Siete stufi di dover sistemare sempre le vostre playlist di Spotify? Bene, probabilmente è stato così anche per Don Karate, e stanchi di questo, hanno deciso di assemblare diversi generi e panorami sonori e metterli tutti insieme tutti in un unico eclettico live.
Il progetto Don Karate, nato come trio, prende vita dalla mente del batterista Stefano Tamborrino. Viene proposto al Torino Jazz Festival in versione rivisitata come sestetto composto da Simone Graziano (tastiere), Francesco Ponticelli (basso e synth), Nazareno Caputo (vibrafono), Annarita Cicoria (flauto) e Rebecca Sammartano (flauto e voce).
La serata si è svolta all’interno del Bunker, alle 23 di giovedì 24 aprile. Una mossa strategica per avvicinare i giovani dell’ambiente al Festival. Questi però, evidentemente, vista la coda all’entrata per l’evento techno nell’area adiacente, sono stati per lo più attratti da quest’ultimo.
Il live comincia con la salita sul palco scaglionata dei vari strumentisti, vestiti con tuniche colorate e copricapo a mo’ di maschera, marchio di fabbrica del gruppo. L’ultimo a calpestare il palco è Stefano Tamborrino, che si fa spazio tra la folla del Bunker per raggiungere la sua batteria.
I primi brani scelti per la serata preparano la tavola per i piatti forti, mantenendo sonorità leggere e semplici che la batteria movimenta con accenti sul levare e un forte groove che a tratti diventa sincopato.
Foto di Ottavia Salvadori
Le atmosfere, da qui, iniziano a intrecciarsi in un continuo groviglio a tratti confuso, ma che funziona proprio perché stupisce, porta a muoversi e a divertirsi.
Si passa dai suoni percussivi di “You Don’t Know Me” ai colori viola vaporwave di “Plinsky 1988”, che pare un’ode al mondo dei videogame arcade di quegli anni.
La prassi esecutiva rimane praticamente simile per tutto il concerto. I flauti traversi, il vibrafono e le tastiere creano motivi che entrano nella testa e non se ne vanno più, mentre il basso e, soprattutto, la batteria decidono quanto e come far muovere i fianchi degli ascoltatori.
Fianchi che vengono mossi e scossi specialmente durante l’esecuzione di “Bubinga”, brano dai suoni mediterranei e dalle forti influenze afro-funk, e dalla stilisticamente opposta “Monte Wolf”, proposta in una versione live che si discosta leggermente da quella registrata: cassa dritta e atmosfera da club tech house.
Per non farci mancare niente, all’interno dell’eclettico caleidoscopio che è la matrice salda del pensiero musicale di Don Karate, non poteva mancare il rimando politico e satirico di “Ice Age” (2020).
Sulla base ritmica hip-hop scuola East Coast viene inserito il celebre motivo di “Kalinka”, famosa canzone popolare russa, unendo in qualche modo l’ex URSS e gli Stati Uniti in una specie di messaggio premonitore del contemporaneo.
L’effetto evocativo viene reso esplicito, inoltre, dall’uso dei visuals di Daniele Biondi, che proietta alle spalle del collettivo le facce distorte di Trump e Putin.
Il gruppo, e specialmente Tamborrino, si diverte, gioca e fa ballare, portando in scena un live che sembra – appunto – una playlist esplosa sul palco, ma non una qualsiasi: una che dimostra che non serve avere i paraocchi su un solo genere musicale.
Foto di Ottavia Salvadori
Jazz, techno, hip-hop, afro-funk, elettronica: nel mondo di Don Karate tutto può convivere, contaminarsi e sorprendere.
Un concerto che, più che chiedere di scegliere, invita ad ascoltare tutto assieme e a goderselo.
Perché, a volte, la miglior playlist è proprio quella che non hai bisogno di sistemare.
«Libera la musica» è il tema della tredicesima edizione del Torino Jazz Festival (TJF). Provando a riformularlo, possiamo affermare che la musica libera orizzonti inauditi che percepiamo come esperienze catartiche; ma, considerando quel “libera” un aggettivo, possiamo pensare la musica come fenomeno umano indomabile, senza barriere, se non quelle che decidiamo di imporre o seguire.
A partire da questa seconda accezione cerchiamo di analizzare la produzione originale che TJF ha proposto come primo concerto della giornata inaugurale di mercoledì 23 aprile al Teatro Juvarra. L’evento, in collaborazione con il Salone del Libro, è stato presentato come un dialogo di suoni e silenzi tra la poesia e la voce di Domenico Brancale e la batteria preparata e amplificata di Roberto Dani.
Il primo ha già collaborato in passato con musicisti realizzando lavori con al centro la voce e suoni, spesso registrati, mentre il secondo ritorna al Festival dopo un’esibizione solistica nel 2021, che anche in quel caso ruotava attorno al silenzio, allo spazio e al corpo. Insieme hanno creato una performance dal titolo “Chi sono queste cose”: un incrocio tra reading poetico e improvvisazione musicale.
Foto di Colibrì Vision
Sul palcoscenico già aperto e illuminato di blu vediamo delle orecchie dorate sparse a proscenio, un leggio al centro e la batteria subito dietro. L’ingresso dei due artisti è silenzioso, al buio, nessun applauso, solo una voce registrata che elenca nomi di poeti, pittori, attori e musicisti del passato e le loro date di morte. Lo spazio scenico si riempie di luce calda e Brancale, con voce tonante, recita i versi su uno sfondo sonoro lento e meditativo. Dani si inserisce nelle pause tra un verso e l’altro, cambiando spesso il modo di produrre suoni: con bacchette diverse, piatti di varie dimensioni e oggetti comuni appositamente riadattati. La fusione tra la voce e i suoni delle percussioni è calibrata attentamente, l’amplificazione della batteria è regolata al continuo cambio di timbri, e al tono di Brancale che in alcuni momenti recita sotto voce.
Foto di Colibrì Vision
I due corpi sul palco vibrano in modo diverso: se Brancale, sempre fisso sul posto, ci trasmette passione e adesione al contenuto dei suoi versi attraverso la mimica facciale e alcuni gesti delle mani, Dani sta in piedi, curvato, in continuo movimento tra balzi e scatti frenetici. A dividere in due l’esibizione è un assolo energico di Dani, che riempie la sala di suoni profondi e sempre più ravvicinati, sembra quasi inaspettato dopo la prima parte molto pacata, ma riesce ad aumentare la tensione del concerto e guidarci fino alla conclusione.
Il ritmo si fa quindi incalzante, in un continuo singhiozzo di suoni gravi e acuti, Brancale elenca tutte le azioni e atteggiamenti possibili che compiamo nella nostra vita prima di sgretolarci.
Sta di fatto che anche la musica è uno di questi modi per sopravvivere e nelle conformazioni che può assumere rimane sempre libera e inafferrabile.
Il jazz, spesso etichettato come genere “vecchio” o fuori moda, dimostra di avere ancora molto da dire anche alle nuove generazioni. A testimoniarlo è la serata di giovedì 17 aprile al Blah Blah di Torino, con uno degli eventi gratuiti che anticipano il Torino Jazz Festival.
Appena AleLoi & The Toxic Jazz Factory salgono sul palco del piccolo club, infatti, la sala interna si riempie in un attimo, tanto che per i piú piccoli di statura diventa difficile provare a farsi strada per vedere qualcosa. Il suono degli strumenti si diffonde sotto i portici di via Po e, schiacciati in mezzo alla folla, si percepisce chiaramente una cosa: il jazz non è affatto passato di moda. Anzi, è più vivo che mai.
AleLoi & The Toxic Jazz Factory è un ensemble guidato da Alessandro Loi, bassista e compositore, che porta sul palco del Blah Blah il suo disco d’esordio It Smells Funny,dove il jazz, il blues, il gospel e il funk coesistono, creando un jazz raffinato e moderno allo stesso tempo. Loi è accompagnato da un ensemble musicale composto da Simone Garino ai sassofoni, Alberto Borio al trombone, Nicola Meloni alla tastiera e Giulio Arfinengo alla batteria.
Foto dal profilo Facebook @AleLoi
Le sezioni d’insieme, energiche e coinvolgenti sono intervallate da assoli strumentali che mettono in luce la bravura di tutti i componenti del gruppo. L’uso del basso elettrico fretless a 5 corde garantisce una maggiore flessibilità espressiva, particolarmente evidente nel brano inedito “Last Beer with Friends”, dove il timbro dello strumento viene ulteriormente arricchito da un distorsore.
Nota di merito anche per il sassofonista e il trombonista che, nei momenti collettivi, rivelano con una tale sintonia da far percepire in certi istanti un suono unico, nonostante la notevole differenza timbrica tra i due strumenti.
Il concerto è durato circa un’ora: forse troppo corto per gli appassionati, ma perfetto per chi desidera avvicinarsi al jazz in modo leggero, passando una piacevole serata tra drink, chiacchiere tra amici e buona musica. Un evento piacevole e ben riuscito, che mette il jazz al centro, ma che non ne “impone” l’ascolto attento prolungato.
Al Comala il 16 aprile 2025 si è tenuta la Marmellata Jam, esibizione completamente improvvisata (o quasi). Per l’organizzazione della serata, il collettivo Marmellata Jam ha optato per l’utilizzo di un canale su Telegram, nel quale chi voleva partecipare ha avuto modo di iscriversi per facilitare la ripartizione dei tempi e degli spazi di chi avrebbe improvvisato durante la serata.
L’esibizione era programmata all’esterno ma a causa della pioggia, si è tenuta in una saletta interna.
La serata è stata divisa in due parti: la prima focalizzata sulla lettura di poesie con libero accesso da parte di persone dal pubblico, con sottofondo musicale improvvisato e disegni proiettati realizzati sul momento. Nella seconda parte, è stata privilegiata la parte musicale, sempre con un libero accesso al microfono, all’iPad per disegnare e soprattutto, questa volta, agli strumenti.
Foto di Giulio Santullo
Si sono susseguiti innumerevoli cantanti e strumentisti, da alcuni nomi noti della scena torinese, come la cantante Caterina Ciari degli EDEN4ALL , ai meno conosciuti, i quali hanno sperimentato improvvisando attraversando i generi.
La serata si è conclusa verso mezzanotte ed è stata un grande successo nonostante il nubifragio in corso.
Degna di nota è stata la poesia di Viola Cicoria, la quale ha tenuto sospeso il pubblico:
”Salve. Salve, dunque di quale cifra si tratterebbe? Ah. E per quanto tempo? Dunque, per una settimana? Per una settimana, bene, me lo assicura? Cento milioni per una settimana. Mi assicura, dunque, che la luna si spegnerà per una settimana. Una settimana di luna spenta per cento milioni.
Sì, sì, siamo d’accordo. Sì, proceda pure. Sì, la spenga.
Prima notte di luna spenta: ma perché nessuno ci fa caso? Ha senso che nessuno ci faccia caso. Una volta al mese succede. Soltanto in pochi, in pochissimi, in così pochi nel mondo che li si potrebbe tutti stipare in uno di quegli autobus inglesi rossi a due piani, se ne sono accorti.
Foto di Giulio Santullo
Prima notte di luna spenta, un normale cielo blu (quasi) per tutti.
Seconda notte di luna spenta: qualcuno ci fa caso. Non dovrebbe crescere la luna? Prima o poi, non dovrebbe crescere? No, ma dico, oggi non dovrebbe crescere la luna? E se non crescesse mai più?
[…]
Quarta notte di luna spenta: più di più di qualcuno ci fa caso. È un guaio. Signore, signori, è un guaio. E gli astronauti di che si occuperanno ora? E cos’altro possiamo misurare se non la distanza tra qui e là? Ora che si fa? E chi costruisce i razzi? E chi cuce le tute degli astronauti? E le aste delle bandiere dove verranno piantate? E le foto? E il Paese? Quanto spenderemo per i lampioni? E perché nessuno costruisce astronavi intergalattiche?
[…]
Sesta notte di luna spenta: tutti (o quasi) ci hanno fatto caso. E i misteri? E gli dèi? E Dio? E l’amore? E l’amore, vi prego, l’amore? E le idee? Ma dico, le idee? Sono duemilaquattrocento anni che stanno da un’altra parte, lì, mentre noi le copiamo, non è che di punto in bianco si può fare così. E dove dovrei camminare ora? Con i piedi piantati in terra? Dovrei camminare sulla Terra? E dove dovrei sognare? Come dovrei sognare? A cosa, a chi dovrei dedicare? E dove, come, quando, perché dovrei dedicare ora che la luna è spenta? Quali luoghi dovrei abitare? Dove dovrei vivere? Dove potrei essere? E il mio fine quale sarà?
Settima notte di luna spenta: poveri conigli, son scomparse tutte le loro tane.
Settima notte di luna spenta, il cielo è blu.
E lei ci pensa mai a quante cose abbiamo proiettato lassù?”
Jazz is back! Quest’anno il Torino Jazz Festival, in programma dal 23 al 30 aprile, anticipa l’inizio ufficiale con un’intera settimana di concerti gratuiti nei club. Tra gli eventi in programma nella prima serata siamo andati a sPAZIO211 per il concerto degli High Fade, qui per la loro ultima data italiana. Si tratta di un trio funk-rock fondato a Edimburgo nel 2018 da Harry Valentino (chitarra e voce), Oliver Sentance (basso) e Calvin Davidson (batteria).
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Sul palco i tre indossano il tradizionale kilt scozzese e suonano i brani del loro album d’esordio, Life’s Too Fast, uscito a fine 2024. La loro esibizione è una continua interazione con la folla, le strutture dei brani vengono stravolte al fine di coinvolgere il più possibile i presenti, con i cori di “666 999” e i balli di “Born to Pick”. La band ha pieno controllo dei mezzi a disposizione, i virtuosismi personali sono ostentati con disinvoltura e i tempi dei brani si fanno via via più frenetici. Soprattutto il batterista dimostra versatilità nell’amalgamare ritmi differenti, mentre gli altri due suonano spesso schiena contro schiena.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
Il trio ha una potenza che riesce a connettere tanti generi diversi, si passa dal funk al rock classico, fino al nu metal, ma senza cali d’intensità e sinergia. Il pubblico è in piena sintonia con la band sul palco, segue ogni tipo di input, salta e poga, anche se lo spazio è limitato. Nel finale Harry scende dal palco per dividere in due la folla e chiudere il concerto saltando al ritmo di “Break Stuff” dei Limp Bizkit. Dopo, i tre si inchinano e ringraziano il pubblico, promettendo di tornare presto, per ultimo immortalano il momento con una foto rituale tutti insieme.
Foto di Valter Chiorino/lunasoft.it
La serata è stata too fast, forse era previsto un live più esteso, ma sicuramente si è gustata con soddisfazione la secret sauce di questa band giovane e ricca di energia.
Per gli altri eventi in programma consigliamo di visitare il sito del festival e seguire la pagina Instagram per rimanere aggiornati.
Un sabato tutto torinese quello del 5 aprile 2025 al Magazzino sul Po, grazie ai Sacrofuoco (prima One Dying Wish) e l’atteso release party dell’ultimo album dei Low Standards, High Fives Everything Ends, il tutto organizzato dal collettivo Turin Moving Parts.
Le due band sono molto diverse: i Sacrofuoco, con una commistione di chitarre dissonanti e urla distorte e ossessive, fanno un hardcore incalzante che tiene il pubblico in subbuglio e non fa riposare.
Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)
La setlist contiene sia canzoni del loro ultimo album Anni Luce, il primo sotto l’identità Sacrofuoco, sia canzoni uscite sotto il nome di One Dying Wish. Queste ultime sono quelle più conosciute e che nel corso della serata causano diversi momenti in cui qualcuno “ruba” il microfono per urlare le parole del testo, in un completo coinvolgimento tra musicisti e pubblico.
