Tutti gli articoli di Alessia Sabetta

Il Flauto Magico in un allestimento che strizza l’occhio all’impressionismo cinematografico in scena al Regio

Die Zauberflöte, IlFlauto magico, Singspiel di Mozart su libretto di Emanuel Schikaneder, è tra le dieci opere più rappresentate al mondo e dal 31 marzo (dal 30 con anteprima giovani) al 14 aprile, sarà in scena al Teatro Regio di Torino, con regia di Tobias Ribitzki, animazioni di Paul Barritt ideate da «1927», la squadra supervisionata da Suzanne Andrade e dallo stesso Paul Barritt. Alla direzione d’orchestra Sesto Quatrini e Andrea Secchi alla guida del coro, completando i nomi dietro questa produzione.

La trama, ambientata in un favoloso Egitto, racconta la storia d’amore tra Tamino (interpretato da Joel Prieto e Giovanni Sala) e Pamina (Ekaterina Bakanova e Gabriela Legun) e il viaggio dell’eroe che lui deve intraprendere per liberare l’amata aiutato dal fedele Papageno, anch’esso alla ricerca di “ein Mädchen oder Weibchen” (una ragazza o una donna). 

In realtà, parlare in questo modo dell’intreccio alla base del Flauto magico è molto riduttivo: l’opera è eclettica, contraddittoria, ricca di significati e forse, proprio per tale motivo, tanto apprezzata dal pubblico. Il rischio che si corre per questo genere di messinscena è di raccontare la vicenda in modo razionale non risultando all’altezza di un racconto che ha il surrealismo come caratteristica principale: le menti creatrici dell’allestimento hanno compreso molto bene questo aspetto. Lasciandosi ispirare dal cinema muto (in particolare quello impressionista), dai fumetti e da altre numerose influenze, hanno ideato una scenografia che sembra prendere vite grazie alle animazioni proiettate sulle quinte del palco.

In un flusso di immagini animate che dialogano costantemente con gli attori sul palco, lo spettatore si ritrova all’interno di un’esperienza immersiva e deve fare i conti con una nuova concezione di opera. Proprio questa necessità di rivalutazione sembra turbare il pubblico dei giovani torinesi presenti all’anteprima. Così come molti alla fine dello spettacolo sembrano entusiasti di vedere finalmente la ricerca di uno “svecchiamento”, molti altri sembrano sbigottiti. Tra i commenti più sostenuti c’è il fatto che un’opera classica debba rimanere tale anche nell’apparato scenico e che un allestimento del genere risulti addirittura troppo azzardato per il maestro del classicismo viennese. 

Ma lo spettacolo, nato a Berlino nel 2012, ha già festeggiato il suo decennale riscuotendo successo tra Europa, Usa e Cina nonostante la sua peculiarità provocatoria. Motivo per cui questo allestimento è sintomatico di tantissimo coraggio da parte di coloro che hanno deciso di sfidare le convenzioni sociali: già solo per questo merita una possibilità.

Come dopo ogni anteprima lo spettacolo si è spostato nel foyer del teatro per la rassegna Contrasti. La scelta per questa data è ricaduta su Napoleone (cantautore di origini campane, ormai stabile a Torino) è stato presentato sui social del format come portatore di magia grazie al dialetto campano e la tradizione del funk partenopeo. L’artista già noto ai più grazie a un duetto con Guè, durante la sua esibizione ha presentato in anteprima il suo nuovo singolo “Il giardino di Maddalena”, insieme a Kaze, in uscita a mezzanotte. A differenza del Flauto magico il cantautore ha ottenuto il consenso di tutte le persone presenti, concludendo degnamente uno spettacolo che lascerà parlare ancora molti.

A cura di Alessia Sabetta

“Quel che resta” degli Elephant Brain alle OGR

Uno stage pieno di catene di pedali per chitarre e basso, una band di amici che sa come divertirsi, un pubblico prontissimo a pogare come per ogni degno concerto punk che si rispetti. È la ricetta perfetta per trascorrere una serata divertente all’insegna di buona musica e fiumi di birra. Sembra la descrizione di un videoclip musicale ambientato in un concerto e, per certi versi, quello degli Elephant Brain appare proprio così. La band − formata da Vincenzo Garofalo (voce, chitarra elettrica), Andrea Mancini (chitarra elettrica, cori), Emilio Balducci (chitarra elettrica), Roberto Duca (basso) e Giacomo Ricci (batteria, cori) si è esibita nella Sala Duomo delle OGR il 19 febbraio.

