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Il rock next generation infiamma il Rockish Festival

Lo scorso giovedì 12 luglio ha avuto luogo il Rockish Festival. Sette band, rappresentanti la nuovissima scena rock torinese, si sono esibite alternandosi tra main e side stage per quattro ore ininterrotte di musica rock declinata in tutte le sue forme. Una scelta che riesce a portare sul palco dello Spazio211 diversi progetti artistici, tra cui anche gruppi di giovanissimi under 25, che ormai rappresentano un punto di riferimento per il rock torinese

Nonostante la presenza della band di fama internazionale, i Melody Fall, la protagonista della serata era proprio la next generation. Dal pop punk al rock di protesta e all’art pop, la line up di quest’anno propone i progetti di I boschi bruciano, Narratore Urbano, Irossa, Xylema, Tramontana, Breathe me in.

Foto di William Fazzari

I Narratore Urbano nascono nel 2019 definendo, da subito, la volontà di coniugare il rock ad una finalità diversa dell’esibizione fine a sé stessa. Hanno una voce e affermano di volerla usare -e lo fanno bene‐ anche per pronunciarsi su tematiche sociali e politiche.

Gli Xylema ripartono e convincono dopo un cambio di formazione e, dal Reset Festival 2023, sono una certezza del panorama torinese con un sound punk rock e melodie d’impatto. Da poco i loro testi sono in italiano e trattano delle loro esperienza personali.

Foto di William Fazzari

Irossa sono l’ultima novità dell’underground sabaudo. Di impatto è sicuramente l’immagine definita e contemporaneamente caotica, pienamente colta nelle grafiche del loro merchandising, nell’outfit e nei loro movimenti durante la performance.

Camaleontici. Se in un primo momento si è trasportati dal sax in una dimensione onirica e malinconica, un attimo dopo l’attenzione viene rubata dalle chitarre, decise e mai aggressive, che accompagnano, chi ascolta, alla comprensione delle immagini suscitate dai loro testi.

Foto di William Fazzari

L’inconveniente della pioggia non ha fermato il pubblico che, seppur ridotto, ha saputo compensare in energia e partecipazione. Cantando e ballando il repertorio di tutti gli artisti, hanno sicuramente contribuito alla realizzazione di una serata piacevole all’insegna della scoperta musicale.

Foto in copertina di William Fazzari

Al Flowers Festival, dopo la tempesta arriva Fulminacci

Sono le 21:30 dell’11 luglio e il maltempo sembrava pronto a boicottare una delle ultime date del Flowers Festival. Dopo qualche speranzosa preghiera, Mazzariello sale sul palco solo mezz’ora dopo, dando così inizio alla terzultima serata del festival.

Il compito del musicista napoletano, accompagnato alle tastiere da Giuseppe Di Cristo, è quello di apertura a Fulminacci. Nonostante si tratti di un incarico sempre abbastanza difficile, Mazzariello viene promosso a pieni voti dal pubblico: ne coinvolge una buona parte grazie alla parlantina spigliata nonostante l’emozione, e riesce a farsi accompagnare da un bel coro. Saluta il pubblico con “Pubblicità progresso” − brano conosciuto in quanto colonna sonora della serie Summertime − che unisce alla cover del brano di Frah Quintale ft Giorgio Poi, “Missili”. 

Dopo un (non molto rapido) cambio palco si abbassano le luci, i musicisti si posizionano sulla scena e parte una sorta di messaggio preregistrato. Inizialmente chiede di spegnere i cellulari ma poi, correggendosi, chiede non solo di tenerli accesi e di fare qualche storia per Instagram, ma anche di ricordarsi di taggare tutta la band, compreso il tastierista «che sennò si offende». 

foto di Alessia Sabetta

Sale sul palco Fulminacci − vestito da un completo giacca gilet + pantaloncino in silver e maglietta della Nasa, con scritto “Spacca” − con la chitarra e, sullo sfondo del ledwall, con “Borghese in Borghese” inizia il concerto.

