loro nuovo album, L’amore è tutto. Dopo dieci anni di carriera, la band ha deciso di portare un tema nuovo e inaspettato: l’amore. Sebbene il gruppo sia conosciuto per le canzoni impegnate socialmente, in questo album si affronta l’amore in modo furbo. A primo impatto, infatti, le canzoni potrebbero sembrare semplici ballate romantiche, ma leggendo tra le righe si scoprono temi più profondi. “Buio” ne è un perfetto esempio: sembra una canzone che parla della mancanza della propria metà, ma in realtà racconta di alienazione, solitudine e delle difficoltà nel costruire relazioni profonde. Un giro di pianoforte ad libitum, un quartetto d’archi e un contrappunto vocale rafforzano il pensiero ossessivo e opprimente espresso dal testo, dove la distanza emotiva sembra difficile da colmare.
Voto: 27/30
“Mangia la mela” – Erica Mou e Carolina Bubbico
“Mangia la mela” è la prima collaborazione tra le due artiste ed è dedicata alle loro figlie, ma anche a tutte le donne di oggi e di domani. Il testo parla di empowerment femminile e di disobbedienza delle imposizioni sociali. Invita le donne a mangiare la mela, appunto, come aveva fatto Eva in un atto di autodeterminazione e non di peccato. La produzione, molto fresca, si avvicina a una salsa donando al brano un carattere irriverente e frizzante, che si sposa benissimo con il significato del testo. Un inno alla ribellione e un invito a riscrivere le proprie regole.
Voto 28/30
“scs” – Crookers e okgiorgio
Questo singolo è tutta una presabene e anche se non hai la presabene a forza di muovere la testa a ritmo di elettronica-techno-house, ti viene.
Avvertenze: in un attimo potreste passare dalla leggerezza all’ingorgo interminabile di pensieri aggrovigliati, ma fa parte del gioco, a quanto pare.
Voto: 29/30
“Reptile Strut” – Calibro 35
I Calibro 35 con “Reptile Strut” annunciano il loro nono album in uscita a giugno. La band ha spiegato, in merito, che «Il ramarro è un sauro dal colore verde acceso, rapidissimo nei movimenti, ha un incedere scattante e cambia spesso il passo. Per questo è difficile catturarlo. Reptile Strut parte da queste premesse». Il brano, in effetti, spazia dal jazz al rock, per passare al funk, ha una continua interazione tra i vari strumenti e un groove di basso che rimane ben piantato nelle orecchie.
Voto: 25/30
“Picón” – Populous
Populous campiona la ghiaia vulcanica in alcune zone di Lanzarote per trasformarla nella parte percussiva del brano. Il singolo, che preannuncia l’uscita di Isla Diferente, il nuovo album del producer pugliese, vuole far scoprire Lanzarote dal punto di vista sonoro. “Picón”porta con sé un’energia cosmica potentissima, mistica ed esoterica, che riesce a evocare la forza primitiva e quasi sacrale della natura dell’isola.
Voto: 29/30
“Your Name Forever” – MGK
In “Your Name Forever”, MGK rende un emozionante tributo a Dingo, un amico che è venuto a mancare prematuramente. Il brano si distingue per un sound che alterna strofe rappate a ritornelli energici, di chiara ispirazione rock e metal anni 2000. A rendere ancora più potente questa dedica, MGK è affiancato da alcuni amici di Dingo, tra cui M. Shadows e la chitarra di Synyster Gates, entrambi degli Avenged Sevenfold, Oli Sykes dei Bring Me The Horizon, Mod Sun.
Voto: 24/30
“Morto a galla” – Carl Brave
Carl Brave sta ormai a Roma esattamente come il Colosseo, il maritozzo e i sampietrini che definiscono l’identità della città e raccontano la storia della capitale. È la voce che narra le sue strade, i suoi angoli, le sue luci e ombre. E proprio le ombre di Roma emergono da “Morto a galla”, che racconta di una città ipocrita e immorale. Il contrappunto delle strofe rap e del ritornello ritmato e orecchiabile, cifra stilistica del cantautore, lo riportano in pista, riportando noi che lo ascoltiamo agli anni d’oro dell’indie italiano.
Voto: 26/30
“Sogni” – I Patagarri
La band, con il sound che richiama la Parigi degli anni ’20, in questo brano si chiede quali siano i sogni di chiunque, soprattutto di personalità socialmente controverse, tra cui fascisti, ladri e terroristi. In un pienone di archi, fiati e percussioni sincopate, che accentuano il carattere scanzonato e ironico della band, il brano si trasforma in un’affermazione universale: alla fine, tutti sognano (anche se a volte sembra impossibile ricordare cosa si è sognato al risveglio). I sogni, in questa canzone, diventano l’elemento che annulla le differenze tra buoni e cattivi, tra persone comuni e straordinarie, mettendo in luce l’umanità condivisa che ci accomuna.
Nella serata del 24 marzo la Filarmonica TRT ha proposto sul palco del Teatro Regio un programma raffinato e avvincente, con un ospite, Fabio Biondi, che ha offerto un’esperienza intensa, nelle vesti sia di direttore, sia di solista. Biondi è il Fondatore di Europa Galante, un ensemble italiano che grazie ad un’intensa attività concertistica ha ottenuto fama e riconoscimenti a livello internazionale.
Al momento dell’ingresso in sala il pubblico ha trovato l’orchestra già sistemata sul palco, con i musicisti che accordavano i loro strumenti, rivedevano qualche passaggio impegnativo, o riordinavano le parti. Tutto molto naturale: un ingresso all’americana, utile per far mettere il pubblico a più stretto contatto con l’orchestra. La sala in poco tempo si è riempita totalmente.
Allo spegnimento completo delle luci entra il primo violino che fa accordare gli orchestrali, per poi far entrare il direttore Biondi. Il concerto inizia con l’Overture in do maggiore, op. 24 di Fanny Mendelssohn, un tenero omaggio a una compositrice che dovette usare la musica solo come ornamento della sua vita: le convenzioni sociali dell’epoca non le permisero di intraprendere una carriera da compositrice. L’attacco è stato molto dolce: fin dalle prime note si è colta tutta la finezza di questo direttore, ma anche la bravura del primo violino, che è riuscito, nell’inizio di questa Overture, a ‘trainare’ per qualche secondo i violini che stavano rallentando. Biondi unisce controllo e scioltezza: tiene d’occhio tutti (perfino i contrabassi, che di solito vengono praticamente ignorati!), e molleggia a tempo, trasmettendo tutta la propria energia.
Foto da gallery di «Europa Galante»
Conclusa l’Overture, il direttore esce, seguito dai fiati, per poi rientrare da solo con il suo violino, per suonare da solista il Concerto in re minore per violino e archi, MWV 03 di Felix Mendelssohn-Bartholdy (lui sì che, a differenza della sorella, poté dedicare tutta la propria vita alla musica!). Inusuale scegliere questo concerto rispetto a quello in mi minore op. 64, spesso eseguito anche per concorsi e recital solistici; ma questa scelta è piaciuta molto, proprio perché è più raro ascoltarlo. Fabio Biondi con l’archetto dà il via all’orchestra, che esegue la piccola introduzione dell’Allegro: è sempre bello sentire gli archi uniti che danno corposità al movimento, e anche qui nella dolcezza della sua entrata si percepisce come Biondi si sia perfettamente sintonizzato con il mondo sonoro ed espressivo del compositore.
La nota dolente di questo concerto è stato il pubblico: non preparato, non “educato” ai concerti sinfonici. Applaudendo a sproposito dopo ogni movimento ha rotto la concentrazione del solista, che infatti nel secondo tempo non ha dato il massimo come prima. Il concerto è comunque proseguito, ovviamente, e si è notata la perfetta intesa fra Biondi e l’orchestra che lo ha ospitato, un’intesa che traspariva dal gioco di sguardi, dalla direzione sempre precisa impartita con i movimenti del corpo e dell’archetto, e perfino dal suo avvicinarsi ai leggii delle prime file per dare gli attacchi con ancora più chiarezza. Alla fine dei tre movimenti il pubblico scoppia in un applauso (finalmente al momento giusto!), e Biondi si volta a godersi i battimani. Nella breve pausa prima della seconda parte del concerto, va detto, il pubblico dà nuovamente il meglio di sé: cosa mai vorrà dire l’abbassarsi delle luci, se non che bisogna tornare ai propri posti, ma soprattutto fare silenzio?
Foto da gallery di «Europa Galante»
La chiusura del concerto è affidata alla Sinfonia n°6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale” di Ludwig Van Beethoven, una delle sue opere più evocative. Avevo grandi aspettative per questa parte del programma, e devo dire che sono state più che soddisfatte. Tutta l’orchestra era perfettamente connessa: impeccabili nelle dinamiche, hanno fatto sentire benissimo ogni singola sfumatura di crescendo, invitandoci a entrare nel paesaggio sonoro beethoveniano con “un’espressione di sentimenti” che ha fatto commuovere.
(Purtroppo ci risiamo, con una parte del pubblico che rompe l’incanto applaudendo dopo il primo movimento: qualcuno però intima il silenzio, e forse stavolta il messaggio arriva a destinazione…).
La sinfonia procede in modo eccellente: davvero bello vedere come il direttore e l’orchestra fossero fusi insieme. Biondi imperversa: balza sul posto, incita le viole, e porta la serata a una conclusione trionfale. Nessun bis, purtroppo, probabilmente per la grande concentrazione che questo programma ha richiesto. In ogni caso, nonostante le piccole disavventure con il pubblico, è stato un concerto memorabile: vedere un musicista che combina ai massimi livelli il ruolo di direttore e quello di solista è sempre un’esperienza speciale!
“Puzzolente” non è l’aggettivo più comune per descrivere una composizione musicale, ma fu proprio così che il celebre musicologo Eduard Hanslick descrisse il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op.35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1878) dopo aver assistito alla prima esecuzione viennese nel 1881. L’opera in questione ha inaugurato la serata del 20 marzo 2025 all’Auditorium “Arturo Toscanini” di Torino: sul palco a dirigere l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, per la terza volta quest’anno, Robert Treviño e, al violino solista, un entusiasmante Augustin Hadelich. A seguire l’orchestra ha eseguito la Sinfonia n°2 in mi♭ maggiore, op.63 di Edward Elgar: sinfonia composta nel 1911 ma non molto conosciuta, tanto che l’Orchestra Rai (allora ancora Orchestra Sinfonica di Torino della Radio Italiana) non la eseguiva dal lontano 22 maggio 1953.
Il Concerto in re maggiore op.35, è l’unico concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. Questa composizione non ebbe un facile lancio: stroncata dai critici appunto come Hanslick, la consideravano musica rozza, vede il violino quasi provare a contorcersi per esprimere emozioni intense attraverso suoni non prettamente puri e puliti. Oggi questa caratteristica, tanto criticata all’epoca, viene considerata proprio come un tratto distintivo e di grande interesse dell’opera. Oltre a problemi con la critica, il compositore russo ebbe difficoltà a trovare un interprete solista che accettasse il lavoro. Dopo molti rifiuti da parte di grandi violinisti del calibro di Josif Kotek, Čajkovskij riuscì, nel 1881, a fare eseguire la composizione da un giovane Adol’f Brodskij.
Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Se i rifiuti da parte di molti violinisti dell’epoca furono dovuti anche alla difficoltà tecnica del concerto, Hadelich non ne è sembrato per nulla intimidito: ci ha regalato, anzi, un’interpretazione magistrale, con tecnica impeccabile e un suono ammaliante. Alla fine dell’esecuzione, la sua bravura ha scatenato uno scroscio di applausi entusiasti. E così Hadelich ha imbracciato nuovamente lo strumento per eseguire, fuori programma, “Por una Cabeza”, un tango di Carlos Gardel in una versione per violino solo che ha realizzato lui stesso.
Dopo la pausa il concerto riprende con la Seconda di Elgar (1911): meno celebre della sua Prima sinfonia, si articola in quattro movimenti (Allegro vivace e nobilmente, Larghetto, Rondò, Moderato e maestoso) che cercano un equilibrio tra tradizione e innovazione. La sinfonia si sviluppa così in un arco espressivo ampio, che viaggia dal romanticismo alle sperimentazioni novecentesche trasmettendo sbalzi emotivi e sentimenti profondi, ma con i suoi 53 minuti può talvolta risultare alquanto impegnativo per l’ascoltatore. L’interpretazione di Robert Treviño ne enfatizza la complessità, restituendo i contrasti tra lirismo e drammaticità tipici del compositore.
Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Il concerto ha insomma unito capolavori riscoperti e talenti contemporanei, dimostrando come la musica possa ribaltare i giudizi del passato. Per chi se lo fosse perso, è stato registrato e trasmesso in diretta su Rai Radio 3 per Il Cartellone di Radio 3 Suite, quindi è disponibile su RaiPlay Sound. Inoltre la serata è stata ripresa per Rai Cultura e sarà trasmessa il 22 maggio 2025 su Rai 5.
È iniziato, giovedì 20 marzo presso lo sPAZIO211, il nuovo tour di Claudio Domestico, alias GNUT. Il cantautore napoletano sceglie Torino come luogo di debutto del suo ultimo progetto live, caratterizzato da un trio composto dalla chitarra del cantante e da una coppia d’archi, suonati da Marco Sica (violino) e Mattia Boschi (violoncello).
L’artista, con il piccolo ensemble, ripercorre la sua carriera mantenendo il focus sul suo stile legato al folk anglofono attraverso arrangiamenti che ampliano l’ambiente sonoro con i temi lenti e i numerosi pizzicati sviluppati dai due archi.
Questi si mantengono distanti dall’impronta classica e creano un “non-luogo”, dove il pubblico può seguire i passi da ballad tracciati dal trio strumentale, che accompagna GNUT nel suo tragitto autoriale.
Il percorso definito rimane fedele a se stesso, in una coerenza che non è solo sonora ma che è anche garantita dal tema universale dell’amore: amore che viene messo sotto la lente d’ingrandimento, e che GNUT indaga nella sua molteplicità.
È quello spensierato in “Se cucini tu” e in “Semplice”, malinconico in “Dimmi cosa resta”, quello da dimenticare e da abbandonare centrale in “Luntano ‘a te”, ultimo inedito pubblicato a febbraio, nel quale GNUT si mette a nudo e racconta della sua personale esperienza con un «amore tossico che – dice il cantante – mi ha sconvolto».
La libertà espressiva di GNUT, oltre alla scelta del trio sul palco, si vede anche nel modo in cui alterna canzoni in italiano e in napoletano. Ogni lingua porta con sé un’emozione diversa, e GNUT sa come usarla per raccontare le sue storie in modo autentico. Non è solo una questione di parole, ma di sensazioni che si mescolano e prendono vita, in modo unico ma al contempo universale.
Foto da cartella stampa
Durante un momento strumentale apparentemente transitorio GNUT cattura l’attenzione degli ascoltatori emettendo con la sua voce un suono soffiato simile a un flauto, sollevando gli occhi dagli schermi di chi dopo un’ora di live iniziava a sentirsi, evidentemente, affaticato. Il suono, lontano e misterioso, ha creato un’atmosfera rituale, richiamando tutti i presenti in uno spazio fuori dal tempo.
E poi, c’è stato il momento finale con “Nu poco ‘e bene”, la canzone che tutti conoscono e che il pubblico ha cantato in coro, in un momento comunitario e intimo che ha fatto da perfetta chiusura alla serata.
Un live che ha dimostrato, ancora una volta, come la musica di GNUT sappia toccare le corde più profonde dell’animo umano, mescolando folk, emozioni e parole in un viaggio che promette di continuare a incantare nelle prossime tappe del tour.
In occasione della conferenza stampa per la presentazione della nuova edizione del Torino Jazz Festival 2025 dal motto “libera la musica”, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Zenni, direttore artistico del festival.
