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Bollani Day – parte II

Stefano Bollani Piano Solo

Dopo i due concerti di Stefano Bollani in Danish Trio e Eve Risser con la Red Desert Orchestra, la Giornata Internazionale del Jazz celebrata a Torino si conclude con il ritorno in solitaria di Stefano Bollani sul palcoscenico dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.

Alcuni spettatori si aspettano che il pianista suoni i brani dell’ultimo album Blooming, uscito due giorni prima: il concerto si apre proprio con due di essi, “Vale a Cuba” e “All’inizio”, e Bollani spiega che il titolo si riferisce alla fioritura, vista da più punti di vista.

Le doti di showman del pianista – reduce dal programma televisivo Via dei Matti n. 0 – intrattengono come di consueto il pubblico, anche rendendolo partecipe dei titoli e della storia dei brani, che vengono sempre presentati . Essendo da solo sul palco, la vena comica di Bollani è accentuata, fino a regalare momenti di puro spasso tra aneddoti e sketch esilaranti. Tra i tanti il “momento educational”, in cui fa scoppiare le risate del pubblico con il racconto di un compositore fittizio, tal Oliver Ending, chiamato per tagliare composizioni lunghe che sarebbero potute finire molto prima.

Stefano Bollani, foto di Fiorenza Gherardi De Candei

Con il programma televisivo il pianista – racconta – ha avuto la possibilità in questo anno e mezzo di stare vicino a sua moglie, l’attrice e cantante Valentina Cenni, con cui conduceva, portando in televisione la vita di coppia quotidiana, fatta di rispetto reciproco e di stimoli. «E perché non stimolarci pure a Torino?», presenta sul palco la moglie (che qualcuno si aspetta). Ma chi si aspettava che avrebbero omaggiato la città raccontando dei Cantacronache, collettivo nato nel capoluogo piemontese nel 1957? E ancor più, che uno degli autori, Fausto Amodei, omaggiato con il suo brano “Il Tarlo”, fosse presente in sala? (occhiolino agli studenti del Dams).

Tra omaggi e colonne sonore varie, arriva il momento in cui chi è stato già a un concerto di Bollani sa essere quello del medley (ormai un must dei suoi spettacoli), dove il pianista raccoglie richieste di brani i più disparati dal pubblico. Più diversi sono l’uno dall’altro e più sarà assurdo il collegamento tra di essi – come le “Variazioni Goldberg” di Bach o la sigla di “Heidi”: Bollani parte con uno e inserisce all’interno la citazione di un altro, come solo lui riesce a fare.

Rispetto al trio, Bollani in solo può prendersi ovviamente molte più libertà sul piano del tempo, delle dinamiche e dei virtuosismi. Continua a suonare il pianoforte mentre il pubblico ride, batte le mani o ascolta in religioso silenzio in base a ciò che suona. Perfetto erede di Victor Borge, Stefano Bollani gioca e si diverte con la musica, mettendosi al suo servizio come intrattenitore, sempre come grato e umile giullare delle folle.

A cura di Luca Lops

Bollani Day – parte I

La Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO conclude l’XI edizione del TJF2023

Stefano Bollani Danish Trio

Da diversi anni, il 30 aprile, si festeggia la giornata dedicata al Jazz per i suoi valori di inclusività e comunicazione tra culture; al Torino Jazz Festival lo si celebra con un triplo appuntamento al Lingotto, con la marching band della Jazz School di Torino in apertura.

Sullo stesso palco dell’Auditorium dove qualche anno fa si era esibito con Chucho Valdés, questa volta il pianista Stefano Bollani sale insieme al suo famoso Danish Trio, composto da Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria.

Stefano Bollani, foto di Alessandro Bosio

Nonostante non suonino da un po’ di tempo, fin da subito si percepisce come i tre siano ben amalgamati: suonano, giocano e si divertono e, consapevoli di non essere chiusi in una sala prove, lanciano continuamente segnali al pubblico tra una citazione e una battuta.