Foto: Elisabetta Ghignone

L’apertura del concerto è affidata al cantautore romano Amalfitano, che prova a farci ritornare agli anni ’70 con le sonorità della musica leggera italiana combinate a suoni più moderni e quell’ironia pungente tipica di alcuni cantautori dell’epoca. L’artista riesce a creare una bella atmosfera: nonostante il pubblico non conosca le sue canzoni, si guadagna l’attenzione di tutte le persone in sala in attesa dell’arrivo degli Elephant.

La band perugina sta affrontando il primo vero tour, Canzoni da odiare, titolo dell’omonimo album uscito nel novembre 2022 e quella di Torino è una delle prime date. Il gruppo è figlio della pandemia, la stessa che ormai ci sembra solo un lontanissimo ricordo. Canzoni da odiare è nato mentre il mondo sembrava essere congelato ed è stato mixato da Jacopo Gigliotti, componente dei Fast Animals and Slow Kids (di cui si ritrovano alcune sonorità). Il fatto che si tratti, per l’appunto, di una band consolidatasi durante il lockdown, che sta affrontando la nuova esperienza del tour (facendo lo slalom tra le serate da rockstar e i «veri lavori» che impongono orari ben precisi) non ferma i cinque amici: già dal primo accordo dimostrano di essere in grado di impadronirsi del palco − nonostante non ci sia un vero palco nella sala – e catalizzare l’attenzione del pubblico sulle canzoni dal sapore doloroso e del desiderio di rivalsa.

Foto: Elisabetta Ghignone

L’intero spettacolo è frutto di una miscela esplosiva (sarebbe difficile descriverlo diversamente): in live funzionano ancora meglio rispetto alle registrazioni in studio − in cui risultano comunque essere molto bravi. Si vede che i ragazzi, prima di ogni cosa, si divertono e questa spensieratezza sembra spazzare via qualsiasi insicurezza. Creano un’immediata connessione con il pubblico, Garofalo e Mancini diverse volte si mischiano tra la folla e quest’ultimo sale sulla cassa che gli fa da rialzo per potersi tuffare sui fan pronti a reggerlo.

Foto: Elisabetta Ghignone

Rimane tanta adrenalina e la voglia di ascoltarli ancora e ancora. 

a cura di Alessia Sabetta

Con Belvedere Galeffi canta “Malinconia mon amour” all’Hiroshima Mon Amour

Galeffi potrebbe essere descritto come un inguaribile romantico, e l’uscita dell’album Belvedere conferma questa ipotesi. I live di cui è protagonista in questi giorni sembrano però aggiungere qualche tassello in più. Da dicembre il cantautore romano è infatti impegnato nel suo Belvedere Tour, che con ben tre date sold out sta incantando un pubblico curioso di vederlo esibirsi dal vivo dopo tre anni dal suo ultimo concerto. Tra le date in programma, quella del 19 gennaio all’Hiroshima Mon Amour sembra essere molto attesa da Galeffi stesso, che nel corso della serata ripete diverse volte di essere contento di trovarsi a contatto con la folla torinese.

Foto di Alessia Sabetta

Già prima del concerto è facile immaginare come si presenterà sul palco: il suo stile è un tratto caratterizzante del suo personaggio. Sicuramente avrà l’immancabile cappellino e quel look un po’ vintage e un po’ romantico, un po’ da bacheca di Pinterest. E infatti è proprio così.

Il cantautore prova a muoversi a ritmo di musica ma risulta un po’ impacciato; anche dopo aver rotto il ghiaccio con le prime canzoni Galeffi continua con movenze che potrebbero risultare buffe e quasi goffe, ma che rientrano perfettamente nella personalità di un ragazzo che diventa bordeaux appena gli vengono fatti dei complimenti. Tutto questo lo si ritrova anche nell’ultimo album, in cui si nota la ricerca della bellezza, l’introspezione e la profondità, ma soprattutto il salto di qualità rispetto alle produzioni precedenti.

Foto di Alessia Sabetta

Anche il live è caratterizzato da queste sfumature. A eccezione di qualche canzone riarrangiata appositamente in chiave rock grazie alla band che lo sta accompagnando in queste date (formata da Luigi Winkler alla chitarra, Matteo Cantagalli, fratello di Galeffi a tastiera e chitarra, Fabio Grande alla chitarra, basso e cori e Andrea Palmeri alla batteria), ascoltarlo in alcuni brani è come ricevere una carezza; in altri sembra essere avvolti in un’enorme coperta di pile mentre fuori fa freddo. Tutto è accompagnato da quella vena malinconica che rende l’intera esecuzione ancora più calorosa e accogliente, come quando entri in una stanza con il fuoco scoppiettante in un caminetto di pietra.