Foto da cartella stampa
Arrivato a questa edizione al TJF come direttore artistico, è cambiato qualcosa nel suo approccio sia in ambito curatoriale che nei confronti delle istituzioni della città di Torino?
È una domanda interessante. Col passare del tempo, le persone tendono a maturare e la loro conoscenza della musica si approfondisce. Si inizia a scoprire aspetti che prima non si conoscevano, e man mano che il Festival si consolida, cresce anche la fiducia reciproca.
Questo processo facilita il dialogo con i musicisti, il che è fondamentale. La maturazione generale aiuta molto, permettendo di lavorare su un raggio d’azione molto più ampio, su orizzonti più vasti.
Dal punto di vista delle istituzioni, ho la fortuna di collaborare con la Fondazione per la Cultura di Torino, che è l’ente responsabile dell’organizzazione del Festival. All’interno di essa ci sono tutte le persone che si occupano della realizzazione dell’evento. Pertanto, lavoro direttamente con la Fondazione e con i suoi membri, che sono persone straordinarie. Non potrei dire altro.
L’interazione è sempre fluida, senza attriti. Certamente, ci sono delle problematiche che emergono, ma vengono affrontate e discusse.
Tuttavia, ciò che caratterizza davvero il nostro lavoro insieme è il piacere di creare e realizzare qualcosa di importante in modo condiviso.
Quali sono i dettagli che un fruitore di jazz fermo al solo ascolto delle registrazioni, potrebbe perdersi in un live? e ci sono aspetti che secondo lei dal vivo emergono più in un concerto jazz che in qualsiasi altro concerto di musica pop o classica?
La musica va ascoltata dal vivo, sempre. Viviamo nell’epoca della riproduzione da circa centocinquant’anni, ma per 100.000 o addirittura 200.000 anni, da quando siamo una specie culturale, la musica è sempre stata un’esperienza condivisa, fatta con le persone in presenza, un termine che in realtà non dovremmo nemmeno usare, perché “in presenza” è un concetto superfluo, perché d’altronde siamo sempre presenti.
Un Festival rappresenta l’occasione di vivere insieme questa esperienza, di vivere la musica non in solitudine con una cuffia, ma di condividerla fisicamente, percependo la vibrazione diretta. Perché la musica è composta da onde, onde sonore che partono da uno strumento o da un corpo e arrivano fino al nostro.
È un’esperienza straordinaria, una comunicazione che avviene fra corpi, trasmessa attraverso la vibrazione dell’aria.
La scelta di convergere maggiormente su nuove produzioni inedite da cosa nasce?
Un Festival ha una vocazione ben precisa: da un lato, è chiamato a presentare la musica che circola, dall’altro, ha anche la missione di offrire ai musicisti l’opportunità di esprimersi. Il Festival fornisce i mezzi economici e logistici necessari per permettere loro di dare vita a idee nuove; allo stesso tempo, è fondamentale che offra al pubblico l’opportunità di scoprire cose che prima non esistevano.
Oggi ci sono anche bandi di supporto, come nel caso del gruppo di Zoe Pia che presenteremo, il quale ha vinto un bando SIAE. Quindi, il progetto nasce grazie a un sostegno economico pubblico, ma, sostanzialmente, questo è ciò che un Festival dovrebbe fare: dare opportunità sia ai musicisti che al pubblico, muovendosi attraverso una logica culturale precisa.
Non si tratta di “cose a caso”, ma di un programma pensato con una visione culturale chiara e significativa.
Le collaborazioni con Jazz Is Dead e i club della città sono un chiaro segnale di promozione del territorio urbano e verso i giovani. Perché ritiene utile espandere il jazz su questi due livelli specifici?
In linea di massima, non ha alcun senso che un’istituzione si isoli, come se fosse l’unica a fare le cose nel mondo. Una posizione del genere è sterile, non porta da nessuna parte.
È sterile per il Festival, che non cresce senza un dialogo continuo. È sterile per il pubblico, che si trova davanti a un muro. È sterile per i musicisti, che non possono esprimersi in un contesto vivo e dinamico. E, in ultima analisi, è sterile per la città stessa.
Credo che qualsiasi istituzione, soprattutto un Festival, debba, per vocazione e per sua natura, dialogare con altre realtà, senza pregiudizi. Perché sono dal confronto e dalla condivisione che nascono le idee.
Questo vale per tutte le età: per i giovani, ma anche per le persone più mature, che magari devono essere incoraggiate a uscire di casa, a entrare in contatto con qualcosa di nuovo. Al contrario, i giovani hanno già la tendenza ad uscire, a cercare esperienze diverse.
Il Festival, dunque, dovrebbe essere qualcosa di fluido, che si espande negli spazi della città, che in qualche modo invade ogni angolo e diventa parte della vita quotidiana. Mi piace immaginarlo come una piscina: ti trovi a nuotare in essa e poi decidi tu dove andare, dove goderti l’esperienza. L’importante è che ci sia un dialogo continuo, perché è nel confronto con gli altri che nascono le idee migliori.
Che cosa cerca maggiormente negli artisti che contatta per il festival?
La qualità è fondamentale. La qualità e la capacità di suscitare emozioni negli ascoltatori.
Per me, l’idea centrale è che l’artista ti porti in luoghi inaspettati, che ti faccia vivere esperienze nuove, cambiandoti emotivamente e culturalmente. L’artista esprime le sue idee, e queste idee entrano in dialogo con le mie. Così, sia l’artista che l’ascoltatore, attraverso questo scambio, cambiano. Ogni volta che scelgo un artista, per ogni singolo artista che invito, mi chiedo sempre quale effetto avrà sul pubblico, incluso me stesso, che sono anch’io parte del pubblico.
Se l’effetto dell’esperienza è quello di toccare qualcosa di profondo, di scoprire un nervo scoperto, o anche semplicemente qualcosa che è in superficie ma che ti costringe a guardare le cose sotto una luce diversa, allora quell’artista è giusto per il Festival. In sostanza, deve essere capace di suscitare una reazione, di spingere a vedere o sentire il mondo in un modo nuovo.
C’è qualche artista che avrebbe voluto venisse quest’anno ma che non ha potuto portare?
Ci sono per esempio dei cantanti importanti come Kurt Ellings, Cécile McLorin Salvant, che non sono riuscito ancora a portare a Torino per problemi logistici legati al Tour. Inoltre, mi piacerebbe portare al festival anche il chitarrista Bill Frisell. Altri artisti invece, sono molto sfuggenti, ma con un po’ di pazienza si riesce a convincerli. Jason Moran ne è un esempio. L’ho raggiunto a un suo concerto e gli ho parlato del Festival, e alla fine sono riuscito a portarlo quest’anno a Torino.
Se dovesse consigliare degli artisti a un pubblico giovane e inesperto per farli avvicinare al jazz quali sarebbero?
Innanzitutto, credo che la prima cosa sia coltivare la curiosità verso ciò che non si conosce. Personalmente, sono un fermo oppositore degli algoritmi di Spotify o YouTube, perché ti spingono a conoscere solo ciò che già conosci. Quindi il mio consiglio è: parla con qualcuno che ascolta jazz o musica che tu non conosci, e lasciati guidare dalla sua esperienza.
Poi, inizia a esplorare e scopri cosa ti piace.
Certo, se ti avventuri nei capolavori, non solo quelli classici del passato, ma anche quelli del presente, di musicisti contemporanei che producono musica di altissimo livello, non sbagli.
In ogni caso, finirai per trovarti di fronte a qualcosa di validissimo, riconosciuto come tale. Naturalmente, alcune cose ti piaceranno di più, altre di meno, ma invece di seguire l’algoritmo, meglio seguire i consigli di qualcuno che ti invita a scoprire mondi che non avresti mai immaginato. È un modo per uscire dalla tua zona di comfort e aprirsi a nuove esperienze musicali.
Il Torino Jazz Festival torna nel 2025 con la sua XIII edizione, portando con sé tutta l’energia del jazz live nelle sue forme più varie, promuovendo nuovamente l’idea originale, come ha ricordato in conferenza stampa il sindaco Lorusso, del compianto ex assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe. Sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, il festival si svolgerà dal 23 al 30 aprile, anticipato da un’anteprima diffusa nei jazz club torinesi dal 15 al 22 aprile. Quest’anno, il tema scelto è un invito chiaro e potente: “Libera la musica” un’esortazione a superare i confini dei generi e a lasciar fluire le contaminazioni, oltre che a ricondurci alla mente l’80° anniversario della Liberazione.
Una città che risuona di jazz
Otto giorni di programmazione, 71 concerti, 289 artisti e 58 luoghi sparsi per Torino: il TJF 2025 non ha un centro, ma si espande ovunque, dalle sale prestigiose come l’Auditorium Giovanni Agnelli e il Teatro Colosseo ai club indipendenti come l’Hiroshima Mon Amour e il Magazzino sul Po. Ogni parte della città fa da palco per gli artisti, ponendo una forte attenzione ai giovani che per il direttore artistico devono avere il loro spazio nei main stage «per dar loro stessa dignità, stesso spazio e stessa importanza», sottolineando a proposito che «solitamente, purtroppo, i giovani hanno il loro palco separato, il loro ghetto».
Il festival si articola in diverse sezioni: i Main Events, con artisti di calibro internazionale, e il Jazz Cl(h)ub, che anima i 19 club coinvolti sul territorio di Torino attraverso 26 concerti. E poi ci sono le incursioni urbane dei Jazz Blitz, tanto desiderati e promossi da Zenni, che portano la musica là dove spesso la musica non riesce ad arrivare: scuole, ospedali, case circondariali, carceri. Altri incontri interessanti sono i Jazz Talks, che offrono spazio a dialoghi e riflessioni in collaborazione con il Salone OFF.
Foto da cartella stampa
Voci, strumenti e incontri
Il TJF 2025 apre il sipario il 23 aprile al Teatro Juvarra con uno spettacolo che intreccia poesia e ritmo: Domenico Brancale e Roberto Dani daranno vita a un dialogo tra parola e percussione. La stessa sera, al Teatro Colosseo, Enrico Rava e il suo quintetto Fearless Five saranno protagonisti di un’esibizione che sarà accompagnata dalla consegna al trombettista torinese della targa Torri Palatine della Città di Torino, un riconoscimento alla sua carriera internazionale e al legame con la scena jazz locale.
Il cartellone prosegue con i Calibro 35 e il loro progetto Jazzploitation (24 aprile), un tuffo nelle colonne sonore italiane della golden age, e con Vijay Iyer, che il 25 aprile porterà sul palco del Conservatorio Giuseppe Verdi il suo Piano Solo. Il 28 aprile sarà la volta del Koro Almost BrassQuintet, che rileggerà Kurt Weill in Lonely House. Gran finale il 30 aprile con Il Big Bang del Jazz di Jason Moran e la TJF All Stars: un viaggio musicale che rievoca la storia di James Reese Europe e degli Harlem Hellfighters, rimescolando blues, ragtime e sonorità contemporanee.
25 Aprile a tutto ballo
Il TJF non dimentica le sue radici. Il 25 aprile, in occasione dell’80º anniversario della Liberazione, si terràIl ballo della Liberazione al MAUTO: un duello musicale tra le big band di Gianpaolo Petrini e Valerio Signetto, richiamando le sfide swing dell’Harlem degli anni ’30.
Ma il festival guarda anche avanti, sostenendo la candidatura di Torino a Capitale Europea della Cultura 2033 con eventi come il Jang Bang Sextet “Alighting” all’Hiroshima Mon Amour, una produzione originale TJF che unisce tradizione e sperimentazione.
Vivi il TJF 2025
Il segretario generale della Fondazione per la Cultura Torino, Alessandro Isaia, ci tiene a premere sul valore inclusivo del festival, che traspare dal costo contenuto dei biglietti e dai numerosi eventi gratuiti. Biglietti che saranno disponibili dall’11 marzo su torinojazzfestival.it. Inoltre per i nati dal 2011, ogni concerto costerà solo 1 euro. Sarà possibile acquistarli anche direttamente nei luoghi degli spettacoli, fino a esaurimento posti.
Stefano Zenni, in conclusione, invita a tuffarsi di testa nella ricchezza del programma, tenendo presente che il jazz non è solo uno, ma ce ne sono mille, e a Torino questi “mille” saranno tutti presenti.
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Il 9 marzo 2025, al Teatro Fonderie Limone di Moncalieri, la musica d’autore ha trovato il suo palcoscenico ideale con la serata finale della Quinta edizione del Premio Testa – Parole e Musica. Un evento intenso e ricco di emozioni, che ha visto giovani talenti omaggiare l’indimenticabile cantautore Gianmaria Testa, attraverso esibizioni originali e reinterpretazioni vibranti, sotto lo sguardo attento di una giuria prestigiosa e accompagnati da ospiti d’eccezione: Stefano Bollani e Valentina Cenni. La serata prevedeva la consegna di due premi: il premio Testa per la miglior canzone inedita e il premio per la miglior esecuzione di un brano di Testa selezionata da una giuria autorevole diretta da Eugenio Bennato.
A dare inizio alle esibizioni è stato Manuel Apice,cantautore liguregià vincitore di premi come il Fabrizio De André o il Bindi. Per inaugurare la serata ci presenta prima una cover del brano “Biancaluna” di Testa che dà il via alle esibizioni. A seguire Alessandro Sipolo, artista lombardo spesso in viaggio per il mondo, fa riemergere uno stile musicale che ci trasporta nel continente americano da nord a sud: un vero e proprio viaggio musicale estremamente coinvolgente. ll terzo cantautore presentato è Fabio Schember, classe ‘98, ci presenta delle interpretazioni tipicamente Mediterranee. Con l’uso di strumenti come l’oud turco o i tamburi muti propone una fusione tra la musica delle sponde nord del mediterraneo con quelle del sud-est, ricreando sonorità veramente interessanti. Alessio Alì, cantautore calabrese, è il più giovane tra i candidati e predilige la semplicità rispetto alla ricerca musicale presente nei cantautori precedenti, caratteristica che lo accomuna con l’ultimo candidato: Mizio Vilardi, unico artista ad esibirsi senza band, accompagnato solo dalla sua chitarra. Omaggia le sue origini pugliesi cantando metà in italiano e metà in dialetto molfettese.
Foto dal profilo Instagram @premiogianmariatesta , foto di Elisabetta Canavero
Dopo le esibizioni dei finalisti, la giuria si è riunita per decretare i vincitori, mentre il pubblico attendeva con trepidazione. A intrattenere gli spettatori è arrivato Stefano Bollani (che ha collaborato con Gianmaria Testa nel celebre spettacolo Guarda che luna) accompagnato dalla sua compagna Valentina Cenni. La loro performance ha preso avvio riprendendo lo stile della trasmissione Via dei matti n. 0, presentando reinterpretazioni di canzoni di Testa e altri brani internazionali, tutti legati alla sua vita. Le esibizioni di Bollani, intervallate da momenti di pura improvvisazione pianistica jazz, hanno messo in luce la sua straordinaria abilità al pianoforte, permettendo al musicista di esprimersi liberamente. Per concludere, Bollani e Cenni hanno omaggiato le origini piemontesi di Gianmaria Testa con “La mia mama a veul ch’i fila”, una canzone ironica che ha suscitato ilarità e applausi entusiasti dal pubblico.
La serata finale del Premio Testa si è conclusa in un’atmosfera di festa e celebrazione, con i vincitori che hanno portato a casa il riconoscimento per il loro talento e la loro creatività. Mizio Vilardi, con la sua originale interpretazione di “Nuovo” tradotta per metà in dialetto molfettese, ha conquistato il premio per la miglior cover, mentre Alessio Alì ha brillato con la sua canzone inedita, “Paura di cambiare”, aggiudicandosi il premio principale.
