«Se il teatro si chiude in sé stesso e non incide nelle problematiche della comunità, non assolve la sua funzione, la sua missione sociale di istituzione culturale»: così Rosanna Purchia, Commissario straordinario del Teatro Regio, sottolinea l’anima di sempre del nostro Teatro, l’impegno alla ripartenza. Nonostante le complessità, la sofferta distanza che la necessità di oggi impone, la volontà è quella di continuare con passione l’attività artistica. Per la Giornata del 27 gennaio, presenta il Concerto della Memoria –con cui si inaugura anche il riavvio della Stagione educational. Dirige Andrea Secchi e il Coro del Regio i canti dal ghetto di Terezín del compositore Viktor Ullmann.
Nel progetto nazista Terezín, fortezza nei pressi di Praga, divenne un ghetto modello per il concentramento e il transito degli ebrei –la cui destinazione era lo sterminio di Auschwitz-Birkenau. La schizofrenia della banalità del male. Un male che si dà senza ragione, e si rende banale nella cifra dell’assurda facilità con cui è fatto. Allora la memoria si situa nella presa d’atto e di coscienza; la nostra responsabilità di non essere indifferenti mai, azionisti passivi.
Come evidenzia il direttore artistico Sebastian F. Schwartz nell’introduzione al Concerto, gli aspetti che più colpiscono sono l’aspettare quei treni e la condivisione nel ghetto. Quest’ultima organizzata nella malnutrizione, nel sovraffollamento, nello sporco. Eppure incredibilmente attiva dal punto di vista artistico: i prigionieri avevano portato con sé gli strumenti musicali, la tradizione e cultura popolare. Inizialmente nascosti, venne in seguito permesso loro di suonare –nell’idea di uno sfruttamento a fini propagandistici. Quella musica (da camera, sinfonica, jazz, lirica), gli spettacoli teatrali e i cabaret erano forme di militanza. Nel ricordo dei testimoni loro ballavano, ma, senza saperlo, sotto alla forca –il gioco perverso dei soldati di farlo sembrare normale. Il massimo infernale è stato raggiunto con l’ispezione della Croce Rossa del ’44, preceduta da un abbellimento di copertura; il documentario fittizio Il Führer dona una città agli ebrei –come marionette, di cui sceglievano macabramente come far muovere i fili, costruendo una bolla speculativa di falso benessere per nutrire l’odio, ingannare il mondo. Terezín, quindi, come teatrino di quelle atrocità. Una volta realizzato il film, il regista Kurt Gerron e tutti i suoi furono inviati ai campi.
Andrea Secchi, insieme al Coro del Regio, conduce i dieci canti yiddish, cassidici ed ebraici di Viktor Ullmann per coro femminile, maschile e misto. Ullmann li compose nel ghetto, dove venne internato –con altri poeti, intellettuali, musicisti, compositori noti– e divenne responsabile dello Studio per la Nuova Musica. Ad Auschwitz morì due giorni dopo nelle camere a gas. Non ci è dato conoscere se la sua produzione sia stata eseguita dai cantori di Terezín, ma è arrivata fino a noi grazie al recupero degli studiosi e copisti lì attivi. Canti che sotto la direzione di Secchi abilmente inseguono quella «scintilla di umanità» gelosamente custodita dallo stesso Ullmann e i deportati, per non dimenticare le proprie radici, la vita prima. Una ricerca fine, di grande intensità emotiva. La voce del Coro è esposta, nuda, essenziale –offrendosi alla rappresentazione di una frattura. L’interpretazione non sembra calarsi nella cupezza, ma il pozzo da cui chiama la propria ossessione è sporgente –coinvolgendo nell’immediatezza del pensiero. Avendo coscienza dei fatti storici, le sfumature che possiamo cogliere sono inevitabilmente adulterate, più tragiche. La vena quasi profetica e ostinata, nitida dell’intuizione, si impasta alle folgorazioni –che originariamente non potevano esserci. Lo stesso Ullmann aveva affermato che quell’esperienza non fu per lui un impedimento: «in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere […] ed io sono convinto che tutti coloro che nella vita come nell’arte lottano per imporre un ordine al caos saranno d’accordo con me». Così il senso di unità, coesione e la purezza di fondo del Coro del Regio sono l’attesa dei valori positivi dei brani, racchiudendo viva la loro speranza di tornare a strappi di brutalità. Il fraseggio dell’ensemble è misurato, puntuale, con una qualità del peso che dà nerbo e colore; si raccoglie in una sincera vibrazione d’animo. La religiosità degli artisti che emerge nella restituzione profonda delle parole del compositore sul rispetto dell’Arte commensurato alla voglia di vivere. Dispiace soltanto di dover assistere all’esecuzione filtrata dal piccolo schermo, con il live dello streaming sul sito (in attesa della riapertura dei teatri), che limita la pienezza del Concerto –ma non per questo però ne riduce la brillantezza.