Vi siete mai chiesti perchè sui palchi dei concerti ci siano delle casse non rivolte al pubblico? Se sì, a cosa servono? Può sembrare un po’ controintuitivo, invece proprio quelle casse sono utili a connettere pubblico e artisti, che attraverso queste possono ascoltarsi e avere maggior controllo della performance. Si chiamano casse spia o MONITOR, proprio come il nuovo two days festival che si è appena concluso a sPAZIO211, con l’intento simile di creare unione tra pubblico e artisti, con nuove scoperte e grandi aspettative.
Il secondo giorno ha offerto varietà musicale e geografica, con tanti artisti per la prima volta a Torino. Si inizia con Maria Chiara Argirò, musicista di origine romana ma residente a Londra, che ha presentato il suo ultimo disco Closer, accompagnata da Riccardo Chiaberta (batteria) e Christos Stylianides (tromba ed elettronica). Si notano da subito le radici jazz del progetto, con una lunga introduzione strumentale di tromba e batteria, che poi passa a un’esplorazione elettronica, attraverso effetti di eco e melodie oniriche del synth. La performance procede in modi imprevedibili attraversando territori sonori sfumati, tra momenti techno, in cui dominano ritmi intricati delle percussioni spartane e altri più ambient in cui semplici arpeggi di synth suonano come un tuffo dentro l’acqua. La voce di Maria Chiara tra loop e distorsioni, ricorda un po’ Beth Gibbons, per il modo di interagire con l’ambiente circostante, sta sempre al centro ma al tempo stesso sembra provenire da lontanissimo.

Da Londra passiamo a Sheffield, con Gia Ford, che sale sul palco chitarra acustica in spalla insieme al suo chitarrista Connor. Il suo live è semplice per via della strumentazione ma molto intenso e divertente. Da una parte i suoi racconti delle sue canzoni, pieni di personaggi emarginati (“Housewife dreams of America”), abusati (“Paint Me Like a Woman”), alienati (“Car crash for two”) dall’altro il suo modo di stare sul palco quasi da crooner con una voce profonda a tratti rabbiosa, aspra e ruvida. Ogni brano è introdotto con frasi sarcastiche dallo stile british, a metà tra cinismo e autoironia, ma sempre rimanendo impassibile. Siamo giunti al tramonto, la luce si unisce all’oscurità, Gia ringrazia il pubblico e promette di tornare in futuro con tutta la band al seguito.

Subito dopo salgono sul palco YĪN YĪN, quartetto olandese formato da Kees Berkers (batteria), Remy Scheren (basso), Robbert Verwijlen (tastiere) e Erik Bandt (chitarra). Anche in questo caso ci troviamo di fronte a degli abili sperimentatori che uniscono oriente e occidente, folk giapponese e rock psichedelico, funk e disco anni 80. Il loro approccio punta a espandere ogni brano, quasi alla ricerca di un effetto cosmico in cui ci si perde tra le melodie pentatoniche e i tempi irregolari della batteria. Qualcuno potrebbe pensare che sia solo dell’easy listening, utile per riempire le giornate, ma dal vivo è ottima musica per ballare e viaggiare con l’immaginazione verso un’isola tropicale immaginaria.
Si conclude ritornando al jazz con il debutto torinese di Arooj Aftab, artista pakistana, cresciuta a New York, che sale sul palco insieme alla sua band composta da Perry Smith alla chitarra, Petros Klampanis al contrabbasso e Engin Kaan Günaydin alla batteria. Lei vestita di nero e con spessi occhiali scuri sembra una presenza misteriosa come il suo ultimo album Night Reign. Canta in inglese e urdu, sua lingua madre, in posizione di profilo al pubblico e avvolta da intense luci blu. Nelle pause familiarizza con il pubblico, non sapendo se ci siano veri fan, offre da bere e chiede scusa per non aver portato dischi da vendere o altri gadget. I brani lunghi e sognanti variano tra blues, R&B e bebop, la sua voce procede per ampi archi di sviluppo in modo inflessibile. Tra un assolo e l’altro, assistiamo a un continuo giro intorno al mondo, tra atmosfere e melodie differenti, come in “Bolo Na”, brano che prende spunto dalla sua passione giovanile per l’heavy metal, in cui le luci rosse e il riff grunge del basso prendono il sopravvento.
Il finale sembra tutto un sogno, Arooj svanisce tra il fumo denso, in realtà era solo andata a prendere il suo negroni e poi riappare per salutare il pubblico insieme alla band.
Tornati alla realtà, il festival è finito, una rinascita necessaria anche se in forma contenuta, ma senza compromessi. All’ingresso sventolerà ancora il vecchio cartello di TOdays, ma forse a volte bisogna cambiare, perché tutto rimanga com’è.
Alessandro Camiolo