I brani di Anni Luce ci portano invece in un mondo caotico e immersivo, soprattutto quelli dalla durata maggiore come “Replica” e “Corpi Celesti”.
I Low Standards, High Fives, nati ormai più di 10 anni fa nel lontano 2012, riprendono le sonorità nostalgiche dell’emo di inizio anni 2000. Con le loro tre chitarre lavorano su melodie accoglienti e riconoscibili all’interno del genere, ma mai banali.
Foto di Claudio Messina (@claudiogmessina)
Everything Ends, uscito il 28 marzo, ci fa contemporaneamente compiere un viaggio di vent’anni nel passato e riscoprire di qualcosa di nuovo all’interno di temi e suoni che ci sono tuttavia così familiari, unendo influenze personali come indie e post-rock al classico sound che si può ascoltare nei gruppi, soprattutto esteri, che sono stati pionieri dell’emo dalla fine degli anni ‘90.
Per questa serata il Magazzino sul Po è sold out, dimostrando che le band dell’organismo torinese sono ancora e sempre supportate e amate dal pubblico della città, in una relazione di sostentamento reciproco che mantiene la scena in vita.
Rispettare l’orario d’entrata previsto per un concerto può risultare una scelta azzardata e a volte anche noiosa. Nelle lunghe attese si può rischiare di incollare gli occhi al piccolo schermo che ci troviamo sempre in tasca e perderci totalmente ma, se si resiste alla tentazione, l’arrivo in anticipo può trasformarsi in un’occasione per osservare le persone che entrano nel locale. Infatti, tra i coloratissimi vestiti tradizionali senegalesi e piccolissimi bambini che correvano a destra e sinistra, la serata all’Hiroshima Mon Amour di Torino il 4 aprile si è aperta con tanta allegria. L’evento ha avuto il sapore di una vera festa, organizzata per celebrare il 65° anniversario dell’indipendenza del Senegal dal colonialismo francese, durato oltre tre secoli.
Per l’occasione, l’Associazione Africaqui e l’Associazione Culturale Tamra, in collaborazione con Hiroshima Mon Amour, hanno dato vita a un evento musicale che vuole essere anche simbolo di cooperazione tra Torino e Louga, città senegalese nel Nord-Est del paese, gemellate ufficialmente nel 2024. La serata è iniziata con gli Afrodream, gruppo afrobeat, seguito dalla cantautrice senegalese Mariaa Siga. Subito dopo, l’esibizione dell’Orchestra dell’Africa Subsahariana e un dj set a cura di Dj Noname per chiudere.
Foto dal profilo Instagram @afrodream_ foto didi Lorenzo Gianmario Galli
Alle 22 circa la musica ha iniziato a risuonare in tutta la sala dell’Hiroshima con ritmi incalzanti che hanno fatto ballare anche gli spettatori meno avvezzi al movimento. Gli Afrodream sono nati a Torino, e il loro cantante e percussionista Abdou Samb ha origini senegalesi. Grazie alla fusione tra musica europea e senegalese hanno creato un ambiente accogliente per tutti. C’è stata una piccola interruzione dovuta alla corda del basso che si è rotta proprio in mezzo alla performance ma, oltre a questo piccolo intoppo, tutto è filato liscio come l’olio. La band ha ottenuto un grande successo da parte del pubblico ma l’affluenza in sala ha subito un calo significativo con l’arrivo di Mariaa Siga, artista meno conosciuta rispetto agli Afrodream. Cantautrice dalle straordinarie doti vocali, Mariaa incanta con una voce potente e al tempo stesso delicata, capace di spaziare su un’estensione vocale notevole. Ha dedicato le sue canzoni principalmente a coloro che hanno sofferto, come i molti dispersi in mare nella speranza di raggiungere una vita più dignitosa in Europa e non solo. Una dedica speciale è stata fatta alle donne, in una giornata in cui, in Piazza Castello, in centro a Torino, si è svolta la manifestazione organizzata in risposta ai recenti femminicidi, tra cui quelli di Ilaria Sula e Chiara Campanella. Finale con una canzone in onore della sua madrepatria, il Senegal, con un pubblico finalmente molto più acceso.
Foto dal profilo Instagram @mariaasiga
L’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha dato di nuovo il via alle danze, scatenando tutta la sala. La loro scelta strumentale è particolarmente interessante poiché combinano strumenti tradizionali del Centro Africa, come la kora e il djembe, con una varietà di percussioni, elettronica e un sax, che si fonde perfettamente con gli altri elementi. Tra le parti cantate sono emersi momenti virtuosistici dei percussionisti e soprattutto del suonatore di kora. Sul palco sono stati fatti entrare anche di tanto in tanto dei ballerini che hanno creato uno spettacolo veramente esaltante. Per il gran finale, l’Orchestra dell’Africa Subsahariana ha invitato sul palco Mariaa Siga e alcuni membri di Afrodream per eseguire insieme “Fatou yo”, un brano senegalese per bambini che sembra assumere un significato profondo per tutti: un finale sia maestoso che commovente, anche per chi non conosce pienamente la cultura del paese festeggiato. Il dj set conclusivo ha permesso chi aveva ancora energia di continuare a ballare.
Una festa indimenticabile che ha saputo intrecciare tradizione e modernità, regalando a tutti i presenti un’esperienza unica.
Seduzione, ossessione e un destino ineluttabile. La dama di picche. Capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij su libretto del fratello Modest, tratto dall’omonimo racconto di Puškin. L’opera, composta nel 1890, segna uno dei vertici espressivi del teatro musicale russo. Il compositore, in uno dei momenti più tormentati della sua vita, infonde nella partitura un’intensità drammatica e anche cinematografica, avvicinandosi alla tragica ossessione del protagonista Hermann, consumato dal gioco d’azzardo e dalla misteriosa formula segreta delle tre carte. Questo tormento prende forma nell’aria “Che cos’è la nostra vita? Un gioco!”, in cui il protagonista ripete ossessivamente il suo pensiero fisso.
La dama di picche è in scena al Teatro Regio di Torino in un nuovo allestimento prodotto dalla Deutsche Oper di Berlino, firmato dal regista Sam Brown, che raccoglie e sviluppa la visione del compianto Graham Vick. La direzione musicale è affidata a Valentin Uryupin, specialista del repertorio russo, mentre il cast vede protagonisti Mikhail Pirogov nel ruolo di Hermann, Zarina Abaeva in quello di Lisa e Jennifer Larmore nei panni della Contessa. Completano la compagnia Elchin Azizov (Tomskij), Vladimir Stoyanov (Eleckij) e Deniz Uzun (Polina).
foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz
La regia di Sam Brown presenta Hermann come un uomo qualunque, intrappolato in una realtà soffocante e monocorde. La sua esistenza, confinata in un dormitorio militare, è lo specchio di un desiderio frustrato di riscatto sociale. Lisa, il suo amore impossibile, incarna il contrasto tra il mondo del privilegio e la disperazione del protagonista, che cerca una via d’uscita nel segreto della Contessa. L’opera si trasforma così in un dramma psicologico in cui sogno e realtà si sovrappongono, portando Hermann verso un destino segnato dall’illusione e dalla follia. Lo spettatore col dubbio su cosa fosse reale.
L’allestimento si distingue per alcuni elementi visivi di grande impatto. Il coro, attraverso un gioco di ombre, si trasforma in una folla minacciosa, amplificando la paranoia e il senso di accerchiamento. Un ulteriore livello narrativo è dato dalla la proiezione di spezzoni del film La dama di picche del 1916, che dialogano con la messinscena come un secondo piano narrativo. A completare questa dimensione visiva, sopra il sipario utilizzato per i cambi scenografici appaiono dei veri e propri cartigli, in stile cinema muto, che forniscono un contesto alla scena o indicavano il luogo in cui si svolgeva l’azione.
foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz
In molti di questi cartigli comparivano anche citazioni da Dostoevskij, che aprivano ulteriori riflessioni. Lo spettatore più attento poteva così interrogarsi su ciò che vedeva: era tutto reale? O solo una proiezione dell’inconscio di Hermann? Era solo la caduta di un uomo nell’ossessione, o una riflessione più ampia sulla libertà individuale, la colpa, la coscienza? La presenza di Dostoevskij da lo spunto per guidare lo spettatore in un percorso parallelo, rendendolo forse più partecipe e consapevole di ciò che vede.
Scenografica la chiusura dell’opera. Hermann, ormai consumato dal pensiero ossessivo delle tre carte, si presenta al tavolo da gioco. Sebbene non sia un giocatore abituale, possiede esattamente tre carte, come predetto dalla dama di picche. Le prime due gli fanno vincere somme enormi, ma l’avidità – o forse il desiderio disperato di vedere la profezia compiersi fino in fondo – lo spinge a giocare anche la terza. A quel punto entra il principe Eleckij, l’unico disposto a sfidarlo. Ma nel momento decisivo, Hermann scopre che la sua ultima carta non è l’asso, bensì proprio la dama di picche. Ha perso tutto. E si toglie la vita.
Piccola nota di cronaca: durante il primo atto un semplice cambio di scenografia ha dato a molti spettatori l’illusione dell’intervallo, con tanto di esodo verso il foyer sventato dalla solerzia delle maschere. Tutto comprensibile vista la scarsa conoscenza di un titolo, che tuttavia è stato molto apprezzato a fine serata.
Questo allestimento di La dama di picche si è rivelato una produzione di grande impatto visivo, moderna ed emotiva. La regia di Brown ha offerto una prospettiva che mette in luce l’attualità del dramma umano di Hermann, sempre sospeso tra desiderio e autodistruzione.
L’Unione Musicale ci ha fatto un regalo prezioso la sera del 26 marzo, portando sul palco del Conservatorio «Giuseppe Verdi» uno dei musicisti più importanti a livello globale, Maxim Vengerov, di origine russa, che fin da bambino si è messo in luce come violinista. In questa serata è stato accompagnato al pianoforte dalla pianista Polina Osetinskaya, la quale condivide con il violinista non solo le origini russe, ma anche il talento mostrato sin da piccola.
Osservando il pubblico accomodarsi, si percepiva l’attesa: si potevano notare subito, sul palco, le custodie dei violini,come una muta promessa di quello che stavamo per ascoltare. Infatti, i due musicisti, al loro ingresso, sono stati accolti calorosamente con un lungo applauso.
Il concerto è stato aperto dalle Cinque melodie op. 35 bis di Sergej Prokof’ev. Dal primo attacco di Vengerov si è rimasti subito colpiti: un suono deciso ma allo stesso tempo dolce, che ha dato dimostrazione immediata della tecnica acquisita negli anni. Le Cinque melodie, però, erano soltanto l’antipasto. Nella Sonata n° 2 in re maggiore, op. 94 bisdello stesso compositore abbiamo assistito a qualcosa di unico. Nel secondo movimento, Scherzo. Presto, entrambi i musicisti hanno dato il meglio di sé: si percepiva il divertimento nel suonare questo brano. La pianista si muoveva a tempo di musica per accompagnare Vengerov e, per la carica di un fortissimo, ha anche sobbalzato sullo sgabello. Il movimento è stato eseguito con tale perfezione da scatenare un applauso vigoroso, fuori dalle normali consuetudini dei concerti cameristici e sinfonici (nei quali l’applauso è consentito solamente alla conclusa del brano), ma doveroso vista la perfezione della performance. La sonata si è conclusa ovviamente in modo impeccabile: ogni sfumatura delle dinamiche è stata eseguita in modo eccezionale, tra sorrisi accennati e precisione reciproca.
foto da Unione Musicale
La prima pausa del concerto è servita al pubblico per assimilare l’euforia e lo stupore nato da quello a cui avevano appena assistito. Il concerto è poi proseguito con la Sonatina in sol minore, op. 137 n° 3, D. 408 di Franz Schubert: un inizio forte e all’unisono, come scaturito dal primo respiro intenso del violinista che si è sentito fino alle ultime file della sala. Balzi dell’arco precisi, che nel secondo movimento si sono trasformati in un canto legato nato dal pianissimo: sembrava che i due musicisti stessero parlando tra di loro attraverso gli strumenti con estrema naturalezza.
La Sonata n° 3 in re minore, op. 108 di Johannes Brahms ha concluso il concerto, facendo già affiorare il dispiacere perché la serata volgeva al termine. Ad amplificare la sensazione ci ha pensato il secondo movimento, Adagio con la sua soavità venata di tristezza. Il suono di Vengerov era completamente legato: sembrava che l’arco non avesse inizio e fine per come riusciva a non staccare i suoni, facendoli continuare anche attraverso le doppie corde e trilli malinconici. Il Presto agitato ci ha riportato alla realtà. La pianista Osetinskaya, quando veniva richiesto il forte, ci metteva davvero tutta se stessa e Vengerov rispondeva con la stessa audacia.
foto da Unione Musicale
Vengerov e Osetisnskaya ci hanno regalato ben quattro bis, preceduti anche da un «grazie mille» nell’italiano impacciato del violinista russo. Eravamo noi a dover ringraziare, per quanto avevamo appena ascoltato e per ciò che stavamo per ascoltare. I primi tre bis sono stati Schön Rosmarin, LiebesleideLiebesfreuddi Fritz Kreisler e anche qui, in tutti e tre i brani, era impossibile non ammirarlo: siamo infatti stati avvolti da un fraseggio elegante e una cantabilità travolgente.
L’ultimo bis è stato un brano davvero emozionante di Rachmaninov, tratto da Rapsodia su un tema di Paganini, op. 43: Variazione n° 18, Andante cantabile. Qui i due musicisti sono entrati in un altro universo: il vibrato di Vengerov è riuscito a scuotere gli animi, con una dolcezza, un’esplosione di suono che trasmette sia energia che malinconia, come solo lui sa fare.
Con i presenti visibilmente emozionati si conclude questo concerto. Sicuramente, quanti fra il pubblico erano violinisti o musicisti in generale sono tornati a casa con un bellissimo ricordo, ma anche con una lezione: se ha colpito il modo in cui Vengerov maneggia l’arco ed esegue passaggi tecnicamente complessi con estrema naturalezza, dando l’impressione che siano facili, forse più ancora ha impressionato l’umiltà con cui si è presentato sul palco. Non tutti, peraltro, avrebbero la generosità di offrire quattro bis, nonostante la grande fama che li precede. Vengerov ci ha ringraziato sempre con un sorriso, mentre era lui a donarci, per una sera, il suo suono inimitabile.
Marzo è un buon mese: tanti singoli in vista dell’uscita dei nuovi album e dei tour estivi e primaverili. Ecco la nostra top10.
“L’arte di lasciare andare” – Baustelle
Non c’è molto da dire su questo brano, se non che per fortuna i Baustelle sono tornati a fare i Baustelle rock folk, con un brano dal significato quasi esistenziale. La canzone tratta del difficile processo di imparare a lasciar andare, di abbandonare la frenesia che ci spinge a vivere le giornate sempre di corsa, accettando la nostra mortalità. Il tutto è accompagnato da un ritmo incalzante che richiama i “vecchi” Baustelle di “Charlie fa surf”, con quella miscela unica di introspezione ed energia. Un ritorno alle origini, che sa essere riflessivo e al tempo stesso potente.
