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CM Orchestra porta i grandi degli anni ’80: special guest Tony Hadley

Puoi anche non ricordare l’anno preciso, ma certi ritornelli ti restano impressi . C’era chi negli anni ’80 li ha vissuti, chi li ha scoperti coi genitori, e chi… era lì per gridare “Baciami” a Tony Hadley.

Il Tones Teatro Natura ad Oira, ha radunato tantissimi amanti della musica: la CM Orchestra, affiancata dallo special guest Tony Hadley, ex frontman degli Spandau Ballet, ha infiammato la rassegna Tone on the Stones. Fondata da Claudio Mazzucchelli, la CM Orchestra è una compagine nata per dare vita a produzioni sinfoniche e crossover capaci di unire repertori classici e pop. Mazzucchelli, figura centrale del progetto, non è solo ideatore e produttore, ma anche arrangiatore e direttore artistico: una personalità poliedrica che ha saputo dare una forma identitaria a ogni produzione. L’orchestra è composta da molti musicisti talentuosi, guidati dalla direzione di Andrea Pollione, musicista e arrangiatore di grande esperienza, da anni legato alla CM Orchestra come direttore musicale.

Foto di Joy Santandrea

Sul palco si sono alternati sei vocalist – Paolo Airoldi, Andrea Casali, Silvia Fusè, Sonia Mosca, Roberta Orrù e Martina Lo Visco – accompagnati da un corpo di ballo coinvolgente. L’apertura è stata affidata a “Frozen” di Madonna, interpretata da Andrea Casali, brano che ha saputo creare il giusto raccoglimento iniziale. A seguire, “Broken Wings” dei Mr. Mister, cantata da Paolo Airoldi, ha portato una scarica emotiva che ha acceso definitivamente la platea. Uno dei momenti più trascinanti dello show è stata la travolgente esecuzione di “Relight My Fire”, brano interpretato coralmente da tutti i vocalist: energia pura, che ha mostrato la grande complicità e chimica tra i cantanti e la CM Orchestra.

Con l’ingresso di Tony Hadley sul palco è scattata la scintilla. L’inconfondibile voce degli Spandau Ballet ha esordito con “Chant No. 1 (I Don’t Need This Pressure On)”, brano dal testo emblematico che parla di rifiuto delle pressioni esterne, come a dire: lasciamo da parte le pressioni e godiamoci la serata. La sua apparizione ha scatenato un’ovazione tra i presenti, numerosissimi (posti sold out) e visibilmente emozionati. Da quel momento, la scaletta ha continuato a snodarsi tra reinterpretazioni di grandi classici: “Everybody Wants to Rule the World” dei Tear For Fears, affidata a Roberta Orrù, ha riportato il pubblico nel cuore del decennio; “What’s Love Got to Do with It”, cantata da Silvia Fusè, ha fatto risplendere le sonorità soul-pop di Tina Turner; “Hung Up” di Madonna, portata sul palco da Sonia Mosca, ha innestato una nuova energia. Non poteva mancare nemmeno “The Wild Boys”, uno dei brani simbolo dei Duran Duran – amici-rivali storici degli Spandau – cantato da Andrea Casali e Paolo Airoldi: adrenalina.

Foto di Joy Santandrea

Hadley è tornato protagonista con alcuni dei successi intramontabili degli Spandau Ballet: “Gold”, “I’ll Fly for You” e “Through the Barricades” – titoli che anche chi non ha vissuto direttamente quel decennio conosce e canta, come se appartenessero a una memoria collettiva. Il momento più divertente è stato senza dubbio l’introduzione di “True”, con Hadley che ha scherzato col pubblico: «If you love somebody and you wanna Bacio Bacio…» – e la platea, in coro, ha risposto «Bacio Bacio». Al suo ribattere con un ulteriore «Bacio Bacio», una fan ha urlato «Baciami!», Hadley, ridendo, ha concluso con un “This is the song. This is True!”, prima che l’orchestra attaccasse con il brano. La sua presenza scenica, il carisma e l’eccezionale qualità vocale hanno dimostrato quanto Hadley riesca ancora oggi a dominare la scena.

Ogni canzone è stata arricchita da coreografie eterogenee che hanno amplificato l’impatto emotivo del programma. Il palco del Tones Teatro Natura, incastonato nella roccia, ha giocato un ruolo fondamentale nella serata: grazie alle proiezioni sulle pareti della cava e a una regia posta sul fondo della platea, costruita all’interno di una struttura a forma di T composta da container, l’intero evento ha acquisito una qualità immersiva rara.

Foto di Joy Santandrea

In platea, tante persone che gli anni ’80 li hanno vissuti, ma anche giovani che quei brani li hanno scoperti grazie ai genitori, e perfino bambini, catturati anche loro dalla trappola del groove irresistibile delle canzoni. Il concerto ha lasciato negli spettatori una sensazione di festa, nostalgia ed entusiasmo contagioso.

Perché certe serate, come certe canzoni, restano. Come recita uno dei versi più noti degli Spandau Ballet: “This is the sound of my soul”.

di Joy Santandrea

Flamenco Criollo al TJF: musica che unisce l’Atlantico

Un concerto magnetico al Teatro Colosseo per il Torino Jazz Festival: danza, canto e ritmi in una serata che unisce le sponde dell’Atlantico.

Al Teatro Colosseo di Torino, Flamenco Criollo ha dato vita a una delle serate più attese del TJF. Sul palco, il progetto del pianista cubano Aruán Ortiz ha preso forma in una performance che ha unito musicisti e danzatori da Marocco, Palestina, Cuba, Stati Uniti e Spagna. Un’onda che ha attraversato oceani e tradizioni, fondendo i suoni del flamenco con le ritmiche energiche dell’area afro-cubana.

