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Standing ovation al TJF: l’energia di John Zorn

Un altro concerto sold out per il Torino Jazz Festival, che per la prima volta collabora con il secondo festival jazzistico della città: Jazz Is Dead. La partnership ha consentito di realizzare un concerto di altissimo profilo, invitando il 28 aprile 2024 sul palco dell’Auditorium Agnelli del Lingotto il sassofonista John Zorn: artista poliedrico e figura chiave nel panorama della musica contemporanea, abile nello spaziare tra diversi generi musicali dal jazz al rock passando per l’hardcore punk e la sperimentazione. Ad accompagnarlo è il New Masada Quartet, nuova incarnazione di una delle formazioni di Zorn che dal 1994 ha registrato numerosi album riunendo musicisti affini alla sensibilità artistica del sassofonista, il quale a Torino coordina e dirige in modo innovativo, divertente ed energico il gruppo.

Il concerto è stato un turbinio di energia fin dalle primissime note. Senza tentennamenti, Kenny Wollesen ha suonato la sua batteria con colpi decisi e ad alto volume, che hanno impresso ritmi ballabili generando un groove ipnotico al cui stimolo non si poteva che rispondere muovendo qualche dito, gamba e testa. A sostenere la base ritmico-armonica anche nei momenti più free, c’era il contrabbasso di Jorge Roeder. Sul palco anche Julian Lage, il più giovane del gruppo, alla chitarra elettrica per creare un dialogo melodico con il sax di Zorn. Nelle sezioni più contrappuntistiche Lage non è riuscito molto ad emergere sui suoni potenti ed energici dei tre veterani dello strumento.

New Masada Quartet – foto da cartella stampa TJF

Zorn, oltre a suonare in maniera impeccabile il suo sax passando da suoni stridenti avanguardistici a melodie della tradizione ebraica, ha diretto magistralmente i suoi compagni. Avendo perfettamente in mente il sound che voleva generare, con semplici ma espressivi gesti riusciva a tradurre il suo pensiero di movimento rendendolo comprensibile ai componenti dell’ensemble i quali, quasi telepaticamente, rispondevano dimostrando quanto il quartetto fosse affiatato. Oltre a dirigere gli attacchi e le uscite dei vari strumenti, Zorn ha controllato anche il modo esecutivo dei musicisti al fine di creare un particolare tipo di timbro o di ambiente sonoro. La libertà del quartetto è comunque intrinseca alla musica suonata; le soluzioni armoniche espressive e fantasiose erano frutto di un’improvvisazione ricca che mescolava diverse influenze di generi musicali in un equilibrio energico. 

Composizioni ritmico-melodiche venivano accostate, o mescolate, a brani più sperimentali in cui i suoni si moltiplicavano a dismisura sfruttando gli strumenti in tutte le loro potenzialità. Quasi come se si stesse ascoltando musica da un apparecchio elettronico che permette il controllo del volume, il quintetto ha modulato le intensità dei suoni creando dei passaggi dinamici fluidi o repentini con grandissima abilità.

Un concerto adrenalinico non solo per i musicisti ma anche per il pubblico che non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: con una standing ovation la sala è esplosa in un lunghissimo applauso che non voleva lasciare nel silenzio la sala del Lingotto in cui ancora riverberavano i suoni del quintetto. 

A cura di Ottavia Salvadori

Fatoumata Diawara e la musica della liberazione: 25 aprile al Torino Jazz Festival

«Festeggiamo la liberazione dal nazifascimo ma i rigurgiti fascisti rimangono e dobbiamo continuare a combatterli» è la premessa con cui inizia la serata del 25 aprile al Teatro Regio: questa frase, pronunciata dal presidente regionale del Piemonte, un accenno all’art. 3 della Costituzione da parte dell’assessore alla cultura e un breve intervento di Adriana Cantore che la liberazione l’ha vissuta sulla sua pelle e ne conserva e tramanda l’impegno. Successivamente Sara D’amario legge alcuni passi di Dante di Nanni perché il concerto, in sua memoria e della gioventù resistente, è promosso con il sostegno del Comitato Resistenza e Costituzione.

Poi buio in sala e sul palco del teatro, illuminato da luci bluastre, si posizionano Juan Finger al basso, Jurandir Santana alla chitarra elettrica, Fernando Tejero alle tastiere e Willy Ombe alla batteria. Un paio di giri iniziali ed entra Fatoumata Diawara, bellissima, vestita di bianco con un copricapo tradizionale e la chitarra, anch’essa bianca, a tracolla.  

