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Jazz is dead!: dance yourself clean

Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals. 

Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.

L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.

Foto di Fabiana Amato

Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente. 

Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.

Foto di Fabiana Amato

A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.

Foto di Fabiana Amato

Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.

Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.

Alessandro Camiolo e Sofia De March

Jazz is dead! e il mondo che brucia sotto la pioggia

Sotto al sole di un sabato torinese che si fa quasi miraggio, Jazz is Dead! apre la sua terza giornata tra loop infiniti, pioggia improvvisa e voci che reclamano spazio, identità, memoria. La domenica al Bunker è un atlante sonoro e umano. Ogni live è un territorio attraversato, ogni corpo sul palco diventa una frontiera abbattuta.

La giornata si apre con Ghosted, trio formato da Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che, nel caldo ancora opprimente del tardo pomeriggio, trasporta il pubblico in un viaggio ipnotico e minimalista. Un viaggio fatto di poche note di basso identiche e reiterate per più di quindici minuti, su cui la batteria danza tra controllo e abbandono mentre la chitarra si trasfigura tra effetti riverberati alla The Shadows – in perfetto pendant con il clima da vecchio Far West – e arpeggi robotici e metallici.

I brani – pochi, lunghissimi, quasi senza fine – costruiscono un loop sonoro che, complice le alte temperature, induce una vera e propria alterazione percettiva, data dal lavoro per accumulo. Un inizio silenziosamente travolgente prepara corpo e mente a lasciarsi andare per il resto della serata, che fa a questo punto ben sperare. 

Foto di Fabiana Amato

Subito dopo salgono Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly che portano un’idea sonora tanto fluida quanto le loro origini: Bolivia e Porto Rico, avant jazz, funk e noise. L’inizio è quieto: suoni semplici e chiari e atmosfere dilatate, poi all’improvviso l’impatto frontale con bassi distorti e tiratissimi, che fanno vibrare l’aria e costringono a spostare l’attenzione al palco. 

Il live si muove tra suggestioni latine e scosse elettriche, ma col passare dei minuti l’energia sprigionata dagli amplificatori inizia ad affievolirsi, non riuscendo a proporre un live colorato fino alla fine. Forse per colpa anche della pioggia, che arriva di colpo mettendo in fuga in poco tempo il folto pubblico pronto a fiondarsi sui poveri baristi sballottati sotto la tettoia. 

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’acquazzone, si materializza la figura di Alabaster De Plume, sassofonista inglese la cui musica è un viaggio tra atmosfere tremolanti e irregolari, che si muovono agilmente dal jazz più morbido e caldo ai territori più sperimentali e ruvidi. La musica di Alabaster non è solo un’esperienza sonora, ma una vera e propria narrazione emotiva: il sax dialoga con il basso e la batteria in un crescendo di tensione e rilascio, giocando con dinamiche contrastanti che tengono il pubblico sospeso, come in un grande rito collettivo. Le sue parole, scandite con calma e carica emotiva – mentre imbraccia una bandiera palestinese – si trasformano in mantra di autenticità, collettività e resistenza denunciando con forza le ingiustizie di Gaza in un lungo discorso di protesta. È un concerto che va ben oltre la musica, un’esperienza che lascia nel pubblico un segno profondo e vibrante.

Foto di Fabiana Amato

Dalla Palestina passiamo al Kurdistan, col duo HJirok, composto dalla cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e Andi Toma dei Mouse on Mars. Un progetto musicale che unisce suoni raccolti durante viaggi nel Kurdistan iracheno con registrazioni elaborate di ritmi di tamburi sufi e melodie di setar. Sul palco la cantante danza e ondeggia in un paesaggio sonoro ammaliante che non lascia indifferenti. La sua voce estesa e versatile, si amalgama all’elettronica e alla musica tradizionale, cercando di sfumare le differenze ed emancipandosi da ogni stile già consolidato. La tradizione curda si basa sulla trasmissione orale come forma di resistenza alle imposizioni dominanti, da questo punto di vista possiamo configurare il HJirok come un ulteriore gesto politico di sfida e proposta di un futuro utopico in cui coesistono pacificamente paesaggi sonori, culture e modi di vita diversi.

Foto di Fabiana Amato

L’ultimo concerto all’aperto di quest’edizione è l’esibizione dell’ensemble svizzero Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: dodici musicisti tra strumenti a fiato, a corde e percussioni. Un concerto colorato, luminoso, dall’ispirazione africana, sia per i ritmi che per certi canti corali che travolge con energia il pubblico in un centrifuga di rock, punk e folk. Abbiamo apprezzato l’equilibrio tra i vari musicisti fusi in un unico organico nonostante i tanti timbri e voci differenti. Una comune musicale fatta anche di ascoltatori che con i loro applausi hanno più volte richiamato la band sul palco per ulteriori brani. 

Foto di Fabiana Amato

Una giornata di celebrazioni collettive e di unione politica veicolate dalla musica in vari modi. Citando uno dei discorsi di De Plume possiamo dire che vivere in questo mondo è difficile, ma solo restando uniti ed umani possiamo farcela con coraggio.

Alessandro Camiolo e Marco Usmigli

Jazz is dead! Day2: un viaggio musicale tra suoni e impegno sociale

Dopo un primo giorno carico di aspettative e adrenalina, il secondo ha consolidato l’entusiasmo e confermato la qualità del festival. 