Voto: 28/30
“Sigarette” – Lucio Corsi
Se Zeno Cosini fosse vivo, “Sigarette” sarebbe la sua canzone. Lucio Corsi, invece, come un Philippe Delerm contemporaneo, riesce a rendere piccoli momenti quotidiani delle poesie degne di tutta l’attenzione possibile. Infatti, il momento della sigaretta diventa un pretesto per una riflessione esistenziale, dove ogni boccata scandisce il ritmo dei pensieri tra desiderio e nostalgia. La melodia degli archi, delicata e avvolgente, alleggerisce il testo e lascia spazio a una profondità che (come per ogni brano di Corsi) non si può ignorare.
Voto: 29/30
“Buio” – Eugenio in Via Di Gioia
“Buio” è il singolo con cui gli Eugenio hanno lanciato il loro nuovo album, L’amore è tutto. Dopo dieci anni di carriera, la band ha deciso di portare un tema nuovo e inaspettato: l’amore. Sebbene il gruppo sia conosciuto per le canzoni impegnate socialmente, in questo album si affronta l’amore in modo furbo. A primo impatto, infatti, le canzoni potrebbero sembrare semplici ballate romantiche, ma leggendo tra le righe si scoprono temi più profondi. “Buio” ne è un perfetto esempio: sembra una canzone che parla della mancanza della propria metà, ma in realtà racconta di alienazione, solitudine e delle difficoltà nel costruire relazioni profonde. Un giro di pianoforte ad libitum, un quartetto d’archi e un contrappunto vocale rafforzano il pensiero ossessivo e opprimente espresso dal testo, dove la distanza emotiva sembra difficile da colmare.
Voto: 27/30
“Mangia la mela” – Erica Mou e Carolina Bubbico
“Mangia la mela” è la prima collaborazione tra le due artiste ed è dedicata alle loro figlie, ma anche a tutte le donne di oggi e di domani. Il testo parla di empowerment femminile e di disobbedienza delle imposizioni sociali. Invita le donne a mangiare la mela, appunto, come aveva fatto Eva in un atto di autodeterminazione e non di peccato. La produzione, molto fresca, si avvicina a una salsa donando al brano un carattere irriverente e frizzante, che si sposa benissimo con il significato del testo. Un inno alla ribellione e un invito a riscrivere le proprie regole.
Voto 28/30
“scs” – Crookers e okgiorgio
Questo singolo è tutta una presabene e anche se non hai la presabene a forza di muovere la testa a ritmo di elettronica-techno-house, ti viene.
Avvertenze: in un attimo potreste passare dalla leggerezza all’ingorgo interminabile di pensieri aggrovigliati, ma fa parte del gioco, a quanto pare.
Voto: 29/30
“Reptile Strut” – Calibro 35
I Calibro 35 con “Reptile Strut” annunciano il loro nono album in uscita a giugno. La band ha spiegato, in merito, che «Il ramarro è un sauro dal colore verde acceso, rapidissimo nei movimenti, ha un incedere scattante e cambia spesso il passo. Per questo è difficile catturarlo. Reptile Strut parte da queste premesse». Il brano, in effetti, spazia dal jazz al rock, per passare al funk, ha una continua interazione tra i vari strumenti e un groove di basso che rimane ben piantato nelle orecchie.
Voto: 25/30
“Picón” – Populous
Populous campiona la ghiaia vulcanica in alcune zone di Lanzarote per trasformarla nella parte percussiva del brano. Il singolo, che preannuncia l’uscita di Isla Diferente, il nuovo album del producer pugliese, vuole far scoprire Lanzarote dal punto di vista sonoro. “Picón”porta con sé un’energia cosmica potentissima, mistica ed esoterica, che riesce a evocare la forza primitiva e quasi sacrale della natura dell’isola.
Voto: 29/30
“Your Name Forever” – MGK
In “Your Name Forever”, MGK rende un emozionante tributo a Dingo, un amico che è venuto a mancare prematuramente. Il brano si distingue per un sound che alterna strofe rappate a ritornelli energici, di chiara ispirazione rock e metal anni 2000. A rendere ancora più potente questa dedica, MGK è affiancato da alcuni amici di Dingo, tra cui M. Shadows e la chitarra di Synyster Gates, entrambi degli Avenged Sevenfold, Oli Sykes dei Bring Me The Horizon, Mod Sun.
Voto: 24/30
“Morto a galla” – Carl Brave
Carl Brave sta ormai a Roma esattamente come il Colosseo, il maritozzo e i sampietrini che definiscono l’identità della città e raccontano la storia della capitale. È la voce che narra le sue strade, i suoi angoli, le sue luci e ombre. E proprio le ombre di Roma emergono da “Morto a galla”, che racconta di una città ipocrita e immorale. Il contrappunto delle strofe rap e del ritornello ritmato e orecchiabile, cifra stilistica del cantautore, lo riportano in pista, riportando noi che lo ascoltiamo agli anni d’oro dell’indie italiano.
Voto: 26/30
“Sogni” – I Patagarri
La band, con il sound che richiama la Parigi degli anni ’20, in questo brano si chiede quali siano i sogni di chiunque, soprattutto di personalità socialmente controverse, tra cui fascisti, ladri e terroristi. In un pienone di archi, fiati e percussioni sincopate, che accentuano il carattere scanzonato e ironico della band, il brano si trasforma in un’affermazione universale: alla fine, tutti sognano (anche se a volte sembra impossibile ricordare cosa si è sognato al risveglio). I sogni, in questa canzone, diventano l’elemento che annulla le differenze tra buoni e cattivi, tra persone comuni e straordinarie, mettendo in luce l’umanità condivisa che ci accomuna.
Nella serata del 24 marzo la Filarmonica TRT ha proposto sul palco del Teatro Regio un programma raffinato e avvincente, con un ospite, Fabio Biondi, che ha offerto un’esperienza intensa, nelle vesti sia di direttore, sia di solista. Biondi è il Fondatore di Europa Galante, un ensemble italiano che grazie ad un’intensa attività concertistica ha ottenuto fama e riconoscimenti a livello internazionale.
Al momento dell’ingresso in sala il pubblico ha trovato l’orchestra già sistemata sul palco, con i musicisti che accordavano i loro strumenti, rivedevano qualche passaggio impegnativo, o riordinavano le parti. Tutto molto naturale: un ingresso all’americana, utile per far mettere il pubblico a più stretto contatto con l’orchestra. La sala in poco tempo si è riempita totalmente.
Allo spegnimento completo delle luci entra il primo violino che fa accordare gli orchestrali, per poi far entrare il direttore Biondi. Il concerto inizia con l’Overture in do maggiore, op. 24 di Fanny Mendelssohn, un tenero omaggio a una compositrice che dovette usare la musica solo come ornamento della sua vita: le convenzioni sociali dell’epoca non le permisero di intraprendere una carriera da compositrice. L’attacco è stato molto dolce: fin dalle prime note si è colta tutta la finezza di questo direttore, ma anche la bravura del primo violino, che è riuscito, nell’inizio di questa Overture, a ‘trainare’ per qualche secondo i violini che stavano rallentando. Biondi unisce controllo e scioltezza: tiene d’occhio tutti (perfino i contrabassi, che di solito vengono praticamente ignorati!), e molleggia a tempo, trasmettendo tutta la propria energia.
Foto da gallery di «Europa Galante»
Conclusa l’Overture, il direttore esce, seguito dai fiati, per poi rientrare da solo con il suo violino, per suonare da solista il Concerto in re minore per violino e archi, MWV 03 di Felix Mendelssohn-Bartholdy (lui sì che, a differenza della sorella, poté dedicare tutta la propria vita alla musica!). Inusuale scegliere questo concerto rispetto a quello in mi minore op. 64, spesso eseguito anche per concorsi e recital solistici; ma questa scelta è piaciuta molto, proprio perché è più raro ascoltarlo. Fabio Biondi con l’archetto dà il via all’orchestra, che esegue la piccola introduzione dell’Allegro: è sempre bello sentire gli archi uniti che danno corposità al movimento, e anche qui nella dolcezza della sua entrata si percepisce come Biondi si sia perfettamente sintonizzato con il mondo sonoro ed espressivo del compositore.
La nota dolente di questo concerto è stato il pubblico: non preparato, non “educato” ai concerti sinfonici. Applaudendo a sproposito dopo ogni movimento ha rotto la concentrazione del solista, che infatti nel secondo tempo non ha dato il massimo come prima. Il concerto è comunque proseguito, ovviamente, e si è notata la perfetta intesa fra Biondi e l’orchestra che lo ha ospitato, un’intesa che traspariva dal gioco di sguardi, dalla direzione sempre precisa impartita con i movimenti del corpo e dell’archetto, e perfino dal suo avvicinarsi ai leggii delle prime file per dare gli attacchi con ancora più chiarezza. Alla fine dei tre movimenti il pubblico scoppia in un applauso (finalmente al momento giusto!), e Biondi si volta a godersi i battimani. Nella breve pausa prima della seconda parte del concerto, va detto, il pubblico dà nuovamente il meglio di sé: cosa mai vorrà dire l’abbassarsi delle luci, se non che bisogna tornare ai propri posti, ma soprattutto fare silenzio?
Foto da gallery di «Europa Galante»
La chiusura del concerto è affidata alla Sinfonia n°6 in fa maggiore op. 68 “Pastorale” di Ludwig Van Beethoven, una delle sue opere più evocative. Avevo grandi aspettative per questa parte del programma, e devo dire che sono state più che soddisfatte. Tutta l’orchestra era perfettamente connessa: impeccabili nelle dinamiche, hanno fatto sentire benissimo ogni singola sfumatura di crescendo, invitandoci a entrare nel paesaggio sonoro beethoveniano con “un’espressione di sentimenti” che ha fatto commuovere.
(Purtroppo ci risiamo, con una parte del pubblico che rompe l’incanto applaudendo dopo il primo movimento: qualcuno però intima il silenzio, e forse stavolta il messaggio arriva a destinazione…).
La sinfonia procede in modo eccellente: davvero bello vedere come il direttore e l’orchestra fossero fusi insieme. Biondi imperversa: balza sul posto, incita le viole, e porta la serata a una conclusione trionfale. Nessun bis, purtroppo, probabilmente per la grande concentrazione che questo programma ha richiesto. In ogni caso, nonostante le piccole disavventure con il pubblico, è stato un concerto memorabile: vedere un musicista che combina ai massimi livelli il ruolo di direttore e quello di solista è sempre un’esperienza speciale!
“Puzzolente” non è l’aggettivo più comune per descrivere una composizione musicale, ma fu proprio così che il celebre musicologo Eduard Hanslick descrisse il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op.35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1878) dopo aver assistito alla prima esecuzione viennese nel 1881. L’opera in questione ha inaugurato la serata del 20 marzo 2025 all’Auditorium “Arturo Toscanini” di Torino: sul palco a dirigere l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai, per la terza volta quest’anno, Robert Treviño e, al violino solista, un entusiasmante Augustin Hadelich. A seguire l’orchestra ha eseguito la Sinfonia n°2 in mi♭ maggiore, op.63 di Edward Elgar: sinfonia composta nel 1911 ma non molto conosciuta, tanto che l’Orchestra Rai (allora ancora Orchestra Sinfonica di Torino della Radio Italiana) non la eseguiva dal lontano 22 maggio 1953.
Il Concerto in re maggiore op.35, è l’unico concerto per violino e orchestra di Čajkovskij. Questa composizione non ebbe un facile lancio: stroncata dai critici appunto come Hanslick, la consideravano musica rozza, vede il violino quasi provare a contorcersi per esprimere emozioni intense attraverso suoni non prettamente puri e puliti. Oggi questa caratteristica, tanto criticata all’epoca, viene considerata proprio come un tratto distintivo e di grande interesse dell’opera. Oltre a problemi con la critica, il compositore russo ebbe difficoltà a trovare un interprete solista che accettasse il lavoro. Dopo molti rifiuti da parte di grandi violinisti del calibro di Josif Kotek, Čajkovskij riuscì, nel 1881, a fare eseguire la composizione da un giovane Adol’f Brodskij.
Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Se i rifiuti da parte di molti violinisti dell’epoca furono dovuti anche alla difficoltà tecnica del concerto, Hadelich non ne è sembrato per nulla intimidito: ci ha regalato, anzi, un’interpretazione magistrale, con tecnica impeccabile e un suono ammaliante. Alla fine dell’esecuzione, la sua bravura ha scatenato uno scroscio di applausi entusiasti. E così Hadelich ha imbracciato nuovamente lo strumento per eseguire, fuori programma, “Por una Cabeza”, un tango di Carlos Gardel in una versione per violino solo che ha realizzato lui stesso.
Dopo la pausa il concerto riprende con la Seconda di Elgar (1911): meno celebre della sua Prima sinfonia, si articola in quattro movimenti (Allegro vivace e nobilmente, Larghetto, Rondò, Moderato e maestoso) che cercano un equilibrio tra tradizione e innovazione. La sinfonia si sviluppa così in un arco espressivo ampio, che viaggia dal romanticismo alle sperimentazioni novecentesche trasmettendo sbalzi emotivi e sentimenti profondi, ma con i suoi 53 minuti può talvolta risultare alquanto impegnativo per l’ascoltatore. L’interpretazione di Robert Treviño ne enfatizza la complessità, restituendo i contrasti tra lirismo e drammaticità tipici del compositore.
Foto di DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Il concerto ha insomma unito capolavori riscoperti e talenti contemporanei, dimostrando come la musica possa ribaltare i giudizi del passato. Per chi se lo fosse perso, è stato registrato e trasmesso in diretta su Rai Radio 3 per Il Cartellone di Radio 3 Suite, quindi è disponibile su RaiPlay Sound. Inoltre la serata è stata ripresa per Rai Cultura e sarà trasmessa il 22 maggio 2025 su Rai 5.
È iniziato, giovedì 20 marzo presso lo sPAZIO211, il nuovo tour di Claudio Domestico, alias GNUT. Il cantautore napoletano sceglie Torino come luogo di debutto del suo ultimo progetto live, caratterizzato da un trio composto dalla chitarra del cantante e da una coppia d’archi, suonati da Marco Sica (violino) e Mattia Boschi (violoncello).
L’artista, con il piccolo ensemble, ripercorre la sua carriera mantenendo il focus sul suo stile legato al folk anglofono attraverso arrangiamenti che ampliano l’ambiente sonoro con i temi lenti e i numerosi pizzicati sviluppati dai due archi.
Questi si mantengono distanti dall’impronta classica e creano un “non-luogo”, dove il pubblico può seguire i passi da ballad tracciati dal trio strumentale, che accompagna GNUT nel suo tragitto autoriale.
Il percorso definito rimane fedele a se stesso, in una coerenza che non è solo sonora ma che è anche garantita dal tema universale dell’amore: amore che viene messo sotto la lente d’ingrandimento, e che GNUT indaga nella sua molteplicità.
È quello spensierato in “Se cucini tu” e in “Semplice”, malinconico in “Dimmi cosa resta”, quello da dimenticare e da abbandonare centrale in “Luntano ‘a te”, ultimo inedito pubblicato a febbraio, nel quale GNUT si mette a nudo e racconta della sua personale esperienza con un «amore tossico che – dice il cantante – mi ha sconvolto».
La libertà espressiva di GNUT, oltre alla scelta del trio sul palco, si vede anche nel modo in cui alterna canzoni in italiano e in napoletano. Ogni lingua porta con sé un’emozione diversa, e GNUT sa come usarla per raccontare le sue storie in modo autentico. Non è solo una questione di parole, ma di sensazioni che si mescolano e prendono vita, in modo unico ma al contempo universale.
Foto da cartella stampa
Durante un momento strumentale apparentemente transitorio GNUT cattura l’attenzione degli ascoltatori emettendo con la sua voce un suono soffiato simile a un flauto, sollevando gli occhi dagli schermi di chi dopo un’ora di live iniziava a sentirsi, evidentemente, affaticato. Il suono, lontano e misterioso, ha creato un’atmosfera rituale, richiamando tutti i presenti in uno spazio fuori dal tempo.