Fatoumata non è solo il simbolo della Resistenza, ma la sua musica diventa un modo per tradurre le battaglie per la conquista dei diritti nella sua Africa (l’artista è originaria del Mali) in momenti di gioia e speranza. Sul fondo del palco uno schermo che proietta video e grafiche che raccontano le donne africane, rafforzano i messaggi da lei portati.

Foto di Shelby Duncan dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il focus della serata, infatti, sono le donne: secondo Diawara esiste una complementarietà tra donne e uomini (come terra e cielo, fuoco e acqua) perché necessari gli uni agli altri, ma le prime non sono emancipate. È impressionante il coraggio con cui la cantante affronta alcuni temi davanti a un pubblico che, potenzialmente, non ha esperienza diretta di quello di cui sta parlando. Pur essendoci parecchie persone di origine africana − diverse delle quali vestite con i tradizionali abiti wax – che fanno sentire la loro presenza, la componente occidentale si aggiudica la percentuale più alta.

L’artista è ad esempio una delle prime a parlare in musica del tema della mutilazione genitale femminile: «don’t touch my flower, part of our body» introduce così “Sete”, il brano con cui si ribella a questa pratica ancora largamente diffusa. Afrobeat, jazz, pop, blues ed elettronica si intersecano per raccontare ancora meglio le storie di cui si fa portavoce.

È difficile immaginare il Teatro Regio spogliato dalla sua aura “classica”, eppure, ad un certo punto la platea viene incitata ad alzarsi in piedi e ballare per la libertà. Per questa sera il teatro cambia la sua destinazione d’uso, tra chi si alza e si lascia trascinare in una danza liberatoria e chi, in modo più temerario, lascia addirittura il proprio posto per scagliarsi sottopalco e ballare liberamente senza limitazioni di spazio.

Foto di Alun Be dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Per tutta la durata del concerto Diawara si dimena sul palco, suona, canta, esce e rientra con una maschera tradizionale, danza come a volersi liberare da un veleno che le scorre in corpo. Usa i suoi ritmi, quelli della sua gente, per innalzarsi spiritualmente e si serve dell’energia delle persone per elevarsi ancora di più. «Mi hanno detto che non potevate salire sul palco, perciò è come se lo stessimo condividendo». Lo spettacolo è potente perché lei stessa è potenza allo stato puro. Quasi a fine della serata Diawara dedica “Feeling Good” a tutte quelle donne che hanno tanto da dire in musica, le «sopravvissute», le chiama: Billy Holiday, Ella Fitzgerald e Nina Simone, per lei la più importante perché le ha insegnato a vedere la luce cambiandole la vita.

Alla fine la sua luce, la forza, i suoi messaggi arrivano come una diga che si è appena rotta e non riesce più a contenere acqua. E in una giornata come quella del 25 aprile è utile tornare a casa inondati di musica che suona di lotta sociale, attivismo ed emancipazione.

a cura di Alessia Sabetta

Christian McBride al Teatro Colosseo tra i nomi più importanti del Torino Jazz Festival

Il foyer del teatro Colosseo nella serata del 23 aprile raccoglie tutta la gente che cerca riparo dall’acquazzone quasi improvviso in attesa del concerto di Christian McBride che, durante l’esibizione, tiene a sottolineare che la pioggia è una costante delle sue esibizioni torinesi raccontando che anche i suoi passaggi in città nel 1990 e 1994 erano stati nel segno del maltempo.

Sul palco, il contrabbassista si prende il centro della scena rimanendo in seconda fila, allineato con Mike Kings alle tastiere e Savanna Harris alla batteria; davanti, disposti a scacchiera, ci sono Nicole Glover al sax tenore e Ely Perlman alla chitarra elettrica. Questa la formazione della serata.

Savanna Harris – foto di Ottavia Salvadori

Le aspettative riguardo al concerto sono alte: annunciato tra i main della line up del TJF, McBride è considerato tra i jazzisti più importanti della sua generazione, oltre che essere uno dei più attivi (se non bastasse il fatto che ha vinto ben otto Grammy, tra le altre cose è anche direttore artistico del Newport Jazz Festival). L’attesa è stata ripagata.