Dagli headliner ai talenti emergenti, passando per la risposta del pubblico e l’organizzazione impeccabile, Jazz is Dead! non solo ha mantenuto le promesse, ma ha persino superato le aspettative.

Ad aprire la seconda giornata del Jazz is Dead! troviamo il collettivo Orchestra Pietra Tonale, ormai presenza fissa al festival da quattro anni. L’esibizione ha mescolato improvvisazione e materiali dal nuovo album del gruppo , uscito il 16 maggio, e ha avuto come filo conduttore l’esplorazione di territori sonori unici e innovativi, uno dei tratti distintivi del collettivo. Fase importante della performance, rappresentativa dello spirito sperimentale del gruppo, è stata l’orchestrazione improvvisata sotto la direzione di Simone Farò che ha lasciato il pubblico col fiato sospeso in balia di suoni di guerriglia, a volte disorientanti e frammentati, altre rassegnati alle mani di chi li dirige.

Subito dopo l’esibizione dell’Orchestra Pietra Tonale, il festival si è spostato sul palco all’aperto. Qui è salito ShrapKnel, duo americano composto da PremRock e Curly Castro, membri della Wreckin’ Crew di Philadelphia. Il loro set ha inaugurato il palco esterno trasportando il pubblico in un viaggio attraverso l’hip-hop/rap più visionario e sperimentale, arricchito da sonorità elettroniche.
Nonostante l’orario ancora poco affollato, gli ShrapKnel sono  riusciti a coinvolgere tutti i presenti: in pochi minuti il pubblico si è avvicinato sotto il palco, riempiendo velocemente lo spazio e creando un’atmosfera carica di energia. Il loro live, caratterizzato da rime taglienti e un sound ruvido e contemporaneo, ha dato il via ufficiale alla serata, mostrando la forza del rap underground americano.

È poi l’ora dei Funk Shui Project che per chiudere in bellezza il tour del loro ultimo album Polvere hanno scelto di tornare a casa, Torino. Il live è stato un susseguirsi di sorprese e ospiti d’eccezione, sin dalle prime canzoni. A salire sul palco per primo è stato Willie Peyote, che ha regalato al pubblico due brani iconici: “Anestesia Totale” e “SoulFul”. L’atmosfera si è poi accesa con l’arrivo di Ensi, maestro del freestyle e simbolo della scena rap italiana, che ha sfoderato il suo flow impeccabile e l’energia contagiosa che lo contraddistingue. Un’altra sorpresa della serata è stata Davide Shorty, artista dalla voce soul inconfondibile. A rendere il momento ancora più speciale è stato l’arrivo di Johnny Marsiglia, uno dei liricisti più raffinati della scena siciliana.

A chiudere il concerto, grazie agli scratch di Frank Sativa, tutti gli artisti si sono riuniti per una jam memorabile, rappando alcune delle loro barre più celebri su strumentali che hanno segnato la storia dell’hip hop: un vero e proprio omaggio alla cultura del rap. 

Dopo la celebrazione del rap underground,  il festival  ha lasciato spazio a un ambiente più elettronico e all’esibizione di Herbert e Momoko, intimae sperimentale. I due artisti, Matthew Herbert produttore e musicista di musica elettronica e la cantante e batterista Momoko Gill, hanno presentato alcuni brani del loro prossimo album Clay, in uscita il 27 giugno, offrendo un’anteprima delle nuove sonorità elettriche e sognanti che lo caratterizzano. La performance si è sviluppata in un’atmosfera giocosa, con palle da basket a tenere il tempo, e raccolta, come se sul palco ci fossero due bambini a divertirsi dopo scuola. Nonostante la natura della loro esibizione, c’era una forte sintonia con il pubblico, diventato quasi parte attiva del processo creativo dentro il quale i due musicisti stavano viaggiando.

A seguire c’è stato l’arrivo di Meg, voce inconfondibile dei 99 Posse negli anni Novanta e icona della musica alternativa italiana: ha festeggiato i suoi 30 anni di carriera con un live intenso e carico di emozioni, portando sul palco il suo nuovo EP da solista Maria e i brani più conosciuti come “Sfumature” e “L’anguilla.”

Oltre alla musica, Meg ha scelto di usare il palco per parlare di temi urgenti e delicati. L’artista si è esposta riguardo al femminicidio di Martina Carbonaro ad Afragola, ribadendo l’importanza di educare le nuove generazioni sulla violenza di genere e sulla necessità di un cambiamento culturale. Un gesto potente, che ha dato ancora più valore al suo live e alla sua figura di musicista impegnata.

Un impegno che, forse, sarebbe stato ancora più significativo se anche alcuni colleghi uomini avessero preso posizione nei concerti successivi, facendo sentire la propria voce su un tema che riguarda tutti.

Ormai a notte inoltrata, l’ultimo artista a salire sul palco esterno è stato Egyptian Lover, autentico caposaldo e pioniere dell’hip-hop electro. Con un set alla console, ha chiuso la serata regalando bassi potenti, momenti vocali e sorprendenti incursioni di melodie mediorientali sapientemente remixate.

La sua performance, semplice ma estremamente efficace, si è distinta per una mimica minimalista ricca di carisma, perfettamente in linea con il suo personaggio. I ritmi travolgenti hanno coinvolto il pubblico, che nonostante le molte ore di festival alle spalle, si è lasciato trasportare dalla musica e si è scatenato fino all’ultimo beat grazie anche alla scelta di orientare le casse verso l’interno ha garantito una diffusione del suono equilibrata e avvolgente.

