Al Teatro Vittoria, il Torino Jazz Festival propone una produzione originale di scrittura e improvvisazione: Improvisers/Composers. Protagonista il pianista Andrea Rebaudengo, che presenta un programma interamente dedicato a brani “classici” per pianoforte composti da musicisti jazz contemporanei.
Rebaudengo, del resto, non è nuovo a questo tipo di esplorazioni: oltre a collaborare con realtà come l’Orchestra della Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Rai, è il pianista stabile dell’ensemble Sentieri Selvaggi, gruppo di riferimento per la musica contemporanea in Italia. Proprio in questo contesto ha affinato un approccio libero ma rigoroso.

Il concerto è stato caratterizzato da una serie di prime esecuzioni che ne hanno definito l’unicità. In particolare, due prime italiane: Alone, in Four Parts di Wayne Horvitz e Looking Above, the Faith of Joseph di James Newton. A seguire, due brani di Matt Mitchell tratti da Vista Accumulation – all the Elasticity e Utensil strength – autentici esercizi di resistenza.
La sorpresa del concerto è la prima esecuzione assoluta dei 24 Preludi per pianoforte firmati da Uri Caine: una suite che sfida l’ascolto e la varietà stilistica, consapevole che alcuni passaggi potessero mettere in crisi l’ascolto del pubblico. Ma è proprio questo il bello: il rischio, la possibilità di ascoltare qualcosa che ci sposti un po’ più in là.
I preludi sono stati affidati dallo stesso Caine a Rebaudengo. Si avverte la presenza del compositore negli accenni di micromelodie e citazioni, che come piccole apparizioni intersecano un ricchissimo mondo sonoro, da ascoltare con attenzione e impegno. La sequenza di esecuzione dei preludi non è fissa, ma costruita dal pianista stesso, che ha immaginato un percorso coerente con l’evoluzione dell’intero concerto. È proprio lui a concludere il ciclo con un preludio melodico, una scelta che sorprende e arricchisce ulteriormente il progetto.
Il pianoforte si conferma così l’ambito di una ricerca continua e appassionata da parte di Rebaudengo, e questo piccolo preludio finale diventa anche un gesto di “riappacificazione” – come lo definisce lui stesso –, un momento di leggerezza che permette di accogliere e conservare l’intensità dell’intero concerto.

Gli improvvisatori scrivono? Traggono dallo studio sull’improvvisazione materiale che poi mettono su pentagramma? «La risposta» spiega Rebaudengo «è stata un fluire di partiture estremamente interessanti, geniali, coraggiose, in cui le appartenenze geografiche e stilistiche c’entravano fino a un certo punto. Forse più di tutto contava la curiosità del compositore/improvvisatore, la sua voglia di mettersi in gioco».
Il risultato è un percorso dentro la mente di artisti che, pur nati nell’improvvisazione, hanno scelto la scrittura come nuovo terreno di esplorazione. Non semplici improvvisazioni “cristallizzate”, ma pensieri musicali lunghi, forme controllate, racconti in musica.
Alla fine del concerto — che, per scelta programmatica, non ha mai cercato la facile seduzione — Rebaudengo rientra tra gli applausi e offre al pubblico un piccolo encore: Portolan. Un repertorio raffinato, difficile, e proprio per questo necessario.
di Joy Santandrea