E poi, c’è stato il momento finale con “Nu poco ‘e bene”, la canzone che tutti conoscono e che il pubblico ha cantato in coro, in un momento comunitario e intimo che ha fatto da perfetta chiusura alla serata.
Un live che ha dimostrato, ancora una volta, come la musica di GNUT sappia toccare le corde più profonde dell’animo umano, mescolando folk, emozioni e parole in un viaggio che promette di continuare a incantare nelle prossime tappe del tour.
In occasione della conferenza stampa per la presentazione della nuova edizione del Torino Jazz Festival 2025 dal motto “libera la musica”, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Zenni, direttore artistico del festival.
Foto da cartella stampa
Arrivato a questa edizione al TJF come direttore artistico, è cambiato qualcosa nel suo approccio sia in ambito curatoriale che nei confronti delle istituzioni della città di Torino?
È una domanda interessante. Col passare del tempo, le persone tendono a maturare e la loro conoscenza della musica si approfondisce. Si inizia a scoprire aspetti che prima non si conoscevano, e man mano che il Festival si consolida, cresce anche la fiducia reciproca.
Questo processo facilita il dialogo con i musicisti, il che è fondamentale. La maturazione generale aiuta molto, permettendo di lavorare su un raggio d’azione molto più ampio, su orizzonti più vasti.
Dal punto di vista delle istituzioni, ho la fortuna di collaborare con la Fondazione per la Cultura di Torino, che è l’ente responsabile dell’organizzazione del Festival. All’interno di essa ci sono tutte le persone che si occupano della realizzazione dell’evento. Pertanto, lavoro direttamente con la Fondazione e con i suoi membri, che sono persone straordinarie. Non potrei dire altro.
L’interazione è sempre fluida, senza attriti. Certamente, ci sono delle problematiche che emergono, ma vengono affrontate e discusse.
Tuttavia, ciò che caratterizza davvero il nostro lavoro insieme è il piacere di creare e realizzare qualcosa di importante in modo condiviso.
Quali sono i dettagli che un fruitore di jazz fermo al solo ascolto delle registrazioni, potrebbe perdersi in un live? e ci sono aspetti che secondo lei dal vivo emergono più in un concerto jazz che in qualsiasi altro concerto di musica pop o classica?
La musica va ascoltata dal vivo, sempre. Viviamo nell’epoca della riproduzione da circa centocinquant’anni, ma per 100.000 o addirittura 200.000 anni, da quando siamo una specie culturale, la musica è sempre stata un’esperienza condivisa, fatta con le persone in presenza, un termine che in realtà non dovremmo nemmeno usare, perché “in presenza” è un concetto superfluo, perché d’altronde siamo sempre presenti.
Un Festival rappresenta l’occasione di vivere insieme questa esperienza, di vivere la musica non in solitudine con una cuffia, ma di condividerla fisicamente, percependo la vibrazione diretta. Perché la musica è composta da onde, onde sonore che partono da uno strumento o da un corpo e arrivano fino al nostro.
È un’esperienza straordinaria, una comunicazione che avviene fra corpi, trasmessa attraverso la vibrazione dell’aria.
La scelta di convergere maggiormente su nuove produzioni inedite da cosa nasce?
Un Festival ha una vocazione ben precisa: da un lato, è chiamato a presentare la musica che circola, dall’altro, ha anche la missione di offrire ai musicisti l’opportunità di esprimersi. Il Festival fornisce i mezzi economici e logistici necessari per permettere loro di dare vita a idee nuove; allo stesso tempo, è fondamentale che offra al pubblico l’opportunità di scoprire cose che prima non esistevano.
Oggi ci sono anche bandi di supporto, come nel caso del gruppo di Zoe Pia che presenteremo, il quale ha vinto un bando SIAE. Quindi, il progetto nasce grazie a un sostegno economico pubblico, ma, sostanzialmente, questo è ciò che un Festival dovrebbe fare: dare opportunità sia ai musicisti che al pubblico, muovendosi attraverso una logica culturale precisa.
Non si tratta di “cose a caso”, ma di un programma pensato con una visione culturale chiara e significativa.
Le collaborazioni con Jazz Is Dead e i club della città sono un chiaro segnale di promozione del territorio urbano e verso i giovani. Perché ritiene utile espandere il jazz su questi due livelli specifici?
In linea di massima, non ha alcun senso che un’istituzione si isoli, come se fosse l’unica a fare le cose nel mondo. Una posizione del genere è sterile, non porta da nessuna parte.
È sterile per il Festival, che non cresce senza un dialogo continuo. È sterile per il pubblico, che si trova davanti a un muro. È sterile per i musicisti, che non possono esprimersi in un contesto vivo e dinamico. E, in ultima analisi, è sterile per la città stessa.
Credo che qualsiasi istituzione, soprattutto un Festival, debba, per vocazione e per sua natura, dialogare con altre realtà, senza pregiudizi. Perché sono dal confronto e dalla condivisione che nascono le idee.
Questo vale per tutte le età: per i giovani, ma anche per le persone più mature, che magari devono essere incoraggiate a uscire di casa, a entrare in contatto con qualcosa di nuovo. Al contrario, i giovani hanno già la tendenza ad uscire, a cercare esperienze diverse.
Il Festival, dunque, dovrebbe essere qualcosa di fluido, che si espande negli spazi della città, che in qualche modo invade ogni angolo e diventa parte della vita quotidiana. Mi piace immaginarlo come una piscina: ti trovi a nuotare in essa e poi decidi tu dove andare, dove goderti l’esperienza. L’importante è che ci sia un dialogo continuo, perché è nel confronto con gli altri che nascono le idee migliori.
Che cosa cerca maggiormente negli artisti che contatta per il festival?
La qualità è fondamentale. La qualità e la capacità di suscitare emozioni negli ascoltatori.
Per me, l’idea centrale è che l’artista ti porti in luoghi inaspettati, che ti faccia vivere esperienze nuove, cambiandoti emotivamente e culturalmente. L’artista esprime le sue idee, e queste idee entrano in dialogo con le mie. Così, sia l’artista che l’ascoltatore, attraverso questo scambio, cambiano. Ogni volta che scelgo un artista, per ogni singolo artista che invito, mi chiedo sempre quale effetto avrà sul pubblico, incluso me stesso, che sono anch’io parte del pubblico.
Se l’effetto dell’esperienza è quello di toccare qualcosa di profondo, di scoprire un nervo scoperto, o anche semplicemente qualcosa che è in superficie ma che ti costringe a guardare le cose sotto una luce diversa, allora quell’artista è giusto per il Festival. In sostanza, deve essere capace di suscitare una reazione, di spingere a vedere o sentire il mondo in un modo nuovo.
C’è qualche artista che avrebbe voluto venisse quest’anno ma che non ha potuto portare?
Ci sono per esempio dei cantanti importanti come Kurt Ellings, Cécile McLorin Salvant, che non sono riuscito ancora a portare a Torino per problemi logistici legati al Tour. Inoltre, mi piacerebbe portare al festival anche il chitarrista Bill Frisell. Altri artisti invece, sono molto sfuggenti, ma con un po’ di pazienza si riesce a convincerli. Jason Moran ne è un esempio. L’ho raggiunto a un suo concerto e gli ho parlato del Festival, e alla fine sono riuscito a portarlo quest’anno a Torino.
Se dovesse consigliare degli artisti a un pubblico giovane e inesperto per farli avvicinare al jazz quali sarebbero?
Innanzitutto, credo che la prima cosa sia coltivare la curiosità verso ciò che non si conosce. Personalmente, sono un fermo oppositore degli algoritmi di Spotify o YouTube, perché ti spingono a conoscere solo ciò che già conosci. Quindi il mio consiglio è: parla con qualcuno che ascolta jazz o musica che tu non conosci, e lasciati guidare dalla sua esperienza.
Poi, inizia a esplorare e scopri cosa ti piace.
Certo, se ti avventuri nei capolavori, non solo quelli classici del passato, ma anche quelli del presente, di musicisti contemporanei che producono musica di altissimo livello, non sbagli.
In ogni caso, finirai per trovarti di fronte a qualcosa di validissimo, riconosciuto come tale. Naturalmente, alcune cose ti piaceranno di più, altre di meno, ma invece di seguire l’algoritmo, meglio seguire i consigli di qualcuno che ti invita a scoprire mondi che non avresti mai immaginato. È un modo per uscire dalla tua zona di comfort e aprirsi a nuove esperienze musicali.
Il Torino Jazz Festival torna nel 2025 con la sua XIII edizione, portando con sé tutta l’energia del jazz live nelle sue forme più varie, promuovendo nuovamente l’idea originale, come ha ricordato in conferenza stampa il sindaco Lorusso, del compianto ex assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe. Sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, il festival si svolgerà dal 23 al 30 aprile, anticipato da un’anteprima diffusa nei jazz club torinesi dal 15 al 22 aprile. Quest’anno, il tema scelto è un invito chiaro e potente: “Libera la musica” un’esortazione a superare i confini dei generi e a lasciar fluire le contaminazioni, oltre che a ricondurci alla mente l’80° anniversario della Liberazione.
Una città che risuona di jazz
Otto giorni di programmazione, 71 concerti, 289 artisti e 58 luoghi sparsi per Torino: il TJF 2025 non ha un centro, ma si espande ovunque, dalle sale prestigiose come l’Auditorium Giovanni Agnelli e il Teatro Colosseo ai club indipendenti come l’Hiroshima Mon Amour e il Magazzino sul Po. Ogni parte della città fa da palco per gli artisti, ponendo una forte attenzione ai giovani che per il direttore artistico devono avere il loro spazio nei main stage «per dar loro stessa dignità, stesso spazio e stessa importanza», sottolineando a proposito che «solitamente, purtroppo, i giovani hanno il loro palco separato, il loro ghetto».
Il festival si articola in diverse sezioni: i Main Events, con artisti di calibro internazionale, e il Jazz Cl(h)ub, che anima i 19 club coinvolti sul territorio di Torino attraverso 26 concerti. E poi ci sono le incursioni urbane dei Jazz Blitz, tanto desiderati e promossi da Zenni, che portano la musica là dove spesso la musica non riesce ad arrivare: scuole, ospedali, case circondariali, carceri. Altri incontri interessanti sono i Jazz Talks, che offrono spazio a dialoghi e riflessioni in collaborazione con il Salone OFF.
Foto da cartella stampa
Voci, strumenti e incontri
Il TJF 2025 apre il sipario il 23 aprile al Teatro Juvarra con uno spettacolo che intreccia poesia e ritmo: Domenico Brancale e Roberto Dani daranno vita a un dialogo tra parola e percussione. La stessa sera, al Teatro Colosseo, Enrico Rava e il suo quintetto Fearless Five saranno protagonisti di un’esibizione che sarà accompagnata dalla consegna al trombettista torinese della targa Torri Palatine della Città di Torino, un riconoscimento alla sua carriera internazionale e al legame con la scena jazz locale.
Il cartellone prosegue con i Calibro 35 e il loro progetto Jazzploitation (24 aprile), un tuffo nelle colonne sonore italiane della golden age, e con Vijay Iyer, che il 25 aprile porterà sul palco del Conservatorio Giuseppe Verdi il suo Piano Solo. Il 28 aprile sarà la volta del Koro Almost BrassQuintet, che rileggerà Kurt Weill in Lonely House. Gran finale il 30 aprile con Il Big Bang del Jazz di Jason Moran e la TJF All Stars: un viaggio musicale che rievoca la storia di James Reese Europe e degli Harlem Hellfighters, rimescolando blues, ragtime e sonorità contemporanee.
25 Aprile a tutto ballo
Il TJF non dimentica le sue radici. Il 25 aprile, in occasione dell’80º anniversario della Liberazione, si terràIl ballo della Liberazione al MAUTO: un duello musicale tra le big band di Gianpaolo Petrini e Valerio Signetto, richiamando le sfide swing dell’Harlem degli anni ’30.
Ma il festival guarda anche avanti, sostenendo la candidatura di Torino a Capitale Europea della Cultura 2033 con eventi come il Jang Bang Sextet “Alighting” all’Hiroshima Mon Amour, una produzione originale TJF che unisce tradizione e sperimentazione.
Vivi il TJF 2025
Il segretario generale della Fondazione per la Cultura Torino, Alessandro Isaia, ci tiene a premere sul valore inclusivo del festival, che traspare dal costo contenuto dei biglietti e dai numerosi eventi gratuiti. Biglietti che saranno disponibili dall’11 marzo su torinojazzfestival.it. Inoltre per i nati dal 2011, ogni concerto costerà solo 1 euro. Sarà possibile acquistarli anche direttamente nei luoghi degli spettacoli, fino a esaurimento posti.
Stefano Zenni, in conclusione, invita a tuffarsi di testa nella ricchezza del programma, tenendo presente che il jazz non è solo uno, ma ce ne sono mille, e a Torino questi “mille” saranno tutti presenti.
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Il 9 marzo 2025, al Teatro Fonderie Limone di Moncalieri, la musica d’autore ha trovato il suo palcoscenico ideale con la serata finale della Quinta edizione del Premio Testa – Parole e Musica. Un evento intenso e ricco di emozioni, che ha visto giovani talenti omaggiare l’indimenticabile cantautore Gianmaria Testa, attraverso esibizioni originali e reinterpretazioni vibranti, sotto lo sguardo attento di una giuria prestigiosa e accompagnati da ospiti d’eccezione: Stefano Bollani e Valentina Cenni. La serata prevedeva la consegna di due premi: il premio Testa per la miglior canzone inedita e il premio per la miglior esecuzione di un brano di Testa selezionata da una giuria autorevole diretta da Eugenio Bennato.
A dare inizio alle esibizioni è stato Manuel Apice,cantautore liguregià vincitore di premi come il Fabrizio De André o il Bindi. Per inaugurare la serata ci presenta prima una cover del brano “Biancaluna” di Testa che dà il via alle esibizioni. A seguire Alessandro Sipolo, artista lombardo spesso in viaggio per il mondo, fa riemergere uno stile musicale che ci trasporta nel continente americano da nord a sud: un vero e proprio viaggio musicale estremamente coinvolgente. ll terzo cantautore presentato è Fabio Schember, classe ‘98, ci presenta delle interpretazioni tipicamente Mediterranee. Con l’uso di strumenti come l’oud turco o i tamburi muti propone una fusione tra la musica delle sponde nord del mediterraneo con quelle del sud-est, ricreando sonorità veramente interessanti. Alessio Alì, cantautore calabrese, è il più giovane tra i candidati e predilige la semplicità rispetto alla ricerca musicale presente nei cantautori precedenti, caratteristica che lo accomuna con l’ultimo candidato: Mizio Vilardi, unico artista ad esibirsi senza band, accompagnato solo dalla sua chitarra. Omaggia le sue origini pugliesi cantando metà in italiano e metà in dialetto molfettese.
Foto dal profilo Instagram @premiogianmariatesta , foto di Elisabetta Canavero
Dopo le esibizioni dei finalisti, la giuria si è riunita per decretare i vincitori, mentre il pubblico attendeva con trepidazione. A intrattenere gli spettatori è arrivato Stefano Bollani (che ha collaborato con Gianmaria Testa nel celebre spettacolo Guarda che luna) accompagnato dalla sua compagna Valentina Cenni. La loro performance ha preso avvio riprendendo lo stile della trasmissione Via dei matti n. 0, presentando reinterpretazioni di canzoni di Testa e altri brani internazionali, tutti legati alla sua vita. Le esibizioni di Bollani, intervallate da momenti di pura improvvisazione pianistica jazz, hanno messo in luce la sua straordinaria abilità al pianoforte, permettendo al musicista di esprimersi liberamente. Per concludere, Bollani e Cenni hanno omaggiato le origini piemontesi di Gianmaria Testa con “La mia mama a veul ch’i fila”, una canzone ironica che ha suscitato ilarità e applausi entusiasti dal pubblico.