La giornata si è conclusa con i dj set di Los Hermanos, che hanno proposto una coinvolgente techno latina, seguiti da Andrea Passenger per chiudere la serata. 

Anche il secondo giorno si è così concluso, confermando pienamente le aspettative del festival.

Sofia De March, Marta Miron e Claudia Meli

Jazz is dead!: prima giornata tra ritualità ed elettronica sintetica

Tra le mura grezze del Bunker, dove il cemento risuona di bassi profondi e laser accecanti, il jazz – se davvero è morto – ha risposto con un ghigno e sonorità distorte. La prima giornata di Jazz is Dead! è stata un rituale urbano che ha fatto vibrare Torino tra improvvisazioni, scariche elettroniche e sorprendenti ibridazioni.

Alle 18:30, con il sole ancora alto e una calura che farebbe sciogliere anche le intenzioni migliori, Skylla apre il festival sul palco esterno. Il pubblico è sparso; molti cercano rifugio all’ombra, ma basta poco perché l’attenzione si concentri su di loro: una batteria incalzante, il basso magnetico di Ruth Goller – mente del progetto – e due voci che si rincorrono tra acuti, glissati e sillabe inventate. Nessun testo: solo un canto che sembra provenire dai bassifondi. Il mix è originale e potente: jazz, lirica e post-rock che si fondono in un flusso sonoro continuo, senza pause, capace di ipnotizzare. Niente maschere, solo suono puro che si impone sull’afa e sul disorientamento iniziale. In pochi minuti, il pubblico è rapito. Si entra nel festival così, seguendo l’istinto. 

Dopo una breve pausa il programma prosegue. The Necks, trio jazz australiano, sale sul palco e dà inizio alla performance.

Il gruppo è composto da pianoforte, contrabbasso e batteria, strumenti che, grazie a microfoni posizionati in modo inusuale (ad esempio molto vicini alle corde del pianoforte), creano effetti sonori particolari e mutevoli. Gli strumenti non vengono suonati secondo la prassi tradizionale: il contrabbassista, ad esempio, talvolta utilizza l’archetto in modo pesante, quasi sgraziato, mentre il batterista preferisce bacchette con punte più grandi e morbide, che, usate sui piatti, producono un suono lieve e avvolgente.

La performance si sviluppa come un lungo flusso musicale dall’evoluzione graduale: si apre con un inizio etereo, caratterizzato da arpeggi del pianoforte che richiamano melodie orientali, che si evolve in una progressiva intensificazione, sempre più “caotica” ma ordinata allo stesso tempo.

Foto di Fabiana Amato

Dopo un’ora puramente strumentale, le voci tornano protagoniste sul palco con Tarta Relena, duo catalano composto dalle voci di Marta Torrella e Helena Ros, in grado di  creare un’atmosfera suggestiva e ancestrale. L’esecuzione di brani della tradizione mediterranea e di composizioni originali, arricchita da una base elettronica, contribuisce a costruire un ambiente suggestivo. Il repertorio spazia da un poema cantato del Seicento in latino rielaborato in forma polivocale – con due voci separate da un’ottava–fino a “Tamarindo”, una loro composizione nata da un errore in sala di registrazione con una traccia riprodotta al contrario, come spiegato poi sul palco.

Il rapporto tra sperimentazione e tradizione ha dato vita a un’esibizione capace di emozionare profondamente gli ascoltatori.

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’ipnotico inizio, l’atmosfera del festival si carica di elettricità con l’arrivo di Bendik Giske. Il sassofonista norvegese trasforma il palco in un rituale fisico e sensoriale, dove ogni respiro, ogni vibrazione dello strumento diventa parte del linguaggio corporeo. Con una tecnica impeccabile, Giske utilizza fiato continuo e microfonazioni creative per generare un suono percussivo e soffiato, costruito su arpeggi ripetuti, forte ritmicità e continui giochi di dinamiche. Il risultato è un’esperienza immersiva, dove la potenza del corpo e del gesto performativo si fondono in un atto di resistenza e bellezza. Tuttavia, nonostante le capacità tecniche e la presenza scenica, la performance tende col tempo a ripiegarsi su se stessa, sfumando in una continua dimostrazione stilistica che non amplia la modalità esecutiva già consolidata.

Foto di Fabiana Amato

Le esibizioni all’aperto si concludono con Loraine James, produttrice londinese di musica elettronica che in un’ora di live set ci ha colpiti con tracce intricate, piene di glitch, voci in loop che creano linee di suono costanti e momenti di rottura, in cui i bassi sferzano il ritmo. Flash di luci rosse fanno da sfondo al caldo serale, proviamo a stento a seguire il ritmo che è un continuo sali e scendi di BPM riempito di suoni sempre nuovi, che emergono di continuo come in un magma ribollente di emocore, ambient e IDM. 