Foto di Ottavia Salvadori

Nato nel 2021, Flamenco Criollo è un progetto ambizioso che intreccia musica, danza e ricerca culturale. Ortiz, jazzista di formazione e studioso di culture musicali, ha dato vita a un ensemble che restituisce le molteplici radici del flamenco. Il risultato è stato un percorso potente, poetico e coinvolgente, fatto di cantes de ida y vuelta, quei canti che, come le navi tra Cadice e L’Avana, hanno attraversato l’oceano portando con sé storie, lingue e battiti.

L’incipit dello spettacolo ha subito colpito per delicatezza e simbolismo: una figura femminile, velata, disegna linee perfette, evocando le onde del mare. Un’immagine danzata da Niurka Agüero che anticipa la natura profonda e mobile dell’intera esibizione. Dopo di che la bailaora María Moreno, in un abito lineare lontano dal consueto immaginario turistico del flamenco mettendo in risalto l’intensità interpretativa e i virtuosismi del compás. Il duetto struggente con la cantaora Samara Montañez — tra “adelante” e “para bailar” — ha rapito il pubblico in un silenzio sospeso, carico di emozione.

Foto di Ottavia Salvadori

Accanto a quest’ultima, la danzatrice afro-cubana ha portato in scena un’energia terrena e ancestrale. In un duetto finale, le due interpreti hanno fuso le proprie radici in una sinergia unica, dimostrando che, al di là delle distanze culturali esiste una ritmica umanità condivisa. La centralità delle figure femminili, tra canto e danza, ha dominato la scena: non semplici interpreti, ma custodi di tradizioni in continua trasformazione.

Il concerto ha saputo mantenere un ritmo coinvolgente, arrivando, come più classica delle chiusure, a una partecipazione attiva del pubblico. A guidarla, la cantante cubana Susana Orta López, una delle tre voci dell’ensemble, che ha invitato la platea a unirsi ritmicamente al groove finale. Tutti in piedi, a battere le mani, come palmeros improvvisati ma totalmente dentro allo spettacolo.

Flamenco Criollo è un esempio riuscito di contaminazione consapevole, che scava nelle radici comuni per creare qualcosa di nuovo. Una bellezza di multiculturalità: un’arte viva, che respira e unisce.

di Joy Santandrea

Andrea Rebaudengo scatena i preludi di Uri Caine

Al Teatro Vittoria, il Torino Jazz Festival propone una produzione originale di scrittura e improvvisazione: Improvisers/Composers. Protagonista il pianista Andrea Rebaudengo, che presenta un programma interamente dedicato a brani “classici” per pianoforte composti da musicisti jazz contemporanei.

Rebaudengo, del resto, non è nuovo a questo tipo di esplorazioni: oltre a collaborare con realtà come l’Orchestra della Scala, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la Rai, è il pianista stabile dell’ensemble Sentieri Selvaggi, gruppo di riferimento per la musica contemporanea in Italia. Proprio in questo contesto ha affinato un approccio libero ma rigoroso.

Foto da Press Kit Torino Jazz Festival

Il concerto è stato caratterizzato da una serie di prime esecuzioni che ne hanno definito l’unicità. In particolare, due prime italiane: Alone, in Four Parts di Wayne Horvitz e Looking Above, the Faith of Joseph di James Newton. A seguire, due brani di Matt Mitchell tratti da Vista Accumulationall the Elasticity e Utensil strength – autentici esercizi di resistenza.

La sorpresa del concerto è la prima esecuzione assoluta dei 24 Preludi per pianoforte firmati da Uri Caine: una suite che sfida l’ascolto e la varietà stilistica, consapevole che alcuni passaggi potessero mettere in crisi l’ascolto del pubblico. Ma è proprio questo il bello: il rischio, la possibilità di ascoltare qualcosa che ci sposti un po’ più in là.

I preludi sono stati affidati dallo stesso Caine a Rebaudengo. Si avverte la presenza del compositore negli accenni di micromelodie e citazioni, che come piccole apparizioni intersecano un ricchissimo mondo sonoro, da ascoltare con attenzione e impegno. La sequenza di esecuzione dei preludi non è fissa, ma costruita dal pianista stesso, che ha immaginato un percorso coerente con l’evoluzione dell’intero concerto. È proprio lui a concludere il ciclo con un preludio melodico, una scelta che sorprende e arricchisce ulteriormente il progetto.

Il pianoforte si conferma così l’ambito di una ricerca continua e appassionata da parte di Rebaudengo, e questo piccolo preludio finale diventa anche un gesto di “riappacificazione” – come lo definisce lui stesso –, un momento di leggerezza che permette di accogliere e conservare l’intensità dell’intero concerto.

Foto da Press Kit Torino Jazz Festival

Gli improvvisatori scrivono? Traggono dallo studio sull’improvvisazione materiale che poi mettono su pentagramma? «La risposta» spiega Rebaudengo «è stata un fluire di partiture estremamente interessanti, geniali, coraggiose, in cui le appartenenze geografiche e stilistiche c’entravano fino a un certo punto. Forse più di tutto contava la curiosità del compositore/improvvisatore, la sua voglia di mettersi in gioco».

Il risultato è un percorso dentro la mente di artisti che, pur nati nell’improvvisazione, hanno scelto la scrittura come nuovo terreno di esplorazione. Non semplici improvvisazioni “cristallizzate”, ma pensieri musicali lunghi, forme controllate, racconti in musica.