La serata finale del Premio Testa si è conclusa in un’atmosfera di festa e celebrazione, con i vincitori che hanno portato a casa il riconoscimento per il loro talento e la loro creatività. Mizio Vilardi, con la sua originale interpretazione di “Nuovo” tradotta per metà in dialetto molfettese, ha conquistato il premio per la miglior cover, mentre Alessio Alì ha brillato con la sua canzone inedita, “Paura di cambiare”, aggiudicandosi il premio principale.
Foto dal profilo Instagram @premiogianmariatesta , foto di Elisabetta Canavero
Il presidente di giuria, Eugenio Bennato, ha chiuso l’evento con due brani che hanno riempito il teatro di energia e ritmo con “Il mondo corre” e il celeberrimo “Ritmo di contrabbando”, salutando il pubblico a ritmo di taranta. Questa edizione del Premio Gianmaria Testa non solo ha messo in luce nuovi talenti, ma ha anche reso omaggio a un grande artista che continua a ispirare generazioni. La serata si è rivelata un successo, promettendo un futuro luminoso per la musica d’autore italiana.
Sabato 8 marzo, si è tenuta al Teatro Vittoria l’ultima lezione-concerto“Solo per le tue orecchie”, un progetto interattivo pensato per guidare un pubblico di appassionati verso un ascolto più consapevole della musica classica. Matteo Borsarelli e Eugenio Catale (al pianoforte e al violoncello) sono stati gli interpreti della serata, insieme ad Antonio Valentino, docente al Conservatorio Verdi di Torino e direttore artistico di Unione Musicale. Valentino, con la sua competenza tecnica e storica, ha illustrato le particolarità di compositori che hanno assorbito le tradizioni musicali della loro terra trasformandole in musica colta. Il programma è stato suddiviso in tre sezioni: le Danze popolari rumene di Béla Bartók, la Suite Italienne di Igor’ Stravinskij e Le Grand Tango di Astor Piazzolla.
Foto da ufficio stampa Unione Musicale
Valentino ha dapprima introdotto Béla Bartók, compositore ungherese, pioniere dell’etnomusicologia che realizzò una quantità incredibile di raccolte di musiche popolari soprattutto della Transilvania. Le Danze popolari rumene sono suddivise in sei danze, caratterizzate da tratti peculiari che Valentino ha descritto dando chiare spiegazioni tecniche, affiancate dagli esempi musicali dei due interpreti.
La prima, La Danza del Bastone, ha un ritmo fortemente irregolare. Il nome proviene da una danza tradizionale eseguita da uomini con un bastone in mano che si sfidavano in movimenti coreografici. Segue La Danza della Fascia, di origine serba, in cui la pulsazione regolare del pianoforte si mantiene mentre il tempo si fa più brillante. La terza danza è La Danza sul Posto: il movimento dei ballerini infatti è particolarmente limitato, perciò il suono del pianoforte diventa ipnotico e statico, mentre il violoncello si inserisce con piccole fioriture arabeggianti. La quarta danza è detta LaDanza del Corno ed è di stampo tradizionale e pastorale, con un carattere lirico e contemplativo. La quinta danza è una polka, danza tradizionale polacca che qui assume un carattere allegro e spensierato. La danza conclusiva risulta inizialmente lenta per poi diventare più rapida e affine alla danza precedente. Dopo aver suonato degli estratti per integrare le spiegazioni del relatore, Borsarelli e Catale hanno eseguito per intero le Danze popolari rumene, con qualche applauso nel mezzo e una grande ovazione finale.
La seconda parte della serata è stata dedicata a Igor’ Stravinskij, compositore che per la prima parte della sua carriera si dedicò alla composizione di brani per balletti sotto ingaggio di Sergei Diaghilev, impresario che rese noti i Balletti Russi a Parigi. Ne nacquero capolavori come L’uccello di fuoco, Petrushka e La sagra della primavera (quest’ultima fece scalpore per la sua modernità ‘primitiva’).
La Suite Italienne proviene dalla tradizione della musica antica italiana, in particolare dalle opere di Pergolesi, che portarono Stravinskij a un nuovo periodo stilistico, caratterizzato da una sperimentazione basata, fra altre cose, su un utilizzo apparentemente incongruo degli strumenti.
L’estratto è estrapolato dalla Serenata, seguito dall’Aria e dalla Tarantella. La rapidità del pianoforte nella Serenata rimanda al mandolino mentre il violoncello riprende le sonorità tipiche del tamburello. L’Aria è un brano molto brillante che Stravinskij comincia con una serie di pizzicati massicci che evocano un senso di ruvidità, per poi passare al tipico suono dell’arco. L’ultimo brano è la Tarantella ed è particolarmente complesso in quanto caratterizzato da un estremo virtuosismo. L’esibizione colpisce gli spettatori ipnotizzandoli e termina con qualche esclamazione relativa alla bravura dei due interpreti.
La lezione-concerto si conclude con Le grand Tango di Piazzolla, il quale reinventò il tango in chiave colta e contemporanea. Valentino ha spiegato come il tango sia sorto a fine Ottocento tra la capitale dell’Argentina, Buenos Aires, e quella dell’Uruguay, Montevideo, due città molto vicine unite dal Rio de la Plata. Il genere aveva radici profonde nel ceto popolare portuale e veniva ballato soprattutto nei bordelli, per cui suscitò fin da subito scandalo.
Il brano è eseguito secondo la versione originale, senza necessità di arrangiamenti. Piazzolla, per mantenere alto l’interesse, trasforma la ripartizione binaria tipica del tango in una suddivisione più intrigante e frammentata, la quale viene diretta dal pianoforte e seguita dal violoncello, che si unisce seguendone il ritmo oscillatorio. Durante l’esecuzione, il ritmo ossessivo tiene agganciato il pubblico, soprattutto nel finale, quando diventa sempre più tormentato, strappando un grande applauso, seguito da un’acclamazione collettiva.
La sesta lezione-concerto giunge al termine. Dopo un paio di domande relative all’esibizione, assistiamo alla conclusione, per quest’anno, del progetto “Solo per le tue orecchie” che, giunto alla terza edizione, è apprezzato più che mai.
Il 7 marzo lo Ziggy Club ospita nuovamente, dopo sole due settimane dall’ultima serata, un concerto organizzato da Turin Moving Parts. Le porte aprono alle 21:00 ma per la prima ora e mezza non c’è musica: il pubblico arriva poco alla volta riempiendo la sala di volti noti e nuovi.
Alle 22:45 iniziano i Distorsione Armonica Totale(DAT), che unendo screamo a rap e trap portano qualcosa di diverso da ciò che solitamente ci aspetteremmo da queste serate. Il trio è formato da un batterista, due voci e talvolta una chitarra, utilizzata nei pezzi con una strumentale più classicamente emo, alternati da altri retti da basi registrate.
Foto di Simone Cossu
La presenza di basi probabilmente ha fatto sì che il pubblico non fosse coinvolto appieno. Tuttavia, questa mancanza è stata compensata dalla sfrontata stage presence dei cantanti, uno dei quali arriva a buttarsi a terra durante l’ultimo pezzo e lanciare l’ultimo urlo accasciato ai piedi della batteria.
Foto di Simone Cossu
I Fangosberla invece rappresentano un ritorno a casa, nonostante la loro provenienza sarda: screamo, shoegaze e influenze math rock sono ciò che serviva per concludere la serata al meglio. I cinque suonano il loro recentissimo EP: Tutto è bene quel che finisce. Ci hanno fatto urlare, pogare ed emozionare, dal brano che apre l’EP, “Fango”, al brano conclusivo “Sberla”.
Foto di Simone Cossu
Degna di nota la presenza di non una, ma ben due donne nella formazione, cosa ancora troppo rara all’interno della scena ma che rappresenta un respiro di sollievo per tutte coloro che ne fanno parte.
Alla fine del set, la loro musica ci ha convinti che forse non è “tutto bene quel che finisce” e questo concerto ne è la prova.
Foto di Simone Cossu
Ancora una volta il Turin Moving Parts ci ha regalato una serata all’insegna dell’emo e dell’amore per la musica («viva la musica!», qualcuno ha gridato alla fine del set dei Fangosberla), da cui non si può che uscire soddisfatti, rimanendo in attesa della prossima serata.
«La musica contemporanea mi butta giù» cantava Battiato, criticando un sistema compositivo che separava la produzione musicale di consumo dalle sperimentazioni più estreme. Quarant’anni dopo noi viviamo in un vortice musicale che contiene tutto e di più, con sempre meno distinzioni. L’evoluzione della musica classica o colta contemporanea ne è un fatto esemplare: da decenni si scardinano le regole interne, esplorando timbri sonori anomali e strutture compositive atipiche, ma tutto questo avviene dentro istituzioni tradizionali che da tempo ormai promuovono e stimolano l’interesse verso qualcosa di diverso.
È questo il caso della rassegna Rai NuovaMusica, dedicata interamente all’esecuzioni di brani contemporanei. Il primo appuntamento di questa stagione si è svolto giovedì 6 marzo presso l’Auditorium Rai “Arturo Toscanini”:un lungo concerto dal programma variegato che ha visto sul podio il direttore francese Pascal Rophé e l’esibizione del violoncellista Mario Brunello. Il primo è un allievo di Pierre Boulez e direttore musicale dell’Orchestre national des Pays de la Loire, il secondo invece è stato il primo europeo a vincere il concorso Čaikovskij a Mosca e vanta un vasto repertorio, dal barocco al jazz.
In apertura si viene avvisati di un’inversione dell’ordine dei brani rispetto a quello indicato sul programma di sala, probabilmente dettata dai necessari cambi dell’organico orchestrale. Si inizia quindi con un brano del 2016, Dialog mit Mozart di Peter Eötvös, compositore ungherese scomparso lo scorso anno. Una sorta di intervista impossibile che punta a rielaborare frammenti di temi mozartiani in modo personale. L’esecuzione ci restituisce in modo preciso e scorrevole tutte le sottili evoluzioni di questa composizione ciclica.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Dopo una breve pausa sale sul palco Mario Brunello, che prende subito un microfono in mano e ci introduce al brano T.S.D., composto nel 2018 dal georgiano Giya Kancheli. Si rimane impietriti di fronte all’abisso e ai silenzi in cui ci immerge il suono del violoncello. Tutto si svolge lentamente, Brunello segue la sua partitura scorrere su un tablet, Rophé dirige senza bacchetta e con gesti enfatici i momenti più contemplativi e spirituali della composizione. Le accensioni sonore sono ben ponderate con frammenti più semplici e statici. Brunello conclude l’esecuzione con calma e malinconia, prendendosi tutto il tempo per abbassare l’arco prima degli applausi che incitano subito all’encore. Al secondo rientro sul palco, il violoncellista esegue il terzo movimento della Sonata per violoncellodi George Crumb, un breve saggio di tecniche esecutive non convenzionali.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Intervallo. Ritornati in sala vediamo molti più musicisti sul palco. Si passa a Gli occhi che si fermano,composizione del 2009 di Francesco Antonioni, che ascolta seduto in platea. “Canzone mononota” tutta giocata sul re in una combinazione di timbri e durate che creano quasi un effetto magico di messa a fuoco uditiva dei singoli suoni. L’energia interna viene sprigionata dall’intera orchestra in modo graduale. La direzione di Rophé è severa e marcata su ogni cambio di dinamica e ritmo. Tutto diventa metafora sonora di un viaggio che sembra infinito ma dura solo pochi minuti. Applausi ripetuti anche per Antonioni, che viene richiamato sul palco dal direttore.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Gran finale. Si aggiungono altri strumenti, tra cui chitarra elettrica, organo Hammond e cimbalon. Si chiude il cerchio ritornando al punto di partenza con Eötvöse una sua composizione del 2018, Reading Malevich: una rilettura musicale divisa in due parti, orizzontale e verticale, del quadro Composizione suprematista N° 56, realizzato nel 1916 dal pittore Kazimir Malevich. Il tempo diventa impulso sospeso, e ancora una volta Rophé è preciso nei suoi gesti, che si fanno energici nell’abbracciare ogni sfumatura timbrica e armonica. Così il concerto finisce, non con un botto ma con un lamento. Seguono numerosi applausi: il direttore viene richiamato più volte sul palco, fino a quando decide di prendere la partitura dal leggio, mostrarla al pubblico e congedarsi definitivamente.
Credits: DocServizi-SergioBertani/OSNRai
Col senno di poi l’ordine iniziale sarebbe stato più coerente per sonorità e stili compositivi, ma il risultato musicale è stato comunque di grande coinvolgimento uditivo ed emotivo. Merito di un’orchestra che si dimostra ancora una volta versatile e aperta a nuove sfide, che il pubblico accoglie con entusiasmo.
Cosa c’è di meglio di una serata a casa di amici, con la musica che si mescola al tintinnio di bicchieri e al sapore delle patatine? Probabilmente nulla!
Infatti, l’1 marzo i mezzaestate hanno trasformato una semplice serata in un’esperienza unica. Immaginate una casetta accogliente, intima, un tavolo con bevande e stuzzichini, amici, conoscenti, sconosciuti e un gatto nero che si nasconde tra amplificatori e strumenti musicali. In questo ambiente, dall’atmosfera calda, i mezzaestate si sono raccontati, condividendo il loro percorso musicale tra brani da loro composti, in versione unplugged, e alcune cover.
Il loro stile musicale sfugge a una definizione precisa: combinano generi che spaziano dal pop al rock, passando per il punk e il cantautorato italiano. Questa versatilità riflette le diverse provenienze geografiche e le esperienze di vita dei cinque ragazzi che compongono la band.
Il concerto si è trasformato in un abbraccio, un’occasione per conoscersi tra chiacchiere, risate e la magia della musica. Occasione migliore per porre qualche domanda al gruppo e conoscerlo meglio non ci poteva essere.
Questa serata ci ha dato l’opportunità di conoscervi, osservare i vostri video di backstage che avete realizzato durante le vostre sessioni di brainstorming musicale. Ci raccontate chi siete?
Stefano Calzolari:Noi siamo i mezzaestate e siamo cinque ragazzi che si sono incontrati qua a Torino a partire da background molto diversi. Principalmente ci siamo incontrati per motivi di studio: io vengo da Ferrara, Brando da Imperia, Cesare da Trani, Mattia da Lanciano e Gabriele da Torino. La cosa interessante di questo progetto è che la metà di noi ha studiato ingegneria (ride, ndr). Essendo un progetto che non ha assolutamente nulla di scientifico, abbiamo anche i nostri umanisti: Gabriele studia filosofia […] e Mattia studia al CAM.
Nonostante molti di voi siano ingegneri di “professione”, avete coltivato un animo musicale. La passione per la musica quando è nata?
Brando Ramello: Ho imbracciato la chitarra per la prima volta in quinta elementare. In casa mia c’è sempre stata musica, principalmente classica perché i miei ascoltano sempre Radio3, […] ma non l’ho mai ascoltata davvero, l’ho sempre assorbita passivamente. In casa c’è sempre stata una chitarra, […] mio papà è lo strimpellone classico che sa quattro accordi, col giro di DO ti fa tutto il repertorio italiano anni ’60. Poi ho iniziato anch’io ad appassionarmi e interessarmi alla chitarra. Ho fatto tre anni di lezione, poi ho smesso per un periodo perché non mi piaceva molto l’impostazione teorica che mi stavano dando. Ho ripreso da solo, da autodidatta, dai 15-16 anni fino ad oggi.