La notte nel club inizia con il duo techno Dopplereffekt, direttamente da Detroit, sono marito e moglie: Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel. Entrambi indossano una maschera nera che annulla i loro volti e suonano due sintetizzatori Korg Triton, attraverso i quali creano suoni fantascientifici, simili a spade laser che vibrano nell’aria. La loro è techno minimale, ipnotica, che tende a una forma cerebrale quasi da canone infinito. I campioni e le sequenze utilizzati plasmano un percorso di accrescimento, si parte da materiale minimo, per tessere elaborazioni con sempre più ingredienti in un composto denso e multiforme. I visual che vengono proiettati lo confermano, vediamo prima un enorme volto grigio simile a quello umano, pieno di connessioni elettriche, per poi ampliare la visione al resto del corpo, ai suoi movimenti e infine decine di suoi simili che formano una grande tribù umanoide. Nel finale, tutto si spegne all’improvviso trovando equilibrio e quiete nell’immobilità dei corpi e del suono di cui possiamo solo sentire un’eco lontana nella nostra mente. 

Foto di Fabiana Amato

La serata prosegue con le esibizioni di Kreggo e Dualismo, che chiudono una giornata intensa, sperimentale e all’avanguardia, capace di esplorare i lati più opposti e affascinanti della musica. Un ottimo inizio per un festival che si preannuncia ricco di esperienze sonore uniche e coinvolgenti.

Marco Usmigli, Marta Miron e Alessandro Camiolo

Presentato MiTo Settembre Musica 2025: Rivoluzioni

Torino e Milano si preparano ad accogliere la 19a edizione di MiTo Settembre Musica, il festival internazionale che dal 3 al 18 settembre celebrerà la musica attraverso il tema “Rivoluzioni”.

Durante la conferenza stampa del 20 maggio, in collegamento tra le due città coinvolte, l’Assessora alla Cultura di Torino, Rosanna Purchia, ha affermato che MiTo rappresenta non solo un appuntamento musicale, ma un vero e proprio dovere civile, culturale e sociale. Il Sindaco di Milano, Giuseppe Sala, ha invece evidenziato il valore della collaborazione tra le due città, sottolineando che l’internazionalità del festival rispecchia l’identità e le aspirazioni di Milano.

Alla sua ultima edizione come direttore artistico, Giorgio Battistelli ha messo in luce la necessità di rinnovare il concetto stesso di programmazione musicale. «Non si porta la cultura, si sollecita un’azione culturale» ha affermato, rimarcando la volontà di resistere all’omologazione e stimolare nuove connessioni.

I quattro perimetri su cui si sviluppa il programma sono: Mitjia e gli altri (per omaggiare Šostakovič nel cinquantenario dalla scomparsa), Berio e le avanguardie (con un omaggio al compositore nel centenario dalla nascita), Rivoluzioni – tempi di guerra, tempi di pace, e infine Ascoltare con gli occhi – la musica si intreccia con immagini e danza per creare un’esperienza multisensoriale.

Con 67 eventi in programma, MiTo porterà sui palchi artisti e orchestre di grande rilievo. Ad inaugurare il festival, il 3 settembre all’Auditorium del Lingotto di Torino, ci sarà la Filarmonica della Scala guidata dal futuro nuovo direttore artistico del Teatro, Myung-Whun Chung: in programma musiche di Šostakovič, Rachmaninov e Čajkovskij.

A seguire, il 4 settembre al Teatro alla Scala, Antonio Pappano dirigerà la London Symphony Orchestra in brani di Bernstein, Prokof’ev e Copland.

All’interno del programma dedicato a Šostakovič, sarà di rilievo l’esecuzione della Sinfonia n° 10 al Teatro Dal Verme con l’Orchestra Sinfonica di Lucerna diretta da Michael Sanderling, accompagnata dalla proiezione dell’artista William Kentridge: un suggestivo dialogo tra musica e immagini.
Significativa sarà anche l’esecuzione integrale dei quartetti per archi di Šostakovič, proposta in sei giornate dal Quartetto Eliot.

Accanto alle esibizioni di grandi nomi, il festival conferma il suo impegno nella valorizzazione di talenti emergenti con il progetto Milano Mito d’Europa che offrirà spazio a giovani musicisti e compositori. In questo ambito, il 6 settembre al Teatro Alfieri di Torino, la Scuola di Perfezionamento Musicale di Saluzzo presenterà un’orchestra di giovani musicisti sotto la direzione di Donato Renzetti in un programma dedicato a Bernstein, Gershwin e John Williams.

Battistelli ha voluto sottolineare come MiTo sia un festival che resiste all’immobilità, abbracciando il cambiamento: «Più passa il tempo, più non so quale sia la musica contemporanea. La musica è un experimentum mundi». L’iniziativa si pone dunque come una riflessione sulla trasformazione culturale e sulle nuove modalità di ascolto e partecipazione.

MiTo si conferma una realtà dinamica capace di intrecciare tradizione e innovazione, di rivoluzionare la musica e la fruizione musicale.

Ottavia Salvadori

La bellezza della scoperta: Jazz Is Dead! raccontato da Alessandro Gambo

Dietro ogni festival c’è una visione, un’identità che prende forma attraverso scelte artistiche, intuizioni audaci e tanta passione. Alessandro Gambo, mente creativa del Jazz Is Dead!, ci porta dietro le quinte di un evento che non è solo musica.

Qual è la visione artistica dietro l’ottava edizione di Jazz Is Dead? Come è cambiata la direzione nel corso degli anni? È necessario reinventarsi per restare rilevanti? 