Capire di essere di fronte a dei maestri assoluti del proprio strumento non è difficile, anche se non si è grandissimi estimatori del genere e McBride non prova in nessun modo a nasconderlo. Nel corso della serata si alterna, quasi divincola, tra basso elettrico e contrabbasso con un tocco forsennato ma sempre leggerissimo. Pur non volendo scomodare troppo Aristotele, viene immediato parlare di catarsi: il suo approccio con gli strumenti è catartico perché sembra essere lì solo per liberare la sua anima per conto della musica. Allo stesso tempo è una catarsi per gli spettatori che sembrano stregati dall’esibizione: nessuno ha il coraggio di muoversi durante e, a parte gli applausi tra un assolo e l’altro, il resto del tempo nella platea regna il silenzio.

Christian McBride al contrabbasso, Ely Perlman alla chitarra – foto di Ottavia Salvadori

La scaletta prevede pochi brani (un po’ meno di dieci) per le quasi due ore di concerto, tutti molto lunghi e strutturati quasi sempre in tre parti: una parte iniziale con l’esposizione dei temi, un momento centrale di improvvisazione e la ripresa conclusiva. Alcuni di questi sono stati composti dai musicisti della band (come “More is” di Savanna Harris o “Elevation” di Ely Perlman), altri invece dallo stesso Mc Bride come “A morning story”, o standard come “Dolphine Dance”, riarrangiata da Mike Kings. Se è scontato riferire della bravura dei musicisti sul palco, una cosa degna di nota è il supporto reciproco durante o al termine dei rispettivi assoli: McBride per primo sorride o contorce il viso in espressioni di stupore e approvazione per la performance dei suoi compagni.

Il rischio, in questi casi, è di risultare troppo tecnici e ricadere in incastri armonici e passaggi perfettamente eseguiti, ma poveri emotivamente. Mc Bride e i suoi compagni, invece, riescono a fare sfoggio di virtuosismo ma anche a far trasparire le emozioni che stanno provando e che vogliono far arrivare al pubblico.

A fine concerto nella sala del teatro rimane il silenzio di quando bisogna metabolizzare quello a cui si è appena assistito e la promessa, da parte di McBride, di tornare presto a Torino – con o senza la pioggia.

a cura di Alessia Sabetta

Un trio affiatato al TJF: Dave Holland Trio

Dopo due giorni di anteprima, inizia il programma più intenso della dodicesima edizione del Torino Jazz Festival con il primo dei diciassette concerti main: il 22 aprile sale sul palco del Teatro Alfieri il Dave Holland Trio, formato dallo stesso Dave Holland al contrabbasso, Eric Harland alla batteria e il sassofonista Jaleel Shaw – che sostituisce il chitarrista Kevin Eubanks.
Il trio apre le danze a una settimana intensa e ricca di eventi che avvicinano il pubblico ad un genere musicale mai uguale a sé stesso. 

Dave Holland, tra i maggiori protagonisti del jazz inglese, viene invitato nuovamente al Torino Jazz Festival dopo dieci anni dal concerto con Kenny Barron. Una città conosciuta dal grande contrabbassista sin dagli anni ’70 quando venne con il sassofonista Sam Rivers e un paese, l’Italia, che per Holland offre un panorama comunitario molto forte e ampio, che permette di raggiungere generazioni, luoghi e sensibilità diverse. Holland è musicista e compositore che incorpora in sé stili e territori musicali diversi: dalla collaborazione stabile con Miles Davis alle sperimentazioni con Chick Corea e Anthony Braxton fino ad arrivare a mescolare sonorità afroamericane con musiche arabe e flamenco.

Foto da cartella stampa TJF

«I am here with two wonderful musicians and really great people. We had so much fun on the road, not just on stage but off stage too» così esordisce Holland per presentare i due musicisti e amici che lo accompagnano in un viaggio di esplorazione sonora.

Harland è uno dei batteristi più ricercati nel panorama jazzistico; ha collaborato con diversi musicisti, tra cui Terence Blanchard e Charles Lloyd ottenendo tre nomination ai Grammy Awards. Sul palco i suoni creati da Harland e Holland formano un connubio ritmico-melodico che crea tensioni stimolanti. L’intesa dei due musicisti è visibilissima agli occhi e alle orecchie del pubblico: basso e batteria si inseguono e si intrecciano alla ricerca di ritmi ballabili che presto virano in atmosfere rasserenanti. Le dinamiche mutano in continuazione, e il duo è abilissimo nel passare da sonorità leggerissime, quasi impercepibili ad una densità sonora che risuona nella sala e nei corpi del pubblico.
Il batterista porta grande vitalità nella formazione. Si avverte chiaramente come senta la musica dentro di sé: le movenze del suo corpo e la sua mimica facciale mostrano una totale immersione nel gioco ritmico e melodico spingendolo, così, a creare mille sfumature e suoni al punto da sembrare di avere quattro mani e quattro piedi. 

