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Zoe Pia e il mito di Atlantide al Torino Jazz Festival

Il 25 aprile, giorno della Festa della Liberazione, la clarinettista e compositrice sarda Zoe Pia ha portato sul palco del Teatro Vittoria, nell’ambito del Torino Jazz Festival, il suo nuovo progetto Atlantidei. La sala era piena, anche se con un pubblico decisamente adulto: un peccato considerando l’energia fresca e sperimentale della proposta.

Atlantidei è una performance che va oltre la musica: è un viaggio sensoriale, una visione che mette insieme mito, natura e suono, pensata insieme al collettivo EIC – Eden Inverted Collective – composto da quattro percussionisti under 35 che hanno condiviso la scena con Zoe: Mattia Pia (suo fratello), Nicola Ciccarelli, Paolo Nocentini e Carlo Alberto Chittolina.

Foto di Colibrì Vision

Fin dalle prime note del brano d’apertura, “Oceanus”, si capisce che non sarà un concerto tradizionale. Le percussioni si mescolano a suoni liquidi generati da strumenti immersi in una bacinella d’acqua, mentre Zoe fa scivolare un medaglione sulle chiavi del suo clarinetto per produrre un suono arcaico, quasi sciamanico. 

È un momento che sembra arrivare direttamente dalla terra e dagli abissi, un suono che richiama qualcosa di antico ma che parla chiaramente anche al presente.

Tutto il progetto nasce infatti da un viaggio nel sud-ovest della Sardegna, nella zona dell’Iglesiente, dove la musicista ha immaginato una musica capace di raccontare paesaggi futuri intrecciati a suggestioni del passato e legati al mito di Atlantide. 

Tutto ciò prendendo ispirazione dalla teoria, affascinante quanto intricata, secondo cui la Sardegna possa essere l’antica isola sommersa.

Per Zoe Pia Atlantide è soprattutto un simbolo: «una metafora di bellezza naturale, necessaria da ricordare in una fase storica segnata da conflitti e fratture».

Ogni brano si muove tra queste coordinate: il recupero delle origini, del rito, e allo stesso tempo la sua decostruzione, attraverso suoni contemporanei e un uso creativo degli strumenti. Le launeddas, tipico strumento a fiato sardo, ad esempio, vengono soffiate e percosse in modo da produrre suoni sporchi e destrutturati, amplificati con riverberi profondi che creano rumori bassi e distorti.

Le percussioni spesso ricordano marce tribali e ritmi antichi, ma rimescolati con un linguaggio moderno, mentre il clarinetto lavora in continuo dialogo con vibrafono e marimba, dando vita a paesaggi sonori evocativi.

Il brano più diretto e politico della serata è “America”, che si apre con una vecchia registrazione radiofonica in inglese, forse di un discorso del periodo del Vietnam, coperta da un suono acuto e insistente di launeddas. 

Poi arriva un intervento al megafono, una voce che si scaglia contro la guerra, mentre le percussioni si muovono su una ritmica boom bap sincopata e il clarinetto accelera in fraseggi jazz energici. È un momento forte, uno dei più coinvolgenti dell’intero concerto.

Foto di Colibrì Vision

Il gran finale arriva con “Africa”, che parte come una marcia accompagnata dalle voci dei percussionisti. Il pubblico viene trascinato a battere le mani a tempo, mentre i musicisti si muovono ai lati della platea. È un brano definito da Zoe «green», per sottolineare quel legame continuo tra suono, natura e vita.

Tra un pezzo e l’altro, Zoe parla al pubblico con un tono semplice e diretto. Presenta il progetto, racconta come l’idea sia nata percorrendo le sue terre. 

Più volte ricorda il 25 aprile, citando la Festa della Liberazione come un momento da onorare, ricordare ed esporre a gran voce, anche attraverso la libertà e la forza della musica.

Atlantidei nasce inoltre dall’incontro con i pittori Luca Zarattini e Denis Riva in occasione della mostra Post Eden, e ne prende apertamente spunto: una visione post-edenica, un mondo nuovo che parte dal suono, dalla terra e dall’acqua, per ricostruire qualcosa di umano, sensibile e urgente. 

Una musica che respira insieme al pianeta.

Marco Usmigli

Musica e poesia: inizia così il Torino Jazz Festival

«Libera la musica» è il tema della tredicesima edizione del Torino Jazz Festival (TJF). Provando a riformularlo, possiamo affermare che la musica libera orizzonti inauditi che percepiamo come esperienze catartiche; ma, considerando quel “libera” un aggettivo, possiamo pensare la musica come fenomeno umano indomabile, senza barriere, se non quelle che decidiamo di imporre o seguire.

A partire da questa seconda accezione cerchiamo di analizzare la produzione originale che TJF ha proposto come primo concerto della giornata inaugurale di mercoledì 23 aprile al Teatro Juvarra. L’evento, in collaborazione con il Salone del Libro, è stato presentato come un dialogo di suoni e silenzi tra la poesia e la voce di Domenico Brancale e la batteria preparata e amplificata di Roberto Dani.

Il primo ha già collaborato in passato con musicisti realizzando lavori con al centro la voce e suoni, spesso registrati, mentre il secondo ritorna al Festival dopo un’esibizione solistica nel 2021, che anche in quel caso ruotava attorno al silenzio, allo spazio e al corpo. Insieme hanno creato una performance dal titolo “Chi sono queste cose”: un incrocio tra reading poetico e improvvisazione musicale. 

Foto di Colibrì Vision 

Sul palcoscenico già aperto e illuminato di blu vediamo delle orecchie dorate sparse a proscenio, un leggio al centro e la batteria subito dietro. L’ingresso dei due artisti è silenzioso, al buio, nessun applauso, solo una voce registrata che elenca nomi di poeti, pittori, attori e musicisti del passato e le loro date di morte. Lo spazio scenico si riempie di luce calda e Brancale, con voce tonante, recita i versi su uno sfondo sonoro lento e meditativo. Dani si inserisce nelle pause tra un verso e l’altro, cambiando spesso il modo di produrre suoni: con bacchette diverse, piatti di varie dimensioni e oggetti comuni appositamente riadattati. La fusione tra la voce e i suoni delle percussioni è calibrata attentamente, l’amplificazione della batteria è regolata al continuo cambio di timbri, e al tono di Brancale che in alcuni momenti recita sotto voce. 

Foto di Colibrì Vision 

I due corpi sul palco vibrano in modo diverso: se Brancale, sempre fisso sul posto, ci trasmette passione e adesione al contenuto dei suoi versi attraverso la mimica facciale e alcuni gesti delle mani, Dani sta in piedi, curvato, in continuo movimento tra balzi e scatti frenetici. A dividere in due l’esibizione è un assolo energico di Dani, che riempie la sala di suoni profondi e sempre più ravvicinati, sembra quasi inaspettato dopo la prima parte molto pacata, ma riesce ad aumentare la tensione del concerto e guidarci fino alla conclusione.

Il ritmo si fa quindi incalzante, in un continuo singhiozzo di suoni gravi e acuti, Brancale elenca tutte le azioni e atteggiamenti possibili che compiamo nella nostra vita prima di sgretolarci.

Sta di fatto che anche la musica è uno di questi modi per sopravvivere e nelle conformazioni che può assumere rimane sempre libera e inafferrabile. 

Alessandro Camiolo