Jesper Bodilsen, foto di Alessandro Bosio

Bollani balla, si snoda sul pianoforte, alza la gamba, il tutto con un’eleganza che farebbe quasi invidia a Keith Jarrett. Bodilsen fraseggia delicatamente, mai invadente, cantando le note insieme al contrabbasso. Lund dal canto suo trasforma anche il leggio in una parte della batteria e accompagna con il suo tocco leggerissimo, che mantiene, senza mai esagerare con il volume, anche durante i suoi soli. Tutti e tre in realtà suonano delicatamente, come accarezzando le orecchie degli ascoltatori e arrivando a livelli di quasi silenzio. Inoltre suonano per puro divertimento (e non per mero virtuosismo), ed è comprensibile dalle risate e dagli sguardi. Il punto di riferimento di pensiero del trio è il pianista Ahmad Jamal, scomparso lo scorso 16 aprile, a cui hanno dedicato il concerto e l’intera la giornata .

Morten Lund, foto di Alessandro Bosio

Il repertorio include qualche inedito, qualche brano proveniente dagli album registrati insieme dal trio, fino a “Legata ad uno scoglio” come omaggio a Lelio Luttazzi, con la voce di Bollani (che scherzosamente sostituisce nel testo della canzone il nome di “Bevilacqua Vinicio” con quello di Capossela).

Eve Risser & Red Desert Orchestra – “Eurythmia”

Terminato il concerto ci si sposta nella Sala 500, dove è previsto l’appuntamento con Eve Risser insieme alla Red Desert Orchestra.

Il progetto vede la pianista francese guidare una nuova formazione di musicisti europei e africani residenti in Francia, «mescolando musica africana, minimalismo e jazz» – citando il direttore artistico Stefano Zenni.

Eve Risser e Nils Ostendorf, foto di Alessandro Bosio

Dopo aver richiamato il paesaggio sonoro di un deserto attraversato dal vento, l’atmosfera diventa suggestiva grazie a un amalgama di strumenti “jazz” (tra cui batteria, chitarra elettrica, basso e fiati) con strumenti di tradizione africana quali djembe e due balafon, xilofono tipico dell’Africa Occidentale sub-sahariana. La sezione ritmica procede su ritmi sostenuti, in particolare su quelli conosciuti come afrocuban. Spicca su tutti il djembe, che – al centro dell’orchestra – ne diventa quasi lo strumento principe con i suoi ostinati ritmici.

Eve Risser & Red Desert Orchestra, foto di Alessandro Bosio

Verso metà concerto, Risser presenta i musicisti e, provando a descrivere i brani suonati senza soluzione di continuità, intenerisce la sala spiegando con qualche difficoltà linguistica «the first piece is about horses, the second is about snakes», rimpiangendo di non essersi preparata qualcosa in più da dire sulle composizioni. Con l’ultimo brano sull’amore, il gruppo riesce a strappare un rapido bis al pubblico, invitato a mettersi in piedi a ballare e scatenarsi, anche se è già ora di scappare all’appuntamento successivo.

«Grazie per averli portati qui!» urla qualcuno a Zenni, facendo scoppiare un fragoroso applauso degli spettatori infiammati dall’aria di festa.


A cura di Luca Lops

TJF 2023: Louis Sclavis e Federica Michisanti Trio

La vigilia della Festa della Liberazione vede la città assorbita nell’undicesima edizione di un Festival ricco di musicisti e proposte culturali; clima e temperatura sono in linea con le medie stagionali, l’ora è quella dell’aperitivo – le 18 in punto – e al Teatro Vittoria di via Gramsci va in scena il frutto del sodalizio artistico tra il noto clarinettista lionese Louis Sclavis e la contrabbassista e compositrice romana Federica Michisanti, accompagnata dal violoncello di Salvatore Maiore e dalla batteria di Emanuele Maniscalco.

La collaborazione tra i due artisti è del tutto inedita, così come la formazione del quartetto. L’età media del pubblico non è delle più giovani, e i ragazzi presenti sono pochi, ma non mancano certo; si ha la sensazione di trovarsi attorniati da ascoltatori appassionati del genere, nonostante la grande presa esercitata dalla manifestazione anche su semplici curiosi e onnivori musicali.

Louis Sclavis
Louis Sclavis. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Michisanti coglie qui l’occasione per presentare il suo nuovo progetto, del quale introduce i brani intervallandoli a brevi “note d’autore” riguardo le ispirazioni che hanno dato loro vita. La musicista modella una commistione tra jazz “classico” e influssi più eterogenei, derivati soprattutto dalla musica classica contemporanea. I due brani di apertura (il titolo del primo è “Two”, mentre quello del secondo è ancora da definire, anche se avrà a che fare con l’ambiente in cui è stato composto – una mansarda), eseguiti senza presentazione, danno da subito l’idea di un incastro efficace: l’intesa tra gli artisti è palpabile, e nell’insieme si può ben cogliere la sensibilità propria di ciascun elemento. Le linee melodiche sono affidate soprattutto a Sclavis, che alterna clarinetto e clarinetto basso, e a Michisanti, con il suo contrabbasso spesso caratterizzato da fraseggi rapidi e guizzanti.