Fulminacci in live è come l’aglio nell’olio: sfrigolante e un ottimo insaporitore. Di sicuro la band di supporto (composta da Roberto Sanguigni al basso, Lorenzo Lupi alla batteria, Riccardo Nebbiosi al sax baritono e tenore, Giuseppe Panico alla tromba, Riccardo Roia alle tastiere e Claudio Bruno alla chitarra), conferisce il quid in più per trasformare una semplice “Aglio e olio” in una buonissima AglioOlio&Peperoncino. La dimensione del live è curata benissimo: i musicisti si muovono sul palco coreografando dei passetti di danza semplici ma d’effetto, che ben si incastrano con l’atmosfera musicale un po’ anni ‘80. Dal vivo, infatti (più che in studio), sono enfatizzate quelle sonorità underground hip hop e funk con i tempi in levare e l’accompagnamento energico dei fiati. 

foto di Alessia Sabetta

Ovviamente, non manca il momento malinconico al pianoforte sulle note di “Le biciclette” e “Una sera” e l’arrivo a sorpresa di Willie Peyote per “Aglio e Olio”. Dopo la momentanea uscita di scena, gli artisti salgono nuovamente sul palco per poi congedarsi definitivamente dopo Tommaso e «la canzone con cui ho perso il Festival di Sanremo», “Santa Marinella”, accompagnata dal canto a cappella e ad libitum del pubblico incitato dagli artisti sul palco. 

Un live, quello di Fulminacci, degno di essere chiamato tale: buon intrattenimento, buona musica, pubblico soddisfatto e artisti altrettanto. What else?

a cura di Alessia Sabetta

Elio e le Storie Tese: il tempo passa ma loro restano

Ultime luci della giornata sul pubblico del Flowers Festival, palco leggermente illuminato. Una voce cadenzata, da dietro le quinte, inizia a recitare un’omelia per ascoltare musiche un po’ stupide «che acquisiscono un senso sotto il segno del Cristo». Verrebbe da chiedersi perché ci si è ritrovati in una messa indesiderata durante una serata d’estate, precisamente quella del 6 luglio. Invece, è il concerto di Elio e le Storie Tese che aprono così lo show del tour “Mi resta solo un dente e cerco di riavvitarlo”, entrando in scena tutti vestiti di bianco. 

Un concerto all’insegna della musica sparkling, come spesso ripete Elio, tra prosa e poesia, fiabe e attualità. Tanti sono i momenti di interazione con il pubblico in cui Faso (bassista) e Vittorio Cosma (tastiere) raccontano aneddoti per presentare alcuni brani: come la narrazione tratta dal libro di fiabe per analfabeti per “Il vitello dai piedi di Balsa” o la descrizione delle fasi di trasformazione da uomini a “Servi della gleba”

foto di Alessia Sabetta

Sulla scena anche Cesareo (chitarra), seduto un po’ in disparte; Paola Folli (voce, cori, tamburello); Antonello Aguzzi (tastiere e coro); Paolo Rubboli e Riccardo Marchese (batteria e percussioni). Questi ultimi due, i più giovani, sono costretti tramite una cerimonia, a scambiarsi le postazioni per un’imposizione dello SBURRE − il Sindacato Batteristi Uniti per il Rock and Roll Elvetico − al fine di non far terminare i colpi a disposizione. Rubboli e Marchese, in realtà, sono i sostituti di Christian Meyer che − tramite un annuncio − aveva spiegato che, a causa della sua passione per i pinoli, ne aveva fatto un consumo eccessivo tanto da provocargli «effetti imprevedibili ed indesiderati» da non poter prendere parte al tour. A grande sorpresa però, per il bis, appare sul palco, presentato come il direttore dello SBURRE, Fritz Meyer, fratello gemello di Christian. Il batterista, teletrasportatosi dal quartiere generale a causa del termine dei colpi disponibili, si assume il compito di sopperire al disagio e, per quanto i due ragazzi siano tecnicamente preparati per stare dietro alla band, appena Meyer impugna le bacchette, si sente subito la differenza. 

L’immancabile Mangoni vestito da Supergiovane, soubrette con le ali fucsia da danza del ventre, in completo total silver o rosso a cuoricini bianchi, completa l’allegro quadretto arrampicandosi sulle impalcature e saltellando o ballando qua e là.

foto di Alessia Sabetta

Lo spettacolo è tutto quello che ci si potrebbe aspettare dalla stravagante band: ironia, pungenti battute a sfondo politico, irriverenza e consapevolezza che è tutto ciò che la cancel culture abolirebbe. Nonostante il tempo sembri aver fatto il suo decorso anche per loro, i fan continuano a incitarli a suon di “forza Panino” perchè, malgrado tutto, gli Elio continuano a risultare sempre geniali e musicalmente molto più che validi. 

a cura di Alessia Sabetta

Venerus è una scatola di cioccolatini e al Flowers Festival se n’è assaggiato qualcuno

Venerus è una di quelle scatole di cioccolatini con i gusti assortiti e le combinazioni più improbabili. “Istruzioni”, per esempio − brano d’apertura dell’album Il Segreto − il 3 luglio al Flowers Festival è un cioccolatino fondente (80%) con ripieno all’ananas e cocco. La canzone, come il cioccolato fondente, ha la capacità di farti piangere al primo accordo; ma è stata riarrangiata per l’occasine con una base hawaiana dalle vibes da cocktail nel cocco e ghirlanda di fiori. «Se dovete dichiaravi a qualcuno fatelo adesso», l’ha presentata così al pubblico un po’ stranito dalla (piacevole) dissonanza.