Foto dal profilo Instagram @premiogianmariatesta , foto di Elisabetta Canavero
Il presidente di giuria, Eugenio Bennato, ha chiuso l’evento con due brani che hanno riempito il teatro di energia e ritmo con “Il mondo corre” e il celeberrimo “Ritmo di contrabbando”, salutando il pubblico a ritmo di taranta. Questa edizione del Premio Gianmaria Testa non solo ha messo in luce nuovi talenti, ma ha anche reso omaggio a un grande artista che continua a ispirare generazioni. La serata si è rivelata un successo, promettendo un futuro luminoso per la musica d’autore italiana.
Sabato 8 marzo, si è tenuta al Teatro Vittoria l’ultima lezione-concerto“Solo per le tue orecchie”, un progetto interattivo pensato per guidare un pubblico di appassionati verso un ascolto più consapevole della musica classica. Matteo Borsarelli e Eugenio Catale (al pianoforte e al violoncello) sono stati gli interpreti della serata, insieme ad Antonio Valentino, docente al Conservatorio Verdi di Torino e direttore artistico di Unione Musicale. Valentino, con la sua competenza tecnica e storica, ha illustrato le particolarità di compositori che hanno assorbito le tradizioni musicali della loro terra trasformandole in musica colta. Il programma è stato suddiviso in tre sezioni: le Danze popolari rumene di Béla Bartók, la Suite Italienne di Igor’ Stravinskij e Le Grand Tango di Astor Piazzolla.
Foto da ufficio stampa Unione Musicale
Valentino ha dapprima introdotto Béla Bartók, compositore ungherese, pioniere dell’etnomusicologia che realizzò una quantità incredibile di raccolte di musiche popolari soprattutto della Transilvania. Le Danze popolari rumene sono suddivise in sei danze, caratterizzate da tratti peculiari che Valentino ha descritto dando chiare spiegazioni tecniche, affiancate dagli esempi musicali dei due interpreti.
La prima, La Danza del Bastone, ha un ritmo fortemente irregolare. Il nome proviene da una danza tradizionale eseguita da uomini con un bastone in mano che si sfidavano in movimenti coreografici. Segue La Danza della Fascia, di origine serba, in cui la pulsazione regolare del pianoforte si mantiene mentre il tempo si fa più brillante. La terza danza è La Danza sul Posto: il movimento dei ballerini infatti è particolarmente limitato, perciò il suono del pianoforte diventa ipnotico e statico, mentre il violoncello si inserisce con piccole fioriture arabeggianti. La quarta danza è detta LaDanza del Corno ed è di stampo tradizionale e pastorale, con un carattere lirico e contemplativo. La quinta danza è una polka, danza tradizionale polacca che qui assume un carattere allegro e spensierato. La danza conclusiva risulta inizialmente lenta per poi diventare più rapida e affine alla danza precedente. Dopo aver suonato degli estratti per integrare le spiegazioni del relatore, Borsarelli e Catale hanno eseguito per intero le Danze popolari rumene, con qualche applauso nel mezzo e una grande ovazione finale.
La seconda parte della serata è stata dedicata a Igor’ Stravinskij, compositore che per la prima parte della sua carriera si dedicò alla composizione di brani per balletti sotto ingaggio di Sergei Diaghilev, impresario che rese noti i Balletti Russi a Parigi. Ne nacquero capolavori come L’uccello di fuoco, Petrushka e La sagra della primavera (quest’ultima fece scalpore per la sua modernità ‘primitiva’).
La Suite Italienne proviene dalla tradizione della musica antica italiana, in particolare dalle opere di Pergolesi, che portarono Stravinskij a un nuovo periodo stilistico, caratterizzato da una sperimentazione basata, fra altre cose, su un utilizzo apparentemente incongruo degli strumenti.
L’estratto è estrapolato dalla Serenata, seguito dall’Aria e dalla Tarantella. La rapidità del pianoforte nella Serenata rimanda al mandolino mentre il violoncello riprende le sonorità tipiche del tamburello. L’Aria è un brano molto brillante che Stravinskij comincia con una serie di pizzicati massicci che evocano un senso di ruvidità, per poi passare al tipico suono dell’arco. L’ultimo brano è la Tarantella ed è particolarmente complesso in quanto caratterizzato da un estremo virtuosismo. L’esibizione colpisce gli spettatori ipnotizzandoli e termina con qualche esclamazione relativa alla bravura dei due interpreti.
La lezione-concerto si conclude con Le grand Tango di Piazzolla, il quale reinventò il tango in chiave colta e contemporanea. Valentino ha spiegato come il tango sia sorto a fine Ottocento tra la capitale dell’Argentina, Buenos Aires, e quella dell’Uruguay, Montevideo, due città molto vicine unite dal Rio de la Plata. Il genere aveva radici profonde nel ceto popolare portuale e veniva ballato soprattutto nei bordelli, per cui suscitò fin da subito scandalo.
Il brano è eseguito secondo la versione originale, senza necessità di arrangiamenti. Piazzolla, per mantenere alto l’interesse, trasforma la ripartizione binaria tipica del tango in una suddivisione più intrigante e frammentata, la quale viene diretta dal pianoforte e seguita dal violoncello, che si unisce seguendone il ritmo oscillatorio. Durante l’esecuzione, il ritmo ossessivo tiene agganciato il pubblico, soprattutto nel finale, quando diventa sempre più tormentato, strappando un grande applauso, seguito da un’acclamazione collettiva.
La sesta lezione-concerto giunge al termine. Dopo un paio di domande relative all’esibizione, assistiamo alla conclusione, per quest’anno, del progetto “Solo per le tue orecchie” che, giunto alla terza edizione, è apprezzato più che mai.
Il 7 marzo lo Ziggy Club ospita nuovamente, dopo sole due settimane dall’ultima serata, un concerto organizzato da Turin Moving Parts. Le porte aprono alle 21:00 ma per la prima ora e mezza non c’è musica: il pubblico arriva poco alla volta riempiendo la sala di volti noti e nuovi.
Alle 22:45 iniziano i Distorsione Armonica Totale(DAT), che unendo screamo a rap e trap portano qualcosa di diverso da ciò che solitamente ci aspetteremmo da queste serate. Il trio è formato da un batterista, due voci e talvolta una chitarra, utilizzata nei pezzi con una strumentale più classicamente emo, alternati da altri retti da basi registrate.
Foto di Simone Cossu
La presenza di basi probabilmente ha fatto sì che il pubblico non fosse coinvolto appieno. Tuttavia, questa mancanza è stata compensata dalla sfrontata stage presence dei cantanti, uno dei quali arriva a buttarsi a terra durante l’ultimo pezzo e lanciare l’ultimo urlo accasciato ai piedi della batteria.
Foto di Simone Cossu
I Fangosberla invece rappresentano un ritorno a casa, nonostante la loro provenienza sarda: screamo, shoegaze e influenze math rock sono ciò che serviva per concludere la serata al meglio. I cinque suonano il loro recentissimo EP: Tutto è bene quel che finisce. Ci hanno fatto urlare, pogare ed emozionare, dal brano che apre l’EP, “Fango”, al brano conclusivo “Sberla”.
Foto di Simone Cossu
Degna di nota la presenza di non una, ma ben due donne nella formazione, cosa ancora troppo rara all’interno della scena ma che rappresenta un respiro di sollievo per tutte coloro che ne fanno parte.
Alla fine del set, la loro musica ci ha convinti che forse non è “tutto bene quel che finisce” e questo concerto ne è la prova.
Foto di Simone Cossu
Ancora una volta il Turin Moving Parts ci ha regalato una serata all’insegna dell’emo e dell’amore per la musica («viva la musica!», qualcuno ha gridato alla fine del set dei Fangosberla), da cui non si può che uscire soddisfatti, rimanendo in attesa della prossima serata.
«La musica contemporanea mi butta giù» cantava Battiato, criticando un sistema compositivo che separava la produzione musicale di consumo dalle sperimentazioni più estreme. Quarant’anni dopo noi viviamo in un vortice musicale che contiene tutto e di più, con sempre meno distinzioni. L’evoluzione della musica classica o colta contemporanea ne è un fatto esemplare: da decenni si scardinano le regole interne, esplorando timbri sonori anomali e strutture compositive atipiche, ma tutto questo avviene dentro istituzioni tradizionali che da tempo ormai promuovono e stimolano l’interesse verso qualcosa di diverso.
È questo il caso della rassegna Rai NuovaMusica, dedicata interamente all’esecuzioni di brani contemporanei. Il primo appuntamento di questa stagione si è svolto giovedì 6 marzo presso l’Auditorium Rai “Arturo Toscanini”:un lungo concerto dal programma variegato che ha visto sul podio il direttore francese Pascal Rophé e l’esibizione del violoncellista Mario Brunello. Il primo è un allievo di Pierre Boulez e direttore musicale dell’Orchestre national des Pays de la Loire, il secondo invece è stato il primo europeo a vincere il concorso Čaikovskij a Mosca e vanta un vasto repertorio, dal barocco al jazz.
In apertura si viene avvisati di un’inversione dell’ordine dei brani rispetto a quello indicato sul programma di sala, probabilmente dettata dai necessari cambi dell’organico orchestrale. Si inizia quindi con un brano del 2016, Dialog mit Mozart di Peter Eötvös, compositore ungherese scomparso lo scorso anno. Una sorta di intervista impossibile che punta a rielaborare frammenti di temi mozartiani in modo personale. L’esecuzione ci restituisce in modo preciso e scorrevole tutte le sottili evoluzioni di questa composizione ciclica.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Dopo una breve pausa sale sul palco Mario Brunello, che prende subito un microfono in mano e ci introduce al brano T.S.D., composto nel 2018 dal georgiano Giya Kancheli. Si rimane impietriti di fronte all’abisso e ai silenzi in cui ci immerge il suono del violoncello. Tutto si svolge lentamente, Brunello segue la sua partitura scorrere su un tablet, Rophé dirige senza bacchetta e con gesti enfatici i momenti più contemplativi e spirituali della composizione. Le accensioni sonore sono ben ponderate con frammenti più semplici e statici. Brunello conclude l’esecuzione con calma e malinconia, prendendosi tutto il tempo per abbassare l’arco prima degli applausi che incitano subito all’encore. Al secondo rientro sul palco, il violoncellista esegue il terzo movimento della Sonata per violoncellodi George Crumb, un breve saggio di tecniche esecutive non convenzionali.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Intervallo. Ritornati in sala vediamo molti più musicisti sul palco. Si passa a Gli occhi che si fermano,composizione del 2009 di Francesco Antonioni, che ascolta seduto in platea. “Canzone mononota” tutta giocata sul re in una combinazione di timbri e durate che creano quasi un effetto magico di messa a fuoco uditiva dei singoli suoni. L’energia interna viene sprigionata dall’intera orchestra in modo graduale. La direzione di Rophé è severa e marcata su ogni cambio di dinamica e ritmo. Tutto diventa metafora sonora di un viaggio che sembra infinito ma dura solo pochi minuti. Applausi ripetuti anche per Antonioni, che viene richiamato sul palco dal direttore.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Gran finale. Si aggiungono altri strumenti, tra cui chitarra elettrica, organo Hammond e cimbalon. Si chiude il cerchio ritornando al punto di partenza con Eötvöse una sua composizione del 2018, Reading Malevich: una rilettura musicale divisa in due parti, orizzontale e verticale, del quadro Composizione suprematista N° 56, realizzato nel 1916 dal pittore Kazimir Malevich. Il tempo diventa impulso sospeso, e ancora una volta Rophé è preciso nei suoi gesti, che si fanno energici nell’abbracciare ogni sfumatura timbrica e armonica. Così il concerto finisce, non con un botto ma con un lamento. Seguono numerosi applausi: il direttore viene richiamato più volte sul palco, fino a quando decide di prendere la partitura dal leggio, mostrarla al pubblico e congedarsi definitivamente.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Col senno di poi l’ordine iniziale sarebbe stato più coerente per sonorità e stili compositivi, ma il risultato musicale è stato comunque di grande coinvolgimento uditivo ed emotivo. Merito di un’orchestra che si dimostra ancora una volta versatile e aperta a nuove sfide, che il pubblico accoglie con entusiasmo.
Cosa c’è di meglio di una serata a casa di amici, con la musica che si mescola al tintinnio di bicchieri e al sapore delle patatine? Probabilmente nulla!
Infatti, l’1 marzo i mezzaestate hanno trasformato una semplice serata in un’esperienza unica. Immaginate una casetta accogliente, intima, un tavolo con bevande e stuzzichini, amici, conoscenti, sconosciuti e un gatto nero che si nasconde tra amplificatori e strumenti musicali. In questo ambiente, dall’atmosfera calda, i mezzaestate si sono raccontati, condividendo il loro percorso musicale tra brani da loro composti, in versione unplugged, e alcune cover.
Il loro stile musicale sfugge a una definizione precisa: combinano generi che spaziano dal pop al rock, passando per il punk e il cantautorato italiano. Questa versatilità riflette le diverse provenienze geografiche e le esperienze di vita dei cinque ragazzi che compongono la band.
Il concerto si è trasformato in un abbraccio, un’occasione per conoscersi tra chiacchiere, risate e la magia della musica. Occasione migliore per porre qualche domanda al gruppo e conoscerlo meglio non ci poteva essere.
Questa serata ci ha dato l’opportunità di conoscervi, osservare i vostri video di backstage che avete realizzato durante le vostre sessioni di brainstorming musicale. Ci raccontate chi siete?
Stefano Calzolari:Noi siamo i mezzaestate e siamo cinque ragazzi che si sono incontrati qua a Torino a partire da background molto diversi. Principalmente ci siamo incontrati per motivi di studio: io vengo da Ferrara, Brando da Imperia, Cesare da Trani, Mattia da Lanciano e Gabriele da Torino. La cosa interessante di questo progetto è che la metà di noi ha studiato ingegneria (ride, ndr). Essendo un progetto che non ha assolutamente nulla di scientifico, abbiamo anche i nostri umanisti: Gabriele studia filosofia […] e Mattia studia al CAM.
Nonostante molti di voi siano ingegneri di “professione”, avete coltivato un animo musicale. La passione per la musica quando è nata?
Brando Ramello: Ho imbracciato la chitarra per la prima volta in quinta elementare. In casa mia c’è sempre stata musica, principalmente classica perché i miei ascoltano sempre Radio3, […] ma non l’ho mai ascoltata davvero, l’ho sempre assorbita passivamente. In casa c’è sempre stata una chitarra, […] mio papà è lo strimpellone classico che sa quattro accordi, col giro di DO ti fa tutto il repertorio italiano anni ’60. Poi ho iniziato anch’io ad appassionarmi e interessarmi alla chitarra. Ho fatto tre anni di lezione, poi ho smesso per un periodo perché non mi piaceva molto l’impostazione teorica che mi stavano dando. Ho ripreso da solo, da autodidatta, dai 15-16 anni fino ad oggi.
Mattia Caporella:Io suono la batteria fin dall’infanzia, ho studiato sempre, continuativamente. C’è stata una pausa di attività dal vivo per via del Covid e degli studi, però in questo periodo mi sono ridato da fare con diversi gruppi, tra cui questo che mi ha accolto in corso d’opera. Sono stato un nuovo acquisto, oltre a lui (indicando Gabriele, ndr). È bello perché situazioni come queste sono molto particolari, cerco di variare sempre i miei impieghi […]. Tutto ciò che faccio è sempre molto legato alla musica.