federica Michisanti Torino Jazz Festival
Federica Michisanti. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Diverso spazio è concesso anche a parti improvvisative più o meno larghe, in cui risalta il frizzante drumming di Maniscalco. Quest’ultimo si destreggia tra bacchette, spazzole e mazzuole, con uno stile originale; la batteria presenta un kit abbastanza essenziale, dal quale scaturiscono fantasiose sezioni ritmiche (e poliritmiche). E forse è con il violoncello di Maiore che si apprezzano maggiormente gli accenti di musica contemporanea; le sonorità tipiche dello strumento vengono infatti alternate a pratiche non convenzionali, come l’utilizzo dell’archetto tra ponticello e cordiera – che genera un suono stridente, smorzato – o addirittura un approccio percussivo sulle corde.

Salvatore Maiore Torio Jazz Festival
Salvatore Maiore. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Una componente evocativa è imprescindibile per l’opera di Michisanti, che intitola uno dei suoi brani “B4PM”, ovvero “Prima delle quattro [del pomeriggio]”, con riferimento a una “luce particolare” percepita nel suddetto orario della giornata; da menzionare anche “Floathing”, una sorta di neologismo inglese dedicato a una composizione che “cambia continuamente il suo centro tonale”. Proprio durante “B4PM” Sclavis si produce in un lungo assolo col quale, sfoggiando la sua esperienza e il suo talento, strappa un applauso spontaneo ai presenti.

Dopo essersi assentati per pochi secondi dal palco e avere eseguito un ultimo pezzo, gli artisti si congedano dal pubblico con ripetuti inchini, chiudendo un’ora abbondante di concerto. Un jazz che lascia in chi ascolta il sentore di un lavoro profondo, intimo, condotto con l’amore di chi in questa musica sente la propria casa.

A cura di Carlo Cerrato

Shabaka Hutchings / Majid Bekkas / Hamid Drake – TJF 2023

Tra jazz, musica gnawa e ritmi afroamericani

I festival, com’è noto, sono anche occasioni per creare esperimenti con produzioni originali che possono avere molteplici esiti. Nel caso del Torino Jazz Festival, la terza serata ha visto la composizione di un trio, si potrebbe dire, inusuale: il sassofonista inglese Shabaka Hutchings, il cantante e suonatore di guembri marocchino Majid Bekkas e il batterista e percussionista americano Hamid Drake.

Shabaka Hutchings, foto di Ottavia Salvadori

Inusuale perché i tre arrivano da background diversi, ma ciò non impedisce loro di trovare un’intesa, rendendo il concerto qualcosa di unico. I suoni emessi dal guembri – strumento tipico della musica degli Gnawa, gruppo etnico che discende dagli schiavi neri deportati nella zona sahariana – di Bekkas sono in un registro medio (tra chitarra e basso, leggermente più ovattato), tale da permettergli di essere il centro portante della performance. Bekkas suona dei riff che si ripetono, su cui canta la stessa melodia, ed è il perno su cui far avvicendare le personalità di Drake e Hutchings, con il loro arsenale di strumenti. Certi riff si sposano perfettamente con alcune delle sonorità afroamericane e afrocubane che il batterista porta avanti tra ritmi funk e tribali, trasformando la batteria in una sintesi di percussioni che spinge il pubblico a ballare. Dal canto suo, Shabaka improvvisa in un linguaggio abbastanza riconoscibile di provenienza jazzistica, spezzando le metriche su una poliritmia che si incastra perfettamente negli spazi dei suoni degli altri due. Hutchings, inoltre, cambia costantemente atmosfera passando dal sassofono ad altri strumenti a fiato di tradizione africana e nativo americana.

Majid Bekkas, foto di Ottavia Salvadori

Il momento più suggestivo della serata accade quando Hamid Drake si siede di fronte al pubblico e, suonando un tamburo a cornice e battendo i piedi nudi per terra, accompagna Shabaka Hutchings e il suo flauto doppio. Il pubblico ascolta con religioso silenzio il momento sacrale che si sta creando e al brano successivo si accoda anche Majid Bekkas, con una kalimba che suona con virtuosismo.