Nella stessa scatola anche il cioccolatino al latte: semplice, mai stucchevole e sempre apprezzato come “Sei acqua” − anche questa riarrangiata per l’occasione − pianoforte e voce. Lui, emozionato e con la voce spezzata sul finale, fa sì che il pubblico si chiuda in un abbraccio collettivo, perché in fin dei conti la canzone – che nella versione originale vede la collaborazione con Mace e Calibro 35 – fa sentire tutti gli ultimi romantici.  Poi la cover di “Vita spericolata”, il cioccolatino un po’ liquoroso, quello che rimane sempre alla fine, per gli amanti del genere o per i più temerari che pur di mangiare della cioccolata accettano di ingurgitare il liquidino amaro.  

foto di Alessia Sabetta

Una box alla tuttuigusti+1 che fa accettare la possibilità di un cioccolatino meno buono, perché l’esperienza di assaggio vale molto di più. Del resto, l’artista ha la capacità di coniugare tantissimi generi musicali spaziando dal R&B, al soul, al Jazz, per creare brani che, come pralinati ben fatti, sono paragonabili a dei gioiellini.

Cioccolatini a parte, Venerus, attualmente è tra le voci e penne più interessanti del panorama musicale italiano e ciò che lo contraddistingue è che incarna l’ideale di libertà.  

Sul palco non sembra essere incatenato da codici di comportamento particolari: semplicemente, stabilizzato sulla sua frequenza (cfr Resta qui), si lascia guidare dall’istinto, si muove in balli ondeggianti, si prende qualche istante per un sorso di whisky qua e là, ride mentre canta. Addirittura, interrompe il concerto per una cerimonia di incoronazione del tecnico di palco come principe di Torino. Cerimonia degna d’essere chiamata tale, con una corona (di fiori confezionata meticolosamente da lui stesso, ma sgualcita dopo essere rimasta conservata in tasca) e un’aura tra il sacro e l’onirico, che Buñuel a stento sarebbe riuscito a ricreare.In tutto ciò, il pubblico sembra non essere sorpreso perché da Venerus ci si potrebbe aspettare qualsiasi cosa e proprio per questo nessuno si fa domande, accettando tutto per come viene, perché Vinnie è libero e questo il suo pubblico lo sa.

foto di Alessia Sabetta

Quindi si: Venerus è una scatola di cioccolatini di cui non si può fare a meno, anche se ci sono gusti improbabili o c’è il rischio di incappare in quello che ti fa storcere il naso.  Ma si tratta pur sempre di (un buon) cioccolato ed è difficile non apprezzarlo.  

a cura di Alessia Sabetta

Paolo Fresu chiude il Torino Jazz Festival 2024

Anche quest’anno, il 30 aprile 2024, si conclude il Torino Jazz Festival nella giornata internazionale UNESCO del jazz. Una giornata significativa non solo per il festival ma per tutta la musica jazz che, nel corso di questi undici giorni, abbiamo imparato ad apprezzare e amare in tutte le sue forme e declinazioni. 

Stefano Zenni sul palco dell’auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto ringrazia tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del festival, lavorando con passione e con amore per la musica: dagli autisti, al personale di sala, dallo staff tecnico al pubblico e naturalmente gli artisti… la lista sarebbe lunghissima ma è soprattutto doveroso ricordare e ringraziare tutti coloro che stanno dietro le quinte, non sono visibili e non ricevono gli applausi del pubblico. La musica è un fare che si costruisce insieme, tutto e tutti contribuiscono alla creazione di un evento come questo, un festival dalla portata internazionale che unisce e crea legami. 

Sono proprio nuovi legami quelli che ha voluto creare il Torino Jazz Festival per concludere queste giornate musicali, affidando a Paolo Fresu e al suo quintetto, a Paolo Silvestri in qualità di direttore – e non solo – e alla Torino Jazz Orchestra, una produzione originale: un rapporto e un concerto nato proprio dalla collaborazione artistica del festival con gli artisti stessi. 