A completare e arricchire il panorama sonoro sono le note di Jaleel Shaw, sassofonista vincitore nel 2008 del “Young Jazz Composer Award” e membro del World Saxophone Quartet. Con il suo sax Shaw colora la base ritmico-armonica di Holland e Harland creando un sound ricco di microvariazioni, ritmi asimmetrici e un continuo gioco tra i tre strumenti, che si legano in un contrappunto mai prevedibile.

Con un concerto di quasi due ore, senza soluzione di continuità, i tre musicisti hanno proposto al pubblico delle composizioni firmate da Holland e dal batterista Eric Harland che hanno lasciato ampio spazio a momenti di improvvisazione, mettendo in luce la capacità comunicativa del trio.

Per concludere la serata un momento più sperimentale, in cui Holland esplora le sonorità del suo strumento utilizzando l’archetto e il tallone dell’archetto come elementi percussivi sulle corde. 

Il pubblico entusiasta dell’esibizione e non stanco di ascoltare il trio, chiama a gran voce – tra applausi e fischi – un bis che conclude la serata mescolando jazz e blues in una composizione rilassata ma giocosa che rimanda alle sonorità tipiche dei jazz club.

A cura di Ottavia Salvadori

Bollani Day – parte II

Stefano Bollani Piano Solo

Dopo i due concerti di Stefano Bollani in Danish Trio e Eve Risser con la Red Desert Orchestra, la Giornata Internazionale del Jazz celebrata a Torino si conclude con il ritorno in solitaria di Stefano Bollani sul palcoscenico dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.

Alcuni spettatori si aspettano che il pianista suoni i brani dell’ultimo album Blooming, uscito due giorni prima: il concerto si apre proprio con due di essi, “Vale a Cuba” e “All’inizio”, e Bollani spiega che il titolo si riferisce alla fioritura, vista da più punti di vista.

Le doti di showman del pianista – reduce dal programma televisivo Via dei Matti n. 0 – intrattengono come di consueto il pubblico, anche rendendolo partecipe dei titoli e della storia dei brani, che vengono sempre presentati . Essendo da solo sul palco, la vena comica di Bollani è accentuata, fino a regalare momenti di puro spasso tra aneddoti e sketch esilaranti. Tra i tanti il “momento educational”, in cui fa scoppiare le risate del pubblico con il racconto di un compositore fittizio, tal Oliver Ending, chiamato per tagliare composizioni lunghe che sarebbero potute finire molto prima.

Stefano Bollani, foto di Fiorenza Gherardi De Candei

Con il programma televisivo il pianista – racconta – ha avuto la possibilità in questo anno e mezzo di stare vicino a sua moglie, l’attrice e cantante Valentina Cenni, con cui conduceva, portando in televisione la vita di coppia quotidiana, fatta di rispetto reciproco e di stimoli. «E perché non stimolarci pure a Torino?», presenta sul palco la moglie (che qualcuno si aspetta). Ma chi si aspettava che avrebbero omaggiato la città raccontando dei Cantacronache, collettivo nato nel capoluogo piemontese nel 1957? E ancor più, che uno degli autori, Fausto Amodei, omaggiato con il suo brano “Il Tarlo”, fosse presente in sala? (occhiolino agli studenti del Dams).

Tra omaggi e colonne sonore varie, arriva il momento in cui chi è stato già a un concerto di Bollani sa essere quello del medley (ormai un must dei suoi spettacoli), dove il pianista raccoglie richieste di brani i più disparati dal pubblico. Più diversi sono l’uno dall’altro e più sarà assurdo il collegamento tra di essi – come le “Variazioni Goldberg” di Bach o la sigla di “Heidi”: Bollani parte con uno e inserisce all’interno la citazione di un altro, come solo lui riesce a fare.

Rispetto al trio, Bollani in solo può prendersi ovviamente molte più libertà sul piano del tempo, delle dinamiche e dei virtuosismi. Continua a suonare il pianoforte mentre il pubblico ride, batte le mani o ascolta in religioso silenzio in base a ciò che suona. Perfetto erede di Victor Borge, Stefano Bollani gioca e si diverte con la musica, mettendosi al suo servizio come intrattenitore, sempre come grato e umile giullare delle folle.