Foto di Alessia Sabetta

Tra la notifica del BeReal da scattare, la sua richiesta di ballare un valzer sulle note di “Due Girasoli” e qualche coro in dialetto romano per omaggiare la sua provenienza, il concerto si è tinto dei colori bluastri e rossastri che – oltre a riprendere la copertina del disco – si armonizzano accuratamente nel contesto di comfort che pochi artisti riescono a ricreare. E Galeffi ci riesce in modo impeccabile.

A cura di Alessia Sabetta

I Modena City Ramblers raccontano i loro “Appunti Partigiani”

Andare ad un concerto dei Modena City Ramblers significa sapere già cosa aspettarsi: musicisti in kilt, discorsi sociali e pugni alzati. Eppure, nonostante sia un pattern presente ad ogni loro concerto, non si sa mai cosa aspettarsi davvero.

Appunti partigiani, disco d’oro del 2005 ripubblicato in vinile e in CD a distanza di 15 anni dalla prima uscita, sarebbe dovuto essere protagonista di un tour celebrativo che a causa della pandemia è stato annullato. Per questo motivo la band ha deciso di posticiparlo a quest’anno; con la data torinese del 18 novembre a Hiroshima Mon Amour è iniziato, invece, un tour invernale che la vedrà esibirsi nei più importanti club italiani.

Foto: Alessia Sabetta

La scaletta della serata prevede alcuni brani contenuti nel disco, quelli più legati alla Resistenza; ma anche i successi più famosi conosciuti ai più e lasciati esplodere alla fine. Il pubblico è decisamente eterogeno: i cinquantenni si sono accaparrati fieramente la prima fila e alla vista dei musicisti avviano una diretta Facebook, mentre alle loro spalle i ragazzi si amalgamano in un corpo unico fatto di pogo, birra e sudore.

L’allestimento è semplice: il logo della band, enorme, sulla parete posteriore è riprodotto anche sulla cassa della batteria. In scena tantissimi strumenti musicali: tra chitarre e bassi sia elettrici, che acustici, un violino, una tromba, un piffero, un banjo e tutti gli altri c’è davvero l’imbarazzo della scelta. Il volume della musica è talmente tanto alto che il coro di tutti i presenti che cantano a squarciagola non riesce minimamente a emergere.

Foto: Alessia Sabetta

I MCR sul palco sono pieni di energia. Portano in scena la disillusione e la rabbia causate dal mondo che li circonda e le trasformano in veemenza pura. Guardano il pubblico dritto negli occhi, uno ad uno. Creano contatto con i presenti: salutano, sorridono, addirittura si mettono in posa quando si accorgono di qualcuno che sta cercando di fare loro delle foto. Si parla di migranti, di governo e di diritti. Di guerra e ingiustizie. Della necessità di rimanere umili e di ricordarsi le proprie radici. Si alzano cori che loro incitano e chiedono ai fan di rimanere sempre fedeli a quegli ideali antifascisti alla base del loro percorso musicale e quotidiano.

Non si snaturano mai. Questo è il motivo per cui andare ad un concerto dei Modena significa immaginare perfettamente cosa si sta andando a vedere. Anche a distanza di anni. Eppure, non è una cosa che stanca. Perché i loro discorsi sono fatti con l’occhio critico di chi sa esattamente cosa vuole, queste scelte si rispecchiano nella musica. Tutto si scaglia con un vigore quasi unico. E tu, più o meno fan, lo vivi in modo assolutamente attivo.

Foto: Alessia Sabetta

A cura di Alessia Sabetta

PFM: chi li ferma mai

Si può chiedere al proprio pubblico imbambolato e immobile di applaudire senza cadere nel ridicolo? Se sei la PFM, sì. E se stai girando l’Italia – a 70 anni suonati – per festeggiare cinquant’anni di carriera suonando ininterrottamente per due ore, allora non solo ti è concesso, ma addirittura dovuto.

Il 16 novembre il Teatro Colosseo di Torino ha ospitato una tappa del tour “PFM 1972-2022” con cui la band progressive celebra i successi nazionali e transnazionali e i concerti, che superano ormai le 6000 date nell’arco della loro longeva carriera. A riflettere questa longevità ci pensa il pubblico in sala che, a parte per pochissimi giovani che abbassano drasticamente la media, se non ha l’età dei musicisti, manca poco. 