Mattia Caporella:Io suono la batteria fin dall’infanzia, ho studiato sempre, continuativamente. C’è stata una pausa di attività dal vivo per via del Covid e degli studi, però in questo periodo mi sono ridato da fare con diversi gruppi, tra cui questo che mi ha accolto in corso d’opera. Sono stato un nuovo acquisto, oltre a lui (indicando Gabriele, ndr). È bello perché situazioni come queste sono molto particolari, cerco di variare sempre i miei impieghi […]. Tutto ciò che faccio è sempre molto legato alla musica.
Gabriele Scotto: Anch’io sono nato con la musica, nel senso che mio padre metteva sempre qualunque disco, anni ‘60 e ‘70, ma anche anni ‘80, come i The Cure […]. In realtà io avevo iniziato cantando, avevo fatto un corso di coro. Poi l’anno successivo non c’era più posto (per fare lezioni, ndr) e io volevo fare anche altre cose nel frattempo. Fatalità in un giorno in cui ero disponibile, davano lezioni di basso, e allora ho detto «Perché no?». Ho fatto un anno di basso jazz, cosa che ovviamente per ora è sospesa lì, nell’Iperuranio e magari un giorno si paleserà in qualche maniera (ridono, ndr). Ora faccio il basso “simpy”, carino, con questi ragazzi (Stefano gli manda un bacio, ndr).
Cesare Piemontese:Ho sempre suonato la chitarra fin da quando ero piccolo, un po’ come Matti con la batteria. Ho studiato la chitarra classica tanti anni e poi, siccome sono un “giovane” e facciamo il “maledetto rock”, mi sono innamorato della chitarra elettrica. Ho sempre avuto il sogno di avere un piccolo gruppo. Da me in Puglia non sono mai riuscito a crearlo ma, quando sono arrivato qui per motivi di studio, mi sono reso conto che qui (a Torino, ndr) girava molto meglio la scena, c’era tanta vitalità e poi era solo questione di tempo prima che ci incontrassimo e che nascesse il progetto mezzaestate.
Perché vi chiamate mezzaestate?
Stefano Calzolari: Il nome mezzaestate, almeno per come lo interpreto io, per il significato che gli ho voluto dare […] è questo senso di notti estive leggere in cui magari sei al liceo, stai andando in giro in bici di notte con la brezza che ti accarezza la pelle, sei magari innamorato, sei emozionato, sei spensierato perché sai che il giorno dopo non hai un cazzo da fare, sei tranquillo e non ti fai troppi problemi […].
Come vi siete conosciuti?
Stefano Calzolari: Io e Brando abbiamo studiato insieme alla laurea magistrale al Politecnico e ci siamo ritrovati anche a fare la tesi nello stesso laboratorio. Io continuavo a dirgli: «Dai Brando mettiamo su una band!».
Brando Ramello: Io ricordo che quando ho comprato la scheda audio per registrare qualcosa mi sono detto: «Ma sì, quasi quasi mi rimetto ad utilizzare Reaper». Quindi ci siamo proprio alimentati a vicenda in questa cosa.
Stefano Calzolari: Questa cosa è cresciuta sempre di più fino a quando non abbiamo detto «Cazzo facciamolo, buttiamoci! Servivano però altri componenti» (ridono, ndr). C’è questa mia cara amica che mi ha detto un giorno «Guarda che c’è Cesare, questo ragazzo che conosco e boh, suona la chitarra». Quindi io vado a vedere cosa pubblica, cosa fa e cosa suona su Instagram […] e sento questo qua che fa di tutto.
Brando Ramello: come mi disse Stefano in chat (a proposito di Cesare, ndr): «è un manico!» (ridono, ndr).
Stefano Calzolari: Cesare ha tutte queste registrazioni dove fa queste cose super mega virtuosistiche da chitarrista. Avete presente lo stereotipo del chitarrista iper mega nerd? Cesare incarnava questa cosa e io ho detto: «È un fenomeno, abbiamo il nostro chitarrista».
Cesare Piemontese: Matti l’ho portato dentro io, andava alle scuole medie con il mio coinquilino e quindi ci ha presentato lui. Mi ha detto «Tu suoni? Ah, suono anch’io. Allora suoniamo insieme!». È entrato in sostituzione della nostra vecchia batterista (la salutano tra il pubblico, ndr). Per Gabriele è successa una cosa simile: quando il nostro vecchio bassista è ritornato in Francia perché aveva finito l’Erasmus, abbiamo pensato a lui (Gabriele, ndr). Giravamo negli stessi ambienti e concerti, ci conoscevamo anche perchè avevamo amici in comune.
In questa serata ci avete raccontato e mostrato con video autoprodotti quale è la genesi dei vostri brani. Da dove traete ispirazione per far nascere le vostre canzoni? Quale è il processo con cui date vita ai brani?
Stefano Calzolari: Le nostre canzoni nascono probabilmente da questo clima di leggerezza che è in un certo senso anche ostentata in alcuni momenti. Si sente che le nostre canzoni sono intrise potenzialmente di sensi di colpa, nostalgia, errori che abbiamo fatto nel passato o comunque riflessioni profonde. Io credo di essere molto emotivo da questo punto di vista ma vedo anche negli altri, qui intorno a me, questa cosa (ridono, ndr) e credo che si senta molto in queste canzoni. Nascono da riflessioni […], personali, cantautorali. Mi ritrovo a fare dei ragionamenti su cose che non vanno o cose che vanno nella mia vita, nei miei rapporti interpersonali con ragazze o con amici. C’è un amico che viene nominato in “Notti estive” […], uno degli amici probabilmente più importanti che ho nella mia vita. È stata una figura di riferimento molto importante per me (si emoziona, ndr). Le cose che scrivo vengono da qui.
Brando Ramello: A livello un po’ più pratico, invece, per questa prima fase compositiva – che a me piace chiamare la Fase 1, come la Marvel, e che comprende “Stella”, “Notti estive”, “Iper compresso”, “Mezz’ora” e “In ogni gesto” – è una fase in cui principalmente nascono delle idee a qualcuno, musicali o di testo, vengono portate agli altri e ognuno cerca di metterci il suo per poter riarrangiare i brani e ottenere una quadra. […] La prima canzone per cui abbiamo collaborato più seriamente è […] “Dolci sirene”, la più nuova, in cui c’è stato un processo collaborativo totale […]. Stiamo cercando di andare più verso questa direzione, una collaborazione più completa nello scrivere le canzoni.
Avete dei progetti per il futuro?
Brando Ramello: Abbiamo in programma di far uscire un altro singolo, si chiama “Mezz’ora”. Secondo noi è un passettino in avanti anche dal punto di vista compositivo rispetto a “Stella” (primo singolo pubblicato, ndr). Dovrebbe uscire fra poco, non sappiamo ancora di preciso la data, ma sicuramente è il secondo singolo che andrà ad anticipare l’uscita dell’EP completo di cinque brani che riassume la Fase 1 compositiva del nostro gruppo. Poi da lì è molto delicata la situazione. Siamo ragazzi che stanno facendo svariate cose: c’è chi lavora, c’è chi sta studiando, chi sta finendo di studiare e c’è chi sta facendo il dottorato (indicando Stefano che ride, ndr). Quindi, da settembre in poi vediamo… «solo il tempo svelerà» (citazione tratta da “Mezz’ora”, ndr).
C’è qualche data in programma in cui possiamo venire ad ascoltarvi nuovamente?
Cesare Piemontese: Il 4 aprile partecipiamo ad un contest che si chiama Emergenza al Barrio, qui a Torino […]. Sarà un bell’evento, speriamo di riuscire ad andare avanti, più gente viene più siamo contenti. Il 26 aprile suoniamo a Ciriè al Capolinea. È un bel palco, passa molta gente da lì e siamo molto contenti di poterci andare insieme ad altre band amiche come Gtt, Supernova… andateli a sentire. E poi altre cose che sveleremo piano piano, seguiteci e rimanete aggiornati!
Il Teatro Regio continua ad attirare molto pubblico con una nuova produzione sold out fino all’11 marzo. Con l’anteprima giovani, il 27 febbraio viene inaugurato il nuovo allestimento di Rigoletto firmato da Leo Muscato. Reduce dal successo di Agnese di Paër, nel 2019, Muscato torna al Teatro Regio di Torino insieme alla scenografa Federica Parolini e alla costumista Silvia Aymonino. La carriera di Muscato è costellata di collaborazioni con teatri d’opera prestigiosi e importanti premi quali il Premio Abbiati come Miglior Regista d’Opera (2012), l’International Opera Awards (2016) e il Premio Internazionale Ivo Chiesa come Miglior Regista d’Opera (2023).
A dirigere l’orchestra c’è Nicola Luisotti, ex direttore dell’Opera di San Francisco insignito della San Francisco Opera Medal per i suoi meriti artistici e riconosciuto come uno specialista del repertorio verdiano. Con Verdi torna a Torino dopo otto anni per presentare un’opera che ha segnato la storia del melodramma, la prima delle tre opere della trilogia popolare del compositore composta nel 1851.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino, foto di Mattia Gaido e Daniele Ratti
Siamo persone con identità fragili che si nascondono dietro maschere ingannevoli e tutto il mondo intorno a noi è deforme. Questa è l’epoca in cui viviamo, dove apparenza e finzione spesso prevalgono sulla realtà, ma è anche il tema in cui un’opera come Rigoletto trova le sue radici. Non è facile attualizzare opere del passato per raccontarle in maniera trasversale – ha sottolineato Muscato durante la conferenza stampa – ma la messa in scena di Rigoletto sul palco del Teatro Regio è riuscita magistralmente a rendere l’opera vicina al sentire contemporaneo.
La deformità di Rigoletto è frutto dell’ambiente che lo circonda e della società corrotta primo novecentesca che danza tra le due guerre. Il preludio iniziale introduce una scena dominata da una struttura muraria ondulata, realizzata con superfici riflettenti e deformanti, che trasforma il palco in un mondo precario e straniante. Solo sul palco, Rigoletto, il giullare dal naso rosso, contempla la sua immagine nell’unico specchio reale che gli mostra la sua vera essenza: è un uomo solitario e triste, con la gobba e l’alopecia, costretto a nascondersi dietro una maschera per sopravvivere a corte. Nasce probabilmente da qui l’idea di giocare con una scena fissa ma girevole: l’allestimento scenografico diventa un protagonista che sussurra l’ambiguità dei personaggi e la fragilità di un mondo in disfacimento. La scenografia di Parolini svela e nasconde: i personaggi sentono ma non vengono visti, il pubblico vede ma costruisce nella propria immaginazione gli spazi in cui si svolgono le azioni. Improvvisamente le mura cittadine ruotano svelando la festa in corso all’interno del palazzo ducale, presentata da un tableau vivant di personaggi aristocratici. Nasi e maschere da suino deturpano i volti di alcuni personaggi accentuando il grottesco e la decadenza che permea ogni angolo.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino, foto di Mattia Gaido e Daniele Ratti
L’illuminazione di Alessandro Verazzi gioca un ruolo cruciale nel rafforzare il senso di straniamento. Il gioco di luci rapisce lo sguardo di tutti e scuote gli animi trasformando il palcoscenico in un labirinto di emozioni, personalità e di ambienti. Ogni fascio di luce, calibrato al millimetro, genera riflessi o ombre tragiche sulla struttura muraria rivelando verità taciute e crea dei veri e propri quadri dando vita ad un ulteriore livello di lettura dello spettacolo. Durante la tempesta del terzo atto, il pubblico, abbagliato da luci intermittenti, diventa parte integrante del dramma, condividendo paure ed emozioni con i personaggi. Un’intuizione registica che ha creato un’esperienza sensoriale partecipativa.
Muscato ci regala un Rigoletto che si allontana in alcuni punti dalla fedeltà al libretto originale, arricchendo e sfaccettando il dramma non solo dal punto di vista scenografico ma anche dal punto di vista narrativo. Monterone, dopo aver lanciato la sua maledizione, muore per poi riapparire, in altri quadri, come un fantasma vestito di bianco e illuminato da una luce fredda e intensa, un costante promemoria del destino che incombe su Rigoletto. Gilda viene presentata come una giovane ragazza affidata alle cure di un convento o di un convitto, un’anima pura e innocente in un mondo corrotto. Nell’atto finale, la drammaturgia si discosta ulteriormente dal libretto di Piave con l’ambientazione della scena in un postribolo, una fumeria d’oppio. La forte carica teatrale è amplificata dall’uso di luci e fumo che dividono il palco in tre sezioni: una luce blu a sinistra per la scena di “La donna è mobile”, una luce viola per il postribolo al centro, e una luce più calda per Gilda e Rigoletto che, esterni, osservano la scena. Improvvisamente un taglio di luce tragico, in gusto noir, attraversa i volti di Gilda e Rigoletto, sopraffatti dalla visione e ascolto del cantabile “Bella figlia dell’amore”.
Foto da cartella stampa Teatro Regio di Torino, foto di Mattia Gaido e Daniele Ratti
L’inizio del primo atto è risultato musicalmente sottotono, con una certa difficoltà nel percepire le voci e le parole di alcuni interpreti i quali, probabilmente nel tentativo di preservare la propria voce per le repliche, hanno optato per un’esecuzione a mezza voce. Tuttavia, dalla conclusione del primo atto, l’orchestra e i cantanti hanno espresso il loro pieno potenziale emotivo e vocale, con passaggi dinamici di notevole impatto. Nicola Luisotti ha diretto le sfumature musicali con maestria, mantenendo la fedeltà al tema centrale dell’opera e arricchendolo di nuove sfaccettature emotive. Un plauso speciale va al Coro del Regio, guidato da Ulisse Trabacchin, che ha saputo trasformare i momenti corali in autentiche manifestazioni di espressività.
Un piccolo ma significativo gesto è stato quello di Luisotti che, al termine della rappresentazione, è rimasto sul suo podio, seminascosto, per applaudire l’intero cast, dimostrando grande rispetto e apprezzamento per il lavoro di tutti. La rappresentazione di Rigoletto, come preannunciato durante la conferenza stampa, è stata frutto di un lavoro di squadra eccezionale che ha dato vita ad una fusione armoniosa di talenti artistici e legami umani.
La marimba, strumento dai suoi suoni caldi ed esotici, e il computer, sono stati uniti in un’insolita combinazione per il concerto “Il mio mondo sonoro” di Daniele Di Gregorio. L’evento, organizzato da Unione Musicale, si è tenuto il 25 febbraio 2025 al Teatro Vittoria di Torino.
Daniele Di Gregorio, percussionista di grande esperienza, ha un background che spazia dalla musica classica al jazz. La sua carriera include collaborazioni con l’Orchestra Giovanile Italiana diretta da Claudio Abbado e il Rossini Festival. Durante i suoi studi jazz, Di Gregorio si è innamorato della marimba, attratto dal calore del suo suono ligneo.
Di Gregorio ha utilizzato il computer non per la sintesi elettronica, ma per riprodurre basi pre-registrate. Questa è una pratica comune tra i musicisti delle ultime generazioni per lo studio, anche se spesso molto criticata. L’artista afferma infatti di voler mettere in contrasto il calore espressivo della marimba con il rigore freddo del computer. Strutturando l’evento come una lezione-concerto, Di Gregorio ha creato un’atmosfera familiare, alternando l’esecuzione dei brani con spiegazioni sulla marimba e le sue potenzialità.
