Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals.
Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.
L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.

Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente.
Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.

A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.

Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.
Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.
Alessandro Camiolo e Sofia De March