A cura di Luca Lops

Kenny Barron Trio – 80th Birthday Tour

La leggenda vivente del pianoforte jazz al Torino Jazz Festival

Sold out  per la seconda serata del Torino Jazz Festival, per la quale sono addirittura stati aggiunti ulteriori posti a visibilità ridotta. Sullo stesso palco dove la sera prima si è parlato dei grandi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ci è salito proprio uno di loro, il pianista Kenny Barron, in occasione del tour per il suo 80° compleanno. Insieme a lui, Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria.

Kiyoshi Kitagawa, foto di Ottavia Salvadori

Il pianista statunitense è parte della vecchia leva (avendo suonato con autorità come Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Stan Getz e tanti altri) e dimostra da subito un fraseggio e un linguaggio jazzistico molto raffinati, semplici e melodiosi. Senza perdere tempo, dopo un breve saluto Barron introduce il primo brano, “Teo”, «from the great Thelonious Monk». «Si comincia alla grande!» commenta qualcuno tra il pubblico. I due accompagnatori si rivelano immediatamente personalità molto diverse, ma nell’insieme diventano parte di una macchina ben oliata: tra Kitagawa che gioca molto con gli spazi e Blake che spinge con delicata velocità, Barron tiene le redini “tirando indietro” con lo swing, per rimanere fermo e inamovibile nella pulsazione di ogni brano. In circa un’ora e mezza, il trio esegue alcuni standard presi dal repertorio jazzistico, come “How Deep Is The Ocean” e “Nightfall” di Charlie Haden, passando per “The Surrey with the Fringe on Top” tratto dal musical di Broadway Oklahoma e in conclusione, una sua composizione originale, “Calypso”.

Jonathan Blake, foto di Ottavia Salvadori

Al momento del bis accade qualcosa di unico: il trio comincia a suonare “Poinciana” in modo sospeso e leggero, quasi fluttuante. Il brano è famoso per il suo ritmo sincopato atipico e quando la pioggia inizia a scrosciare sul tetto della sala rende l’atmosfera ancora più suggestiva, creando un contrappunto con il pianoforte che trasforma il gruppo in un quartetto. Al termine del brano, le luci si accendono e il pubblico sembra ridestarsi da un sogno, rimanendo ancora incantato da ciò a cui aveva appena assistito. «I hope to see you again!» saluta il pianista, tra i commenti di qualche spettatore che avrebbe voluto sentire ancora altri bis e di qualcun altro tristemente consapevole della sua stanchezza dovuta all’età. Noi, invece, speriamo di rivederlo al più presto, per un’altra umile lezione di swing.

A cura di Luca Lops

Kenny Barron, foto di Ottavia Salvadori

Un quartetto jazz in mille luoghi: il Buster Williams Quartet per il Torino Jazz Festival

Il 16 giugno 2022 si è tenuto, presso le Officine Grandi Riparazioni, il concerto dal titolo “Something more”, per il Torino Jazz Festival; a suonare era il Buster Williams Quartet, con Buster Williams (contrabbasso) alla guida del gruppo composto da Steve Wilson (sassofono alto e tenore), George Colligan (pianoforte) e Lenny White (batteria). Due figure centrali, quelle di Williams e White, che per tutto il concerto hanno intrattenuto il pubblico modulando il ritmo musicale a seconda delle emozioni che volevano suscitare in quel momento, o che forse loro stessi stavano provando.   

Foto: Chiara Vecchiato

Dopo le presentazioni, i musicisti iniziano a suonare, portando sin da subito una ventata di freschezza e leggera allegria. Una tranquillità che durerà per poco: in un attimo, infatti, si viene trasportati all’interno della complicità del quartetto e tra uno scambio di sorrisi e l’altro, ci si sente pervasi dalla voglia di alzarsi e ballare su quelle note vivaci. Qualcuno si limita a dondolare il piede o scuotere leggermente la testa, qualcun altro non si osa ma vorrebbe. Già al termine del primo brano il pubblico si sbilancia in un grande applauso. 