Gabriele Scotto: Anch’io sono nato con la musica, nel senso che mio padre metteva sempre qualunque disco, anni ‘60 e ‘70, ma anche anni ‘80, come i The Cure […]. In realtà io avevo iniziato cantando, avevo fatto un corso di coro. Poi l’anno successivo non c’era più posto (per fare lezioni, ndr) e io volevo fare anche altre cose nel frattempo. Fatalità in un giorno in cui ero disponibile, davano lezioni di basso, e allora ho detto «Perché no?». Ho fatto un anno di basso jazz, cosa che ovviamente per ora è sospesa lì, nell’Iperuranio e magari un giorno si paleserà in qualche maniera (ridono, ndr). Ora faccio il basso “simpy”, carino, con questi ragazzi (Stefano gli manda un bacio, ndr).
Cesare Piemontese:Ho sempre suonato la chitarra fin da quando ero piccolo, un po’ come Matti con la batteria. Ho studiato la chitarra classica tanti anni e poi, siccome sono un “giovane” e facciamo il “maledetto rock”, mi sono innamorato della chitarra elettrica. Ho sempre avuto il sogno di avere un piccolo gruppo. Da me in Puglia non sono mai riuscito a crearlo ma, quando sono arrivato qui per motivi di studio, mi sono reso conto che qui (a Torino, ndr) girava molto meglio la scena, c’era tanta vitalità e poi era solo questione di tempo prima che ci incontrassimo e che nascesse il progetto mezzaestate.
Perché vi chiamate mezzaestate?
Stefano Calzolari: Il nome mezzaestate, almeno per come lo interpreto io, per il significato che gli ho voluto dare […] è questo senso di notti estive leggere in cui magari sei al liceo, stai andando in giro in bici di notte con la brezza che ti accarezza la pelle, sei magari innamorato, sei emozionato, sei spensierato perché sai che il giorno dopo non hai un cazzo da fare, sei tranquillo e non ti fai troppi problemi […].
Come vi siete conosciuti?
Stefano Calzolari: Io e Brando abbiamo studiato insieme alla laurea magistrale al Politecnico e ci siamo ritrovati anche a fare la tesi nello stesso laboratorio. Io continuavo a dirgli: «Dai Brando mettiamo su una band!».
Brando Ramello: Io ricordo che quando ho comprato la scheda audio per registrare qualcosa mi sono detto: «Ma sì, quasi quasi mi rimetto ad utilizzare Reaper». Quindi ci siamo proprio alimentati a vicenda in questa cosa.
Stefano Calzolari: Questa cosa è cresciuta sempre di più fino a quando non abbiamo detto «Cazzo facciamolo, buttiamoci! Servivano però altri componenti» (ridono, ndr). C’è questa mia cara amica che mi ha detto un giorno «Guarda che c’è Cesare, questo ragazzo che conosco e boh, suona la chitarra». Quindi io vado a vedere cosa pubblica, cosa fa e cosa suona su Instagram […] e sento questo qua che fa di tutto.
Brando Ramello: come mi disse Stefano in chat (a proposito di Cesare, ndr): «è un manico!» (ridono, ndr).
Stefano Calzolari: Cesare ha tutte queste registrazioni dove fa queste cose super mega virtuosistiche da chitarrista. Avete presente lo stereotipo del chitarrista iper mega nerd? Cesare incarnava questa cosa e io ho detto: «È un fenomeno, abbiamo il nostro chitarrista».
Cesare Piemontese: Matti l’ho portato dentro io, andava alle scuole medie con il mio coinquilino e quindi ci ha presentato lui. Mi ha detto «Tu suoni? Ah, suono anch’io. Allora suoniamo insieme!». È entrato in sostituzione della nostra vecchia batterista (la salutano tra il pubblico, ndr). Per Gabriele è successa una cosa simile: quando il nostro vecchio bassista è ritornato in Francia perché aveva finito l’Erasmus, abbiamo pensato a lui (Gabriele, ndr). Giravamo negli stessi ambienti e concerti, ci conoscevamo anche perchè avevamo amici in comune.
In questa serata ci avete raccontato e mostrato con video autoprodotti quale è la genesi dei vostri brani. Da dove traete ispirazione per far nascere le vostre canzoni? Quale è il processo con cui date vita ai brani?
Stefano Calzolari: Le nostre canzoni nascono probabilmente da questo clima di leggerezza che è in un certo senso anche ostentata in alcuni momenti. Si sente che le nostre canzoni sono intrise potenzialmente di sensi di colpa, nostalgia, errori che abbiamo fatto nel passato o comunque riflessioni profonde. Io credo di essere molto emotivo da questo punto di vista ma vedo anche negli altri, qui intorno a me, questa cosa (ridono, ndr) e credo che si senta molto in queste canzoni. Nascono da riflessioni […], personali, cantautorali. Mi ritrovo a fare dei ragionamenti su cose che non vanno o cose che vanno nella mia vita, nei miei rapporti interpersonali con ragazze o con amici. C’è un amico che viene nominato in “Notti estive” […], uno degli amici probabilmente più importanti che ho nella mia vita. È stata una figura di riferimento molto importante per me (si emoziona, ndr). Le cose che scrivo vengono da qui.
Brando Ramello: A livello un po’ più pratico, invece, per questa prima fase compositiva – che a me piace chiamare la Fase 1, come la Marvel, e che comprende “Stella”, “Notti estive”, “Iper compresso”, “Mezz’ora” e “In ogni gesto” – è una fase in cui principalmente nascono delle idee a qualcuno, musicali o di testo, vengono portate agli altri e ognuno cerca di metterci il suo per poter riarrangiare i brani e ottenere una quadra. […] La prima canzone per cui abbiamo collaborato più seriamente è […] “Dolci sirene”, la più nuova, in cui c’è stato un processo collaborativo totale […]. Stiamo cercando di andare più verso questa direzione, una collaborazione più completa nello scrivere le canzoni.
Avete dei progetti per il futuro?
Brando Ramello: Abbiamo in programma di far uscire un altro singolo, si chiama “Mezz’ora”. Secondo noi è un passettino in avanti anche dal punto di vista compositivo rispetto a “Stella” (primo singolo pubblicato, ndr). Dovrebbe uscire fra poco, non sappiamo ancora di preciso la data, ma sicuramente è il secondo singolo che andrà ad anticipare l’uscita dell’EP completo di cinque brani che riassume la Fase 1 compositiva del nostro gruppo. Poi da lì è molto delicata la situazione. Siamo ragazzi che stanno facendo svariate cose: c’è chi lavora, c’è chi sta studiando, chi sta finendo di studiare e c’è chi sta facendo il dottorato (indicando Stefano che ride, ndr). Quindi, da settembre in poi vediamo… «solo il tempo svelerà» (citazione tratta da “Mezz’ora”, ndr).
C’è qualche data in programma in cui possiamo venire ad ascoltarvi nuovamente?
Cesare Piemontese: Il 4 aprile partecipiamo ad un contest che si chiama Emergenza al Barrio, qui a Torino […]. Sarà un bell’evento, speriamo di riuscire ad andare avanti, più gente viene più siamo contenti. Il 26 aprile suoniamo a Ciriè al Capolinea. È un bel palco, passa molta gente da lì e siamo molto contenti di poterci andare insieme ad altre band amiche come Gtt, Supernova… andateli a sentire. E poi altre cose che sveleremo piano piano, seguiteci e rimanete aggiornati!
Il Teatro Regio continua ad attirare molto pubblico con una nuova produzione sold out fino all’11 marzo. Con l’anteprima giovani, il 27 febbraio viene inaugurato il nuovo allestimento di Rigoletto firmato da Leo Muscato. Reduce dal successo di Agnese di Paër, nel 2019, Muscato torna al Teatro Regio di Torino insieme alla scenografa Federica Parolini e alla costumista Silvia Aymonino. La carriera di Muscato è costellata di collaborazioni con teatri d’opera prestigiosi e importanti premi quali il Premio Abbiati come Miglior Regista d’Opera (2012), l’International Opera Awards (2016) e il Premio Internazionale Ivo Chiesa come Miglior Regista d’Opera (2023).
A dirigere l’orchestra c’è Nicola Luisotti, ex direttore dell’Opera di San Francisco insignito della San Francisco Opera Medal per i suoi meriti artistici e riconosciuto come uno specialista del repertorio verdiano. Con Verdi torna a Torino dopo otto anni per presentare un’opera che ha segnato la storia del melodramma, la prima delle tre opere della trilogia popolare del compositore composta nel 1851.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino, foto di Mattia Gaido e Daniele Ratti
Siamo persone con identità fragili che si nascondono dietro maschere ingannevoli e tutto il mondo intorno a noi è deforme. Questa è l’epoca in cui viviamo, dove apparenza e finzione spesso prevalgono sulla realtà, ma è anche il tema in cui un’opera come Rigoletto trova le sue radici. Non è facile attualizzare opere del passato per raccontarle in maniera trasversale – ha sottolineato Muscato durante la conferenza stampa – ma la messa in scena di Rigoletto sul palco del Teatro Regio è riuscita magistralmente a rendere l’opera vicina al sentire contemporaneo.
La deformità di Rigoletto è frutto dell’ambiente che lo circonda e della società corrotta primo novecentesca che danza tra le due guerre. Il preludio iniziale introduce una scena dominata da una struttura muraria ondulata, realizzata con superfici riflettenti e deformanti, che trasforma il palco in un mondo precario e straniante. Solo sul palco, Rigoletto, il giullare dal naso rosso, contempla la sua immagine nell’unico specchio reale che gli mostra la sua vera essenza: è un uomo solitario e triste, con la gobba e l’alopecia, costretto a nascondersi dietro una maschera per sopravvivere a corte. Nasce probabilmente da qui l’idea di giocare con una scena fissa ma girevole: l’allestimento scenografico diventa un protagonista che sussurra l’ambiguità dei personaggi e la fragilità di un mondo in disfacimento. La scenografia di Parolini svela e nasconde: i personaggi sentono ma non vengono visti, il pubblico vede ma costruisce nella propria immaginazione gli spazi in cui si svolgono le azioni. Improvvisamente le mura cittadine ruotano svelando la festa in corso all’interno del palazzo ducale, presentata da un tableau vivant di personaggi aristocratici. Nasi e maschere da suino deturpano i volti di alcuni personaggi accentuando il grottesco e la decadenza che permea ogni angolo.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino, foto di Mattia Gaido e Daniele Ratti
L’illuminazione di Alessandro Verazzi gioca un ruolo cruciale nel rafforzare il senso di straniamento. Il gioco di luci rapisce lo sguardo di tutti e scuote gli animi trasformando il palcoscenico in un labirinto di emozioni, personalità e di ambienti. Ogni fascio di luce, calibrato al millimetro, genera riflessi o ombre tragiche sulla struttura muraria rivelando verità taciute e crea dei veri e propri quadri dando vita ad un ulteriore livello di lettura dello spettacolo. Durante la tempesta del terzo atto, il pubblico, abbagliato da luci intermittenti, diventa parte integrante del dramma, condividendo paure ed emozioni con i personaggi. Un’intuizione registica che ha creato un’esperienza sensoriale partecipativa.
Muscato ci regala un Rigoletto che si allontana in alcuni punti dalla fedeltà al libretto originale, arricchendo e sfaccettando il dramma non solo dal punto di vista scenografico ma anche dal punto di vista narrativo. Monterone, dopo aver lanciato la sua maledizione, muore per poi riapparire, in altri quadri, come un fantasma vestito di bianco e illuminato da una luce fredda e intensa, un costante promemoria del destino che incombe su Rigoletto. Gilda viene presentata come una giovane ragazza affidata alle cure di un convento o di un convitto, un’anima pura e innocente in un mondo corrotto. Nell’atto finale, la drammaturgia si discosta ulteriormente dal libretto di Piave con l’ambientazione della scena in un postribolo, una fumeria d’oppio. La forte carica teatrale è amplificata dall’uso di luci e fumo che dividono il palco in tre sezioni: una luce blu a sinistra per la scena di “La donna è mobile”, una luce viola per il postribolo al centro, e una luce più calda per Gilda e Rigoletto che, esterni, osservano la scena. Improvvisamente un taglio di luce tragico, in gusto noir, attraversa i volti di Gilda e Rigoletto, sopraffatti dalla visione e ascolto del cantabile “Bella figlia dell’amore”.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino, foto di Mattia Gaido e Daniele Ratti
L’inizio del primo atto è risultato musicalmente sottotono, con una certa difficoltà nel percepire le voci e le parole di alcuni interpreti i quali, probabilmente nel tentativo di preservare la propria voce per le repliche, hanno optato per un’esecuzione a mezza voce. Tuttavia, dalla conclusione del primo atto, l’orchestra e i cantanti hanno espresso il loro pieno potenziale emotivo e vocale, con passaggi dinamici di notevole impatto. Nicola Luisotti ha diretto le sfumature musicali con maestria, mantenendo la fedeltà al tema centrale dell’opera e arricchendolo di nuove sfaccettature emotive. Un plauso speciale va al Coro del Regio, guidato da Ulisse Trabacchin, che ha saputo trasformare i momenti corali in autentiche manifestazioni di espressività.
Un piccolo ma significativo gesto è stato quello di Luisotti che, al termine della rappresentazione, è rimasto sul suo podio, seminascosto, per applaudire l’intero cast, dimostrando grande rispetto e apprezzamento per il lavoro di tutti. La rappresentazione di Rigoletto, come preannunciato durante la conferenza stampa, è stata frutto di un lavoro di squadra eccezionale che ha dato vita ad una fusione armoniosa di talenti artistici e legami umani.
La marimba, strumento dai suoi suoni caldi ed esotici, e il computer, sono stati uniti in un’insolita combinazione per il concerto “Il mio mondo sonoro” di Daniele Di Gregorio. L’evento, organizzato da Unione Musicale, si è tenuto il 25 febbraio 2025 al Teatro Vittoria di Torino.
Daniele Di Gregorio, percussionista di grande esperienza, ha un background che spazia dalla musica classica al jazz. La sua carriera include collaborazioni con l’Orchestra Giovanile Italiana diretta da Claudio Abbado e il Rossini Festival. Durante i suoi studi jazz, Di Gregorio si è innamorato della marimba, attratto dal calore del suo suono ligneo.
Di Gregorio ha utilizzato il computer non per la sintesi elettronica, ma per riprodurre basi pre-registrate. Questa è una pratica comune tra i musicisti delle ultime generazioni per lo studio, anche se spesso molto criticata. L’artista afferma infatti di voler mettere in contrasto il calore espressivo della marimba con il rigore freddo del computer. Strutturando l’evento come una lezione-concerto, Di Gregorio ha creato un’atmosfera familiare, alternando l’esecuzione dei brani con spiegazioni sulla marimba e le sue potenzialità.
Il concerto inizia, Di Gregorio entra in sala e comincia immediatamente a suonare senza i consueti inchini e formalità. Finito il primo brano prende il microfono in mano e comincia la presentazione. Il brano intitolato “Quando vuoi” è una composizione per due marimbe, con una parte preregistrata riprodotta dal computer. I brani includono “Viaggio”, un’improvvisazione su un loop ritmico in 7/4, che ha creato un movimento circolare tipico del jazz. “Esercizio in forma di concerto” è stato eseguito come brano fuori programma; ha dimostrato come la marimba possa riprodurre l’intera estensione di un’orchestra, dalle note più gravi ai suoni più acuti. Altri pezzi erano “Gaslini Song”, dedicato al suo maestro di improvvisazione jazz, “Stella by Starlight”, un classico jazz adattato per marimba e pianoforte e “Sequenza fast”, unacomposizione estemporanea per trio su loop ritmico basato su una scala ottotonica.
Un brano particolarmente toccante è stato “La leggenda del campo dei fiori”, ispirato alla storia d’amore di Paolo ed Elena, due partigiani attivi durante la Seconda Guerra Mondiale ma che, terminato il conflitto, si lasciano per riprendere ognuno le proprie vite. Di Gregorio crea un’atmosfera malinconica e introspettiva, grazie all’utilizzo di bacchette morbide non tipicamente usate per la marimba .