Il concerto inizia, Di Gregorio entra in sala e comincia immediatamente a suonare senza i consueti inchini e formalità. Finito il primo brano prende il microfono in mano e comincia la presentazione. Il brano intitolato “Quando vuoi” è una composizione per due marimbe, con una parte preregistrata riprodotta dal computer. I brani includono “Viaggio”, un’improvvisazione su un loop ritmico in 7/4, che ha creato un movimento circolare tipico del jazz. “Esercizio in forma di concerto” è stato eseguito come brano fuori programma; ha dimostrato come la marimba possa riprodurre l’intera estensione di un’orchestra, dalle note più gravi ai suoni più acuti. Altri pezzi erano “Gaslini Song”, dedicato al suo maestro di improvvisazione jazz, “Stella by Starlight”, un classico jazz adattato per marimba e pianoforte e “Sequenza fast”, unacomposizione estemporanea per trio su loop ritmico basato su una scala ottotonica.
Un brano particolarmente toccante è stato “La leggenda del campo dei fiori”, ispirato alla storia d’amore di Paolo ed Elena, due partigiani attivi durante la Seconda Guerra Mondiale ma che, terminato il conflitto, si lasciano per riprendere ognuno le proprie vite. Di Gregorio crea un’atmosfera malinconica e introspettiva, grazie all’utilizzo di bacchette morbide non tipicamente usate per la marimba .
Il concerto si è concluso con “Tra Occidente e Oriente”, un brano che contrappone la tranquillità della natura alla frenesia urbana, utilizzando la marimba e una base di pianoforte per rappresentare questi temi contrastanti.
L’atmosfera informale della lezione-concerto ha permesso al pubblico di scoprire le molteplici sfaccettature della marimba, uno strumento noto ma spesso sottovalutato, catturando l’interesse del pubblico e suscitando in molti il desiderio di sperimentare personalmente la marimba. Il concerto ha quindi offerto non solo un’esperienza musicale coinvolgente, ma anche un’opportunità di apprendimento e di scoperta.
Smaltito Sanremo… e ora qualcosa di completamente diverso, ecco i nostri suggerimenti musicali divisi tra uscite italiane e estere.
Laura Agnusdei – “The Drowned World” Artista bolognese, sassofonista a metà tra sperimentazione e underground. Il singolo è estratto dal nuovo album, Flowers Are Blooming In Antarctica, che riflette sull’emergenza climatica. Il brano scelto prende ispirazione dall’omonimo romanzo fantascientifico di J.G. Ballard. Inizia come una marcia jazz standard, per poi rallentare e virare in atmosfere elettroniche oniriche e post-apocalittiche. Ci si sente storditi, si percepisce il caldo asfissiante di un mondo sommerso, non da immondizie musicali, ma da desolazione.
Voto 30/30
Francesco Di Bella feat. Colapesce – “Stella che brucia” Dal nord si passa al sud, ma al centro c’è sempre il sax, che questa volta ci trasporta in una lunga notte solitaria. Il ritorno dell’artista napoletano con l’album Acqua Santa, che in questo brano insieme a Colapesce descrive la fatica («sagliuta appesa») e il coraggio («vedimmo ‘e cammenà») dell’amore in modo poetico. La iacuvella, il tira e molla, i dispiaceri, le aspettative, tratti rilevanti che ci fanno bruciare e ci fanno vivere. L’unione dei due funziona, soprattutto a livello vocale, mentre la musica firmata da Marco Giudici riecheggia le ballad di Pino Daniele.
Voto 26/30
Jake La Furia – “64 no brand“ Dopo la reunion dei Club Dogo, Jake e Guè hanno pubblicato a distanza di poche settimane i loro nuovi progetti solisti. In questo caso si tratta del suo quarto album Fame, interamente prodotto da The Night Skinny. Il singolo, meta-promozionale, punta il dito contro le collaborazioni tra industria musicale e brand, usando la stessa forma, le 64 barre, con in mezzo un cambio di beat. Una radiografia critica e personale sullo stato del rap italiano. Jake si definisce nomade, integrato nel sistema, ma ostinatamente contro chi vorrebbe cambiarlo o cancellarlo. Ancora una volta cronaca di resistenza di un successo costruito da zero.
Voto 27/30
Teamcro feat. 72-Hour Post Fight – “Salomon” Giovane collettivo di Parma, quattro rapper e produttori che mescolano in modo tagliente trap, elettronica noise e jazz nel loro nuovo progetto teamcro tape. In questo singolo, non a caso insieme a una band altrettanto sperimentale, sentiamo nu-jazz puro. L’approccio creativo è libero, non segue regole prefissate, sicuramente una proposta fuori dagli schemi che se ne frega delle classifiche.
Voto 28/30
Queen of Saba – “CAGNE VERE” (odioeffe remix) Il duo veneto affida la propria canzone manifesto a un trattamento techno hardstyle. Un remix non scontato che potenzia l’incisività del brano originale, trovando un aggancio interessante tra sfondo elettronico e voce in primo piano. Pop LGBT che oltre ai contenuti cerca di spingersi verso angoli nuovi, meno accomodanti, senza compromessi di facciata.
Voto 25/30
Oklou – “blade bird” Artista francese figlia delle sperimentazioni musicali di PC Music, tra hyperpop e R&B. Il singolo chiude l’album d’esordio choke enough parlando di relazioni tossiche, controllo, autolesionismo. La voce esprime tutto il dolore interiore con un tono dolce mentre la musica si frammenta sempre di più tra chitarre acustiche e suoni sintetici. La ricerca di libertà, metafora dell’uccello che scappa dalla gabbia, va di pari passo con la sua carriera personale, sempre oltre i confini imposti.
Voto 27/30
John Glacier – “Home” Al di là della Manica, dall’underground londinese esce Like A Ribbon, un altro debutto molto atteso. In questo brano mix di rap, elettronica e post-punk, Glacier ci consegna versi d’amore ipnotici, naturali e spontanei. In alcuni aspetti potrebbe ricordareM.I.A. o Dean Blunt, ma l’eccitazione calda che ci trasmette è sicuramente un tratto personale.
Voto 28/30
Doechii – “Nosebleeds” Brano pubblicato a sorpresa per festeggiare la vittoria di Alligator Bites Never Heal come miglior album rap ai Grammy. Un freestyle che vuole essere un discorso di ringraziamento in musica. La rapper si focalizza sulla sua carriera, le difficoltà che ha attraversato e le persone che l’hanno spronata a crescere. Lei rimane comunque seduta sui gradini più economici (i nosebleeds), senza vantarsi, il suo talento adesso è visibile a tutti, anche da molto lontano.
Voto 26/30
Panda Bear – “Ends Meet” Ultimo di tre singoli, in attesa dell’uscita del nuovo album Sinister Gift. Panda Bear in questo brano insieme ai membri degli Animal Collective, crea un viaggio psichedelico al termine di un incontro con una donna ma, forse, anche con una sostanza. La concretizzazione musicale è sempre notevole, tra un groove che si fa quasi ossessivo, chitarre dilatate e frammenti corali. Premesse di un insieme che speriamo sia altrettanto compatto e definito.
Voto 29/30
Saya Gray – “Shell (Of a Man)” Musicista nippo-canadese che ha da poco pubblicato Saya, il suo secondo album. Ascoltando il singolo principale entriamo nel guscio non di un uomo ma di una relazione spinosa e piena di crepe. La donna minacciosa è pronta a fare di tutto, ma la voce soffice e carezzevole nasconde dell’altro. Chitarre fingerpicking e batteria leggera creano un accompagnamento che scivola bene sulla costruzione del brano, tra momenti più oscuri e altri lirici e luminosi.
Quante volte abbiamo partecipato a conferenze stampa che sembravano interminabili successioni di formalità e discorsi tediosi? Fortunatamente, l’appuntamento del 24 febbraio al Teatro Regio ha decisamente cambiato registro, offrendo un’atmosfera amichevole, serena, divertente ma con contenuti interessanti e stimolanti. La conferenza stampa del Rigoletto preannuncia una messa in scena accattivante e avvincente.
A fare gli onori di casa, Luigi Lana, presidente di Reale Mutua e Michele Coppola, vicepresidente del Teatro Regio, i cui interventi si concentrano sul tema della collettività. Ma i veri protagonisti sono coloro che, dietro le quinte o in prima linea, danno vita allo spettacolo. Tra questi, a presentare Rigoletto nella Sala del Caminetto, ci sono: Cristiano Sandri – direttore artistico, Nicola Luisotti – direttore d’orchestra, Leo Muscato – regista, Federica Parolini – scenografa, Silvia Aymonino – costumista, Giuliana Gianfaldoni – interprete di Gilda, George Petean – interprete di Rigoletto.
Foto di Ottavia Salvadori
Rigoletto, in scena dal 28 febbraio all’11 marzo (con l’anteprima giovani il 27 febbraio) è frutto di un percorso creativo intenso e appassionato che, come afferma Luisotti, nasce da “collisioni” che si trasformano in “fusioni”, per poi diventare “armonia” e dare finalmente vita all’opera che vedremo sul palco.
L’équipe è di altissimo livello e già dalla conferenza stampa esprime sinergia, coesione e amicizia tra gli artisti. A fare da collante è la stima reciproca, a partire da Leo Muscato e Nicola Luisotti che scherzano sul loro amore corrisposto, una coppia di “fidanzati” che si versa l’acqua nel bicchiere nonostante le sedute distanti.
A rubare la scena è proprio Luisotti, un direttore d’orchestra dirompente e anticonvenzionale, capace di negare il proprio ruolo con un’ironia irresistibile. «Che cosa fa un direttore d’orchestra? Non fa niente!», ha esordito, e per dimostrarlo ha parodiato se stesso, riducendo la direzione d’orchestra a movimenti delle mani e ad una mimica facciale intensa. Cosa rende quindi il gesto del direttore d’orchestra un elemento significativo? Come ha spiegato Luisotti, il senso del suo gesto «apparentemente inutile» è possibile solo grazie alla collaborazione con musicisti, cantanti, attori e tutti coloro che contribuiscono a realizzare l’idea musicale. Il direttore d’orchestra fa suonare la stessa cosa a tutti, non solo a orchestra e cantanti ma anche al direttore artistico. Un’opera d’arte non nasce sola: ha bisogno degli artisti, di tutta la troupe, del pubblico, della stampa e del mondo intero. Solo attraverso questa sinergia si crea una serata magica.
Foto di Ottavia Salvadori
Il regista Leo Muscato aggiunge: «Uno spettacolo è il risultato di un percorso condiviso da diverse persone. Un’opera può prendere forme diverse a seconda di chi lo realizza»; e per questo si spinge ad affermare che Luisotti oltre ad essere un grande direttore d’orchestra e poeta dell’esistenza, potrebbe essere un bravissimo regista.
A differenza del dramma di Hugo, testo di natura politica censurato per cinquant’anni, Rigoletto di Verdi di focalizza sull’umanità, sulle fragilità e sui sentimenti umani. La regia di Muscato vuole proprio porre l’attenzione sul problema dell’identità: tutti i personaggi, ad eccezione di Gilda, non hanno nomi propri. Rigoletto è probabilmente la maschera di un uomo-giocattolo, il Duca ad ogni atto cambia identità passando da aristocratico a studente fino a trasformarsi in militare. Quello di Rigoletto è, dunque, un mondo deforme, che influenza tutti. La scelta scenografica di inserire specchi che distorcono le immagini diventa metafora di una società in cui l’identità è frammentata e mutevole, ispirata alla pittura espressionista che, con i suoi colori accesi, mette in scena punti di vista discontinui.
Foto di Ottavia Salvadori
Rigoletto è un’opera che parla di fragilità, di emozioni, di miseria, di conflitti e, come afferma Giuliana Gianfaldoni, è una storia che può rivelare alcuni lati personali. Il soprano ogni volta che interpreta Gilda, figlia di Rigoletto, riscopre alcuni aspetti del suo rapporto personale con il padre. Dimostrare l’amore è difficile e Rigoletto è l’emblema di questo amore complesso che riesce ad esprimere solo in maniera ossessiva e possessiva.
Dalle prime parole della conferenza stampa era chiaro: questo Rigoletto è frutto di un lavoro di squadra appassionato e il sold out di tutte le date lo presagisce. Non ci resta che attendere l’anteprima giovani del 27 febbraio e scoprire come i valori dell’amicizia e dell’armonia si traducano in emozione pura.
Blur: To The End è stato il film d’apertura dell’undicesima edizione del SEEYOUSOUND Festival di Torino (21-28 febbraio 2025). Il documentario, diretto da Toby L., racconta della reunion della band, della scrittura del loro ultimo album, Ballad of Darren, e del concerto a Wembley del 2023.
Momenti comici, come il ritorno alle scuole elementari di Damon Albarn e Graham Coxon, sono accostati a scene estremamente intime come quella in cui Albarn si commuove sulle note di “The Everglades”, brano contenuto in Ballad of Darren. Quello che però emerge già dai primi minuti è il forte legame di amicizia e fratellanza che unisce la band inglese. Ascoltando le parole ed i gesti che si scambiano viene in mente una frase di Michela Murgia, secondo cui «gli amici che ti fai quando hai 16, 17, 20 anni hanno una specialità che nella vita poi sarà irripetibile, avrai altre amicizie anche molto qualificate ma qualcuno che ti fosse testimone quando potevi ancora essere tutto… quello non si ripete». Credo che i Blur ne siano l’esempio perfetto.
Foto tratta dal film “Blur: To The End”
Uno dei temi trattati è il trascorrere del tempo e la difficoltà dell’accettarlo, e di certo non aiuta avere tutta la propria giovinezza documentata da film e video.
«It’s a weird thing when you go back to something that was so well documented. People feel like that’s what you are but it’s so long ago».
Nell’era in cui sui social si tende a mostrare solo gli aspetti positivi della propria vita, Toby L. ci regala un ritratto sincero dei Blur grazie al quale possiamo distruggere l’immagine distorta che avevamo delle popstar. Risulta strano, quasi ci infastidisce, vederli preoccupati pochi minuti prima di andare in scena, ma sono queste loro insicurezze a renderli umani e ci invitano ad accettare anche le nostre fragilità.
Il crescendo di tensione raggiunge l’apice negli istanti che precedono l’ingresso della band sul palco. Ma l’adrenalina sale alle stelle quando li si vede salire la rampa ed è inevitabile avere la pelle d’oca appena si sente il boato del pubblico di Wembley che accoglie gli artisti che entrano sulle note di “The Debt Collector”. È ufficialmente iniziato il concerto, da questo momento fino alla fine del film gli spettatori sono totalmente immersi nelle immagini che scorrono sul grande schermo e nella musica che rimbomba nella sala. L’entusiasmo è palpabile e le riprese del concerto regalano momenti di pura gioia.
Blur, 2023, Wembley. Foto dal profilo Fb della band
All’inizio della scaletta compare “Popscene” canzone simbolo del britpop, per poi passare ad urlare il ritornello di “Song 2” dove la folla impazzisce e l’intero parterre salta. All’ultima canzone, “The Universal” l’intera platea è commossa, risulta difficile non emozionarsi vedendo quattro amici, che suonano assieme da quando avevano vent’anni, riuscire a realizzare il loro sogno suonando di fronte a 80.000 persone.
Il documentario è nei cinema dal 24 fino al 26 febbraio ed è un’esperienza che merita di essere vissuta. E, se si vogliono riprovare le stesse emozioni del concerto anche quando si è sul tram diretti all’università, si può sempre ascoltare l’albumLive At Wembley Stadium.
