Il Teatro Regio di Torino rimette in scena, a ventitre anni di distanza e in collaborazione con il teatro Massimo di Palermo, il Nabucco di Verdi. Rimodellata nella struttura, questa produzione osserva l’opera da una prospettiva nuova. Di seguito qualche dettaglio.
Bisogna dimenticare, per un momento, il Nabucco corale; quello del “Va’pensiero”, della battaglia fra oppressi ed oppressori e guardare invece ai personaggi nella loro interiorità. Questa è la sfida del regista Andrea Cigni, accompagnata dalle scene stranianti pensate da Dario Gessati. Ampi spazi vuoti creano un atmosfera che ricorda più il contemporaneo post-industrial piuttosto che l’ammaliante fertilità della Mesopotamia. Per inciso, di pianta non se ne vede una. Le tonalità cromatiche privilegiate rimangono sul grigio, argento, oro e rame. Nella prima scena della Parte II, addirittura, si riconoscono barre d’acciaio inchiodate ai muri, senza contare che, al posto del cavallo, Nabucco entra in Gerusalemme cavalcando (sempre se il termine è esatto) un gigantesco masso di ossidiana. In breve, una rappresentazione non facile da interpretare. Probabilmente, come molte creazioni contemporanee, è necessario che intervenga qualche riflessione per non scadere in riduzioni stigmatizzanti.
Presupposto del regista è invertire la prospettiva. Non è il popolo al centro, ma i singoli protagonisti, che nelle loro dispute lottano per le loro personali brame individuali. Lo spazio, ampio e inospitale alla vita, rappresenta, probabilmente e per la maggior parte del tempo, l’insofferenza della storia e il tramonto di una civiltà. Una realtà non poi molto lontana dalla nostra. Anche la luce (a cura di Fiammetta Baldisserri) gioca un ruolo di autentica protagonista. In contrasto con lo spazio essa rappresenta l’entità divina e simboleggia la fenditura con il passato e il futuro. Oscura la scena quando Nabucco sfida il divino (finale della Parte II), la riapre (quasi abbagliando lo spettatore) nella conversione e nella pace dell’ultimo atto. Attraverso questi mezzi la regia sonda il valore esistenziale intrinseco nell’opera. Variamente efficace nei diversi momenti (molto nel finale con la sua abbagliante luminosità, meno nell’entrata di Nabucco a cavallo del masso) questa produzione è stata concepita per essere interpretata su più piani: quello estetico, teatrale, drammatico e visivo.
Sul versante musicale i cantanti si rivelano complessivamente molto ben integrati fra loro. Con il suo Ismaele Stefan Pop, vincitore del prestigioso premio Operalia, sfoggia una voce molto potente che non sacrifica per questo il legato e un fraseggio morbido. Un peccato vederlo confinato in una parte relativamente piccola. Non inferiore in quanto a potenza ma lievemente meno omogenea nell’emissione è la voce di Enkeledja Shkosa (Fenena), limitata anche lei dalle poche occasioni solistiche. Nei panni di Zaccaria il premio Oscar della lirica Riccardo Zanellato, in quelli di Nabucco Giovanni Meoni. I due plasmano e sprigionano con la loro voce tutto il pathos che la musica di Verdi possiede, confermandosi due grandi interpreti di questo repertorio. Csilla Boros è invece Abigaille. Non particolarmente convincente all’inizio della rappresentazione, la sua voce rimane in secondo piano rispetto alle prime, per poi recuperare pienamente negli atti successivi. Spetta a lei il merito di aver conquistato definitivamente la commozione del pubblico con l’aria conclusiva “Su me morente esanime”. Una considerazione speciale riguarda infine il coro del Teatro Regio che, diretto da Andrea Secchi, esegue impeccabilmente le sue parti: sia per quanto riguarda i registri vocali, molto ben amalgamati, sia per gli attacchi e l’uso delle dinamiche. Al “Va’ pensiero” sono seguiti alcuni minuti ininterrotti di applausi.