L’apertura del concerto è affidata ai Barock Project, band che vuole unire la musica classica a rock e jazz. I ragazzi si muovono bene sul palco, dimostrano una tecnica notevole e uno stile molto simile a quello della Premiata Forneria con assoli di tastiera e cambi di tempo ben studiati. Il cantante, prima di lasciare il palco, dichiara la band come progressive e il signore seduto davanti a me si lamenta del fatto che ormai si dichiarino tutti prog. Se fosse stato più giovane avrebbe però convenuto che in un presente in cui sta spopolando l’indie, la band rappresenta una validissima alternativa nel panorama musicale giovanile. 

Foto di Alessia Sabetta

Il teatro ritorna completamente al buio. In un silenzio pieno di fermento esplode la musica. Il concerto vuole fare un viaggio nel tempo partendo dai brani più recenti per andare indietro ai grandi classici della band. E infatti una delle canzoni più attese è “Impressioni di Settembre”, che si scaglia nel teatro come un coltello che squarcia il pubblico, ma anche come un medicamento che lenisce la ferita appena inflitta. Fanno jazz e improvvisano: a detta loro è grazie all’improvvisazione se sono ancora insieme. Suonano Prokof’ev e Rossini «con un piccolo aiuto, come l’avrebbero scritta gli autori se avessero avuto la PFM in orchestra». Lo fanno magistralmente. Dedicano uno special esplosivo a De André con cui hanno collaborato nei celebri due album dal vivo.

Franz Di Cioccio si presenta con l’immancabile bandana nera in testa e le coppie di bacchette incastrate avanti e dietro la cintura. Incarna la libertà. Randagio (il suo soprannome) sguizza sul palco: canta, balla, suona la batteria con una potenza impensabile per un settantaseienne. È lui a dominare la scena insieme a Patrick Dijvas, molto più statico. Il bassista  presenta i brani con il suo accento francese quando il collega si sposta alla batteria, ma lascia parlare per lo più il suo strumento. I due “giovincelli” fanno parte della formazione originale. Con loro un altro storico componente: Lucio “Violino” Fabbri, subentrato otto anni dopo la nascita della band, che suona eccentricamente il violino con l’aggiunta di vari effetti, tra cui il wah wah, pur mantenendo una compostezza inalterabile. Sono loro a mandare avanti la baracca e, nonostante la formazione sia composta da musicisti di altissimo livello, ognuno di loro potrebbe suonare da solo garantendo uno show degno di essere chiamato tale.

Dai social della band

Si sente la mancanza di alcuni brani celebri come “Maestro della voce” o “Chi ha paura della notte”, che il pubblico continua a richiedere. Ma al gruppo che ha scritto la storia del progressive facciamo passare anche questa. 

Una standing ovation, il tempo di una foto con il pubblico e il teatro cade nuovamente in un silenzio contemplativo con la platea che si svuota lentamente: è l’unica cosa che si può fare dopo un concerto simile.

a cura di Alessia Sabetta

Magic Bus: un viaggio into the Hiroshima Mon Amour

Una delle frasi che più riecheggiano tratte dal film Into the Wild recita: «Chiama le cose con il loro vero nome». Eppure diventa difficile definire quello che è successo lo scorso 21 ottobre a Hiroshima Mon Amour: non un semplice concerto, non soltanto una cover band di Eddie Vedder.

Sui social e sulle locandine Magic Bus viene presentato come uno spettacolo itinerante ispirato al film e alla produzione solista di Eddie Vedder, compositore della colonna sonora del film. La giovanissima produzione dell’agenzia creativa Popcorn Gang fa la sua seconda tappa a Torino di fronte a un pubblico amante del film che rimane seduto a terra per buona parte del concerto. L’atmosfera sembra essere quella di una serata tranquilla tra amici.

Davide Genco in apertura concerto. Foto: Alessia Sabetta

La sala è illuminata di rosso, riprendendo le grafiche della locandina e lo stile dei filmati. Il tocco in più è dato da una serie di video inediti – che comprendono spezzoni del film, letture tratte dal libro, animazioni e brevi video-testimonianze di un ragazzo che in Alaska, a vedere il magic bus, ci è andato davvero – proiettati alle spalle della band per tutto il concerto. Ad accrescere il clima intimo e l’atmosfera avvolgente in cui si ha la sensazione di totale coesione ci pensa la scelta di iniziare il concerto con dei brani eseguiti solo dal cantante (Davide Genco)  e dal suo ukulele in una sala semibuia. Si aggiunge poi il chitarrista (Marco Settanni) che, tra le varie canzoni, esegue la celebre “Society” e infine, il bassista (Marco Chiodi) e il batterista (Enrico Pirola) che danno alla serata una svolta più rock.