Il concerto si è concluso con “Tra Occidente e Oriente”, un brano che contrappone la tranquillità della natura alla frenesia urbana, utilizzando la marimba e una base di pianoforte per rappresentare questi temi contrastanti.
L’atmosfera informale della lezione-concerto ha permesso al pubblico di scoprire le molteplici sfaccettature della marimba, uno strumento noto ma spesso sottovalutato, catturando l’interesse del pubblico e suscitando in molti il desiderio di sperimentare personalmente la marimba. Il concerto ha quindi offerto non solo un’esperienza musicale coinvolgente, ma anche un’opportunità di apprendimento e di scoperta.
Smaltito Sanremo… e ora qualcosa di completamente diverso, ecco i nostri suggerimenti musicali divisi tra uscite italiane e estere.
Laura Agnusdei – “The Drowned World” Artista bolognese, sassofonista a metà tra sperimentazione e underground. Il singolo è estratto dal nuovo album, Flowers Are Blooming In Antarctica, che riflette sull’emergenza climatica. Il brano scelto prende ispirazione dall’omonimo romanzo fantascientifico di J.G. Ballard. Inizia come una marcia jazz standard, per poi rallentare e virare in atmosfere elettroniche oniriche e post-apocalittiche. Ci si sente storditi, si percepisce il caldo asfissiante di un mondo sommerso, non da immondizie musicali, ma da desolazione.
Voto 30/30
Francesco Di Bella feat. Colapesce – “Stella che brucia” Dal nord si passa al sud, ma al centro c’è sempre il sax, che questa volta ci trasporta in una lunga notte solitaria. Il ritorno dell’artista napoletano con l’album Acqua Santa, che in questo brano insieme a Colapesce descrive la fatica («sagliuta appesa») e il coraggio («vedimmo ‘e cammenà») dell’amore in modo poetico. La iacuvella, il tira e molla, i dispiaceri, le aspettative, tratti rilevanti che ci fanno bruciare e ci fanno vivere. L’unione dei due funziona, soprattutto a livello vocale, mentre la musica firmata da Marco Giudici riecheggia le ballad di Pino Daniele.
Voto 26/30
Jake La Furia – “64 no brand“ Dopo la reunion dei Club Dogo, Jake e Guè hanno pubblicato a distanza di poche settimane i loro nuovi progetti solisti. In questo caso si tratta del suo quarto album Fame, interamente prodotto da The Night Skinny. Il singolo, meta-promozionale, punta il dito contro le collaborazioni tra industria musicale e brand, usando la stessa forma, le 64 barre, con in mezzo un cambio di beat. Una radiografia critica e personale sullo stato del rap italiano. Jake si definisce nomade, integrato nel sistema, ma ostinatamente contro chi vorrebbe cambiarlo o cancellarlo. Ancora una volta cronaca di resistenza di un successo costruito da zero.
Voto 27/30
Teamcro feat. 72-Hour Post Fight – “Salomon” Giovane collettivo di Parma, quattro rapper e produttori che mescolano in modo tagliente trap, elettronica noise e jazz nel loro nuovo progetto teamcro tape. In questo singolo, non a caso insieme a una band altrettanto sperimentale, sentiamo nu-jazz puro. L’approccio creativo è libero, non segue regole prefissate, sicuramente una proposta fuori dagli schemi che se ne frega delle classifiche.
Voto 28/30
Queen of Saba – “CAGNE VERE” (odioeffe remix) Il duo veneto affida la propria canzone manifesto a un trattamento techno hardstyle. Un remix non scontato che potenzia l’incisività del brano originale, trovando un aggancio interessante tra sfondo elettronico e voce in primo piano. Pop LGBT che oltre ai contenuti cerca di spingersi verso angoli nuovi, meno accomodanti, senza compromessi di facciata.
Voto 25/30
Oklou – “blade bird” Artista francese figlia delle sperimentazioni musicali di PC Music, tra hyperpop e R&B. Il singolo chiude l’album d’esordio choke enough parlando di relazioni tossiche, controllo, autolesionismo. La voce esprime tutto il dolore interiore con un tono dolce mentre la musica si frammenta sempre di più tra chitarre acustiche e suoni sintetici. La ricerca di libertà, metafora dell’uccello che scappa dalla gabbia, va di pari passo con la sua carriera personale, sempre oltre i confini imposti.
Voto 27/30
John Glacier – “Home” Al di là della Manica, dall’underground londinese esce Like A Ribbon, un altro debutto molto atteso. In questo brano mix di rap, elettronica e post-punk, Glacier ci consegna versi d’amore ipnotici, naturali e spontanei. In alcuni aspetti potrebbe ricordareM.I.A. o Dean Blunt, ma l’eccitazione calda che ci trasmette è sicuramente un tratto personale.
Voto 28/30
Doechii – “Nosebleeds” Brano pubblicato a sorpresa per festeggiare la vittoria di Alligator Bites Never Heal come miglior album rap ai Grammy. Un freestyle che vuole essere un discorso di ringraziamento in musica. La rapper si focalizza sulla sua carriera, le difficoltà che ha attraversato e le persone che l’hanno spronata a crescere. Lei rimane comunque seduta sui gradini più economici (i nosebleeds), senza vantarsi, il suo talento adesso è visibile a tutti, anche da molto lontano.
Voto 26/30
Panda Bear – “Ends Meet” Ultimo di tre singoli, in attesa dell’uscita del nuovo album Sinister Gift. Panda Bear in questo brano insieme ai membri degli Animal Collective, crea un viaggio psichedelico al termine di un incontro con una donna ma, forse, anche con una sostanza. La concretizzazione musicale è sempre notevole, tra un groove che si fa quasi ossessivo, chitarre dilatate e frammenti corali. Premesse di un insieme che speriamo sia altrettanto compatto e definito.
Voto 29/30
Saya Gray – “Shell (Of a Man)” Musicista nippo-canadese che ha da poco pubblicato Saya, il suo secondo album. Ascoltando il singolo principale entriamo nel guscio non di un uomo ma di una relazione spinosa e piena di crepe. La donna minacciosa è pronta a fare di tutto, ma la voce soffice e carezzevole nasconde dell’altro. Chitarre fingerpicking e batteria leggera creano un accompagnamento che scivola bene sulla costruzione del brano, tra momenti più oscuri e altri lirici e luminosi.
Quante volte abbiamo partecipato a conferenze stampa che sembravano interminabili successioni di formalità e discorsi tediosi? Fortunatamente, l’appuntamento del 24 febbraio al Teatro Regio ha decisamente cambiato registro, offrendo un’atmosfera amichevole, serena, divertente ma con contenuti interessanti e stimolanti. La conferenza stampa del Rigoletto preannuncia una messa in scena accattivante e avvincente.
A fare gli onori di casa, Luigi Lana, presidente di Reale Mutua e Michele Coppola, vicepresidente del Teatro Regio, i cui interventi si concentrano sul tema della collettività. Ma i veri protagonisti sono coloro che, dietro le quinte o in prima linea, danno vita allo spettacolo. Tra questi, a presentare Rigoletto nella Sala del Caminetto, ci sono: Cristiano Sandri – direttore artistico, Nicola Luisotti – direttore d’orchestra, Leo Muscato – regista, Federica Parolini – scenografa, Silvia Aymonino – costumista, Giuliana Gianfaldoni – interprete di Gilda, George Petean – interprete di Rigoletto.
Foto di Ottavia Salvadori
Rigoletto, in scena dal 28 febbraio all’11 marzo (con l’anteprima giovani il 27 febbraio) è frutto di un percorso creativo intenso e appassionato che, come afferma Luisotti, nasce da “collisioni” che si trasformano in “fusioni”, per poi diventare “armonia” e dare finalmente vita all’opera che vedremo sul palco.
L’équipe è di altissimo livello e già dalla conferenza stampa esprime sinergia, coesione e amicizia tra gli artisti. A fare da collante è la stima reciproca, a partire da Leo Muscato e Nicola Luisotti che scherzano sul loro amore corrisposto, una coppia di “fidanzati” che si versa l’acqua nel bicchiere nonostante le sedute distanti.
A rubare la scena è proprio Luisotti, un direttore d’orchestra dirompente e anticonvenzionale, capace di negare il proprio ruolo con un’ironia irresistibile. «Che cosa fa un direttore d’orchestra? Non fa niente!», ha esordito, e per dimostrarlo ha parodiato se stesso, riducendo la direzione d’orchestra a movimenti delle mani e ad una mimica facciale intensa. Cosa rende quindi il gesto del direttore d’orchestra un elemento significativo? Come ha spiegato Luisotti, il senso del suo gesto «apparentemente inutile» è possibile solo grazie alla collaborazione con musicisti, cantanti, attori e tutti coloro che contribuiscono a realizzare l’idea musicale. Il direttore d’orchestra fa suonare la stessa cosa a tutti, non solo a orchestra e cantanti ma anche al direttore artistico. Un’opera d’arte non nasce sola: ha bisogno degli artisti, di tutta la troupe, del pubblico, della stampa e del mondo intero. Solo attraverso questa sinergia si crea una serata magica.
Foto di Ottavia Salvadori
Il regista Leo Muscato aggiunge: «Uno spettacolo è il risultato di un percorso condiviso da diverse persone. Un’opera può prendere forme diverse a seconda di chi lo realizza»; e per questo si spinge ad affermare che Luisotti oltre ad essere un grande direttore d’orchestra e poeta dell’esistenza, potrebbe essere un bravissimo regista.
A differenza del dramma di Hugo, testo di natura politica censurato per cinquant’anni, Rigoletto di Verdi di focalizza sull’umanità, sulle fragilità e sui sentimenti umani. La regia di Muscato vuole proprio porre l’attenzione sul problema dell’identità: tutti i personaggi, ad eccezione di Gilda, non hanno nomi propri. Rigoletto è probabilmente la maschera di un uomo-giocattolo, il Duca ad ogni atto cambia identità passando da aristocratico a studente fino a trasformarsi in militare. Quello di Rigoletto è, dunque, un mondo deforme, che influenza tutti. La scelta scenografica di inserire specchi che distorcono le immagini diventa metafora di una società in cui l’identità è frammentata e mutevole, ispirata alla pittura espressionista che, con i suoi colori accesi, mette in scena punti di vista discontinui.
Foto di Ottavia Salvadori
Rigoletto è un’opera che parla di fragilità, di emozioni, di miseria, di conflitti e, come afferma Giuliana Gianfaldoni, è una storia che può rivelare alcuni lati personali. Il soprano ogni volta che interpreta Gilda, figlia di Rigoletto, riscopre alcuni aspetti del suo rapporto personale con il padre. Dimostrare l’amore è difficile e Rigoletto è l’emblema di questo amore complesso che riesce ad esprimere solo in maniera ossessiva e possessiva.
Dalle prime parole della conferenza stampa era chiaro: questo Rigoletto è frutto di un lavoro di squadra appassionato e il sold out di tutte le date lo presagisce. Non ci resta che attendere l’anteprima giovani del 27 febbraio e scoprire come i valori dell’amicizia e dell’armonia si traducano in emozione pura.
Blur: To The End è stato il film d’apertura dell’undicesima edizione del SEEYOUSOUND Festival di Torino (21-28 febbraio 2025). Il documentario, diretto da Toby L., racconta della reunion della band, della scrittura del loro ultimo album, Ballad of Darren, e del concerto a Wembley del 2023.
Momenti comici, come il ritorno alle scuole elementari di Damon Albarn e Graham Coxon, sono accostati a scene estremamente intime come quella in cui Albarn si commuove sulle note di “The Everglades”, brano contenuto in Ballad of Darren. Quello che però emerge già dai primi minuti è il forte legame di amicizia e fratellanza che unisce la band inglese. Ascoltando le parole ed i gesti che si scambiano viene in mente una frase di Michela Murgia, secondo cui «gli amici che ti fai quando hai 16, 17, 20 anni hanno una specialità che nella vita poi sarà irripetibile, avrai altre amicizie anche molto qualificate ma qualcuno che ti fosse testimone quando potevi ancora essere tutto… quello non si ripete». Credo che i Blur ne siano l’esempio perfetto.
Foto tratta dal film “Blur: To The End”
Uno dei temi trattati è il trascorrere del tempo e la difficoltà dell’accettarlo, e di certo non aiuta avere tutta la propria giovinezza documentata da film e video.
«It’s a weird thing when you go back to something that was so well documented. People feel like that’s what you are but it’s so long ago».
Nell’era in cui sui social si tende a mostrare solo gli aspetti positivi della propria vita, Toby L. ci regala un ritratto sincero dei Blur grazie al quale possiamo distruggere l’immagine distorta che avevamo delle popstar. Risulta strano, quasi ci infastidisce, vederli preoccupati pochi minuti prima di andare in scena, ma sono queste loro insicurezze a renderli umani e ci invitano ad accettare anche le nostre fragilità.
Il crescendo di tensione raggiunge l’apice negli istanti che precedono l’ingresso della band sul palco. Ma l’adrenalina sale alle stelle quando li si vede salire la rampa ed è inevitabile avere la pelle d’oca appena si sente il boato del pubblico di Wembley che accoglie gli artisti che entrano sulle note di “The Debt Collector”. È ufficialmente iniziato il concerto, da questo momento fino alla fine del film gli spettatori sono totalmente immersi nelle immagini che scorrono sul grande schermo e nella musica che rimbomba nella sala. L’entusiasmo è palpabile e le riprese del concerto regalano momenti di pura gioia.
Blur, 2023, Wembley. Foto dal profilo Fb della band
All’inizio della scaletta compare “Popscene” canzone simbolo del britpop, per poi passare ad urlare il ritornello di “Song 2” dove la folla impazzisce e l’intero parterre salta. All’ultima canzone, “The Universal” l’intera platea è commossa, risulta difficile non emozionarsi vedendo quattro amici, che suonano assieme da quando avevano vent’anni, riuscire a realizzare il loro sogno suonando di fronte a 80.000 persone.
Il documentario è nei cinema dal 24 fino al 26 febbraio ed è un’esperienza che merita di essere vissuta. E, se si vogliono riprovare le stesse emozioni del concerto anche quando si è sul tram diretti all’università, si può sempre ascoltare l’albumLive At Wembley Stadium.
Chiacchiere, birra e vecchi amici: è così che, ancora prima che la musica inizi, la seconda serata dell’anno organizzata dal collettivo Turin Moving Parts si scalda e ci fa sentire a casa. Entrare nello Ziggy Club è come entrare in un mondo a parte: suoni il campanello di una scura porta in via Madama Cristina, sali due rampe di scale poco illuminate, apri un pesante portone e ti ritrovi catapultato in un ambiente accogliente, tranquillo ma sempre in fermento.
Primi sul palco i Gordonzola, che ci fanno ingrassare con il loro sound saturo di colesterolo e schitarrate, tale che forse neanche con il pogo durante i SAAM siamo riusciti a smaltire tutto. Il trio suona in perfetta sintonia sul palco dello Ziggy davanti a uno sfondo formaggioso che recita il loro nome, e senza difficoltà fanno muovere tutte le teste e saltellare tutte le gambe.
Foto di Simone Cossu (@key_pov)
La loro bio su Instagram li presenta come “Instrumental power trio from Turin – devoted to food”, devozione che hanno saputo trasmettere con simpatia ma senza risultare troppo immaturi. Highlights del loro set sono stati “Rigaton”, un punk-reggaeton dedicato all’omonima pasta, “Tomino Banfi”, autoesplicativo, e “Anguria”, in chiusura, un pezzo lungo diversi minuti dal tono più serio: il frutto è simbolo della resistenza palestinese, a cui la canzone è dedicata.