Chiacchiere, birra e vecchi amici: è così che, ancora prima che la musica inizi, la seconda serata dell’anno organizzata dal collettivo Turin Moving Parts si scalda e ci fa sentire a casa. Entrare nello Ziggy Club è come entrare in un mondo a parte: suoni il campanello di una scura porta in via Madama Cristina, sali due rampe di scale poco illuminate, apri un pesante portone e ti ritrovi catapultato in un ambiente accogliente, tranquillo ma sempre in fermento.
Primi sul palco i Gordonzola, che ci fanno ingrassare con il loro sound saturo di colesterolo e schitarrate, tale che forse neanche con il pogo durante i SAAM siamo riusciti a smaltire tutto. Il trio suona in perfetta sintonia sul palco dello Ziggy davanti a uno sfondo formaggioso che recita il loro nome, e senza difficoltà fanno muovere tutte le teste e saltellare tutte le gambe.
Foto di Simone Cossu (@key_pov)
La loro bio su Instagram li presenta come “Instrumental power trio from Turin – devoted to food”, devozione che hanno saputo trasmettere con simpatia ma senza risultare troppo immaturi. Highlights del loro set sono stati “Rigaton”, un punk-reggaeton dedicato all’omonima pasta, “Tomino Banfi”, autoesplicativo, e “Anguria”, in chiusura, un pezzo lungo diversi minuti dal tono più serio: il frutto è simbolo della resistenza palestinese, a cui la canzone è dedicata.
I SAAM invece con il loro emo-punk ci portano da Genova tenerezza e nostalgia, in un turbine di emozioni accolte e sudate con entusiasmo dal pubblico. Dall’apertura con “Pesca”, singolo del 2020, fino a “Grondaia”, pezzo finale dell’ultimo album Per ogni caduta una terra amata, ogni persona nella sala sembra essere coinvolta in un abbraccio continuo, anche durante i poghi molto partecipati, addirittura dai musicisti stessi.
Foto di Simone Cossu (@key_pov)
L’attaccamento e la reciproca ammirazione tra band e pubblico sono stereotipicamente emo, e hanno il loro momento massimo durante “Sandro”, pezzo richiamato tramite un grande lenzuolo con il titolo scritto in azzurro, sbandierato dai più vicini al palco.
Foto di Simone Cossu (@key_pov)
Una buona serata ha bisogno di pochi ingredienti: divertimento, rispetto, emozione e amore per la musica e per le persone che abbiamo intorno. Venerdì sera i Gordonzola e i SAAM, grazie all’importantissimo lavoro del Turin Moving Parts e della scena che stanno crescendo e mantenendo in vita, hanno portato un evento che ha decisamente avuto successo.
Si è tenuto a Torino, venerdì 21 febbraio, all’interno dello sPAZIO211, l’undicesima data del Tour Panorama Olivia, che riprende il nome dall’album di debutto di Coca Puma, uscito ad aprile 2024 e che in meno di un anno ha suscitato grande curiosità e interesse, soprattutto nel panorama pop e jazz, ambienti che la musicista romana – vero nome Costanza Puma – naviga senza avere una rotta troppo definita.
La serata è stata aperta da Edera, cantante del gruppo torinese irossa, la cui voce chiara e sospesa abbraccia e viene abbracciata dalle morbide sonorità dei synth eterei, dalle arie d’atmosfera sognanti diteggiate dalla Gretsch color rubino del chitarrista e dalla ritmicità originale e sfalsata della batteria. Sebbene l’emozione fosse palpabile, Edera ha dimostrato di essere a suo agio sul palco, riuscendo a condividere il proprio stile con l’intimo pubblico all’interno dello spazio.
Pochi minuti dopo è stato il turno di Coca Puma e la sua band, composta da Davide Fabrizio alla batteria, Antonio Falanga alla chitarra elettrica e Stefano Rossi al basso e al sintetizzatore Moog.
Foto di Silvia Marino, «Due Libri»
Fin dall’intro strumentale è stato chiaro come il non-silenzio dell’ambiente intimo e intimista dello sPAZIO211 fosse la cornice perfetta per il gruppo. Si mescolavano così il leggero brusio del pubblico, qualche tintinnio di bicchieri provenienti dal bar in fondo alla sala e le calde ma soffuse sonorità create dagli artisti sul palco, sviluppando una massa sonora composta dai rumori dell’ambiente e dalla musica.
Coca Puma riesce in poco più un’ora di concerto a sviluppare atmosfere alterne attorno a sé, passando da momenti di pura emotività vissuta ad occhi chiusi, come durante l’esecuzione di “Sparks” dei Coldplay o della sua “Tardi”, a brani intrisi di puro istinto primitivo quali “Quasi a casa” (ripetuto anche in chiusura su esplicita richiesta del pubblico) e due nuovi pezzi inediti, in grado di creare vibrazioni che partono dal ventre e che si diramano verso tutti gli arti del corpo, sviluppando movimenti liberi e irrazionali, come se fossero connessi direttamente al suono proveniente dalle casse e dall’anima di Costanza.
Foto di Silvia Marino, «Due Libri»
Attraverso sonorità che si fondono insieme nella creazione di un universo opaco, costellato di nu-jazz, elettronica, post-rock, funk e percussioni afro-latine, Coca Puma conferma la sua acclamata duttilità, mantenendo uno stile vario ma ben pensato e soprattutto autentico, visibile anche attraverso la sicurezza che porta sul palco, che si contrappone alla timidezza nascosta dietro al suo immancabile cappello da pescatore, e disegnata sul viso da un sincero e perenne sorriso ricco di gratitudine verso chi ha ascoltato, cantato e ballato con lei.
Abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista Toby L. che si trovava al Seeyousound Festival per la prima italiana del suo nuovo documentario Blur: To The End.
Innanzitutto: congratulazioni per il film. Abbiamo visto il successo che ha avuto in Inghilterra. Hai delle aspettative sulla proiezione italiana che avverrà questo venerdì al Seeyousound Festival?
Ottima domanda, so che potrebbe suonare stupido quello sto per dire, ma quando stai facendo un film o un documentario molto spesso ti dimentichi che qualcuno lo vedrà, io l’ho realizzato soltanto alla première. (ride, ndr)
Può sembrare una cosa terrificante. È bellissimo accorgersi che il tuo progetto non finirà nella spazzatura, ma è stato fatto appositamente perchè le persone potessero vederlo e apprezzarlo. Il film verrà distribuito nelle sale di tutto il mondo ed ancora fatico a rendermene conto. Lo scorso anno ero a Barcellona e sono andato a vederlo, non ci potevo credere. Domani (21 febbraio, ndr) ci saranno migliaia di persone al cinema a vederlo ed è un vero privilegio per me.
Non so ancora come reagiranno le persone, devo ancora capire se il fatto di essere una british story renda difficile la traduzione negli altri paesi, nonostante i sottotitoli. Però, nonostante la lingua, mi auguro che le persone possano rispecchiarsi emotivamente in questa storia.
Forse, quello che viene apprezzato all’estero è avere la possibilità di partecipare ad un’esperienza che non abbiamo vissuto. Quindi, quello che affascina di questo documentario è l’occasione di essere a Wembley, vero?
Sì, assolutamente. Questo per me è stato un aspetto molto importante durante il set: assicurarsi di catturare il più possibile la magia di un evento del genere. Sai, avevamo una ventina di macchine da presa a disposizione, centinaia di membri della troupe che ci aiutavano per le riprese ed un paio di macchine a mano, all’interno del parterre, per catturare la sensazione di far parte di quell’onda di caos di persone. Abbiamo cercato, nel migliore dei modi, di riportare quell’energia nel filmato.
Com’è iniziata la collaborazione con i Blur?
Grazie alla mia etichetta discografica, la Transgressive Records, creata con i miei amici Tim, Dylan e Mike, ho avuto l’occasione di conoscerli e lavorarci assieme.
Dopo alcuni mesi, mi è giunta voce che avevano intenzione di suonare a Wembley quindi ho colto l’occasione per proporgli un documentario che non raccontasse solamente del live ma che raccontasse la loro storia con un approccio più romantico. Grazie a Dio, hanno accettato la proposta e nel giro di 1-2 settimane ero con loro in studio a registrare le prime scene del film.
“To The End” non racconta solo la reunion di una delle band più importanti del mondo ma è anche una storia di amicizia.Le riprese delle sessioni di registrazione sono accompagnate da momenti veramente intimi della band.Come vivi queste situazioni? E, come ti comporti durante le riprese?
Credo che la cosa più importante sia essere rispettoso e ricordare a me stesso che il film riguarda la LORO storia e che io sto “semplicemente” catturando questi momenti. Molto spesso, è solo questione di creare una forte energia e metterli nella condizione di accettare volentieri la tua presenza in ogni istante.
È comunque importante cercare di essere quasi invisibile: non interferire in nessun modo nei loro discorsi, nei loro rapporti e nel loro lavoro. Ma, la mia principale responsabilità da regista è quella di decidere quando fare le domande e spingerli a rispondere.
Prima di iniziare la produzione abbiamo avuto un incontro con la band in cui abbiamo evidenziato ciò che era importante fare, ovvero essere il più possibile onesti e reali. L’obiettivo era di non cadere nella finzione e non creare qualcosa di troppo pulito perchè era fondamentale riportare la roughness che li ha sempre caratterizzati.
Il fatto che fossero consapevoli che sarei stato con loro per la maggior parte del tempo, e che sarei stato presente anche durante i momenti più intimi, credo li abbia aiutati ad accettare la mia presenza e quella delle telecamere. Credo che questo sia uno dei punti di forza del film.
Parlando delle riprese, hai qualche artista o regista a cui ti ispiri in particolare?
Ho sempre ammirato il regista britannico Michael Winterbottom grazie al suo stile estremamente naturalistico. Ammiro la sua capacità nel cogliere la realtà.
Mi ha sempre affascinato anche David Lynch, mancato da poco, lo ritengo uno dei registi più importanti di sempre. I suoi film riescono ad essere estremamente sensibili, spaventosi, ma divertenti allo stesso tempo, era incredibile.
Credo, in generale, di amare quei film che ti facciano sentire partecipe in quello che sta accadendo e che creino dei personaggi nei quali ti puoi rispecchiare. È quello che ho cercato di fare con il mio film: volevo mantenere una sincerità e purezza tale da permettere un rapporto di empatia con lo spettatore.
Ci sono molti momenti comici perché loro sono dei funny guys (ride, ndr), ma vengono mostrati anche quelli dolorosi perché, d’altronde, non è sempre tutto rose e fiori, la vita è complessa.
Qual è stato il momento più bello che hai vissuto sul set?
Sul set ho vissuto molti momenti che ricordo con piacere.
Ho amato ritornare alla scuola che hanno frequentato Dave Rowntree e Graham Coxon, è stato veramente divertente perché hanno iniziato a “comportarsi male” come due ragazzini, nonostante siano ormai cinquantenni. (ride, ndr)
Poi, sono state estremamente emozionanti le giornate trascorse nella casa al mare con Damon Albarn e Alex James. In quei giorni, ho avuto modo di condividere con loro attimi veramente speciali nei quali è emerso il profondo legame che li unisce.
Infine, Wembley è stato veramente emozionante, anche perchè io e il mio cameraman siamo saliti sul palco di fronte a migliaia di persone. Credo che aver condiviso l’esperienza del concerto con la band lo abbia reso ancora più speciale.
In generale, l’intera esperienza è stata fantastica, è molto difficile rimanere concentrati sull’obiettivo: seguire la storia che vuoi raccontare, senza perdersi in quello che si sta vivendo.
C’è qualche artista con cui vorresti collaborare in futuro?
(sospira, ndr) Frank Ocean, Bjork e Radiohead. Preferisco le persone impegnative. (ride, ndr)
Anche Tom Waits, Neil Young… Sono attratto dalle persone stimolanti, passionali e intriganti. Molto spesso sono anche persone attive politicamente e questo è un aspetto che mi piacerebbe approfondire. Amo fare i documentari, ma mi piacerebbe realizzare un progetto interamente concettuale o un qualcosa di più surreale. Però, ora come ora, ho intenzione di prendermi una pausa.
Hai qualche consiglio da dare ai ragazzi, come noi, che sognano di lavorare nel mondo dello spettacolo?
Credo che il consiglio migliore che posso darvi sia quello di smettere di ascoltare quella vocina nella vostra testa che continua a ripetervi che non siete abbastanza bravi. Voi continuate a provarci. Tutte le persone che ho conosciuto che lavorano in questo mondo hanno questi pensieri negativi. Tu ignorali e continua a farlo.
Non guardare gli standard di vita degli altri, concentrati su quello che per te è importante.
L’ultima cosa che suggerisco è quella di organizzare un programma per voi stessi in cui ogni anno decidete a quali aspirazioni volete ambire.
I traguardi che non raggiungerai non sono invalicabili perché li puoi sempre spostare all’anno successivo. Scrivendo e visualizzando i tuoi obiettivi la vita ti condurrà consciamente e inconsciamente a raggiungerli. Ma, ricorda, la chiave sta nel capire cosa vuoi davvero.
Sboccia la primavera anche alla Reggia di Venaria, dove i viali assolati si sono tinti di rosa. Tra laboratori di danza, pittura e un fiume di visitatori armati di fotocamere, cappelli e passeggini, anche la musica ha trovato il suo spazio nelle attività dell’evento “All’ombra dei ciliegi in fiore”.
Sotto il color pastello dei fiori di ciliegio, con il sole che filtra tra le fronde e una brezza leggera, ci si aspetterebbe un sottofondo di archi o arpe cullanti. Invece no: ci pensano ottoni e percussioni a dare una bella scossa al pomeriggio con il loro suono brillante ed energizzante.
Al centro di uno dei viali, l’Ensemble di ottoni e percussioni del Conservatorio “G. Verdi” di Torino ha tenuto il “Concerto tra i ciliegi”. Si parte subito con il Prelude to a Te Deum, un’introduzione solenne, un richiamo per chi passeggia nei dintorni o sta cercando l’angolazione perfetta per il prossimo scatto instagrammabile.
foto di Valeria Cacciapaglia
Man mano che il concerto procede, la folla cresce. C’è chi si ferma incuriosito, chi arriva dalla visita alla Reggia e chi ancora sta cercando di riprendersi dalla lunga coda per il biglietto. Il pubblico si sistema alla buona attorno ai musicisti.
E quando partono le prime note di Kraken da Another Cat di Chris Hazell, l’atmosfera cambia: i bambini iniziano a muoversi a tempo, qualcuno segue il ritmo muovendo le spalle, e anche alcuni fotografi si scatenano. Il brano ha un’energia travolgente e, sebbene non si parli di fioriture primaverili o di delicati petali che cadono, c’è qualcosa che si sposa perfettamente con il momento.
Poi arriva Ain’t Misbehavin’ di Thomas “Fats” Waller. Un classico jazz che, con la sua leggerezza e il suo swing irresistibile, trasforma per un attimo il giardino della Reggia in un angolo di New Orleans, cullando il sonno di chi si è assopito sotto l’albero con il suo telo.
Il concerto vola via in un attimo, e quando l’ultimo pezzo si conclude, il pubblico non ci sta: parte la richiesta di bis, unanime. L’ensemble non si fa pregare e concede un’ultima esecuzione, tra nuovi applausi e sorrisi soddisfatti.
E così si chiude il pomeriggio musicale e i visitatori riprendono il loro giro. Ma qualcosa di questo concerto resta nell’aria, come i bambini che canticchiano ancora le musiche suonate dall’ensemble.
di Joy Santandrea
La webzine musicale del DAMS di Torino
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