Paolo Fresu Quintet – foto da cartella stampa TJF

Per celebrare i quarant’anni del quintetto e l’uscita del nuovo album contenente tre dischi totalmente improvvisati, Paolo Silvestri − grande compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra che coniuga jazz e musica contemporanea con musiche popolari spaziando da opere sinfoniche a colonne sonore per film passando per composizioni per spettacoli teatrali e di danza − ha accettato la sfida di trascrivere per orchestra alcune parti dei brani improvvisati. Nasce così un dialogo continuo tra orchestra e quintetto, che sembrano due mondi apparentemente separati: l’orchestra con una formazione tradizionale e schierata mentre, sul lato opposto, il quintetto in piedi, libero di muoversi e improvvisare sui suoi stessi brani, ormai divenuti scritti e “riproducibili”. 

Dopo aver ascoltato e vissuto sulla propria pelle la carica energica di Mats Gustafsson e i The End la sera prima, il pubblico viene catapultato in un’altra dimensione del jazz: suoni morbidi, mai aggressivi, in cui i vari timbri emergono uno alla volta per poi fondersi in un’unica entità sonora.
Una forma di jazz che − se pur colorata da qualche suono più innovativo − resta legata a un lirismo toccante e un gusto narrativo che unisce e alterna dolcezza, malinconia, ritmicità ed energia, rimanendo sempre ben calibrata. Nulla è eccessivo, tutto è in perfetto equilibrio con il resto: la melodia prevale con qualche influenza blues e la tromba di Fresu trasporta la mente degli spettatori in alcuni film degli anni ’50, per poi riportarli alla realtà con qualche tema più inquietante e “minaccioso”.

Paolo Silvestri – foto da cartella stampa TJF

Quasi come se ad oggi fosse un obbligo per apparire “al passo con i tempi”, Fresu utilizza effetti di distorsione del suono e di eco che lasciano nell’aria il ricordo di ciò che si è ascoltato. Cosciente probabilmente del fatto che le sue composizioni sono già ricche e complete semplicemente con i suoni acustici degli strumenti, il trombettista utilizza con parsimonia l’elettronica che non risulta mai essere preponderante. Non utilizzare questi effetti non avrebbe tolto nulla all’esecuzione, probabilmente, invece, le avrebbe donato una maggiore aura “paradisiaca”, di “purezza” e leggerezza.  

Come bis il quintetto ha suonato “Sono andati?” dalla Bohème di Puccini – brano nostalgico e romantico – seguito da un brano di Alice Cooper, “Only Women Bleed” – il più energico della serata – nella versione jazz di Carmen McRae.

Un concerto che, anche se non ha avuto lo stesso successo di quello di Zorn (probabilmente perché la componente ritmica, che fa muovere il pubblico, è stata messa da parte per lasciare spazio al lirismo melodico), ha comunque concluso il festival mantenendo alto il livello artistico. 

Il pubblico si sta forse abituando a nuove sonorità? O forse il festival ha insegnato a comprendere quante forme e contaminazioni diverse di jazz esistono? Ora non ci resta che aspettare la prossima edizione 2025, che dopo il successo di quest’anno, speriamo non deluda le aspettative – ormai molto alte. 

A cura di Ottavia Salvadori

Standing ovation al TJF: l’energia di John Zorn

Un altro concerto sold out per il Torino Jazz Festival, che per la prima volta collabora con il secondo festival jazzistico della città: Jazz Is Dead. La partnership ha consentito di realizzare un concerto di altissimo profilo, invitando il 28 aprile 2024 sul palco dell’Auditorium Agnelli del Lingotto il sassofonista John Zorn: artista poliedrico e figura chiave nel panorama della musica contemporanea, abile nello spaziare tra diversi generi musicali dal jazz al rock passando per l’hardcore punk e la sperimentazione. Ad accompagnarlo è il New Masada Quartet, nuova incarnazione di una delle formazioni di Zorn che dal 1994 ha registrato numerosi album riunendo musicisti affini alla sensibilità artistica del sassofonista, il quale a Torino coordina e dirige in modo innovativo, divertente ed energico il gruppo.

Il concerto è stato un turbinio di energia fin dalle primissime note. Senza tentennamenti, Kenny Wollesen ha suonato la sua batteria con colpi decisi e ad alto volume, che hanno impresso ritmi ballabili generando un groove ipnotico al cui stimolo non si poteva che rispondere muovendo qualche dito, gamba e testa. A sostenere la base ritmico-armonica anche nei momenti più free, c’era il contrabbasso di Jorge Roeder. Sul palco anche Julian Lage, il più giovane del gruppo, alla chitarra elettrica per creare un dialogo melodico con il sax di Zorn. Nelle sezioni più contrappuntistiche Lage non è riuscito molto ad emergere sui suoni potenti ed energici dei tre veterani dello strumento.