I SAAM invece con il loro emo-punk ci portano da Genova tenerezza e nostalgia, in un turbine di emozioni accolte e sudate con entusiasmo dal pubblico. Dall’apertura con “Pesca”, singolo del 2020, fino a “Grondaia”, pezzo finale dell’ultimo album Per ogni caduta una terra amata, ogni persona nella sala sembra essere coinvolta in un abbraccio continuo, anche durante i poghi molto partecipati, addirittura dai musicisti stessi.
Foto di Simone Cossu (@key_pov)
L’attaccamento e la reciproca ammirazione tra band e pubblico sono stereotipicamente emo, e hanno il loro momento massimo durante “Sandro”, pezzo richiamato tramite un grande lenzuolo con il titolo scritto in azzurro, sbandierato dai più vicini al palco.
Foto di Simone Cossu (@key_pov)
Una buona serata ha bisogno di pochi ingredienti: divertimento, rispetto, emozione e amore per la musica e per le persone che abbiamo intorno. Venerdì sera i Gordonzola e i SAAM, grazie all’importantissimo lavoro del Turin Moving Parts e della scena che stanno crescendo e mantenendo in vita, hanno portato un evento che ha decisamente avuto successo.
Si è tenuto a Torino, venerdì 21 febbraio, all’interno dello sPAZIO211, l’undicesima data del Tour Panorama Olivia, che riprende il nome dall’album di debutto di Coca Puma, uscito ad aprile 2024 e che in meno di un anno ha suscitato grande curiosità e interesse, soprattutto nel panorama pop e jazz, ambienti che la musicista romana – vero nome Costanza Puma – naviga senza avere una rotta troppo definita.
La serata è stata aperta da Edera, cantante del gruppo torinese irossa, la cui voce chiara e sospesa abbraccia e viene abbracciata dalle morbide sonorità dei synth eterei, dalle arie d’atmosfera sognanti diteggiate dalla Gretsch color rubino del chitarrista e dalla ritmicità originale e sfalsata della batteria. Sebbene l’emozione fosse palpabile, Edera ha dimostrato di essere a suo agio sul palco, riuscendo a condividere il proprio stile con l’intimo pubblico all’interno dello spazio.
Pochi minuti dopo è stato il turno di Coca Puma e la sua band, composta da Davide Fabrizio alla batteria, Antonio Falanga alla chitarra elettrica e Stefano Rossi al basso e al sintetizzatore Moog.
Foto di Silvia Marino, «Due Libri»
Fin dall’intro strumentale è stato chiaro come il non-silenzio dell’ambiente intimo e intimista dello sPAZIO211 fosse la cornice perfetta per il gruppo. Si mescolavano così il leggero brusio del pubblico, qualche tintinnio di bicchieri provenienti dal bar in fondo alla sala e le calde ma soffuse sonorità create dagli artisti sul palco, sviluppando una massa sonora composta dai rumori dell’ambiente e dalla musica.
Coca Puma riesce in poco più un’ora di concerto a sviluppare atmosfere alterne attorno a sé, passando da momenti di pura emotività vissuta ad occhi chiusi, come durante l’esecuzione di “Sparks” dei Coldplay o della sua “Tardi”, a brani intrisi di puro istinto primitivo quali “Quasi a casa” (ripetuto anche in chiusura su esplicita richiesta del pubblico) e due nuovi pezzi inediti, in grado di creare vibrazioni che partono dal ventre e che si diramano verso tutti gli arti del corpo, sviluppando movimenti liberi e irrazionali, come se fossero connessi direttamente al suono proveniente dalle casse e dall’anima di Costanza.
Foto di Silvia Marino, «Due Libri»
Attraverso sonorità che si fondono insieme nella creazione di un universo opaco, costellato di nu-jazz, elettronica, post-rock, funk e percussioni afro-latine, Coca Puma conferma la sua acclamata duttilità, mantenendo uno stile vario ma ben pensato e soprattutto autentico, visibile anche attraverso la sicurezza che porta sul palco, che si contrappone alla timidezza nascosta dietro al suo immancabile cappello da pescatore, e disegnata sul viso da un sincero e perenne sorriso ricco di gratitudine verso chi ha ascoltato, cantato e ballato con lei.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista Toby L. che si trovava al Seeyousound Festival per la prima italiana del suo nuovo documentario Blur: To The End.
Innanzitutto: congratulazioni per il film. Abbiamo visto il successo che ha avuto in Inghilterra. Hai delle aspettative sulla proiezione italiana che avverrà questo venerdì al Seeyousound Festival?
Ottima domanda, so che potrebbe suonare stupido quello sto per dire, ma quando stai facendo un film o un documentario molto spesso ti dimentichi che qualcuno lo vedrà, io l’ho realizzato soltanto alla première. (ride, ndr)
Può sembrare una cosa terrificante. È bellissimo accorgersi che il tuo progetto non finirà nella spazzatura, ma è stato fatto appositamente perchè le persone potessero vederlo e apprezzarlo. Il film verrà distribuito nelle sale di tutto il mondo ed ancora fatico a rendermene conto. Lo scorso anno ero a Barcellona e sono andato a vederlo, non ci potevo credere. Domani (21 febbraio, ndr) ci saranno migliaia di persone al cinema a vederlo ed è un vero privilegio per me.
Non so ancora come reagiranno le persone, devo ancora capire se il fatto di essere una british story renda difficile la traduzione negli altri paesi, nonostante i sottotitoli. Però, nonostante la lingua, mi auguro che le persone possano rispecchiarsi emotivamente in questa storia.
Forse, quello che viene apprezzato all’estero è avere la possibilità di partecipare ad un’esperienza che non abbiamo vissuto. Quindi, quello che affascina di questo documentario è l’occasione di essere a Wembley, vero?
Sì, assolutamente. Questo per me è stato un aspetto molto importante durante il set: assicurarsi di catturare il più possibile la magia di un evento del genere. Sai, avevamo una ventina di macchine da presa a disposizione, centinaia di membri della troupe che ci aiutavano per le riprese ed un paio di macchine a mano, all’interno del parterre, per catturare la sensazione di far parte di quell’onda di caos di persone. Abbiamo cercato, nel migliore dei modi, di riportare quell’energia nel filmato.
Com’è iniziata la collaborazione con i Blur?
Grazie alla mia etichetta discografica, la Transgressive Records, creata con i miei amici Tim, Dylan e Mike, ho avuto l’occasione di conoscerli e lavorarci assieme.
Dopo alcuni mesi, mi è giunta voce che avevano intenzione di suonare a Wembley quindi ho colto l’occasione per proporgli un documentario che non raccontasse solamente del live ma che raccontasse la loro storia con un approccio più romantico. Grazie a Dio, hanno accettato la proposta e nel giro di 1-2 settimane ero con loro in studio a registrare le prime scene del film.
“To The End” non racconta solo la reunion di una delle band più importanti del mondo ma è anche una storia di amicizia.Le riprese delle sessioni di registrazione sono accompagnate da momenti veramente intimi della band.Come vivi queste situazioni? E, come ti comporti durante le riprese?
Credo che la cosa più importante sia essere rispettoso e ricordare a me stesso che il film riguarda la LORO storia e che io sto “semplicemente” catturando questi momenti. Molto spesso, è solo questione di creare una forte energia e metterli nella condizione di accettare volentieri la tua presenza in ogni istante.
È comunque importante cercare di essere quasi invisibile: non interferire in nessun modo nei loro discorsi, nei loro rapporti e nel loro lavoro. Ma, la mia principale responsabilità da regista è quella di decidere quando fare le domande e spingerli a rispondere.
Prima di iniziare la produzione abbiamo avuto un incontro con la band in cui abbiamo evidenziato ciò che era importante fare, ovvero essere il più possibile onesti e reali. L’obiettivo era di non cadere nella finzione e non creare qualcosa di troppo pulito perchè era fondamentale riportare la roughness che li ha sempre caratterizzati.
Il fatto che fossero consapevoli che sarei stato con loro per la maggior parte del tempo, e che sarei stato presente anche durante i momenti più intimi, credo li abbia aiutati ad accettare la mia presenza e quella delle telecamere. Credo che questo sia uno dei punti di forza del film.
Parlando delle riprese, hai qualche artista o regista a cui ti ispiri in particolare?
Ho sempre ammirato il regista britannico Michael Winterbottom grazie al suo stile estremamente naturalistico. Ammiro la sua capacità nel cogliere la realtà.
Mi ha sempre affascinato anche David Lynch, mancato da poco, lo ritengo uno dei registi più importanti di sempre. I suoi film riescono ad essere estremamente sensibili, spaventosi, ma divertenti allo stesso tempo, era incredibile.
Credo, in generale, di amare quei film che ti facciano sentire partecipe in quello che sta accadendo e che creino dei personaggi nei quali ti puoi rispecchiare. È quello che ho cercato di fare con il mio film: volevo mantenere una sincerità e purezza tale da permettere un rapporto di empatia con lo spettatore.
Ci sono molti momenti comici perché loro sono dei funny guys (ride, ndr), ma vengono mostrati anche quelli dolorosi perché, d’altronde, non è sempre tutto rose e fiori, la vita è complessa.
Qual è stato il momento più bello che hai vissuto sul set?
Sul set ho vissuto molti momenti che ricordo con piacere.
Ho amato ritornare alla scuola che hanno frequentato Dave Rowntree e Graham Coxon, è stato veramente divertente perché hanno iniziato a “comportarsi male” come due ragazzini, nonostante siano ormai cinquantenni. (ride, ndr)
Poi, sono state estremamente emozionanti le giornate trascorse nella casa al mare con Damon Albarn e Alex James. In quei giorni, ho avuto modo di condividere con loro attimi veramente speciali nei quali è emerso il profondo legame che li unisce.
Infine, Wembley è stato veramente emozionante, anche perchè io e il mio cameraman siamo saliti sul palco di fronte a migliaia di persone. Credo che aver condiviso l’esperienza del concerto con la band lo abbia reso ancora più speciale.
In generale, l’intera esperienza è stata fantastica, è molto difficile rimanere concentrati sull’obiettivo: seguire la storia che vuoi raccontare, senza perdersi in quello che si sta vivendo.
C’è qualche artista con cui vorresti collaborare in futuro?
(sospira, ndr) Frank Ocean, Bjork e Radiohead. Preferisco le persone impegnative. (ride, ndr)
Anche Tom Waits, Neil Young… Sono attratto dalle persone stimolanti, passionali e intriganti. Molto spesso sono anche persone attive politicamente e questo è un aspetto che mi piacerebbe approfondire. Amo fare i documentari, ma mi piacerebbe realizzare un progetto interamente concettuale o un qualcosa di più surreale. Però, ora come ora, ho intenzione di prendermi una pausa.
Hai qualche consiglio da dare ai ragazzi, come noi, che sognano di lavorare nel mondo dello spettacolo?
Credo che il consiglio migliore che posso darvi sia quello di smettere di ascoltare quella vocina nella vostra testa che continua a ripetervi che non siete abbastanza bravi. Voi continuate a provarci. Tutte le persone che ho conosciuto che lavorano in questo mondo hanno questi pensieri negativi. Tu ignorali e continua a farlo.
Non guardare gli standard di vita degli altri, concentrati su quello che per te è importante.
L’ultima cosa che suggerisco è quella di organizzare un programma per voi stessi in cui ogni anno decidete a quali aspirazioni volete ambire.
I traguardi che non raggiungerai non sono invalicabili perché li puoi sempre spostare all’anno successivo. Scrivendo e visualizzando i tuoi obiettivi la vita ti condurrà consciamente e inconsciamente a raggiungerli. Ma, ricorda, la chiave sta nel capire cosa vuoi davvero.
C’è chi il 14 febbraio festeggia San Valentino con cuori e fiori, chi guarda Sanremo sotto le coperte, e poi ci siamo noi che scegliamo di vivere una serata diversa, immersi nella magia della musica dal vivo. Una musica classica che celebra l’amore, che è capace di arrivare dritta al cuore e regalarci una dolce carezza.
È proprio questo che la De Sono, il 14 febbraio, ha voluto portare sul palco del Teatro Vittoria di Torino: note di tre grandi compositori – Schumann, Skrjabin, Debussy – che celebrano l’amore e la fantasia, due valori fondamentali nella vita di ciascuno. La presenza del pubblico è una «prova d’amore per la De Sono», afferma il direttore artistico Andrea Malvano, ma c’è qualcosa di più: la sala gremita e i biglietti esauriti sono la testimonianza che la musica dal vivo (fortunatamente) è al di sopra di ogni cliché.
Protagonista della serata Federico Gad Crema, giovane pianista classe ’99, riconosciuto a livello internazionale e insignito, nel 2013, del premio “Cavalierato Giovanile” per i suoi meriti artistici. Tra il 2021 e il 2023, con il sostegno della De Sono, ha perfezionato i suoi studi conseguendo un Master a Ginevra. Vincitore di numerosi concorsi internazionali, si è esibito insieme a direttori quali David Coleman, Ricardo Castro e Roberto Abbado e, nel 2023, ha fondato il Peace Orchestra Project, un progetto che utilizza la musica come strumento di integrazione sociale.
Federico Gad Crema è il perfetto interprete della doppia anima di Schumann, un po’ Eusebio – delicato – e un po’ Florestano – virtuoso, esuberante. Il concerto, aperto dalla Fantasia op. 17, è stato un incontro straordinario tra virtuosismo e lirismo. Fin dalle prime note, Crema ha dimostrato di essere in perfettamente in sintonia con il compositore, rivelando tensione e profondità emotiva.
I tasti del pianoforte perdono la loro consistenza rigida per trasformarsi in un materiale morbido, soffice, in cui le dita di Crema affondano con leggerezza anche nei passaggi più energici e vigorosi. Il suo tocco è caratterizzato da una morbidezza che emerge anche nei ritmi più vivaci.
La mano sinistra accompagna con un ritmo incalzante e irregolare – come un battito irrequieto del cuore – la melodia appassionata e piena di tensione della mano destra, passando da momenti di calma malinconica a momenti passionali con improvvise esplosioni sonore e intensi crescendo.
Con il secondo movimento, il più festoso, Crema dimostra la sua grande abilità tecnica, da iper-virtuoso, con ampi spostamenti sulla tastiera ed effetti di sfasamento temporale: un continuo inseguirsi di mano destra e sinistra. Si sa che le sezioni più energiche e virtuosistiche sono anche quelle che spesso generano gli applausi e, anche in questo caso, il pubblico non è riuscito a trattenersi prima della fine del trittico.
Con Images di Debussy, la ricerca timbrica che caratterizza il compositore emerge in tutte le sue forme. Crema, nella prima sezione Reflets dans l’eau, riesce a restituire con la sua delicatezza e passionalità il flusso sonoro dell’acqua, trasportando l’ascoltatore in un mondo immaginifico, sospeso e lontano. Ogni nota sembra evocare paesaggi incantati, ispirati all’Oriente, le cui sonorità venivano spesso ricercate dallo stesso compositore.
Dopo la pausa più intima e riflessiva con Debussy, arriva il finale impetuoso con la Fantasia op. 28 di Skrjabin. Il flusso dell’acqua si trasforma in un torrente di pensieri, emozioni e idee. Quasi senza alcuna struttura, i suoni vibrano nel corpo del pianista e nell’aria che avvolge la sala, lasciando il pubblico estasiato dalla sua performance che ha saputo unire tecnica e passione. Ogni gesto e movimento del corpo sembrava un’estensione diretta della musica: l’energia e il trasporto passionale emergevano nelle sue improvvise inclinazioni della testa, negli occhi chiusi e nelle espressioni rapite del viso.