Hamid Drake, foto di Ottavia Salvadori

L’improvvisazione è il principio su cui si fonda tale esperimento: accostando la potenza prorompente di Drake e il fraseggio scomposto di Hutchings, entrambi guidati da Bekkas. In una serata che ha dato l’impressione di essere una jam session tra figure divergenti, il pubblico non ha fatto altro che ballare dall’inizio alla fine.

A cura di Luca Lops


Kenny Barron Trio – 80th Birthday Tour

La leggenda vivente del pianoforte jazz al Torino Jazz Festival

Sold out  per la seconda serata del Torino Jazz Festival, per la quale sono addirittura stati aggiunti ulteriori posti a visibilità ridotta. Sullo stesso palco dove la sera prima si è parlato dei grandi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ci è salito proprio uno di loro, il pianista Kenny Barron, in occasione del tour per il suo 80° compleanno. Insieme a lui, Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria.

Kiyoshi Kitagawa, foto di Ottavia Salvadori

Il pianista statunitense è parte della vecchia leva (avendo suonato con autorità come Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Stan Getz e tanti altri) e dimostra da subito un fraseggio e un linguaggio jazzistico molto raffinati, semplici e melodiosi. Senza perdere tempo, dopo un breve saluto Barron introduce il primo brano, “Teo”, «from the great Thelonious Monk». «Si comincia alla grande!» commenta qualcuno tra il pubblico. I due accompagnatori si rivelano immediatamente personalità molto diverse, ma nell’insieme diventano parte di una macchina ben oliata: tra Kitagawa che gioca molto con gli spazi e Blake che spinge con delicata velocità, Barron tiene le redini “tirando indietro” con lo swing, per rimanere fermo e inamovibile nella pulsazione di ogni brano. In circa un’ora e mezza, il trio esegue alcuni standard presi dal repertorio jazzistico, come “How Deep Is The Ocean” e “Nightfall” di Charlie Haden, passando per “The Surrey with the Fringe on Top” tratto dal musical di Broadway Oklahoma e in conclusione, una sua composizione originale, “Calypso”.

Jonathan Blake, foto di Ottavia Salvadori

Al momento del bis accade qualcosa di unico: il trio comincia a suonare “Poinciana” in modo sospeso e leggero, quasi fluttuante. Il brano è famoso per il suo ritmo sincopato atipico e quando la pioggia inizia a scrosciare sul tetto della sala rende l’atmosfera ancora più suggestiva, creando un contrappunto con il pianoforte che trasforma il gruppo in un quartetto. Al termine del brano, le luci si accendono e il pubblico sembra ridestarsi da un sogno, rimanendo ancora incantato da ciò a cui aveva appena assistito. «I hope to see you again!» saluta il pianista, tra i commenti di qualche spettatore che avrebbe voluto sentire ancora altri bis e di qualcun altro tristemente consapevole della sua stanchezza dovuta all’età. Noi, invece, speriamo di rivederlo al più presto, per un’altra umile lezione di swing.

A cura di Luca Lops

Kenny Barron, foto di Ottavia Salvadori

Natura morta con custodia di sax apre il Torino Jazz Festival

Alle OGR la produzione originale con Peppe Servillo & TJF All Stars

Marching band e ballerini di lindy hop invadono strade e piazze di Torino. Si respira aria di festa: il Torino Jazz Festival è iniziato.

Ad aprirlo ufficialmente una produzione originale sul palco delle OGR (come già annunciato durante la conferenza stampa ) che intende rendere omaggio al jazz attraverso brani scelti da Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer, raccolta di storie romanzate di alcuni grandi jazzisti, ma anche saggio-critico sulla poetica del jazz. A leggere è Peppe Servillo (attore e cantante), accompagnato da una jazz band formata ad hoc per l’occasione con nomi di prestigio internazionale: il trombettista Flavio Boltro, Emanuele Cisi al sax tenore e Helga Plankensteiner al sax baritono, il pianista Dado Moroni, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. 

Foto di Alessia Sabetta

L’attore e i musicisti entrano in scena pronti a suonare quando, dal fondo della sala, partono le note blue di un sassofono che richiamano “Sophisticated Lady” di Duke Ellington e spiazzano il pubblico: il sassofono che sentiamo è quello di Helga Plankesteiner, che per tutto lo spettacolo apparirà in punti diversi della sala, facendo da intermezzo alla narrazione dei musicisti sul palco. La serata vede alternarsi letture dal libro e alcuni degli standard più famosi del jazz, come “In a Sentimental Mood” o “Good Bye Pork Pie Hat”, (brano scritto dal contrabbassista Charles Mingus dedicato al sassofonista Lester Young dopo la sua morte) rivista in chiave soul, passando anche per un “Somewhere Over the Rainbow” capace di far fischiettare anche gli accompagnatori dei molti appassionati presenti, forse meno avvezzi alla musica jazz.