La visione di Jazz Is Dead, come ogni anno, è quella di esplorare la musica d’avanguardia a tutto campo: jazz, elettronica ma anche rock e pop. L’identità del festival è fortemente legata alla sua direzione artistica, perché lo stesso artista può trasmettere sensazioni diverse se ascoltato in un club o su un grande palco.

Costruiamo la line up seguendo tre grandi filoni, in base alle giornate: il venerdì la sperimentazione e l’avanguardia, il sabato suoni più accessibili con dei ritmi coinvolgenti e poi la domenica sonorità post-jazz. Visto che il jazz è morto andiamo a cercare quello che è successo dopo! (ride, ndr)

Quest’anno abbiamo aggiunto un quarto giorno, in collaborazione con Jazz:Re:found, dedicato alle sonorità dub, prettamente Oltremanica. Ci saranno artisti come Ghost Dubs, Mad Professor e The Bug, imperdibili!

Ogni anno seguiamo questi tre filoni e, in base a quello che ascolto e scopro durante i mesi precedenti, costruisco una line-up coerente e la propongo. 

A prima vista, il programma del festival può sembrare un “caos calmo”, un elenco di artisti senza apparente connessione. Qual è il filo rosso che li lega?

Io sono un DJ, quindi ho sempre immaginato e cercato suoni che stessero bene l’uno con l’altro indipendentemente dal fatto che un brano sia una hit o un pezzo sconosciuto. Lo stesso principio vale per gli artisti di Jazz Is Dead.

Un grande ringraziamento va al negozio di musica Ultrasuonisound, il mio pusher di fiducia di dischi da 25 anni (ride, ndr). Conosce le sonorità che cerco e spesso mi propone dischi in anteprima, addirittura ragioniamo insieme: da grandi consigli nascono grandi line-up.

Fino ad adesso il pubblico è stato sempre molto contento perché abbiamo affiancato nomi storici come Charlemagne Palestine, Godflesh e William Basinski a talenti emergenti, con la bellezza della scoperta. Proprio oggi, un nostro follower ci ha ringraziato per avergli fatto conoscere nuovi artisti, tornando a casa con un bagaglio di ascolti completamente nuovi.

Cosa rende speciale Jazz Is Dead?

La forza sta nella sua credibilità e nell’atmosfera unica che si crea. Le persone non vengono solo per i singoli artisti o per gli headliner, ma per vivere 3-4 giorni immersi in suoni sempre diversi.

La direzione artistica combacia con le esigenze del pubblico, ma non è solo la musica a far vivere il festival: c’è un mood di cui andiamo molto fieri.

Se potessi scegliere un artista impossibile—vivo, morto, fittizio—chi inviteresti al festival? C’è un artista che avete sempre sognato di avere nel festival?

Ho letto una frase che diceva «A meno che tu non sia John Lennon, Michael Jackson o James Brown, non aspettarti risposte per il booking!» credo che valga come risposta. (ride, ndr) 

Sono un beatlesiano, quindi la produzione di Harrison l’ho sempre trovata molto interessante, sicuro un Lennon o un Harrison non sarebbe male.

Mi piacerebbe portare Parliament-Funkadelic, George Clinton è ancora vivo…più o meno! (ride, ndr)

Adesso porterei volentieri Mondo Cane, un progetto bellissimo di Mike Patton in cui interpreta canzoni italiane anni ‘60. Sarebbe fantastico! Magari lo propongo a Stefano Zenni per il Torino Jazz Festival.

Come si costruisce un’esperienza coinvolgente per il pubblico? Hai notato un cambiamento negli anni nel modo in cui il pubblico vive il festival?

Il pubblico è rimasto sempre lo stesso, tra chi è cresciuto e chi è arrivato ex novo. La nostra idea è quella di rendere il festival accessibile: fino all’anno scorso era gratuito, quest’anno i prezzi sono calmierati, 15€ al giorno, per garantire un’esperienza alla portata di tutti. 

Essendo organizzato da tre associazioni: Arci, Magazzino sul Po e Tum, il festival ha un forte senso di convivialità, di accessibilità di fruibilità e questo ci distingue da quelli più commerciali. Non abbiamo interessi economici, il nostro obiettivo è che tutto stia in piedi, ma senza perdere libertà artistica e spirito inclusivo.

Se dovessi descrivere l’atmosfera e l’ambiente del festival con una sola canzone, quale sarebbe?

Direi “Yellow Submarine”, nei giorni di festival sembra davvero di essere dentro un gran bel sottomarino giallo, mentre il mondo fuori continua la sua routine e noi dentro ci divertiamo e facciamo festa. 

Quali sono gli album che ti hanno accompagnato durante i tuoi anni universitari?

Ho avuto la fortuna di nascere nel 1980, di conseguenza, quando sono diventato teenager dai 13 ai 19 sono usciti gli album più fighi della storia della musica alternativa.  Mtv passava in heavy rotation: “Smells Like Teen Spirit”, “Firestarter” dei Prodigy, Homework dei Daft Punk, “Black Hole Sun” dei Soundgarden e così via. 

Sono cresciuto in questo ambiente e mi sono subito legato alla musica alternativa, al reggae e all’hip hop. Secondo me non puoi non aver ascoltato SxM dei Sangue Misto o Marley. Credo che siano testi e suoni che sono la base della mia identità: mi ci ritrovo politicamente all’interno di questi suoni. Poi, nel 96 ho scoperto i rave ed ho iniziato a partecipare ai free party, da quella scena è uscito un mondo, come gli Underworld. 