Alla fine del concerto — che, per scelta programmatica, non ha mai cercato la facile seduzione — Rebaudengo rientra tra gli applausi e offre al pubblico un piccolo encore: Portolan. Un repertorio raffinato, difficile, e proprio per questo necessario.

di Joy Santandrea

La dama di picche: il destino in tre carte

Seduzione, ossessione e un destino ineluttabile. La dama di picche. Capolavoro di Pëtr Il’ič Čajkovskij su libretto del fratello Modest, tratto dall’omonimo racconto di Puškin. L’opera, composta nel 1890, segna uno dei vertici espressivi del teatro musicale russo. Il compositore, in uno dei momenti più tormentati della sua vita, infonde nella partitura un’intensità drammatica e anche cinematografica, avvicinandosi alla tragica ossessione del protagonista Hermann, consumato dal gioco d’azzardo e dalla misteriosa formula segreta delle tre carte. Questo tormento prende forma nell’aria “Che cos’è la nostra vita? Un gioco!”, in cui il protagonista ripete ossessivamente il suo pensiero fisso.

La dama di picche è in scena al Teatro Regio di Torino in un nuovo allestimento prodotto dalla Deutsche Oper di Berlino, firmato dal regista Sam Brown, che raccoglie e sviluppa la visione del compianto Graham Vick. La direzione musicale è affidata a Valentin Uryupin, specialista del repertorio russo, mentre il cast vede protagonisti Mikhail Pirogov nel ruolo di Hermann, Zarina Abaeva in quello di Lisa e Jennifer Larmore nei panni della Contessa. Completano la compagnia Elchin Azizov (Tomskij), Vladimir Stoyanov (Eleckij) e Deniz Uzun (Polina).

foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz

La regia di Sam Brown presenta Hermann come un uomo qualunque, intrappolato in una realtà soffocante e monocorde. La sua esistenza, confinata in un dormitorio militare, è lo specchio di un desiderio frustrato di riscatto sociale. Lisa, il suo amore impossibile, incarna il contrasto tra il mondo del privilegio e la disperazione del protagonista, che cerca una via d’uscita nel segreto della Contessa. L’opera si trasforma così in un dramma psicologico in cui sogno e realtà si sovrappongono, portando Hermann verso un destino segnato dall’illusione e dalla follia. Lo spettatore col dubbio su cosa fosse reale.

L’allestimento si distingue per alcuni elementi visivi di grande impatto. Il coro, attraverso un gioco di ombre, si trasforma in una folla minacciosa, amplificando la paranoia e il senso di accerchiamento. Un ulteriore livello narrativo è dato dalla la proiezione di spezzoni del film La dama di picche del 1916, che dialogano con la messinscena come un secondo piano narrativo. A completare questa dimensione visiva, sopra il sipario utilizzato per i cambi scenografici appaiono dei veri e propri cartigli, in stile cinema muto, che forniscono  un contesto alla scena o indicavano il luogo in cui si svolgeva l’azione.

foto da cartella stampa, di Marcus Lieberenz

In molti di questi cartigli comparivano anche citazioni da Dostoevskij, che aprivano ulteriori riflessioni. Lo spettatore più attento poteva così interrogarsi su ciò che vedeva: era tutto reale? O solo una proiezione dell’inconscio di Hermann? Era solo la caduta di un uomo nell’ossessione, o una riflessione più ampia sulla libertà individuale, la colpa, la coscienza? La presenza di Dostoevskij da lo spunto per guidare lo spettatore in un percorso parallelo, rendendolo forse più partecipe e consapevole di ciò che vede.

Scenografica la chiusura dell’opera. Hermann, ormai consumato dal pensiero ossessivo delle tre carte, si presenta al tavolo da gioco. Sebbene non sia un giocatore abituale, possiede esattamente tre carte, come predetto dalla dama di picche. Le prime due gli fanno vincere somme enormi, ma l’avidità – o forse il desiderio disperato di vedere la profezia compiersi fino in fondo – lo spinge a giocare anche la terza. A quel punto entra il principe Eleckij, l’unico disposto a sfidarlo. Ma nel momento decisivo, Hermann scopre che la sua ultima carta non è l’asso, bensì proprio la dama di picche. Ha perso tutto. E si toglie la vita.

Piccola nota di cronaca: durante il primo atto un semplice cambio di scenografia ha dato a molti spettatori l’illusione dell’intervallo, con tanto di esodo verso il foyer sventato dalla solerzia delle maschere. Tutto comprensibile vista la scarsa conoscenza di un titolo, che tuttavia è stato molto apprezzato a fine serata.

Questo allestimento di La dama di picche si è rivelato una produzione di grande impatto visivo, moderna ed emotiva. La regia di Brown ha offerto una prospettiva che mette in luce l’attualità del dramma umano di Hermann, sempre sospeso tra desiderio e autodistruzione.

Joy Santandrea

All’ombra dei ciliegi in fiore: musica a Venaria

Sboccia la primavera anche alla Reggia di Venaria, dove i viali assolati si sono tinti di rosa. Tra laboratori di danza, pittura e un fiume di visitatori armati di fotocamere, cappelli e passeggini, anche la musica ha trovato il suo spazio nelle attività dell’evento “All’ombra dei ciliegi in fiore”.

Sotto il color pastello dei fiori di ciliegio, con il sole che filtra tra le fronde e una brezza leggera, ci si aspetterebbe un sottofondo di archi o arpe cullanti. Invece no: ci pensano ottoni e percussioni a dare una bella scossa al pomeriggio con il loro suono brillante ed energizzante.