Sembra quasi un rituale liturgico: Servillo legge la Parola del Jazz, mentre i musicisti in piedi e immobili, con atteggiamento solenne, ascoltano le parabole dei grandi jazzisti del passato, per poi incarnarli in ogni standard con la partecipazione attiva dell’assemblea .

Foto di Alessia Sabetta

L’ultimo brano diventa una jam session per la personalità emergente di ogni musicista (nonostante l’audio non fosse dei migliori per un concerto di questo tipo). Il bis, invece, è una sorpresa per il pubblico: Peppe Servillo finalmente canta una canzone napoletana, “Presentimento” di Fausto Cigliano, accompagnato da Moroni. Nel farlo lascia il pubblico ammaliato e cullato dalla poesia di questa dedica. In conclusione: brani letti, standard suonati e soli di sax baritono risuonanti in platea, diventano pezzi sparsi di un puzzle. All’ascoltatore il compito di assemblarli.

A cura di Luca Lops

TORINO JAZZ FESTIVAL 2023

Presentati i main events dell’XI edizione

Dopo cinque anni, il Torino Jazz Festival torna sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, uno dei massimi esponenti italiani della divulgazione jazzistica. È proprio per questo che si respira una certa curiosità nella sala del Municipio di Torino dove il 3 marzo alle 11.00 è prevista la conferenza.

Dopo i vari ringraziamenti, Zenni freme dalla voglia di raccontare cosa il Festival abbia in serbo per la città. Dopo il teaser preparato per l’occasione, il direttore può finalmente raccontare il programma del Festival, che avrà luogo dal 22 al 30 aprile, facendo notare che non è un caso che l’ultima data corrisponda alla Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO.

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Un quartetto jazz in mille luoghi: il Buster Williams Quartet per il Torino Jazz Festival

Il 16 giugno 2022 si è tenuto, presso le Officine Grandi Riparazioni, il concerto dal titolo “Something more”, per il Torino Jazz Festival; a suonare era il Buster Williams Quartet, con Buster Williams (contrabbasso) alla guida del gruppo composto da Steve Wilson (sassofono alto e tenore), George Colligan (pianoforte) e Lenny White (batteria). Due figure centrali, quelle di Williams e White, che per tutto il concerto hanno intrattenuto il pubblico modulando il ritmo musicale a seconda delle emozioni che volevano suscitare in quel momento, o che forse loro stessi stavano provando.   

Foto: Chiara Vecchiato

Dopo le presentazioni, i musicisti iniziano a suonare, portando sin da subito una ventata di freschezza e leggera allegria. Una tranquillità che durerà per poco: in un attimo, infatti, si viene trasportati all’interno della complicità del quartetto e tra uno scambio di sorrisi e l’altro, ci si sente pervasi dalla voglia di alzarsi e ballare su quelle note vivaci. Qualcuno si limita a dondolare il piede o scuotere leggermente la testa, qualcun altro non si osa ma vorrebbe. Già al termine del primo brano il pubblico si sbilancia in un grande applauso. 

Una brevissima pausa, il tempo di un respiro, e si ricomincia. Un’atmosfera nuova, sembra di stare tra le nuvole: tutto diventa effimero, sfuggente. Gli effetti scenografici, con un’illuminazione dietro ai musicisti e il fumo sul palco, dà allo spettatore l’impressione di essere avvolto in uno spazio indefinito, ma presto tutto viene rovesciato e il brano si carica di vivacità; batterista e pianista si danno uno sguardo d’intesa  facendosi trasportare dalla linea melodica del contrabbasso: Colligan si anima e sembra ballare con le dita sul pianoforte, mentre White accenna sorrisi, agita testa e busto. Wilson – quando non suona – riprende fiato chiudendo gli occhi, rapito lui stesso dall’emozione. Williams rimane al centro, immobile, accarezzando le corde del contrabbasso con le dita segnate dalla sua lunga storia, una carriera che lo ha visto comparire in dischi storici di Herbie Hancock, Art Blakey, Herbie Mann, McCoy Tyner, Dexter Gordon, Roy Ayers, o come sensibile accompagnatore di voci quali Bobby McFerrin, Sarah Vaughan, Nancy Wilson e Betty Carter.