Federico Gad Crema ha trasformato la sala del Teatro Vittoria in un contenitore di passioni, sentimenti ed energia. La capacità di fondere abilità tecnica e sensibilità emotiva ha dato vita ad un concerto trascendente che ha trasportato il pubblico in una realtà emozionale avvolgente.
Il cinquantesimo anniversario della nascita dell’hip-hop, nel 2023, è stata una tra le grandi celebrazioni musicali degli ultimi anni. L’intervallo del Superbowl e il tributo ai Grammy sono alcuni degli eventi che ne hanno sancito la rilevanza. Proprio i Grammy introdussero la categoria miglior album rap nel 1996, riconoscendo un nuovo genere ormai consolidato. Erano gli anni della rinascita della scena di New York, dei grandi esordi di Nas (Illmatic) e Biggie (Ready to die).
Proprio sull’onda lunga di questi successi era uscito The Infamous il secondo album del duo Mobb Deep, che quest’anno celebra i trent’anni della pubblicazione. Per l’occasione è stato allestito un Infinite Tour mondiale, che ha toccato anche l’Italia con varie tappe nelle città principali.
Siamo andati a sentirli venerdì 14 febbraio all’Hiroshima Mon Amour, in una lunga serata all’insegna della cultura hip-hop.
In apertura dj Double S ha movimentato il pubblico con un grande affondo nel rap statunitense degli anni 90, creando un mix perfetto tra hit parade, scratch e strumentali sincopate. Salgono poi sul palco Junk, rapper canadese che si esibisce accompagnato dal dj Mastafive e subito dopo Kriisie, insieme a DJ L.E.S.
Foto a cura di Davide La Licata/piuomenopop.it
Quest’ultimo si occupa poi di richiamare l’attenzione del pubblico sull’origine del duo che sta per esibirsi, sul quartiere di newyorchese di Queensbridge, dove lui è cresciuto insieme a Nas e ha realizzato la hit “Life’s a Bitch”.
È giunto il momento delle leggende. Havoc e Big Noyd, sostituto del compianto Prodigy, fanno il loro ingresso nell’estasi generale del pubblico e danno il via alla performance. Nella prima parte l’ordine dei brani è rigorosamente quello dello storico album, incluse le skit. Sugli schermi vediamo i videoclip originali, mentre sul palco buio i due ricreano la vita periferica, oscura e allo sbando di quei tempi. Havoc, concentrato nelle sue strofe, si muove giusto a incitare il pubblico, mentre Big Noyd, col volto nascosto dal cappuccio mima efficacemente ogni frase.
Foto a cura di Davide La Licata/piuomenopop.it
La carrellata di brani sembra non finire mai, tra cui gli immancabili successi dei primi anni duemila “Get Away” e “Win Or Lose”. Viene più volte evocata l’assenza di Prodigy, le cui strofe vengono rappate a fasi alterne dai due, con grande rispetto. Nei momenti più importanti rimangono in silenzio, ma è il pubblico a rappare in coro alla voce di Prodigy che esce dalle casse.
Foto a cura di Davide La Licata/piuomenopop.it
Tra tanti cappelli a visiera e capelli bianchi, genitori con figli, cd e vinili sbandierati di continuo dal pubblico, l’attenzione è totale, non servono discorsi, conta solo la musica. La serata si chiude con il più grande successo dei Mobb Deep, “Shook Ones Pt. II”. La folla sembra quella dello scontro finale di 8 Mile, mani alzate e tutti che rappano la strofa di apertura.
Foto a cura di Davide La Licata/piuomenopop.it
I Mobb Deep hanno presentato un ampio catalogo di successi che ci ha fatto viaggiare tra diversi anni ed epoche nostalgiche dell’hip-hop. Il loro reality-rap, fatalista, pieno di suoni sinistri e minacciosi, rimarrà per sempre una pietra miliare.
La superstizione secondo cui il nove sia il numero massimo di sinfonie componibili, si diffuse dopo Beethoven e fu alimentata dalla morte di compositori come Shubert e Dvořák. Questa credenza, nota nel periodo tardo-romantico come la “Maledizione della Nona”, instillò il timore che la composizione di una nona sinfonia potesse presagire la morte del compositore.
Gustav Mahler, che ne era consapevole, provò a superare il limite componendo la decima, ma morì prima di poterla completare. La Sinfonia n° 9 in re maggiore, composta tra il 1909 e il 1910, rimane l’ultima sinfonia che Mahler riuscì a terminare, ma non ebbe mai l’opportunità di ascoltarla eseguita. Il 14 febbraio 2025 , all’Auditorium RAI Arturo Toscanini di Torino, è stata eseguita dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, per l’appunto, la Nona sinfonia di Mahler, diretta dal maestro Robert Treviño.
Credits: Rai Cultura
La sinfonia, suddivisa in quattro movimenti, riflette su temi legati alla morte ed è uno specchio dell’interiorità del compositore durante un periodo tragico della sua vita. Molti la interpretano come una premonizione della sua scomparsa e del declino socio-politico europeo, ma queste rimangono interpretazioni personali. Innegabile però è il suo stile che, per le tematiche affrontate, la avvicina al post-romanticismo e al decadentismo.
Composta per la maggior parte durante un periodo di pausa estiva dall’attività di direttore, il primo movimento in re maggiore (Andante comodo, Con Rabbia, Allegro risoluto, Appassionato, Tempo I Andante) si distingue per le sonorità malinconiche evocatrici di immagini campestri e di una felicità ormai perduta. Treviño esalta questi sentimenti con un’interpretazione emotiva capace di toccare l’animo degli spettatori.
Nel secondo movimento in do maggiore (in tempo di un tranquillo Ländler, un po’ goffo e molto rude), avviene un cambiamento: la musica diventa più danzante e allegra, riprendendo lo stile del Ländler, una danza popolare austriaca, ma in modo deformato e ironico. Questo movimento si anima grazie a veri e propri dialoghi tra strumenti. L’Orchestra RAI ne propone un’esecuzione precisa e raffinata, preservando l’idea mahleriana ma senza cadere in un’esecuzione grossolana. Il movimento dimostra un senso ironico e satirico che si prolunga anche durante il terzo movimento in la minore (Rondò-Burleska, Allegro assai, Molto ostinato-Adagio) più brusco del precedente, che evoca sensazioni di ansia e irrequietezza che riflettono il caos e la frenesia della vita urbana. L’orchestra dimostra tutta la sua potenza che ci riporta nella consapevolezza del periodo storico degli inizi del Novecento, con uno stile meno romantico ed un utilizzo audace della polifonia con un effetto di caos controllato, un’immagine un po’ alla Tempi Moderni di Charlie Chaplin.
Il quarto, nonché l’ultimo movimento, in re♭ maggiore (Adagio. Molto lento e ancora ritenuto) riprende un po’ l’immagine e le tematiche del primo ma con l’abbassamento della tonalità di un semitono, rendendo l’atmosfera ancora più malinconica. Il costante calare d’intensità porta la sinfonia verso un graduale spegnimento. Dopo un’ora di dinamiche variabili ma tendenti al forte o fortissimo, la sinfonia si chiude con un intero movimento dalle intensità moderate, che simboleggiano la resa dell’uomo di fronte alla morte.
Treviño porta l’orchestra, dopo un movimento delicato ed emozionante, a sfociare in un ppp che va ad assottigliarsi fondendosi con il silenzio della sala con un ultimo soffio vitale delle viole. Il direttore non abbassa le braccia e la sala rimane nel silenzio per 40 interminabili secondi. La tensione accumulata durante la precedente ora e venti rimane in sospeso, finché Treviño rilassa le braccia lungo i fianchi. A quel punto il silenzio si rompe con uno scroscio di applausi che riportano il pubblico alla realtà.
Credits: Rai Cultura
La Sinfonia n°9 di Mahler è dunque un’opera potente e profondamente introspettiva. Un vero e proprio viaggio emotivo. L’interpretazione di Robert Treviño con l’Orchestra RAI ha saputo catturare a pieno l’essenza, donandoci un’esecuzione memorabile.
Per chi avesse perso l’evento, la replica del 13 Febbraio è stata trasmessa in diretta su Rai Radio 3, ed è pertanto disponibile su Rai Play Sound a questo link.
Tra le tante funzioni della musica nelle nostre esistenze, quella di catalizzatore di ideali e princìpi sociali comuni è di certo rilevante. Soprattutto nei periodi di guerre, tragedie umanitarie e disastri ambientali, la musica ha sempre avuto un ruolo primario. Come oggi iniziative collettive cercano di contribuire alla resistenza di popoli oppressi, anche ottant’anni fa c’era chi componeva musica al fine di difendere la propria città, la propria patria, la propria musica.
Dmtrij Šostakovič diede il suo vibrante contributo con la Settima Sinfonia, dedicata alla sua città natale, Leningrado, assediata a sorpresa dalle truppe tedesche nell’estate del 1941. Si tratta di una composizione per grande orchestra, oltre cento musicisti, che abbiamo avuto occasione di ascoltare giovedì 6 febbraio eseguita dall’Orchestra Rai e diretta da Pietari Inkinen, subentrato al direttore principale Andrés Orozco-Estrada.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Nella sala dell’Auditorium “Arturo Toscanini”, gremita come poche volte in questa stagione, si è svolto un concerto molto atteso e di grande qualità. L’intera esecuzione, durata più di settanta minuti, è stata caratterizzata da una direzione essenziale e precisa di Inkinen, che ha mostrato la sua eleganza in gesti ampi, marcati e pieni di espressività. I momenti culminanti sono stati evidenziati in modo attento e solenne, come nel primo o nel terzo movimento, centro drammatico dell’intera composizione. I musicisti, specialmente nei passaggi solistici, hanno dimostrato la sensibilità di sempre, seguendo in modo fedele le indicazioni del direttore.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Il finale, eseguito come previsto senza pausa di seguito al movimento precedente, viene interpretato in modo grandioso, come a voler erigere un enorme monolite al cospetto del pubblico. Si creano così forti suggestioni, quasi cinematografiche. Non è un caso che le vicende dell’assedio di Leningrado abbiano ispirato a Sergio Leone l’idea per un film, di cui scrisse però solo la sceneggiatura.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Il concerto si chiude con lunghi applausi di apprezzamento per una prova che ha convinto i più. Il direttore richiama le diverse famiglie strumentali, abbraccia le prime file di musicisti e infine l’orchestra gli dedica un saluto di ringraziamento. La musica di Šostakovič continuerà a ispirare e alimentare la resistenza, la speranza e l’ingegno di chi fa arte con onestà, dedizione e senso di appartenenza a un ideale, oltre ogni ostacolo.
Questa autrice fa parte della generazione che ha iniziato a vedere Sanremo poco prima che scoppiasse la pandemia da covid-19 e che ha continuato un po’ per abitudine, un po’ perché fra zone rosse/gialle/arancioni non si poteva fare granché, un po’ perché Amadeus e Fiorello alimentavano il trash di edizione in edizione ed era divertente aspettare di vedere fin dove si sarebbero spinti.
La selezione musicale era diventata quasi un’appendice, una piccola postilla in fondo alla pagina di cui ogni tanto qualcuno si ricordava, senza mai prestarci troppa attenzione perché tanto c’era altro da guardare. D’altronde si sa, Sanremo è anche – e soprattutto – intrattenimento, e va bene se qualcuno cerca di renderlo più “attuale”, l’importante è che per gli over 50 ci sia sempre una Giorgia o una Bertè o un Ranieri da poter appoggiare incondizionatamente contro tutti gli altri.
E poi? Che succede quando spogli l’intrattenimento dall’intrattenimento? Quando rimangono solo le canzoni, i volti, le parole? Che succede se ci sono 29 brani in gara ma te ne ricordi giusto tre perché gli altri sembrano uno il prolungamento dell’altro? Su cosa sposti allora la tua attenzione? …Siamo tutti d’accordo che la conduzione di Carlo Conti non sia la risposta giusta.
In un calderone musicale governato dai soliti, cari, vecchi autori – Federica Abbate, Davide Petrella, Davide Simonetta, Jacopo Ettorre –, l’originalità sembra essere stata sostituita dal diktat basta che sia orecchiabile. Niente da dire a riguardo, la maggior parte di questi brani li sentiremo per tutta l’estate e li canteremo in macchina, in spiaggia, sotto la doccia. Manca però una cosa a mio parere fondamentale: l’eredità.
Le canzoni devono essere libere di viaggiare. Devono essere associate a ricordi brutti e ricordi belli. Devono farti venire la pelle d’oca e riflettere e farti piangere. Soprattutto, devono poter passare di generazione in generazione. È questo che rende la musica – e più in generale l’arte – eterna. Senza eternità rimane una progressione di accordi poco pensati, la bozza di un autore annoiato.
Il festival di Sanremo è tante cose. Lo è sempre stato, d’altronde. Sanremo è politica, moda, commedia, pubblicità. Peccato che abbia perso il suo aspetto più importante, il suo sottotitolo: la canzone italiana.
Peppe Vessicchio in un’intervista diceva che Sanremo è diventato ormai il festival dei cantanti, e forse sarebbe il caso di cambiare dicitura.
La serata finale del 75° Festival di Sanremo è iniziata con l’esibizione di Gabry Ponte, che ha presentato “Tutta l’Italia”, diventato il jingle ufficiale del Festival 2025. Il conduttore Carlo Conti ha invitato come co-conduttori Alessandro Cattelan, che ha condotto fino ad ora il dopo-festival, e Alessia Marcuzzi. Tra gli ospiti esterni al mondo musicale abbiamo Alberto Angela, il calciatore Edoardo Bove, e l’attrice Vanessa Scalera, insieme a Bianca Guaccero, Gabriele Corsi, Maria Sole Pollio e Bianca Balti. Tra gli ospiti fuori concorso hanno cantato Antonello Venditti e Mahmood all’Ariston, mentre i Planet Funk sono stati in collegamento dalla Costa Toscana e Tedua dal Suzuki Stage. Non sono mancati momenti di dissenso da parte del pubblico, soprattutto durante la rivelazione della classifica, con particolare riferimento alla mancata presenza nella Top 5 di Giorgia e Achille Lauro. La finale si è conclusa rapidamente rispetto agli standard di Amadeus, il precedente conduttore, ma questo non è stato necessariamente un aspetto negativo per questa nuova edizione.
Classifica Finale La classifica della Top 5 di quest’anno ha valorizzato la figura del cantautore: 1° posto: Olly 2° posto: Lucio Corsi 3° posto: Brunori Sas 4° posto: Fedez 5° posto: Simone Cristicchi Olly ha vinto la 75ª edizione del Festival di Sanremo con la canzone “Balorda nostalgia“. Il voto finale è stato determinato dal televoto (34%), dalla Giuria delle Radio (33%) e dalla Giuria della Stampa, TV e Web (33%). Lucio Corsi ha chiuso al secondo posto, mentre Brunori Sas si è classificato al terzo.
PAGELLE
Francesca Michielin – “Fango in Paradiso” Prima cantante ad esibirsi, indiscutibile è la sua interpretazione tecnica. Canzone orecchiabile ma che non resta, con un testo di poca rilevanza. Probabilmene la si dimenticherà entro poche settimane.
Voto: 24
Willie Peyote – “Grazie ma no grazie” Canzone che non smentisce lo stile di Willie ma non è neanche una delle sue canzoni migliori. Il testo vuole essere impegnato ma non convince. Hook efficace il che la rende molto probabilmente una delle canzoni più gettonate per la radio.
Voto: 27
Marcella Bella – “Pelle di diamante” Marcella Bella in chiave femminista. La melodia rimane abbastanza in mente con un ritornello efficace. Di certo non da ultimo posto.