Al centro di uno dei viali, l’Ensemble di ottoni e percussioni del Conservatorio “G. Verdi” di Torino ha tenuto il “Concerto tra i ciliegi”. Si parte subito con il Prelude to a Te Deum, un’introduzione solenne, un richiamo per chi passeggia nei dintorni o sta cercando l’angolazione perfetta per il prossimo scatto instagrammabile.

foto di Valeria Cacciapaglia

Man mano che il concerto procede, la folla cresce. C’è chi si ferma incuriosito, chi arriva dalla visita alla Reggia e chi ancora sta cercando di riprendersi dalla lunga coda per il biglietto. Il pubblico si sistema alla buona attorno ai musicisti.

E quando partono le prime note di Kraken da Another Cat di Chris Hazell, l’atmosfera cambia: i bambini iniziano a muoversi a tempo, qualcuno segue il ritmo muovendo le spalle, e anche alcuni fotografi si scatenano. Il brano ha un’energia travolgente e, sebbene non si parli di fioriture primaverili o di delicati petali che cadono, c’è qualcosa che si sposa perfettamente con il momento.

Poi arriva Ain’t Misbehavin’ di Thomas “Fats” Waller. Un classico jazz che, con la sua leggerezza e il suo swing irresistibile, trasforma per un attimo il giardino della Reggia in un angolo di New Orleans, cullando il sonno di chi si è assopito sotto l’albero con il suo telo.

Il concerto vola via in un attimo, e quando l’ultimo pezzo si conclude, il pubblico non ci sta: parte la richiesta di bis, unanime. L’ensemble non si fa pregare e concede un’ultima esecuzione, tra nuovi applausi e sorrisi soddisfatti.

E così si chiude il pomeriggio musicale e i visitatori riprendono il loro giro. Ma qualcosa di questo concerto resta nell’aria, come i bambini che canticchiano ancora le musiche suonate dall’ensemble.

di Joy Santandrea

“Rigoletto” va in carcere

Questa stagione del Teatro Regio è all’insegna del teatro per tutti. Un principio che si concretizza con un progetto straordinario: portare l’opera all’interno della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, dove il 10 marzo 2025 andrà in scena una speciale rappresentazione di Rigoletto.

L’iniziativa, curata da Vittorio Sabadin, nasce con l’obiettivo di contribuire alla formazione e riformazione dei ragazzi della struttura, offrendo loro un’esperienza nuova e rigenerante. Non si tratta solo di uno spettacolo, ma di un percorso formativo che ha coinvolto attivamente la comunità carceraria: i detenuti hanno collaborato alla realizzazione delle scenografie, costruendo praticabili, sgabelli, pedane e dipingendo i periacti: unendo così arte e partecipazione attiva.

Durante la conferenza stampa, è stato ribadito quanto possa essere emozionante sentire le arie e le musiche del Rigoletto risuonare nei corridoi della struttura, un momento in cui la bellezza dell’opera si fa ponte tra “dentro” e “fuori”, tra il carcere e la città. Un progetto pilota che il Teatro Regio, in collaborazione con la Fondazione Compagnia di San Paolo e il Teatro Stabile di Torino, auspica possa consolidarsi e crescere nel tempo.

Il sindaco di Torino e Presidente della Fondazione Teatro Regio, Stefano Lo Russo, ha sottolineato come questa iniziativa incarni l’idea di una città dove la cultura è accessibile a tutti, ribadendo il ruolo educativo e riabilitativo che il carcere dovrebbe avere, oltre alla sua funzione punitiva.

Un’occasione, quindi, non solo per portare l’opera in un contesto inedito, ma per offrire un’opportunità di crescita e riscatto personale ai partecipanti. Il teatro diventa così strumento di dialogo e formazione, testimoniando ancora una volta la sua forza trasformativa.

A cura di Joy Santandrea

SEEYOUSOUND: International Music Film Festival 2025

SEEYOUSOUND: un viaggio tra cinema e musica.

Dal 21 al 28 febbraio 2025 Torino diventerà ricca di appuntamenti con l’undicesima edizione del SEEYOUSOUND International Music Film Festival. Questo evento è un’occasione perfetta per tutti coloro che amano la musica e il cinema. Otto giorni di proiezioni, live performance e incontri con ospiti internazionali per celebrare la musica in tutte le sue forme.

foto di Joy Santandrea

In Programma

Con un totale di 65 titoli tra lungometraggi, documentari, cortometraggi e videoclip, il festival si distingue per la varietà delle proposte. Tra questi, 1 anteprima assoluta, 1 internazionale, 1 europea e 19 italiane, competeranno nella propria categoria: Long Play Feature (film di finzione), Long Play Doc (documentari), 7Inch (cortometraggi), Soundies (videoclip) e Frequencies (sonorizzazioni).

La serata inaugurale, il 21 febbraio, vedrà protagonista il documentario Blur: To the End, che celebra la storica band britpop e il loro ultimo album, seguito da un live esclusivo di Asia Martina Morabito con il suo progetto SLEAP-E.

Tra gli appuntamenti imperdibili, troviamo l’anteprima italiana di My Way, un documentario che ripercorre la genesi e l’evoluzione di uno dei brani più iconici di tutti i tempi. Diretto da Thierry Teston, il film esplora le radici francesi della canzone, la sua consacrazione internazionale grazie a Frank Sinatra e le reinterpretazioni di artisti come Sid Vicious e Nina Simone. La proiezione sarà accompagnata da un live tributo dei Bluebeaters. Spicca anche Soundtrack to a Coup d’État di Johan Grimonprez, documentario candidato agli Oscar che esplora il legame tra jazz, colonialismo e spionaggio. Per gli amanti del rock, «Born To Be Wild: The Story Of Steppenwolf» offrirà un viaggio nella leggenda del rock psichedelico.

foto di Joy Santandrea

Ospiti Internazionali e Live Performance

Il festival accoglierà oltre 40 ospiti italiani e internazionali, tra cui Georges Gachot, regista di Misty – The Erroll Garner Story, e Olga Chajdas, autrice di Imago. Tra i momenti musicali più attesi, le esibizioni live di artisti del calibro di Tormento (ex Sottotono), Kode9, Noémi Büchi e DJ Mastafive.