Il tempo corre e poco dopo non siamo più sulle nuvole o in un raffinato locale di New York a bere un Dirty Martini, l’impressione è quella di assistere all’inizio di un concerto rock o di essere su una spiaggia a osservare le onde del mare agitarsi e poi trovare pace. Ciò che si ascolterà ad un concerto jazz non è mai scontato, così come le emozioni che quella serata lascerà, perché come recita la scritta sugli schermi all’interno della Sala Fucine: «Il jazz è ordinato? Un brano ha un inizio e una fine. Nel mezzo è imprevedibile». 

    A cura di Chiara Vecchiato

Torino Jazz Festival 2022: Musica in ordine sparso

Il 27 aprile 2022 si è tenuta, al Circolo dei lettori, la conferenza stampa per la presentazione del Torino Jazz Festival, che avrà luogo in vari club, teatri ed altre sedi della città tra il l’11 e il 19 giugno.

Il festival torinese festeggia dieci anni da quando, proprio il 27 aprile 2012, l’intuizione – allora non poco dibattuta – dell’assessore alla cultura Braccialarghe, vedeva la sua prima realizzazione. Quest’anno il festival si articolerà nei cosiddetti “palinsesti”, ovvero: Concert, Jazz Talks, Jazz club, Special, Jazz Blitz, vari momenti grazie ai quali creare connessioni con gli enti e dare ai giovani l’opportunità di potersi esprimere, dal momento che tra i protagonisti ci saranno varie realtà impegnate nella formazione jazz. 

Ultimo obiettivo, ma non meno importante, è quello di creare dialogo, fusione, contaminazione e per raggiungerlo, Diego Borotti e Giorgio Li Calzi, i direttori artistici, sottolineano una questione importantissima: la rassegna viene considerata un festival pubblico, l’unico, di proprietà della città. Quasi come fosse un’infrastruttura appartenente ad ogni cittadino: ognuno ha il diritto di poterne fruire e godere a pieno. Motivo per cui il prezzo dei biglietti è popolare, infatti il costo di un singolo concerto può variare tra i 5 e i 15 €. È necessario, secondo i direttori, che le professioni artistiche godano dello stesso riconoscimento sociale delle altre, «motivo per cui la musica deve avere un prezzo, anche se è come quello del pane» afferma Li Calzi.

Credits: Alessia Sabetta

Il timore di fare un festival in questo periodo storico complesso è tanto, ma altrettanta è la voglia di dimostrare come l’arte possa avere un potere curativo. Un altro anniversario che verrà celebrato è il centenario dalla nascita di Charles Mingus, contrabbassista ed artista eclettico. A lui sarà dedicata la giornata di apertura, l’11 giugno, tra narrazioni del suo genio e concerti, che si protrarranno in parte nella giornata successiva. Il programma (consultabile al seguente link) prevede diversi artisti, più o meno vicini alle sonorità jazz. Tra i vari nomi Ståle Storløkken il 14 giugno; Chanda Rue il 15 giugno; Kae Tempest, nell’unica data italiana, il 18 giugno. 

Il festival è stato organizzato permettendo allo spettatore di trascorrere una giornata all’insegna della musica, tra un brunch o un aperitivo musicale, una conferenza. Sarà possibile spostarsi agevolmente tra i luoghi designati per ospitare i vari eventi che faranno da cornice ad un festival che, come da sottotitolo, prevedrà “musica in ordine sparso”.

a cura di Alessia Sabetta

To be or not to bop

Una jam session di All-Star tutta torinese

Il concerto conclusivo del TJF di domenica 11 Ottobre si svolge al Combo, locale alla moda a pochi metri da Porta Palazzo: di giorno marasma di persone e bancarelle, di notte luogo di concerti ed eventi di una certa risonanza. Il concerto comincia alle 22.00, ma alle 21.30 i posti sono già quasi tutti esauriti: un Jazz Festival che sembrerebbe esclusivo, ma è solo l’effetto delle limitazioni di posto dovute all’emergenza sanitaria. Non è un caso che il titolo della serata sia To be or not to bop, come l’autobiografia di Dizzy Gillespie, tra i trombettisti più famosi del bebop; sicuramente lo stile più conosciuto, il jazz per antonomasia.

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