New Masada Quartet – foto da cartella stampa TJF

Zorn, oltre a suonare in maniera impeccabile il suo sax passando da suoni stridenti avanguardistici a melodie della tradizione ebraica, ha diretto magistralmente i suoi compagni. Avendo perfettamente in mente il sound che voleva generare, con semplici ma espressivi gesti riusciva a tradurre il suo pensiero di movimento rendendolo comprensibile ai componenti dell’ensemble i quali, quasi telepaticamente, rispondevano dimostrando quanto il quartetto fosse affiatato. Oltre a dirigere gli attacchi e le uscite dei vari strumenti, Zorn ha controllato anche il modo esecutivo dei musicisti al fine di creare un particolare tipo di timbro o di ambiente sonoro. La libertà del quartetto è comunque intrinseca alla musica suonata; le soluzioni armoniche espressive e fantasiose erano frutto di un’improvvisazione ricca che mescolava diverse influenze di generi musicali in un equilibrio energico. 

Composizioni ritmico-melodiche venivano accostate, o mescolate, a brani più sperimentali in cui i suoni si moltiplicavano a dismisura sfruttando gli strumenti in tutte le loro potenzialità. Quasi come se si stesse ascoltando musica da un apparecchio elettronico che permette il controllo del volume, il quintetto ha modulato le intensità dei suoni creando dei passaggi dinamici fluidi o repentini con grandissima abilità.

Un concerto adrenalinico non solo per i musicisti ma anche per il pubblico che non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: con una standing ovation la sala è esplosa in un lunghissimo applauso che non voleva lasciare nel silenzio la sala del Lingotto in cui ancora riverberavano i suoni del quintetto. 

A cura di Ottavia Salvadori

“Un Bel Dì vedremo…Puccini in Jazz” -Torino Jazz Festival

Nell’ampia offerta concertistica raccolta da Torino Jazz Festival, Andrea Tofanelli e Riccardo Arrighini hanno proposto un concerto accattivante: giovedì 25 Aprile, presso l’Educatorio della Provvidenza, il duo ha offerto una performance coinvolgente, unendo le suggestive melodie di Puccini con la vivacità e il colore del jazz.

L’ispirazione per questo progetto è nata da Riccardo Arrighini che, con una profonda passione per il grande compositore, ha saputo rielaborare le armonie e le melodie pucciniane in chiave jazzistica.È stato chiesto ad Arrighini come è stato accolto dal pubblico questo connubio musicale per la prima volta: l’esperimento è stato presentato nel 2005 in Australia, durante il bis di un concerto jazz per solo piano. Il medley pucciniano ha ricevuto un estremo apprezzamento, «Venne giù il teatro» ha detto Arrighini. La reazione lo ha spinto a mettere a punto quella che all’epoca era una semplice idea.

Nel 2008, durante il centocinquantenario della nascita di Giacomo Puccini, Arrighini ha presentato gli arrangiamenti jazz in piano solo, ma sentiva il bisogno di qualcosa in più. «Volevo mettere qualcosa che più vicino potesse esserci a una voce, ma non volevo una voce lirica, non volevo una voce jazz. Volevo qualcosa che fosse un po’ il tutto», ha detto. Per poi continuare dicendo di aver trovato in Andrea Tofanelli (alla tromba) l’insieme di cui aveva bisogno: un musicista con una ferrea preparazione classica unita alla capacità di improvvisazione jazzistica, il tutto coronato da un notevole gusto melodico.

Il concerto è stato caratterizzato dalla straordinaria agilità con cui il duo ha eseguito le composizioni di Puccini, arricchendole con brillanti improvvisazioni. La capacità dei due di muoversi agilmente attraverso le complesse armonie e sfumature emotive delle melodie pucciniane ha dimostrato una profonda passione per il compositore. Notevole inoltre l’abilità del duo nel mantenere un equilibrio tra spontaneità e precisione rendendo l’ascolto piacevole e fluido.

Con piccoli interventi, aneddoti e pensieri, il concerto è durato circa due ore senza pause e ben poche presentazioni delle musiche, lasciando così fluire il susseguirsi dei brani: “Addio fiorito asil”, dalla Madama Butterfly, e il “Valzer di Musetta” dalla Bohème, hanno dato subito al pubblico un assaggio del coinvolgente concerto che ci attendeva. Arrangiamenti, a volte quasi riscritture, hanno arricchito i brani di Puccini. Tofanelli spiega: «La musica di Puccini, sembrava già pronta e paresse dire: aspetto solo qualcuno che mi tramuti in Jazz». Il “genio del male”, definizione amichevole con cui Tofanelli si riferisce ad Arrighini, ha preso l’aria “Vecchia Zimarra”, dalla Bohème, rivestendola di nuova importanza ed emozione. Il canto della tromba sul ritmo incalzante del pianoforte, ha reso questa musica simile ad una passeggiata adatta alla riflessione. Per dare una pausa alla tromba è arrivato un brano piano solo: l’arrangiamento dell’intermezzo di Manon Lescaut, che vive ancora con influenze wagneriane, di crescita e stasi. Superfluo dire che il talento rielaborativo del pianista ha incantato il pubblico, trasportandolo dalla giocosità di “Ma che gelida manina”, a una nuova atmosfera di un impetuoso pianoforte.