Voto: 23
Bresh – “La tana del granchio” Appena la canzone comincia sembra di ascoltare un brano di De Andrè per la scelta strumentale. Bresh sembra voler omaggiare le sue origini genovesi, peccato che poi nel ritornello veniamo catapultati in provincia d’Imperia a Sanremo.
Voto: 24
Modà – “Non ti dimenticherò” Che dire, non si smentiscono. Il testo che vuole essere commovente è invece a dir poco patetico, con tanto d’interpretazione discutibile.
Voto: 17
Rose Villan – “Fuorilegge” Vuole accontentare chi ama lo stile sanremese e le nuove generazioni, ma diciamo che non riesce troppo nel suo intento. Strofa e ritornello che sembrano appartenere a due canzoni diverse, con tanto di aggiunta di un coro stile gospel a metà canzone. Voto: 21
Tony Effe – “Damme na’ mano” Se esistesse lo stile “neomelodico romano” sarebbe perfetto per lui. Vuole interpretare un personaggio che non lo rispecchia. Diciamo che non è neanche preciso nel cantare.
Voto: 17
Clara – “Febbre” Per la finale sembra più sicura di se. Stupisce in positivo nonostante l’introduzione molto classica.
Voto: 25
Serena Brancale – “Anema e core” Superficialmente molto ritmata e piacevole ma appena la si ascolta un po’, va a perdere. Una forzatura di ritmi esotici/sudamericani e jazz (citato anche nel testo) snaturato e sicuramente non “elegante”.
Voto: 22
Brunori Sas – “L’albero delle noci” Come già detto, ricorda forse un po’ troppo “Rimmel” di De Gregori ma dalle rime troppo forzate. L’ascolto comunque non è per niente sgradevole, diciamo “senza infamia e senza lode”.
Voto: 24
Francesco Gabbani – “Viva la vita” Come abbia fatto a entrare nella “Top 10” rimarrà un mistero. Un’osanna alla “bellezza della vita” ma niente di più.
Voto: 19
Noemi – “Se t’innamori muori” Un’altra canzone fatta con lo stampino sanremese. Obbiettivamente ben eseguita ma non resta nella mente. La tematica amorosa viene portata quasi fino alla nausea. Voto: 22
Rocco Hunt – “Mille volte ancora” Sempre i soliti temi del ragazzo di strada napoletano. Con ritornello con un hook efficace in un italiano “napoletanizzato”.
Voto: 21
The Kolors – “Tu con chi fai l’amore” Se non viene citato l’amore è difficile che una canzone venga presentata a Sanremo. “Premio simpatia” per aver accettato Gianluca Fru sul palco.
Voto: 22
Olly – “Balorda nostalgia” Canta bene ma, oltre a ciò, sembra di ascoltare una cover di un brano già esistente. Un primo posto anonimo. Voto: 23
Achille Lauro – ” Incoscienti Giovani” Testo con metafore non troppo comprensibili « l’amore è come una pioggia sopra villa Borghese »… Però tolta qualche incomprensione si rivela uno stile diverso dal suo solito ma molto sanremese.
Voto: 24
Coma Cose – “Cuoricini” Tempo ritmato un po’ come una “disco music sanremese”. Il ritornello è quella melodia fastidiosa che purtroppo ti entra in testa e mette le radici. C’è da dire che “cuoricini” ha un hook efficace. « Stramaledetti cuoricini » …
Voto: 22
Giorgia – “La cura per me” Non si smentisce mai, sempre le solite canzoni poco personali . C’è da dire però che è un’ottima interprete. Rimasta fuori dalla Top 5 con un dissenso del pubblico.
Voto: 26
Simone Cristicchi – “Quando sarai piccola” Da molti la canzone è considerata commovente, ma è stata resa pare involontariamente, un po’ troppo strappalacrime.
Voto: 26
Elodie – “Dimenticarsi alle 7” Stesso discorso per la maggior parte dei cantanti in gara, bella esecuzione ma niente di memorabile. Efficace radiofonicamente. Eccelente la sua presenza scenica.
Voto: 24
Lucio Corsi – “Volevo essere un duro” Felice parentesi del Festival. Un cantautore poliedrico, fuori dagli schemi sanremesi, una piacevole esecuzione di cantautorato indipendente.
Voto: 29
Irama – “Lentamente” Entra come la Lady Oscar di questo Sanremo. Solita canzone d’amore niente di spettacolare né dal punto di vista musicale che del testo.
Voto: 22
Fedez – “Battito” Nella Top 5 generale un quarto posto meritato, magari si poteva osare anche un po’ più in alto. Orecchiabile, ma non troppo coesa come canzone e con testo comprensibile, non scontato visto l’andamento di questo Festival.
Voto: 26
Shablo feat Guè, Joshua e Tormento – “La mia parola” Sound piacevole, rivolto principalmente alle nuove generazioni. Presenti citazioni di un rap un po’ “vintage”.
Voto: 27
Joan Thiele – “Eco” Interessante la scelta musicale delle strofe, nel ritornello ritorna sempre l’impronta del Festival… peccato.
Voto: 26
Massimo Ranieri – “Tra le mani un cuore” Sanremo “old style” ma trovo giusto accontentare tutte le generazioni. Niente da dire contro l’interpretazione.
Voto: 22
Gaia – “Chiamo io chiami tu” Ritmi sudamericani per mettere enfasi sulle sue origini brasiliane. Neanche troppo ballabile: anonima.
Voto: 20
Rkomi – “Il ritmo delle cose” Come sempre per Rkomi la dizione si fa desiderare. Obbiettivamente la canzone è orecchiabile ed efficace radiofonicamente, ma le vocali sono fastidiose tanto sono aperte, soprattutto nelle prime frasi.
Voto: 24
Sarah Toscano – “Amarcord” Alle prime armi, si può migliorare. Poco originale e personale.
Sabato 17 maggio 2025, il Salone Internazionale del Libro di Torino ha vissuto una delle sue giornate più intense e partecipate. Come ogni anno, il Lingotto Fiere ha accolto ospiti e visitatori da tutta Italia, con incontri che hanno spaziato dalla letteratura alla musica, dalla psicologia alla cultura pop.
Come primo evento della giornata al quale abbiamo partecipato, si è svolta la presentazione della nuova edizione di “Storia del Jazz. Una prospettiva globale”, di Stefano Zenni, introdotto da Jacopo Tomatis e da un intervento al contrabbasso di Furio Di Castri. Il talk ha proposto una visione aperta e critica del genere musicale oggetto del libro. A partire dal libro “I segreti del jazz” (2008), Zenni ha riflettuto sul jazz come un’etichetta fluida che ha abbracciato e definito diverse tipologie di musica. Negli anni ’20 era un termine inclusivo, ma già negli anni ’50-’60 artisti come Sinatra, il cui lavoro presenta arrangiamenti jazz evidenti, venivano esclusi dalla definizione. Oggi il jazz sopravvive come linguaggio che attraversa generi, lasciando tracce anche dove non lo si nomina.
Di Castri ha sottolineato come la storia del jazz, inizialmente lineare, si apra a molteplici influenze nel secondo Novecento. Da qui l’approccio di Zenni: una narrazione che non solo racconta gli sviluppi musicali, ma riflette su cosa includere, su come si costruisce una storia. Centrale è il tema del gender gap: Zenni recupera figure femminili straordinarie, non come eccezioni ma come protagoniste alla pari, integrandole nella storia del jazz senza ghettizzazioni.
Una delle conversazioni più attese si è svolta nel primo pomeriggio, ed è stata l’incontro tra il rapper Salmo e lo psicoterapeuta Matteo Lancini, curatore della nuova sezione tematica “Crescere”. L’evento, ispirato al primo libro di Salmo, l’autobiografia “Sottopelle”, ha offerto al pubblico una riflessione sincera sulle emozioni che accompagnano la crescita personale. Salmo ha condiviso esperienze legate alla rabbia, alla tristezza e alla paura, sottolineando come queste emozioni, spesso legate ai suoi traumi familiari, siano state fondamentali nel suo percorso artistico e umano, dapprima nel writing e nei graffiti per poi sfociare nel rap e oggi anche nel cinema. Lancini, insieme alle ragazze del gruppo Tutto annodato, un collettivo composto da giovani che si occupa di sensibilizzare sulla salute mentale, ha guidato la conversazione, evidenziando l’importanza di riconoscere e affrontare le proprie fragilità.
In conclusione, il Salone del Libro di Torino ha dimostrato come la cultura possa essere uno strumento potente per esplorare sé stessi e il mondo che ci circonda, non solo come una vetrina editoriale, ma come un luogo di crescita personale e un’occasione per toccare con mano i mondi che accompagnano il nostro tempo libero. In un’epoca in cui il dialogo e l’ascolto sono più che mai necessari, eventi come questi ci ricordano l’importanza di fermarsi, riflettere e condividere esperienze.
Dietro ogni festival c’è una visione, un’identità che prende forma attraverso scelte artistiche, intuizioni audaci e tanta passione. Alessandro Gambo, mente creativa del Jazz Is Dead!, ci porta dietro le quinte di un evento che non è solo musica.
Qual è la visione artistica dietro l’ottava edizione di Jazz Is Dead? Come è cambiata la direzione nel corso degli anni? È necessario reinventarsi per restare rilevanti?
La visione di Jazz Is Dead, come ogni anno, è quella di esplorare la musica d’avanguardia a tutto campo: jazz, elettronica ma anche rock e pop. L’identità del festival è fortemente legata alla sua direzione artistica, perché lo stesso artista può trasmettere sensazioni diverse se ascoltato in un club o su un grande palco.
Costruiamo la line up seguendo tre grandi filoni, in base alle giornate: il venerdì la sperimentazione e l’avanguardia, il sabato suoni più accessibili con dei ritmi coinvolgenti e poi la domenica sonorità post-jazz. Visto che il jazz è morto andiamo a cercare quello che è successo dopo! (ride, ndr)
Quest’anno abbiamo aggiunto un quarto giorno, in collaborazione con Jazz:Re:found, dedicato alle sonorità dub, prettamente Oltremanica. Ci saranno artisti come Ghost Dubs, Mad Professor e The Bug, imperdibili!
Ogni anno seguiamo questi tre filoni e, in base a quello che ascolto e scopro durante i mesi precedenti, costruisco una line-up coerente e la propongo.
A prima vista, il programma del festival può sembrare un “caos calmo”, un elenco di artisti senza apparente connessione. Qual è il filo rosso che li lega?
Io sono un DJ, quindi ho sempre immaginato e cercato suoni che stessero bene l’uno con l’altro indipendentemente dal fatto che un brano sia una hit o un pezzo sconosciuto. Lo stesso principio vale per gli artisti di Jazz Is Dead.
Un grande ringraziamento va al negozio di musica Ultrasuonisound, il mio pusher di fiducia di dischi da 25 anni (ride, ndr). Conosce le sonorità che cerco e spesso mi propone dischi in anteprima, addirittura ragioniamo insieme: da grandi consigli nascono grandi line-up.
Fino ad adesso il pubblico è stato sempre molto contento perché abbiamo affiancato nomi storici come Charlemagne Palestine, Godflesh e William Basinski a talenti emergenti, con la bellezza della scoperta. Proprio oggi, un nostro follower ci ha ringraziato per avergli fatto conoscere nuovi artisti, tornando a casa con un bagaglio di ascolti completamente nuovi.
Cosa rende speciale Jazz Is Dead?
La forza sta nella sua credibilità e nell’atmosfera unica che si crea. Le persone non vengono solo per i singoli artisti o per gli headliner, ma per vivere 3-4 giorni immersi in suoni sempre diversi.
La direzione artistica combacia con le esigenze del pubblico, ma non è solo la musica a far vivere il festival: c’è un mood di cui andiamo molto fieri.
Se potessi scegliere un artista impossibile—vivo, morto, fittizio—chi inviteresti al festival? C’è un artista che avete sempre sognato di avere nel festival?
Ho letto una frase che diceva «A meno che tu non sia John Lennon, Michael Jackson o James Brown, non aspettarti risposte per il booking!» credo che valga come risposta. (ride, ndr)
Sono un beatlesiano, quindi la produzione di Harrison l’ho sempre trovata molto interessante, sicuro un Lennon o un Harrison non sarebbe male.
Mi piacerebbe portare Parliament-Funkadelic, George Clinton è ancora vivo…più o meno! (ride, ndr)
Adesso porterei volentieri Mondo Cane, un progetto bellissimo di Mike Patton in cui interpreta canzoni italiane anni ‘60. Sarebbe fantastico! Magari lo propongo a Stefano Zenni per il Torino Jazz Festival.
Come si costruisce un’esperienza coinvolgente per il pubblico? Hai notato un cambiamento negli anni nel modo in cui il pubblico vive il festival?
Il pubblico è rimasto sempre lo stesso, tra chi è cresciuto e chi è arrivato ex novo. La nostra idea è quella di rendere il festival accessibile: fino all’anno scorso era gratuito, quest’anno i prezzi sono calmierati, 15€ al giorno, per garantire un’esperienza alla portata di tutti.
Essendo organizzato da tre associazioni: Arci, Magazzino sul Po e Tum, il festival ha un forte senso di convivialità, di accessibilità di fruibilità e questo ci distingue da quelli più commerciali. Non abbiamo interessi economici, il nostro obiettivo è che tutto stia in piedi, ma senza perdere libertà artistica e spirito inclusivo.
Se dovessi descrivere l’atmosfera e l’ambiente del festival con una sola canzone, quale sarebbe?
Direi “Yellow Submarine”, nei giorni di festival sembra davvero di essere dentro un gran bel sottomarino giallo, mentre il mondo fuori continua la sua routine e noi dentro ci divertiamo e facciamo festa.
Quali sono gli album che ti hanno accompagnato durante i tuoi anni universitari?
Ho avuto la fortuna di nascere nel 1980, di conseguenza, quando sono diventato teenager dai 13 ai 19 sono usciti gli album più fighi della storia della musica alternativa. Mtv passava in heavy rotation: “Smells Like Teen Spirit”, “Firestarter” dei Prodigy, Homework dei Daft Punk, “Black Hole Sun” dei Soundgarden e così via.
Sono cresciuto in questo ambiente e mi sono subito legato alla musica alternativa, al reggae e all’hip hop. Secondo me non puoi non aver ascoltato SxM dei Sangue Misto o Marley. Credo che siano testi e suoni che sono la base della mia identità: mi ci ritrovo politicamente all’interno di questi suoni. Poi, nel 96 ho scoperto i rave ed ho iniziato a partecipare ai free party, da quella scena è uscito un mondo, come gli Underworld.
Come immagini questo festival tra dieci anni? Qual è il sogno a lungo termine per questo festival?
Non me lo immagino tra dieci anni, perché lo costruisco anno dopo anno, in base a ciò che è successo nelle edizioni precedenti. Non so cosa succederà ma, come ho già detto dal comunicato stampa, posso dirti che sarà l’ultima edizione per come lo conosciamo.
Stiamo entrando in delle logiche di mercato che non ci appartengono: non voglio giocare al rialzo per ottenere artisti, né trasformare il festival in una compravendita di nomi.
Preferisco fare un downgrade preservando l’anima Jazz Is Dead: giorni di festa, di convivialità, accessibilità dove tutti possono avere il proprio spazio e tanta musica bella senza aver bisogno di rincorrere la moda o l’artista del momento.
Un consiglio che vorresti dare a chi vorrebbero lavorare nell’ambito musicale?
Il mio consiglio? Fate festa. Dalle feste nascono incontri, idee e progetti incredibili. È proprio quello che è successo a me: all’università ho conosciuto un amico con cui ho aperto il Magazzino sul Po.
Non aspettate che qualcuno dei “grossi” venga a pescarvi: l’auto-organizzazione è la chiave. Costruite qualcosa di vostro, e quando avrete una base solida, potrete collaborare con i grandi e imparare da loro.
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