Le serate si animeranno con gli after-screening e dj set speciali, tra cui il celebre François Kevorkian, pioniere della house music, che sarà protagonista della festa di chiusura al locale Off Topic. Non mancheranno ulteriori sorprese come l’installazione sonora Tomorrow Will Be Louder dell’artista Louis Braddock Clarke e il live immersivo di Noémi Büchi.

foto dalla cartella stampa di SEEYOUSOUND festival

Esperienze da non perdere

7Inch presenterà 12 cortometraggi sperimentali, mentre Frequencies vedrà musicisti e sound designer reinterpretare cortometraggi storici con sonorizzazioni dal vivo. La sezione Into the Groove, invece, incarnerà lo spirito del festival, combinando cinema mainstream e nuove tendenze musicali. Qui verrà presentato anche EBM: Electronic Body Movie, dedicato all’Electronic Body Music, genere che ha segnato la storia della musica elettronica.

In parallelo, la rassegna Rising Sound esplorerà il potere della musica come strumento di cambiamento sociale, con documentari che raccontano figure iconiche come Sister Nancy e Jackie Shane.

Perché andare?

Più di un semplice festival, SEEYOUSOUND è un viaggio che celebra la musica e le immagini nel raccontare. Un evento che invita il pubblico a immergersi in un’atmosfera unica fatta di scoperta. Che siate appassionati di musica, cinema o entrambi, questo festival è un appuntamento da segnare in agenda.

L’elisir d’amore e qualcosa in più

In programma dal 28 gennaio al 5 febbraio 2025, il Teatro Regio di Torino ospiterà L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti in un nuovo allestimento firmato da Daniele Menghini.

L’opera, su libretto di Felice Romani, debuttò a Milano nel 1832. Nemorino, un giovane contadino, tenta di conquistare Adina, la donna amata, con l’aiuto di un elisir d’amore in realtà vino rosso venduto dal ciarlatano Dulcamara. Dopo una serie di equivoci e peripezie, l’amore sincero di Nemorino e la gelosia di Adina trionfano.

Con la regia di Menghini si ha qualcosa in più. Il riflesso del mondo del protagonista è quello dei burattini: Menghini trasforma Nemorino in un Geppetto contemporaneo che, fragile e sensibile, si rifugia in un mondo di marionette. La sua ricerca d’amore vero è raccontata come una fiaba. Nemorino costruisce un “mondo di legno” in cui tutti i personaggi sono scolpiti dalla sua immaginazione, divenendo demiurgo della sua storia, passando però dall’essere libero burattinaio a succube della storia che sta creando. Con l’integrazione di questo pensiero, il plot dell’opera diventa più approfondito. Un approccio che esplora la fragilità e il sogno giovanile. Il cast vede Valerio Borgioni nel ruolo di Nemorino, Enkelada Kamani come Adina, Lodovico Filippi Ravizza nel ruolo del sergente Belcore e Simone Alberghini interpreta Dulcamara.

Affascinante e suggestiva. Come si imparerà seguendo la vicenda, si sono cercate forti connessioni tra Pinocchio di Collodi e l’opera di Donizetti.

Foto da cartella stampa del Teatro Regio di Torino.

Ecco che comincia l’ouverture e già si vede qualcosa di diverso dal “tradizionale”. Mentre Fabrizio Maria Carminati dirige l’orchestra, Nemorino fa il suo ingresso dalla platea. Vestito in maniera contemporanea, con giaccone e felpa rossa, si dirige verso il palco e si prepara a lavorare sul burattino di Adina. I costumi per il coro di burattini sono ben pensati. Rimandano a manichini di legno con vestiti d’epoca creando un forte distacco iniziale tra protagonista e chi lo circonda. Inoltre anche la recitazione degli attori-burattini non è lasciata al caso, ricordando proprio i movimenti dei pupi.

Sul palco, oltre agli attori in carne ed ossa, ci sono anche protagonisti in legno e tessuto. In più punti dell’opera compaiono vere marionette e burattini mossi dagli attori; recitano affiancando il personaggio che rappresentano, come per Dulcamara e la sua marionetta nell’aria “Voglio dire, lo stupendo elisir”. Oppure sono usate per raccontare visivamente le storie che vengono citate: come quella di Isotta o nel momento della “Barcaruola a due voci”. La presenza di due tessuti teatrali in scena ci rende spettatori di un teatro nel teatro. A fornire questi “attori” d’eccezione è stata la storica famiglia di burattinai Grilli.

La scenografia è visivamente semplice, ma ben studiata. Una falegnameria con un palco di burattini da piazza: con ciocchi di legno, pezzi di marionette e… un mini frigo. Scenografia che in qualche modo si trasformerà seguendo il percorso del protagonista.

Foto da cartella stampa del Teatro Regio di Torino.

L’apparizione di Dulcamara, nella Scena II dell’Atto I, ha subito un richiamo, per costumi ed atteggiamento, alla figura di Mangiafuoco. Durante l’aria “Udite, udite, o rustici”, dà prova di ciò, ammaliando la folla di attori-burattini. Già il personaggio nella versione originale grazie al suo carisma ingannevole, fa riflettere lo spettatore sulla fragilità di credere a soluzioni facili; il fatto che i suoi “spettatori”, in questa versione, siano burattini, aumenta la percezione della manipolazione. Il personaggio del ciarlatano “comico” di Dulcamara si trasforma così in una critica sociale.