In chiusura è stato eseguito uno dei brani più belli di Puccini: il finale della Bohème, alla morte di Mimi. Tofanelli con la sua tromba unisce la melodiosità del canto con virtuosismi sulle scale e fraseggi di puro colore, creando un momento di raccoglimento attorno al canto di Mimi. Presentando un momento ludico di imitazione e “verso” l’uno l’altro, il duo si è spostato su un altro masterpiece di Puccini, l’intramontabile “Nessun dorma”, dalla Turandot, ovviamente senza far mancare i propri interventi di divertissement. La tromba trionfante ha intonato il culmine dell’aria “il nome suo nessun saprà…” sostenuto da un tremolo del pianoforte spingendo un forte crescendo, per poi andarsi ad addolcire sulla coda finale. wNell’ultimo brano proposto si è giocato molto anche con i timbri della tromba, dove Andrea Tofanelli ha dimostrato grande versatilità, usando sordine particolari per donare colori diversi al suo ottone.

Nel saluto è toccato anche al pubblico partecipare: battendo le mani a ritmo del pianoforte si è entrati nel groove e nel pieno spirito che ha accompagnato tutto il concerto. Un concerto senza dubbio apprezzato, applaudito e gioiosamente goduto, sia dagli intenditori che dai “profani” di entrambi i generi.

Puccini in jazz: la sua musica è in ottime mani.

a cura di Joy Santandrea

Fatoumata Diawara e la musica della liberazione: 25 aprile al Torino Jazz Festival

«Festeggiamo la liberazione dal nazifascimo ma i rigurgiti fascisti rimangono e dobbiamo continuare a combatterli» è la premessa con cui inizia la serata del 25 aprile al Teatro Regio: questa frase, pronunciata dal presidente regionale del Piemonte, un accenno all’art. 3 della Costituzione da parte dell’assessore alla cultura e un breve intervento di Adriana Cantore che la liberazione l’ha vissuta sulla sua pelle e ne conserva e tramanda l’impegno. Successivamente Sara D’amario legge alcuni passi di Dante di Nanni perché il concerto, in sua memoria e della gioventù resistente, è promosso con il sostegno del Comitato Resistenza e Costituzione.

Poi buio in sala e sul palco del teatro, illuminato da luci bluastre, si posizionano Juan Finger al basso, Jurandir Santana alla chitarra elettrica, Fernando Tejero alle tastiere e Willy Ombe alla batteria. Un paio di giri iniziali ed entra Fatoumata Diawara, bellissima, vestita di bianco con un copricapo tradizionale e la chitarra, anch’essa bianca, a tracolla.  

Fatoumata non è solo il simbolo della Resistenza, ma la sua musica diventa un modo per tradurre le battaglie per la conquista dei diritti nella sua Africa (l’artista è originaria del Mali) in momenti di gioia e speranza. Sul fondo del palco uno schermo che proietta video e grafiche che raccontano le donne africane, rafforzano i messaggi da lei portati.

Foto di Shelby Duncan dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il focus della serata, infatti, sono le donne: secondo Diawara esiste una complementarietà tra donne e uomini (come terra e cielo, fuoco e acqua) perché necessari gli uni agli altri, ma le prime non sono emancipate. È impressionante il coraggio con cui la cantante affronta alcuni temi davanti a un pubblico che, potenzialmente, non ha esperienza diretta di quello di cui sta parlando. Pur essendoci parecchie persone di origine africana − diverse delle quali vestite con i tradizionali abiti wax – che fanno sentire la loro presenza, la componente occidentale si aggiudica la percentuale più alta.

L’artista è ad esempio una delle prime a parlare in musica del tema della mutilazione genitale femminile: «don’t touch my flower, part of our body» introduce così “Sete”, il brano con cui si ribella a questa pratica ancora largamente diffusa. Afrobeat, jazz, pop, blues ed elettronica si intersecano per raccontare ancora meglio le storie di cui si fa portavoce.

