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Jazz is Dead, serata finale: il Bunker nel segno della musica

Terzo appuntamento del Jazz is Dead, pomeriggio del 28 maggio: il clima decisamente instabile, fatto di rannuvolamenti e piogge passeggere, non scoraggia i presenti, accorsi all’evento gratuito per godersi l’ennesima giornata di musica. Teatro della kermesse, giunta ormai alla sesta edizione, è il Bunker; la line-up è molto variegata, in accordo con le giornate precedenti e lo spirito del festival (la tematica di quest’anno ragiona sull’identità: “Chi sei?”). Tantissimi gli artisti coinvolti, così come le proposte, i generi, addirittura gli strumenti che figurano sui diversi palchi. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, come sottolinea nei suoi interventi il direttore artistico della rassegna, Alessandro Gambo.

Ad aprire le danze all’interno del tendone, primo di due scenari, è l’orchestra Pietra Tonale. Le temperature, elevate in quello che è uno spazio ristretto e stracolmo di gente, non impediscono di godersi lo spettacolo: l’ensemble porta in scena una musica che combina i suoni della tradizione orchestrale con la sperimentazione moderna e contemporanea. Grande enfasi sulla componente ritmica (le batterie sono ben due) e sulla genesi sonora, che culmina in momenti di notevole apertura melodica. L’esibizione è apprezzabile sia per l’originalità dei contenuti che per l’atmosfera creata, a un tempo raccolta e suggestiva, con la proiezione sullo sfondo di immagini vagamente psichedeliche.

Pietra Tonale. Foto: Amalia Fucarino

È dunque il turno del trio del trombettista Gabriele Mitelli, accompagnato dal contrabbassista John Edwards e dal batterista Mark Sanders. Sempre all’interno del tendone, il jazz eclettico dei musicisti incontra sonorità sintetiche ed elettroniche; da questa combinazione traspare la volontà precisa di esplorare, in senso letterale, ogni possibilità esecutiva offerta dalla strumentazione. E soprattutto, di divertirsi nel farlo. Piatti suonati con l’archetto, corde pizzicate sopra e sotto il ponticello, trombe stridenti e trasfigurate, voci solo accennate, quasi suggerite; tutto indirizza a una ricerca condotta sul suono, e lo sviluppo dei brani pare descrivere un vero e proprio flusso di coscienza, intrigante e imprevedibile.

Da sinistra: Gabriele Mitelli, John Edwards, Mark Sanders. Foto: Roberto Remondino

Ci spostiamo poi all’interno del club, ovvero lo spazio interno del Bunker, dove si esibisce Brandon Seabrook, chitarrista e banjoista americano, accompagnato da due musicisti d’eccezione quali il batterista Gerard Cleaver e il pianista e compositore Cooper-Moore. Quest’ultimo è impegnato con uno strumento molto particolare, ovvero il diddley bow, monocordo originario dell’Africa. Gli intrecci melodico-armonici, spesso rapidi e frenetici, sono i protagonisti assoluti dello show: ne risultano suoni singolari, talvolta aspri, insoliti, apprezzabili anche per il carattere sperimentale e improvvisativo. A farla da padrone sono la grana sonora – materica – delle corde e un dialogo musicale a dir poco acceso, soddisfacente da vedere e ascoltare.

Da sinistra: Cooper-Moore, Gerard Cleaver e Brandon Seabrook. Foto: Amalia Fucarino

I quarti artisti della serata sono i Moin, progetto musicale che vede la collaborazione tra la band londinese Raime e la batterista pugliese Valentina Magaletti. Con i Moin si entra in un terreno del tutto nuovo, lasciandosi alle spalle quasi ogni cenno del jazz finora suonato, così come di quello citato nel nome del festival: il marchio di fabbrica del complesso è un sound elettronico cupo, dove il sintetizzatore si unisce a chitarre distorte e a potenti riff di basso e batteria, con sembianze di matrice post-rock e post-punk. Interessante – anche un po’ inquietante – l’ingresso sul palco del gruppo, con alcune basi di voce registrata in loop; il prosieguo dell’esibizione sviluppa la scaletta sul suddetto mood, muovendo spesso verso un’atmosfera satura di suono e marcando uno stile definito, quasi ritagliato su misura.