L’unione con i personaggi della fiaba di Collodi diventa sempre più chiara quando, alla fine del primo Atto, emerge, da una bara, portata sul palco da due conigli in abito nero, proprio il burattino di Pinocchio, che durante le danze quasi tribali degli attori-burattino, viene smontato e privato del cuore. Ora Nemorino viene vestito proprio con il costume che caratterizza il personaggio collodiano: cappello a cono e naso lungo. Il burattinaio è diventato burattino.

Il momento più sospirato dell’opera è stata l’aria “Una furtiva lagrima” di Nemorino, dove Valerio Borgioni ha saputo regalarci una commistione di leggerezza e introspezione. Se prima il palcoscenico era spartito su più vicende e personaggi, ora c’è solo lui e tutti ci raccogliamo attorno a quel ragazzo diventato soldato che canta d’amore. Una scenografia svuotata, mangiata dalle termiti… lui in piedi sul bancone da falegname, sotto a una grande mano che tiene i fili di Nemorino ormai burattino.

L’inizio e la fine dell’opera sono speculari. Non solo per il ritorno del protagonista alla sua soggettività: l’amore vero lo sveste dai panni di soldato e lo riveste con il suo giaccone e felpa rossa. Ma anche riprendendo l’espediente scenico dell’ouverture: scende dal palco per uscire dalla platea assieme alla sua amata Adina.

Con un cast che ha particolarmente superato le già alte aspettative e una regia che ha saputo dare una nuova “mano di vernice” all’opera donizettiana, come forse allusivamente richiamato dai gesti dei burattini in alcune scene, l’anteprima giovani è stata ben recepita dal pubblico. Una geniale rilettura ricompensata con sonanti applausi conclusivi e decisamente apprezzata anche da chi si sarebbe aspettato qualcosa di più tradizionale.

A cura di Joy Santandrea

Carlo Romano: dalla passione per l’oboe all’incontro con Morricone

In questo estratto dell’intervista a Carlo Romano, il celebre oboista racconta il suo percorso tra musica classica e cinema, dagli inizi a Roma fino agli incontri con grandi nomi come Ennio Morricone. Condividendo aneddoti e riflessioni, ci offre uno spunto sul suo amore per l’oboe e la sua carriera straordinaria.

foto di Joy Santandrea

Come si è avvicinato alla musica e perché la scelta dell’oboe?

Mi sono avvicinato alla musica all’età di 6-7 anni a Roma nel coro di San Pietro, la Cappella Giulia, fino al cambio della voce, studiando anche pianoforte. Quando andai con mio padre a fare l’iscrizione al Conservatorio, il direttore gli disse che c’erano troppi pianisti e mi propose l’oboe. Avendo 13 anni non lo conoscevo, ma mio padre, che suonava nella banda dell’aeronautica, lo conosceva benissimo e mi disse che l’oboe mi avrebbe dato molto filo da torcere, ma che era uno strumento molto bello, mi consigliò quindi di studiarlo contemporaneamente al pianoforte per poi decidere quale a me più adatto. Entrai nella classe del Maestro Tomassini, nel Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, e già dalle prime lezioni mi affezionai a questo strumento e dopo poco tempo decisi che da grande avrei fatto l’oboista. Continuai studiando anche Composizione e Armonia. 

Tra i grandi compositori della Storia della Musica ha un suo preferito?

Tra i classici amo molto Mozart, Beethoven, Schubert. Ognuno ha delle caratteristiche fantastiche, ma Mozart è quello che ha scritto di più per lo strumento che suono: il concerto per oboe K. 314 per oboe e orchestra, tanti divertimenti e serenate. L’oboe è uno strumento che evidentemente amava molto e che effettivamente dà risalto ai suoi brani. Per il sinfonismo Beethoven è il massimo, Schubert e Mahler sono compositori a me congeniali, che amo suonare. 

Durante gli studi al DAMS abbiamo in più occasioni incontrato brani, in particolare di Morricone, di cui lei è stato esecutore. Ci può confidare a quale brano, o colonna sonora, è più legato o quale le ha dato più soddisfazioni?

Ho iniziato a fare i turni in sala di registrazione con Ennio Morricone nel 1974 per il film Il Mosè. Mi chiamò l’associazione Musicisti di Roma, perché si era ammalato l’oboista di Morricone, primo oboe del Teatro dell’Opera di Roma. Ero ancora studente del Conservatorio, andai al mio leggio di primo oboe molto timoroso. Facemmo la registrazione alla Forum di Roma in piazzale Euclide. Morricone chiese: “Chi è quel ragazzino là? Come suona? Perché qui ci sono parti molto importanti e complesse”. Il Presidente dell’associazione disse: “Ascoltalo, se non va bene ne chiamiamo un altro”. Registrammo per 3 o 4 giorni e Morricone mi guardò per tutto il tempo in cagnesco, come a dire: ‘Voglio capire bene come suoni’, ma piano piano si addolciva nei miei confronti. Alla fine delle registrazioni mi chiese: “Tu da dove vieni?”, risposi “Sono allievo del Maestro Tomassini”. “Ah! Ecco perché suoni bene, ci vedremo ancora, ti farò chiamare”. Nel tempo ho avuto modo di lavorare anche con altri illustri compositori per cinema, come Trovajoli e Piovani. Tutti bravissimi, ma Morricone è quello che più ho nel cuore. Quando scriveva qualche tema importante mi chiamava a casa chiedendomi cosa ne pensassi  naturalmente andava tutto benissimo, ma per me la sua stima era importante. Quando nel 1990 cominciò a fare anche concerti con orchestra, lo seguii. Sono stato il primo a suonare Gabriel’s oboe in concerto.

foto di Joy Santandrea

C’è stata qualche esecuzione che ha messo alla prova la sua tecnica?