È difficile immaginare il Teatro Regio spogliato dalla sua aura “classica”, eppure, ad un certo punto la platea viene incitata ad alzarsi in piedi e ballare per la libertà. Per questa sera il teatro cambia la sua destinazione d’uso, tra chi si alza e si lascia trascinare in una danza liberatoria e chi, in modo più temerario, lascia addirittura il proprio posto per scagliarsi sottopalco e ballare liberamente senza limitazioni di spazio.

Foto di Alun Be dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Per tutta la durata del concerto Diawara si dimena sul palco, suona, canta, esce e rientra con una maschera tradizionale, danza come a volersi liberare da un veleno che le scorre in corpo. Usa i suoi ritmi, quelli della sua gente, per innalzarsi spiritualmente e si serve dell’energia delle persone per elevarsi ancora di più. «Mi hanno detto che non potevate salire sul palco, perciò è come se lo stessimo condividendo». Lo spettacolo è potente perché lei stessa è potenza allo stato puro. Quasi a fine della serata Diawara dedica “Feeling Good” a tutte quelle donne che hanno tanto da dire in musica, le «sopravvissute», le chiama: Billy Holiday, Ella Fitzgerald e Nina Simone, per lei la più importante perché le ha insegnato a vedere la luce cambiandole la vita.

Alla fine la sua luce, la forza, i suoi messaggi arrivano come una diga che si è appena rotta e non riesce più a contenere acqua. E in una giornata come quella del 25 aprile è utile tornare a casa inondati di musica che suona di lotta sociale, attivismo ed emancipazione.

a cura di Alessia Sabetta

Torino Jazz Festival: Valeria Sturba al Castello di Rivoli

Torino Jazz Festival, dodicesima edizione: è il 21 aprile, la rassegna è stata inaugurata da un solo giorno e la polistrumentista abruzzese Valeria Sturba porta la sua musica al piccolo teatro del Castello di Rivoli. L’orario mattutino – sono passate da poco le 11:30 di una ventosa domenica – non ha scoraggiato il pubblico, per lo più non giovanissimo, che è riuscito a gremire la platea. Sul palco svettano da un lato un theremin, dall’altro un vero e proprio piano di lavoro, che lascia intravedere una strumentazione elettronica (tastiere e sequencer), un maialino giallo di gomma, un campanello e altri giocattoli. Manca poco allo one-woman show.

Valeria Sturba al Torino Jazz Festival. Foto: Alessia Sabetta

La musicista sale in cattedra in un vestito variopinto, dopo una breve introduzione del direttore artistico Stefano Zenni. Tra le sue mani appare un violino elettrico blu: è una loop station a catturarne le note pizzicate, a cui si vanno ad addensare quelle del theremin e successivamente la voce. Il nome del progetto, “La musica diSturba”, denota la voglia di rivisitare le sonorità tradizionali – provenienti della musica classica, colta e popolare – in un riassemblaggio creativo e del tutto personale. “Little Big Move” è il primo brano, ispirato (e mutuato) dal violoncellista jazz Tristan Honsinger, in cui viene sviluppato con intensità sempre crescente l’iniziale riff di violino. Le suggestioni cinematografiche e teatrali saltano presto all’orecchio.

Sempre scritto da Honsinger è il secondo pezzo, Avevo Paura”, nel quale l’elettronica restituisce echi psicologici: la voce vola libera tra le ottave, si contorce, si produce in suoni e citazioni stranianti («Ho tante noci di cocco splendide»), mentre il sottofondo stride e inquieta. È poi il turno di una composizione propria, “Shake My Brain”, brano dai ritmi incalzanti e vagamente funk: al microfono compare anche il maialino di gomma (featuring un polletto dello stesso materiale), menzionato addirittura come coautore. Il gioco, di e con i suoni, sembra farla da padrone, soprattutto nella prima parte dello show.

È un crescendo di sperimentazioni ludiche e musicali. La scaletta procede con “Epiloghi”, pezzo le cui melodie utilizzano un’interessante scala di quarti di tono, per poi passare a un omaggio alla Sinfonia n. 4 di Tchaikovskij; in mezzo, c’è spazio anche per alcuni brani folk. Per questi ultimi prevalgono atmosfere intimiste – spesso con la sola voce più le corde del violino, pizzicate dolcemente, quasi volesse suonare un’arpa – ad accompagnare prima un testo popolare abruzzese, poi una composizione armena tratta dalle “Folk Songs” di Luciano Berio, “Loosin Yelav”. Di simile estrazione è anche l’ultimissimo brano suonato dall’artista, dopo essersi congedata dal pubblico e aver cambiato repentinamente idea: “Mi votu e mi rivotu”, a firma della cantautrice siciliana Rosa Balistreri. Tre quarti d’ora sono volati.