Moin. Foto: Roberto Remondino

Ultimo gruppo in programma sono i giapponesi Boris, band attiva da più di trent’anni, che infiamma l’evento in modo definitivo. Protagonisti di una fusione musicale che accosta il metal a generi quali ambient, noise rock e hardcore punk, i musicisti esprimono da subito la loro natura di animali da palcoscenico. Il bassista e chitarrista Takeshi Ōtani sfoggia entrambi gli strumenti in uno, a doppio manico, il che già di per sé ruba la scena; dietro la batteria si staglia un grandioso gong, percosso spesso e volentieri dal batterista nella successione di ritmi serratissimi; il cantante, Atsuo Mizuno, si scatena senza soluzione di continuità, coinvolgendo il pubblico in modo costante e facendosi addirittura portare in trionfo dalla folla a più riprese. A completare la formazione è la chitarrista Wata, la quale si occupa anche delle tastiere, in particolare in “[not] Last Song”. Neanche a dirlo, i presenti si abbandonano a un folle pogo lungo tutta la durata del concerto, facendo sentire il loro entusiasmo specie in pezzi come “Question 1” oppure “Loveless”. Il climax giusto per chiudere la serata e la rassegna.

Boris. Foto: Amalia Fucarino

Il Jazz is Dead si conclude col botto, confermandosi un’importante realtà della scena torinese, aperta più che mai all’incontro tra generi differenti, alla ricerca e alla sperimentazione artistica, dal respiro e dalla portata a tutti gli effetti internazionale. Un appuntamento da non perdere, insomma, che fa dell’inclusione e dell’accessibilità i suoi punti di forza, suggellando il tutto con un’interessante selezione musicale.

A cura di Carlo Cerrato

Torino esoterica: Messa + Ponte del Diavolo

Chi abita a Torino sa del suo particolare legame con la magia bianca e nera, essendo essa il punto condiviso tra i due triangoli formati rispettivamente con Praga e Lione per la prima, mentre per la seconda troviamo Londra e San Francisco. Questa manichea opposizione che idealmente divide bene e male troverebbe nella città una sorta di equilibrio in cui queste due forze coesistono pacificamente. Ora, volendo compiere un salto logico abbastanza articolato e astratto, persino forzato se vogliamo, ritroviamo questa contrapposizione anche in campo artistico: l’esempio recente più evidente della scorsa settimana. Infatti, mentre il capoluogo piemontese era sotto i riflettori internazionali dalle luci sgargianti, colorate e gaie dell’Eurovision, altrove – e nello specifico al Bunker – è andata in scena l’oscura e pagana esibizione dei veneti Messa e dei torinesi Ponte del Diavolo.

Il motivo per cui i Messa stanno ottenendo così tanti consensi da pubblico e critica nostrana ed estera è presto detto. Questi quattro ragazzi hanno tutto: atmosfera, potenza, carica emotiva, gusto nella composizione e soprattutto hanno le canzoni, elemento imprescindibile che però molto spesso viene messo in secondo piano per privilegiare – a torto – altri fattori secondari come l’immagine o il gossip. Ecco, con i Messa tutto ciò non avviene e anzi, la musica è davvero la protagonista di un flusso sia fisico che mentale capace di trasportare in luoghi remoti sia geografici che dell’anima. Il loro doom metal è infatti di difficile classificazione e si può ben dire che è solo una componente di uno stile ben più composito e ricercato che ingloba suggestioni dark jazz e lunghe divagazioni strumentali orientaleggianti. C’è un senso rituale, spirituale, trascendentale ed ipnotico nei momenti in cui la musica si fa esclusivamente strumentale, ma anche una componente estremamente d’impatto che fa capolino ogni qual volta la band spinge sulla distorsione e i riff pachidermici. L’atteggiamento sul palco dei musicisti è attitudinalmente vicino allo shoegaze, con i singoli membri concentrati sui rispettivi strumenti ed effetti, ma ciò non toglie che la performance complessiva sia tanto impeccabile tecnicamente quanto sudata e fisica.

Discorso a parte per Sara Bianchin, la cantante, autrice di una performance di altissimo livello pur rimanendo praticamente ferma innanzi al microfono a occhi chiusi, totalmente concentrata e assorta nell’interpretazione dei brani. Bianchin ha una grande potenza, tecnica e un timbro che a tratti ricorda le grandi interpreti femminili di certa black music, che immersa in questo contesto estremo impreziosisce i brani addolcendoli e dando loro un’ulteriore eleganza. Quando non canta, sa mettersi in disparte, accovacciandosi tra le due spie in mezzo al palco per bere e far riposare le corde vocali, lasciando lo spazio ai suoi sodali di portare avanti la liturgia doom. Il paradosso, nonché peculiarità diffusa tra molti metallari è che, se da un lato la cantante mostra un evidente talento, carisma da vendere e una voce notevole e penetrante, dall’altro sembra essere altrettanto timida, specialmente quando mormora i titoli dei brani al microfono. Eppure al pubblico questo sembra quasi non importare tanto è assorto dalla musica. Tolte le giuste ovazioni tributate tra una canzone l’altra, il Bunker cala in un silenzio innaturale, concentrandosi nell’ascolto dei Messa come se fosse in trance. Insomma, se non c’eravate, vi siete realmente persi qualcosa.