Come immagini questo festival tra dieci anni? Qual è il sogno a lungo termine per questo festival?

Non me lo immagino tra dieci anni, perché lo costruisco anno dopo anno, in base a ciò che è successo nelle edizioni precedenti. Non so cosa succederà ma, come ho già detto dal comunicato stampa, posso dirti che sarà l’ultima edizione per come lo conosciamo.  

Stiamo entrando in delle logiche di mercato che non ci appartengono: non voglio giocare al rialzo per ottenere artisti, né trasformare il festival in una compravendita di nomi. 

Preferisco fare un downgrade preservando l’anima Jazz Is Dead: giorni di festa, di convivialità, accessibilità dove tutti possono avere il proprio spazio e tanta musica bella senza aver bisogno di rincorrere la moda o l’artista del momento.

Un consiglio che vorresti dare a chi vorrebbero lavorare nell’ambito musicale?

Il mio consiglio? Fate festa. Dalle feste nascono incontri, idee e progetti incredibili. È proprio quello che è successo a me: all’università ho conosciuto un amico con cui ho aperto il Magazzino sul Po.

Non aspettate che qualcuno dei “grossi” venga a pescarvi: l’auto-organizzazione è la chiave. Costruite qualcosa di vostro, e quando avrete una base solida, potrete collaborare con i grandi e imparare da loro. 

Guardate anche la video – intervista sul nostro profilo Instagram

di Sofia De March e Joy Santandrea

Flamenco Criollo al TJF: musica che unisce l’Atlantico

Un concerto magnetico al Teatro Colosseo per il Torino Jazz Festival: danza, canto e ritmi in una serata che unisce le sponde dell’Atlantico.

Al Teatro Colosseo di Torino, Flamenco Criollo ha dato vita a una delle serate più attese del TJF. Sul palco, il progetto del pianista cubano Aruán Ortiz ha preso forma in una performance che ha unito musicisti e danzatori da Marocco, Palestina, Cuba, Stati Uniti e Spagna. Un’onda che ha attraversato oceani e tradizioni, fondendo i suoni del flamenco con le ritmiche energiche dell’area afro-cubana.

Foto di Ottavia Salvadori

Nato nel 2021, Flamenco Criollo è un progetto ambizioso che intreccia musica, danza e ricerca culturale. Ortiz, jazzista di formazione e studioso di culture musicali, ha dato vita a un ensemble che restituisce le molteplici radici del flamenco. Il risultato è stato un percorso potente, poetico e coinvolgente, fatto di cantes de ida y vuelta, quei canti che, come le navi tra Cadice e L’Avana, hanno attraversato l’oceano portando con sé storie, lingue e battiti.

L’incipit dello spettacolo ha subito colpito per delicatezza e simbolismo: una figura femminile, velata, disegna linee perfette, evocando le onde del mare. Un’immagine danzata da Niurka Agüero che anticipa la natura profonda e mobile dell’intera esibizione. Dopo di che la bailaora María Moreno, in un abito lineare lontano dal consueto immaginario turistico del flamenco mettendo in risalto l’intensità interpretativa e i virtuosismi del compás. Il duetto struggente con la cantaora Samara Montañez — tra “adelante” e “para bailar” — ha rapito il pubblico in un silenzio sospeso, carico di emozione.

Foto di Ottavia Salvadori

Accanto a quest’ultima, la danzatrice afro-cubana ha portato in scena un’energia terrena e ancestrale. In un duetto finale, le due interpreti hanno fuso le proprie radici in una sinergia unica, dimostrando che, al di là delle distanze culturali esiste una ritmica umanità condivisa. La centralità delle figure femminili, tra canto e danza, ha dominato la scena: non semplici interpreti, ma custodi di tradizioni in continua trasformazione.

Il concerto ha saputo mantenere un ritmo coinvolgente, arrivando, come più classica delle chiusure, a una partecipazione attiva del pubblico. A guidarla, la cantante cubana Susana Orta López, una delle tre voci dell’ensemble, che ha invitato la platea a unirsi ritmicamente al groove finale. Tutti in piedi, a battere le mani, come palmeros improvvisati ma totalmente dentro allo spettacolo.

Flamenco Criollo è un esempio riuscito di contaminazione consapevole, che scava nelle radici comuni per creare qualcosa di nuovo. Una bellezza di multiculturalità: un’arte viva, che respira e unisce.

di Joy Santandrea

Dudù Kouate 4tet al Torino Jazz Festival: un’esperienza che va oltre i confini

Anche nel 2025 il Torino Jazz Festival si conclude con la Giornata Internazionale del Jazz, celebrata il 30 aprile. Più che una conclusione, questa giornata sancisce ogni anno un nuovo inizio: apre a una riflessione su un genere che abbraccia sempre di più la sua natura libera e la sua capacità di unire tecniche vocali e strumentali, strumenti e tradizioni diverse, uscendo così dai suoi confini “classici”.

A coronare il Festival ci sono due main concert: quello di Dudù Kouate al Teatro Juvarra, un piccolo gioiello nascosto tra i palazzi di Torino, e quello di Jason Moran al Lingotto, in una sala grande e moderna. Due concerti e due luoghi agli antipodi ma che raccontano un’unica storia.