L’oboe è uno strumento sempre importante al quale i compositori danno molto risalto, è come il primo violino degli archi, il soprano di un’opera. In orchestra l’oboe è il principe. Tra i compositori c’è chi scrive più dolcemente e quello che richiede delle peripezie. Quando qualcosa era particolarmente difficile la studiavo minuziosamente anche a casa e arrivavo in orchestra molto preparato con l’apprezzamento di direttori e compositori.

C’è qualche aneddoto che avrebbe il piacere di condividere con noi sul rapporto tra compositore, esecutore e regista? 

Ricordo, nel 1990, il film Amlet, regia di Franco Zeffirelli, sempre registrato alla Forum di Roma. Eravamo in sala con Zeffirelli sempre presente, spesso seduto accanto a me perché apprezzava il mio timbro, il modo di porgere la musica, di fare la frase. In quel film, Ennio Morricone non aveva dato molta importanza all’oboe nella colonna sonora. Dopo una settimana, finito i turni di registrazione, Zeffirelli ne chiese il motivo a Morricone. Rispose che per quel film aveva deciso che il tema conduttore doveva essere portato dalla viola con accompagnamento dell’orchestra. Finito le registrazioni, alle nove di sera, salii in macchina e il tempo di mettere in moto sentii Ennio Morricone che mi chiamava: “Carlo, esci, vieni, vieni in sala!”. Preoccupato chiesi cosa non andasse. Mi disse che tutto era a posto, ma Zeffirelli stava facendo i capricci. In sala sentii che discutevano animatamente tra loro. Zeffirelli diceva a Morricone: “Tu di musica non capisci niente!”, ripeto Zeffirelli a Morricone! Cosa fece Morricone? Lasciò il tema alla viola, ma lo fece fare anche all’oboe e così Zeffirelli si tranquillizzò. Grazie a questa alzata che Zeffirelli ebbe con Morricone, il mio nome girò il mondo. Devo quindi ringraziare anche Zeffirelli.

La scaramuccia che ci ha raccontato restituisce umanità a questi grandi nomi. Tra cameristica, orchestrale e sala di registrazione, quale ambito ritiene più impegnativo?

Tutti e tre gli ambiti. Anche fare una scala di Do maggiore è impegnativo. Amo molto la cameristica. Un mese prima di andare in pensione, sei anni fa, ho formato l’Ensemble dei Cameristi Cromatici… sono andato in pensione dalla Rai ma non dalla musica! Abbiamo costituito questo gruppo di Cameristi partendo con pianoforte, oboe, violino e violoncello. Adesso siamo in 15 strumentisti con un vasto repertorio.

Io sono nato per l’orchestra, il mio primo maestro, Tomassini, mancato nell’87, fino al ‘72 è stato Primo oboe dell’accademia Santa Cecilia e mi ha preparato per divenire, a mia volta, un primo oboe d’orchestra. Ho avuto una grande scuola, per questo amo molto suonare in orchestra: una bella sinfonia di Brahms, Čajkovskij, Beethoven, i poemi sinfonici, Strauss danno molte soddisfazioni. Continuo attualmente a preparare tanti allievi per i concorsi con repertorio orchestrale, sinfonico, lirico-sinfonico.

Anche in sala di registrazione ho avuto grandi soddisfazioni. Ho suonato per i compositori di circa 300 film.

Abbiamo visto, nel corso di Musica per il Cinema, una sessione di registrazione per Christopher Young. C’erano molti momenti di alta tensione per le continue re-incisioni. Lei ha mai provato una sensazione di pressione o ansia prima di arrivare al risultato?

Quando si registra c’è sempre una base d’ansia. Si rifanno i brani tante volte perché capita spesso che ci sia una notina fuori posto, un corno che ‘scrocca’, un violino a cui fischia una corda, o l’oboe e qualsiasi altro strumento che tentenni. È capitato che per registrare 15 battute abbiamo dovuto suonare due turni per l’intonazione, per qualche rumore, persino per i rumori che si sentono al microfono anche quando nessuno si muove. Abbiamo sbottato nervosi, ma ciò fa parte del mestiere: la registrazione deve essere pulita e perfetta, non ammette scrocchi o rumori di qualsiasi genere, né note sbagliate o stonate o battimenti con altri strumenti.

foto di Joy Santandrea

Nella sua biografia professionale un capitolo molto importante è con l’orchestra RAI: com’è stata la sua esperienza di primo oboe e come è iniziato questo lungo percorso?

Ho iniziato l’esperienza orchestrale vincendo concorsi, al Carlo Felice di Genova o per altre orchestre. Nel 1978 ci fu il concorso per primo oboe alla Rai di Roma. Per me era una meta inarrivabile, da ragazzino avevo sempre ascoltato e ammirato i grandi solisti dell’orchestra Rai: Severino Gazzelloni, Marco Costantini, Giuliani, Stefanato e tanti altri mostri sacri. Da studente di Conservatorio mi chiedevo se un giorno fossi riuscito a far parte di quel mondo. Quando ricevetti l’esito del concorso Rai per primo oboe, fu come essere arrivato in cima al K2 dopo una scalata senza quasi rendersene conto. È stata un’esperienza fenomenale: avevo seduto alla mia destra Severino Gazzelloni e gli altri grandi, toccavo il cielo. Nel frattempo ho avuto anche altre bellissime esperienze con l’Accademia di Santa Cecilia o la Scala di Milano […] suonando per vari direttori: Bernstein, Bern, Sawallisch, Maazel, Muti, Abbado. Cosa si vuole di più?

Curiosità: il rapporto lavorativo con Muti?