Davide Genco (voce e chitarra) e Marco Settanni (chitarra). Foto: Alessia Sabetta

L’esecuzione integrale della colonna sonora è intervallata da una scelta filologica di brani aventi a che fare con Eddie Vedder e con i concetti capisaldi del film: la libertà e il viaggio. I brani selezionati spaziano tra cover dei Beatles, dei Pearl Jam, e “Follow The Sun” suonata con chitarra e armonica, sottolineando quell’immaginario cinematografico del viaggiatore solitario che si tiene compagnia con la musica. D’altra parte, il patto non scritto stipulato tra la band e il pubblico è quello di voler fuggire per una serata da «questo mondo così triste».

Esattamente come accade in un viaggio appena iniziato, in alcuni momenti si percepisce la necessità di un motore che deve carburare, complice il fatto che lo spettacolo sia alle prime esecuzioni e abbia bisogno di essere ben collaudato. Nonostante ciò, il prodotto confezionato è piacevole. 

Magic Bus. Foto Alessia Sabetta

La serata si conclude in modo tranquillo e anche se le temperature sono tutt’altro che glaciali come in Alaska, per tutto il concerto sembra di essere nel vero Magic bus, con Alexander Supertamp a ripetersi che «La felicità è reale solo se condivisa».

a cura di Alessia Sabetta

Eugenio in Via Di Gioia e rovere @ Flowers Festival

Ad un mese dall’uscita dell’ultimo album, gli Eugenio in via di Gioia non hanno perso tempo per tornare sui palchi italiani, ritrovarsi e recuperare la bellezza derivante dallo stare insieme. Il 15 luglio è la volta del Flowers Festival che li ha ospitati, insieme ai rovere, sul palco del Parco della Certosa di Collegno. 

Ad aprire il “doppio” concerto sono stati i Mons, band di Grugliasco, che per l’occasione ha ricevuto una targa di riconoscimento dal sindaco della città. La rock band è in parte conosciuta grazie alla partecipazione al programma RAI “The band”, dove è stata seguita dal cantautore Marco Masini. In pochi secondi i Mons riescono a conquistare anche chi ancora non li conosce e scaldano il pubblico in attesa dell’inizio del concerto. La folla balla e si diverte, rimanendo piacevolmente incuriosita dalla forza espressiva dei cinque giovani sul palco.

I rovere sul palco del Flower Festival (foto di Alessia Sabetta)

Sono le 21:00 quando i rovere salgono sul palco e, dopo i primi accordi di “astronauta” – brano tratto dall’album dalla terra a marte, uscito lo scorso febbraio – arriva Nelson Venceslai, il frontman della band, che con il microfono in mano, un cappellino lilla in testa e un po’ d’ansia in volto, dà “il la” ai fan pronti a cantare con lui. I rovere erano attesi all’Hiroshima Mon Amour (locale torinese ed ente organizzatore del festival) lo scorso marzo, ma a causa della pandemia il concerto è stato posticipato. La band è stata dunque “promossa” a opening act degli Eugenio, all’interno del “tour 2022” della band bolognese.

I rovere provano a coinvolgere i fan con brevi dialoghi che introducono la maggior parte dei brani; il concerto dura un’ora circa e vengono alternati alcuni singoli del nuovo album a brani più vecchi e conosciuti dal pubblico più affezionato.

Foto di Alessia Sabetta

Il gruppo si diverte, nonostante la confessione del cantante di un’iniziale preoccupazione di non essere all’altezza della situazione. Tra una canzone e l’altra, trasformano una gaffe in un momento su cui ridere tutti insieme: per tutta l’attesa prima del concerto (già mentre i fan in fila ascoltavano il sound-check), infatti, si vocifera di un “segreto” non celato, che riguarda Nelson e la sua incapacità di ricordare i testi delle canzoni. Già dal primo brano i più attenti si rendono conto di alcune modifiche estemporanee che vengono sottolineate dai musicisti della band (Lorenzo Stivani alla tastiera, Luca Lambertini alle chitarre) e da Nelson stesso, che urla di aver sbagliato quando se ne rende conto. Il tutto diventa ancora più divertente quando suonano la canzone “looney” in cui un verso recita «Canto una canzone e sbaglio le parole», su cui tutti cominciano a ridere captando la reference. Commovente il momento in cui il palco si svuota e rimangono Nelson e il chitarrista Pietro Posani, che inizia a suonare il brano “crescere” in versione acustica creando un clima molto intimo. Ancora qualche altra canzone e si arriva alla chiusura del concerto, con il brano “peter pan”. Il gruppo si congeda annunciando l’inizio della seconda parte della serata.