Dietro una piccola porticina discreta, quasi timida, il Teatro Juvarra accoglie il pubblico in un’atmosfera intima e familiare. L’impressione iniziale è quella di varcare la soglia di un’abitazione privata, ma basta qualche rampa di scale per scoprire una sala elegante e raccolta e un quartetto musicale che trasforma il teatro in un universo utopico.

Dudù Kouate ha attraversato confini geografici e culturali per dare forma alla sua arte. Senegalese di origine, cresce in una famiglia di Griot ma presto si trasferisce in Italia per diffondere la tradizione tra le strade di Bergamo (e non solo). Musicista affermato in tutto il mondo, Kouate entra a far parte dello storico Art Ensemble of Chicago, uno dei gruppi jazz più longevi che unisce avanguardia, free jazz e la tradizione africana.

Foto di Ottavia Salvadori

«Il palco è grande quanto il mondo… però riusciamo a starci» afferma Kouate durante il concerto, e in queste parole si cela l’essenza della sua musica e della sua visione artistica. In un mondo vasto e complesso, ognuno può trovare il proprio posto per esprimersi, vivere e comunicare attraverso l’arte.
Il palco non è solo il luogo in cui stanno i musicisti, ma è il nucleo vitale da cui si originano connessioni umane, culturali e spirituali. È lo spazio in cui ogni suono diventa dialogo e crea ponti tra storie, emozioni e vissuti.

Per il TJF Kouate ha messo insieme un quartetto esclusivo, riunendo talenti da diversi parti del mondo: Simon Sieger (Francia) al pianoforte, ai fiati e voce, Alan Keary (Irlanda) al basso elettrico a cinque corde, al violino e voce, Zeynep Ayse Hatipoglu (Turchia) al violoncello.

Descrivere e dare nome ad ogni strumento utilizzato durante il concerto sarebbe quasi impossibile: Kouate, seduto su una piattaforma rialzata, è circondato da decine di strumenti, dallo xalam al talking drum, dal thunder drum a set di piatti e campane di varie dimensioni e tipologia. A rendere il paesaggio sonoro ancora più unico e affascinante sono gli strumenti artigianali, frutto della sua ricerca sul suono: tubi in plastica fatti volteggiare in aria e sezioni di bottiglia legate a bastoni in legno ed immerse nell’acqua – oggetti reinventati che diventano veri strumenti musicali. 

Foto di Ottavia Salvadori

Irlanda, Francia, Turchia e Senegal (e Italia) si intrecciano in un unico organismo sonoro che espande lo spazio trasformando il concerto in un’esperienza collettiva di ascolto e condivisione.
A fondersi non sono solo gli strumenti, ma anche le voci di Kouate, Sieger e Keary che talvolta emergono o si amalgamano al sound complessivo.
La voce avvolgente del leader evoca le radici della terra, le tradizioni e la natura ricercata dal gruppo. Al suo fianco, Simon Sieger utilizza la tecnica della throat voice, graffiante e ritmica, avvicinandosi talvolta ad un beatbox raffinato per creare tensioni e dinamismi. In contrasto, la voce dolce ed eterea di Alan Keary che con il suo canto melodico inglese restituisce un senso di calma, armonia e di una natura idilliaca.

Ogni suono, strumentale o vocale, è calibrato con estrema precisione: ogni pianissimo e ogni fortissimo trova il proprio specifico significato, così come i momenti di vuoto e di pieno sonoro.
La capacità di fondere ritmi ancestrali, suoni naturali e sensibilità moderne è un invito a riscoprire la potenza della musica come potente strumento di comunicazione e connessione.
Ogni nota è un frammento di viaggio, ogni strumento una voce, ogni vibrazione racconta una storia trasmettendo l’eco di tradizioni lontane.

Foto di Ottavia Salvadori

Nulla è appariscente, né il luogo né la presenza scenica dei musicisti. Tutto è semplice, naturale, ma è proprio questa semplicità che genera una forza straordinaria che catapulta altrove, lontano nel tempo e nello spazio.

A conclusione del concerto, Dudù Kouate si avvicina al pubblico e canta una melodia. Quel che succede è magia: il pubblico, intonato e perfettamente in sintonia, raccoglie il testimone e continua a cantare senza sosta.
Intanto il palco si svuota lentamente: uno alla volta, a partire da Kouate, i musicisti lasciano la scena, trascinando con loro persino il cavo del basso ancora collegato all’amplificatore. Ma la musica non si ferma. Il pubblico diventa l’unico protagonista, riempiendo il vuoto del palco con l’energia del canto.

Il palco è vuoto ma il pubblico non si arrende e chiama i musicisti a gran voce. Dopo una brevissima pausa, tra risate e applausi, la melodia riparte spontaneamente come un’onda. A quel richiamo sincero e potente, i musicisti non possono resistere: ritornano sul palco per raccogliere l’ovazione che meritano, tra applausi scroscianti e una standing ovation che conferma come la musica abbia dato vita ad un legame condiviso.

E così, quella sensazione di entrare in una “casa” si è rivelata autentica. Siamo tutti parte di un unico palco, siamo tutti uniti e il legame familiare che si crea è generato dalla musica. Perché la musica non è solo suono, è un ponte che collega, un abbraccio che cancella le distanze e un sorprendente mezzo che riesce a creare comunità.