Lavorare con un direttore tra i più grandi al mondo è stato bellissimo, giustamente lui è molto puntiglioso e pretende il massimo del massimo da ogni strumentista  tutto deve essere perfetto per avere delle esecuzioni impeccabili. Al di sotto del podio, i grandi direttori sono persone alla mano, simpatiche la cui compagnia è veramente piacevole.

Relativamente al concerto dell’8 dicembre: che sensazione le trasmette sapere che la sua professionalità e passione contribuiscono al progetto della Cardioteam Foundation e alle vite salvate grazie ad esso?

Ho avuto recentemente modo di conoscere Cardioteam e il suo presidente Dr Marco Diena, luminare della cardiochirurgia tra i primi al mondo. Sono stato operato nel mese di luglio, ho incontrato persone speciali da tutti i punti di vista, un’equipe preparatissima. Questo è il motivo per cui ho deciso di omaggiare questo concerto al quale hanno carinamente aderito gli altri 15 orchestrali Rai, per raccogliere fondi per il progetto di prevenzione cardiologica che Cardioteam gratuitamente da tempo porta avanti. 

Per chiudere quest’intervista: ha un messaggio, o magari un consiglio, per noi studenti e artisti in formazione DAMS amanti della musica e del cinema?

Abbinare la musica al cinema è davvero molto interessante, avvicinatevi ai grandi compositori che possono aiutarvi a capire tanti meccanismi all’apparenza facili. Per tutti i compositori, anche i più grandi, è diverso scrivere un brano per le immagini di un film o una musica assoluta. Morricone scrisse il tema Gabriel’s oboe, a mio parere uno dei più belli del ‘900, osservando l’attore Jeremy Irons nella scena in cui è nella foresta con quella specie di pifferetto, fotocopia di un oboe, e per caso fece delle posizioni con le dita ‘la-si-la-sol’: il genio di Morricone capì che poteva dare il via a qualcosa di bellissimo. Il giorno dopo, sull’aereo di ritorno a Roma, scrisse l’intero tema. Ecco i casi della vita!

È importante conoscere la musica, studiare composizione e cogliere ogni occasione per imparare. L’insegnante di Conservatorio ti forgia, ma per trovare questi spunti è utile avvicinarsi ai compositori cinematografici.

a cura di Joy Santandrea

Cameristi Cromatici e Cardioteam: Concerto benefico dell’immacolata a Torino

L’occasione festosa a scopo benefico, proposta da Carlo Romano con l’Ensemble Cameristi Cromatici e dalla Cardioteam Foundation Onlus, ha regalato un viaggio musicale nel tempo: dall’eleganza del Barocco alle intense colonne sonore contemporanee.

L’Ensemble Cameristi Cromatici nasce nel 2017 dall’amicizia tra Carlo Romano, storico Primo oboe dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI e per quarant’anni oboe solista preferito da Ennio Morricone, e Roberto Bacchini, organista e compositore. L’Ensemble, formato da strumentisti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, ha generosamente prestato, senza risparmio di energie, la propria professionalità al progetto benefico nato dalla volontà del Maestro Romano di omaggiare la Cardioteam Foundation Onlus del Dr. Diena che dal 2008 è impegnata in screening gratuiti di prevenzione cardiovascolare effettuati con l’ausilio di ambulatori medici itineranti, camper e barca a vela, per piazze e porti italiani.

foto di Joy Santandrea

Un breve saluto di ringraziamento dai cardiochirurghi Marco Diena e Maria Teresa Spinnler dà il La al programma musicale, appositamente arrangiato da Roberto Bacchini e diretto da Carlo Romano, in un crescendo di emozioni arricchito con tre fuori programma.

La prima parte inizia con l’energia di Vivaldi con degli estratti dai movimenti delle Quattro Stagioni, prosegue con la poetica di Mozart, passando per la famosissima «Nessun dorma» di Puccini e l’intermezzo della Cavalleria Rusticana di Mascagni. Conclude il fuori programma il Waltzer n.2 di Šostakovič, eseguito dall’emozionata Spinnler, in versione violinista, accompagnata da Costantin Beschieru.

foto di Joy Santandrea

La seconda parte, aperta a sorpresa dal giovanissimo e applauditissimo talento del violoncello Daniel Beschieru, prosegue con la suite da Il Padrino di Nino Rota, la struggente colonna sonora di Schindler’s List di Williams, le note danzanti del valzer del film Il Gattopardo di Verdi arrangiato da Nino Rota, per arrivare al clou con una suite di brani tratti dai film con colonna sonora di Ennio Morricone. Toccando l’animo dell’ascoltatore con le splendide note di C’era una volta in America, passando dolcemente attraverso la bellezza di brani indimenticabili soprattutto per gli amanti della settima arte, si raggiunge l’acme con Gabriel’s Oboe: ascoltare Carlo Romano dal vivo nella famosissima esecuzione di questa iconica melodia è un attimo di puro raccoglimento.

foto di Joy Santandrea

Rispondendo alla standing ovation, Romano regala un ultimo fuori programma. In segno di personale gratitudine accenna un gesto sul cuore e, donando un liberatorio sorriso rivolto alla platea in gran parte formata da medici e loro collaboratori, propone col suo Ensemble il medley tratto dalle musiche di Nicola Piovani per il film La Vita è Bella. È impossibile non lasciarsi toccare l’animo da un messaggio di speranza e rinascita così potente, in cui gratitudine e passione si fondono per creare qualcosa di meraviglioso.

Carlo Romano, l’Ensemble Cameristi Cromatici, Medici e Collaboratori della Cardioteam Foundation onlus ci ricordano che il cuore non batte solo per vivere, ma anche per emozionarci.

a cura di Joy Santandrea