Una menzione d’onore va sicuramente ai Ponte del Diavolo, che avevano il difficile compito di scaldare la platea. Missione che può dirsi compiuta in virtù dell’interessante miscellanea metal derivata dall’improbabile, ma azzeccata, unione di doom e black metal, voci femminili e scorie grunge: in altre parole una vera e propria riscoperta degli anni novanta aggiornata in chiave moderna. L’aspetto più interessante del gruppo è senz’altro la presenza di ben due bassisti in formazione votati a sovvertire il più rassicurante dominio della doppia chitarra. Una scommessa vinta perché le frequenze dei due bassi non si sovrappongono e l’equalizzazione dei rispettivi strumenti, uniti all’unica chitarra ritmica presente nel quintetto, crea un muro sonoro di tutto rispetto dalla pasta densa, plumbea, asfittica. L’esecuzione dei brani – tutti estratti dei due EP Mystery of Mystery (2020) e Sancta Mentuis (2022) – ha il giusto tiro e trasporto e sopperisce una presenza scenica a tratti un po’ statica, ma che nel complesso ha intrattenuto a dovere il pubblico fungendo da ottimo antipasto prima della portata principale.

Immagine in evidenza: Sergio Bertani de Lama

A cura di Stefano Paparesta

Moor Mother in concerto al Bunker di Torino

Un viaggio attraverso scenari alternativi realizzati con lo scopo di fare luce su una nuova identità nera, lontana da un passato di schiavitù e di discriminazioni razziali, un’epopea che a partire dalla musica di Sun Ra e di George Clinton prosegue fino ai giorni nostri unendo l’iconografia africana, la fantascienza e l’avanguardia: un’odissea in un’Africa 2.0 che comprende l’esposizione di copertine di album tratti dalla storia della musica afroamericana.

Ecco cosa è stato proposto durante la mostra con aperitivo Visioni Soniche. Cover Afrofuturiste a cura di Juanita Apráez Murillo, tenutasi sabato 7 maggio dalle 18:00 presso i locali nell’area Jigeenyi del Bunker come preludio al concerto di Moor Mother per la seconda anteprima di Jazz is Dead festival.

Le danze iniziano alle 22:00 con il gruppo di apertura SabaSaba; il pubblico affluisce timidamente e, dopo qualche minuto, la sala si riempie. Il sound che vede come protagonisti il mellotron, campioni di suoni rielaborati attraverso filtri e la batteria, si basa sulla riproduzione di rumori, atmosfere distorte e repentini sbalzi di volume che simulano bene l’ira della natura in grado di generare maremoti, esplosioni vulcaniche, scontri tra placche.

Foto: Eleonora Iamonte

E se il viaggio dei SabaSaba termina con un terremoto, è con il cinguettio degli uccellini, simulati dai fischietti del percussionista Dudù Kouate, che comincia quello di Moor Mother. La voce calda della poetessa sembra sostituirsi a quella della coscienza dei presenti, mentre gli slogan da lei pronunciati riecheggiano nella mente anche nei giorni a seguire. Oltre all’elemento etnico proposto da Dudù con i suoi strumenti a percussione tipici della tradizione afroamericana si affianca quello sperimentale e futuristico di Camae Ayewa – vero nome di Moor Mother –, che grazie all’ausilio di un tablet e di un computer seleziona campioni di rumori e di suoni elettronici. È una musica che si potrebbe ascoltare anche senza il senso dell’udito: il giro di basso attivato riesce ad entrare dritto nel petto dell’ascoltatore fino a sostituirsi al battito cardiaco e in un attimo sembra che tutti i cuori presenti nella sala battano allo stesso tempo. Un evento ipnotico, onirico, avvolto dal mistero; una sorta di rituale, forse una lode alla vita – come suggerisce il simbolo egiziano Ankh stampato sulla sua camicia –.

Foto: Eleonora Iamonte

Dopo circa un’ora e mezza, il silenzio di fine concerto viene interrotto dagli applausi di un pubblico rapito che richiamano sul palco l’artista. Moor Mother ora si dirige verso gli spettatori, li guarda negli occhi, tocca le persone nelle prime file mentre interpreta l’ultimo brano, l’unico fra quelli proposti ad avvicinarsi alla forma canzone, forse al genere hip hop, ma che rimane ancora una volta impossibile da etichettare.

La serata si conclude con i dj set di Stefania Vos, DOPS e Sense Fracture aka Birsa.

A cura di Eleonora Iamonte