Ottavia Salvadori

Lampo di musica: TJF Blitz

Jazz Blitz è un evento che porta il jazz nei luoghi della vita quotidiana, trasformandoli in palcoscenici inaspettati. Si tratta di momenti musicali in luoghi di assistenza, di accoglienza e di incontro dedicati agli utenti e agli ospiti delle strutture.

Parte del programma è anche aperto al pubblico esterno che può quindi visitare e scoprire le realtà sociali che operano attivamente nei vari quartieri della città. Abbiamo avuto l’occasione di partecipare al blitz organizzato negli spazi di Housing Giulia nel pomeriggio di martedì 29 aprile. La residenza, nata dalla cooperazione dell’Opera Barolo e dell’impresa sociale CoAbitare, fornisce residenza temporanea e risponde a bisogni abitativi diversificati.

Per l’occasione, lo staff della struttura ha preparato un ricco buffet di benvenuto in cortile. Mentre i musicisti del quartetto della Jazz School Torino provavano i loro brani, si sono radunati diversi gruppi di ospiti, tra cui bambini, studenti stranieri e anziani, che hanno preso subito posto.

Un incontro con la musica, in cui ciò che conta è la condivisione del momento con le altre persone: per molti infatti ascoltare musicisti suonare dal vivo non è certo una consuetudine, basta poco quindi per sentirsi più leggeri, sorridenti e rilassati. I bambini soprattutto hanno iniziato a saltare e scherzare tra di loro proprio attorno alla band, in uno spazio di totale libertà, che in altri contesti non sarebbe possibile.

Il quartetto ha alternato brani canonici di Dexter Gordon e Bill Lee ad altri del jazz “bianco”, una selezione accurata che ha reso unica questa mezz’ora di musica. 

Un’iniziativa riuscita, certamente lodevole, ben strutturata e con un chiaro obiettivo: creare senso di comunità e unione attraverso la musica, senza lasciare indietro nessuno. 

Alessandro Camiolo

Andrea Rebaudengo scatena i preludi di Uri Caine

Al Teatro Vittoria, il Torino Jazz Festival propone una produzione originale di scrittura e improvvisazione: Improvisers/Composers. Protagonista il pianista Andrea Rebaudengo, che presenta un programma interamente dedicato a brani “classici” per pianoforte composti da musicisti jazz contemporanei.

Rebaudengo, del resto, non è nuovo a questo tipo di esplorazioni: oltre a collaborare con realtà come l’Orchestra della Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Rai, è il pianista stabile dell’ensemble Sentieri Selvaggi, gruppo di riferimento per la musica contemporanea in Italia. Proprio in questo contesto ha affinato un approccio libero ma rigoroso.

Foto da Press Kit Torino Jazz Festival

Il concerto è stato caratterizzato da una serie di prime esecuzioni che ne hanno definito l’unicità. In particolare, due prime italiane: Alone, in Four Parts di Wayne Horvitz e Looking Above, the Faith of Joseph di James Newton. A seguire, due brani di Matt Mitchell tratti da Vista Accumulationall the Elasticity e Utensil strength – autentici esercizi di resistenza.

La sorpresa del concerto è la prima esecuzione assoluta dei 24 Preludi per pianoforte firmati da Uri Caine: una suite che sfida l’ascolto e la varietà stilistica, consapevole che alcuni passaggi potessero mettere in crisi l’ascolto del pubblico. Ma è proprio questo il bello: il rischio, la possibilità di ascoltare qualcosa che ci sposti un po’ più in là.

I preludi sono stati affidati dallo stesso Caine a Rebaudengo. Si avverte la presenza del compositore negli accenni di micromelodie e citazioni, che come piccole apparizioni intersecano un ricchissimo mondo sonoro, da ascoltare con attenzione e impegno. La sequenza di esecuzione dei preludi non è fissa, ma costruita dal pianista stesso, che ha immaginato un percorso coerente con l’evoluzione dell’intero concerto. È proprio lui a concludere il ciclo con un preludio melodico, una scelta che sorprende e arricchisce ulteriormente il progetto.

Il pianoforte si conferma così l’ambito di una ricerca continua e appassionata da parte di Rebaudengo, e questo piccolo preludio finale diventa anche un gesto di “riappacificazione” – come lo definisce lui stesso –, un momento di leggerezza che permette di accogliere e conservare l’intensità dell’intero concerto.

Foto da Press Kit Torino Jazz Festival

Gli improvvisatori scrivono? Traggono dallo studio sull’improvvisazione materiale che poi mettono su pentagramma? «La risposta» spiega Rebaudengo «è stata un fluire di partiture estremamente interessanti, geniali, coraggiose, in cui le appartenenze geografiche e stilistiche c’entravano fino a un certo punto. Forse più di tutto contava la curiosità del compositore/improvvisatore, la sua voglia di mettersi in gioco».

Il risultato è un percorso dentro la mente di artisti che, pur nati nell’improvvisazione, hanno scelto la scrittura come nuovo terreno di esplorazione. Non semplici improvvisazioni “cristallizzate”, ma pensieri musicali lunghi, forme controllate, racconti in musica.

Alla fine del concerto — che, per scelta programmatica, non ha mai cercato la facile seduzione — Rebaudengo rientra tra gli applausi e offre al pubblico un piccolo encore: Portolan. Un repertorio raffinato, difficile, e proprio per questo necessario.

di Joy Santandrea