L’artista con i suoi giocattoli. Foto: Alessia Sabetta

Dopo la musica, c’è ancora tempo per una conversazione amichevole con Zenni e col pubblico: Sturba, che si occupa tra le altre cose di accompagnamenti per il teatro e di sonorizzazione di film muti, parla del rapporto tra la sua opera e il cinema (cita l’influenza di registi quali Fellini e Kaurismäki, nonché del compositore Nino Rota), del suo legame con Honsinger (scomparso di recente), della genesi dei suoi brani, della fascinazione per le tastiere anni ’80 e della sua singolare ricerca sonora: «Mi accorgo subito di quando un giocattolo può diventare uno strumento».

Entusiasmo e originalità pulsano dunque nella produzione della giovane compositrice, così come nell’intera esibizione; la sua è una presenza scenica essenziale, non esuberante di per sé, che lascia volentieri il campo alla forza e all’ecletticità dei contenuti. Il Torino Jazz Festival, nella dimora dell’arte contemporanea, ospita l’artista giusta, nel luogo giusto, al momento giusto.

A cura di Carlo Cerrato

Christian McBride al Teatro Colosseo tra i nomi più importanti del Torino Jazz Festival

Il foyer del teatro Colosseo nella serata del 23 aprile raccoglie tutta la gente che cerca riparo dall’acquazzone quasi improvviso in attesa del concerto di Christian McBride che, durante l’esibizione, tiene a sottolineare che la pioggia è una costante delle sue esibizioni torinesi raccontando che anche i suoi passaggi in città nel 1990 e 1994 erano stati nel segno del maltempo.

Sul palco, il contrabbassista si prende il centro della scena rimanendo in seconda fila, allineato con Mike Kings alle tastiere e Savanna Harris alla batteria; davanti, disposti a scacchiera, ci sono Nicole Glover al sax tenore e Ely Perlman alla chitarra elettrica. Questa la formazione della serata.

Savanna Harris – foto di Ottavia Salvadori

Le aspettative riguardo al concerto sono alte: annunciato tra i main della line up del TJF, McBride è considerato tra i jazzisti più importanti della sua generazione, oltre che essere uno dei più attivi (se non bastasse il fatto che ha vinto ben otto Grammy, tra le altre cose è anche direttore artistico del Newport Jazz Festival). L’attesa è stata ripagata.

Capire di essere di fronte a dei maestri assoluti del proprio strumento non è difficile, anche se non si è grandissimi estimatori del genere e McBride non prova in nessun modo a nasconderlo. Nel corso della serata si alterna, quasi divincola, tra basso elettrico e contrabbasso con un tocco forsennato ma sempre leggerissimo. Pur non volendo scomodare troppo Aristotele, viene immediato parlare di catarsi: il suo approccio con gli strumenti è catartico perché sembra essere lì solo per liberare la sua anima per conto della musica. Allo stesso tempo è una catarsi per gli spettatori che sembrano stregati dall’esibizione: nessuno ha il coraggio di muoversi durante e, a parte gli applausi tra un assolo e l’altro, il resto del tempo nella platea regna il silenzio.

Christian McBride al contrabbasso, Ely Perlman alla chitarra – foto di Ottavia Salvadori

La scaletta prevede pochi brani (un po’ meno di dieci) per le quasi due ore di concerto, tutti molto lunghi e strutturati quasi sempre in tre parti: una parte iniziale con l’esposizione dei temi, un momento centrale di improvvisazione e la ripresa conclusiva. Alcuni di questi sono stati composti dai musicisti della band (come “More is” di Savanna Harris o “Elevation” di Ely Perlman), altri invece dallo stesso Mc Bride come “A morning story”, o standard come “Dolphine Dance”, riarrangiata da Mike Kings. Se è scontato riferire della bravura dei musicisti sul palco, una cosa degna di nota è il supporto reciproco durante o al termine dei rispettivi assoli: McBride per primo sorride o contorce il viso in espressioni di stupore e approvazione per la performance dei suoi compagni.

Il rischio, in questi casi, è di risultare troppo tecnici e ricadere in incastri armonici e passaggi perfettamente eseguiti, ma poveri emotivamente. Mc Bride e i suoi compagni, invece, riescono a fare sfoggio di virtuosismo ma anche a far trasparire le emozioni che stanno provando e che vogliono far arrivare al pubblico.

A fine concerto nella sala del teatro rimane il silenzio di quando bisogna metabolizzare quello a cui si è appena assistito e la promessa, da parte di McBride, di tornare presto a Torino – con o senza la pioggia.

a cura di Alessia Sabetta