Una brevissima pausa, il tempo di un respiro, e si ricomincia. Un’atmosfera nuova, sembra di stare tra le nuvole: tutto diventa effimero, sfuggente. Gli effetti scenografici, con un’illuminazione dietro ai musicisti e il fumo sul palco, dà allo spettatore l’impressione di essere avvolto in uno spazio indefinito, ma presto tutto viene rovesciato e il brano si carica di vivacità; batterista e pianista si danno uno sguardo d’intesa  facendosi trasportare dalla linea melodica del contrabbasso: Colligan si anima e sembra ballare con le dita sul pianoforte, mentre White accenna sorrisi, agita testa e busto. Wilson – quando non suona – riprende fiato chiudendo gli occhi, rapito lui stesso dall’emozione. Williams rimane al centro, immobile, accarezzando le corde del contrabbasso con le dita segnate dalla sua lunga storia, una carriera che lo ha visto comparire in dischi storici di Herbie Hancock, Art Blakey, Herbie Mann, McCoy Tyner, Dexter Gordon, Roy Ayers, o come sensibile accompagnatore di voci quali Bobby McFerrin, Sarah Vaughan, Nancy Wilson e Betty Carter.

Il tempo corre e poco dopo non siamo più sulle nuvole o in un raffinato locale di New York a bere un Dirty Martini, l’impressione è quella di assistere all’inizio di un concerto rock o di essere su una spiaggia a osservare le onde del mare agitarsi e poi trovare pace. Ciò che si ascolterà ad un concerto jazz non è mai scontato, così come le emozioni che quella serata lascerà, perché come recita la scritta sugli schermi all’interno della Sala Fucine: «Il jazz è ordinato? Un brano ha un inizio e una fine. Nel mezzo è imprevedibile». 

    A cura di Chiara Vecchiato

Torino Jazz Festival 2022: Musica in ordine sparso

Il 27 aprile 2022 si è tenuta, al Circolo dei lettori, la conferenza stampa per la presentazione del Torino Jazz Festival, che avrà luogo in vari club, teatri ed altre sedi della città tra il l’11 e il 19 giugno.

Il festival torinese festeggia dieci anni da quando, proprio il 27 aprile 2012, l’intuizione – allora non poco dibattuta – dell’assessore alla cultura Braccialarghe, vedeva la sua prima realizzazione. Quest’anno il festival si articolerà nei cosiddetti “palinsesti”, ovvero: Concert, Jazz Talks, Jazz club, Special, Jazz Blitz, vari momenti grazie ai quali creare connessioni con gli enti e dare ai giovani l’opportunità di potersi esprimere, dal momento che tra i protagonisti ci saranno varie realtà impegnate nella formazione jazz. 

Ultimo obiettivo, ma non meno importante, è quello di creare dialogo, fusione, contaminazione e per raggiungerlo, Diego Borotti e Giorgio Li Calzi, i direttori artistici, sottolineano una questione importantissima: la rassegna viene considerata un festival pubblico, l’unico, di proprietà della città. Quasi come fosse un’infrastruttura appartenente ad ogni cittadino: ognuno ha il diritto di poterne fruire e godere a pieno. Motivo per cui il prezzo dei biglietti è popolare, infatti il costo di un singolo concerto può variare tra i 5 e i 15 €. È necessario, secondo i direttori, che le professioni artistiche godano dello stesso riconoscimento sociale delle altre, «motivo per cui la musica deve avere un prezzo, anche se è come quello del pane» afferma Li Calzi.

Credits: Alessia Sabetta

Il timore di fare un festival in questo periodo storico complesso è tanto, ma altrettanta è la voglia di dimostrare come l’arte possa avere un potere curativo. Un altro anniversario che verrà celebrato è il centenario dalla nascita di Charles Mingus, contrabbassista ed artista eclettico. A lui sarà dedicata la giornata di apertura, l’11 giugno, tra narrazioni del suo genio e concerti, che si protrarranno in parte nella giornata successiva. Il programma (consultabile al seguente link) prevede diversi artisti, più o meno vicini alle sonorità jazz. Tra i vari nomi Ståle Storløkken il 14 giugno; Chanda Rue il 15 giugno; Kae Tempest, nell’unica data italiana, il 18 giugno. 

Il festival è stato organizzato permettendo allo spettatore di trascorrere una giornata all’insegna della musica, tra un brunch o un aperitivo musicale, una conferenza. Sarà possibile spostarsi agevolmente tra i luoghi designati per ospitare i vari eventi che faranno da cornice ad un festival che, come da sottotitolo, prevedrà “musica in ordine sparso”.

a cura di Alessia Sabetta

Torino Jazz Festival Piemonte 2020

Il Festival che esporta il jazz in tutta la regione

Il Piemonte, ancora una volta, diventa il palcoscenico di grandi eventi del mondo del jazz: 17 serate, due in più rispetto al programma dell’anno scorso per il Torino Jazz Festival Piemonte, alla sua seconda edizione.

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