Gli Eugenio in Via Di Gioia, come da programma, arrivano sul palco alle 22:30 e aprono la data torinese del tour “Amore e Rivoluzione” con il brano di apertura dell’album omonimo, “Quarta rivoluzione industriale”. Il gruppo si esibisce in casa, nella città che li ha visti crescere negli ultimi dieci anni, durante i quali sono passati dall’essere sconosciuti al distinguersi sul panorama nazionale e internazionale al punto da ricevere addirittura la nomina dal comune di Torino come ambasciatori delle eccellenze. 

Nonostante questo concerto arrivi alla metà del tour, i ragazzi sembrano aver appena iniziato, assaliti da sentimenti di preoccupazione misti ad adrenalina, speranzosi di essere apprezzati ma coscienti di avere di fronte un pubblico pronto a sostenerli. Da subito si appropriano del palco con l’energia che li contraddistingue conquistando il pubblico, piuttosto eterogeneo, composto anche da bambini – in prima fila – e dai loro genitori, con indosso magliette del merchandising.

Eugenio in Via Di Gioia (foto di Alessia Sabetta)

Il concerto prosegue serenamente insieme al gruppo Senza fiato (trombone, tromba, sax e percussioni), che aveva già suonato con la band in altre occasioni. Tra brani del nuovo album e quelli più datati, si presentano sul palco due ospiti: Michelangelo Di Gioia, papà di Paolo Di Gioia (batteria e percussioni), che suona qualche brano alla tastiera e, a sorpresa, Duffy che entra con un tamburello durante la canzone “Plot twist”, di cui è il produttore.  Immancabile il cubo di Rubik gigante lanciato alla folla perché lo scombinasse, in modo da permettere a Eugenio Cesaro (cantante) di risolverlo durante l’esecuzione di “Prima di tutto ho inventato me stesso”.

A un certo punto la band chiede il silenzio e il pubblico, come stregato, si calma, permettendo l’introduzione di “Giovani illuminati”, inno che la band aveva regalato − qualche anno fa − ai millennials totalmente assorbiti nel digitale e «illuminati da una realtà a risparmio energetico», come recita il testo del brano. Spiritosa, invece, la presentazione di “Non vedo l’ora di abbracciarti” che vede Lorenzo Federici (basso) ed Emanuele Via (tastiere e fisarmonica) coinvolti in un siparietto in cui impersonano – grazie ad un effetto sonoro– le due vocine in conflitto nella testa di Eugenio. Lo scambio diverte il pubblico ma anche gli artisti sul palco, che improvvisano le battute a suon di botta e risposta prima di lasciare posto al brano. L’emozione coinvolge anche la band: Eugenio si toglie l’auricolare e rimane affascinato dalle voci del pubblico che sovrastano la musica e, suggerisce ai suoi compagni di fare lo stesso, per poter percepire la magia del momento.

Eugenio mostra il cubo appena risolto mentre canta (Foto di Alessia Sabetta)

Il concerto degli Eugenio in Via di Gioia sembra una serata tra amici (migliaia di amici) che si rincontrano ad una festa e cantano insieme, lasciando da parte tutte le preoccupazioni. Non esistono barriere, il palco non rappresenta un impedimento, non pone distanza con il pubblico. Il rapporto con quest’ultimo, sempre molto sincero, rimane una componente importante del gruppo, che coinvolge i fan in qualsiasi occasione possibile. Una delle ultime è stato il flashmob in piazza San Carlo a Torino, quando un pacifico esercito di fan ha creato insieme alla stessa band la scritta “Ti amo ancora” per il videoclip di “Terra”, brano con cui si conclude il concerto.

Foto di Alessia Sabetta

Alla fine della serata, i fan si dirigono all’uscita ancora affascinati dall’amore e dal desiderio di cambiare il mondo con un’azione collettiva. Consapevoli che l’invito da parte della band ad un cambiamento di rotta ha, in qualche modo, attecchito. Non saranno gli anni delle rivoluzioni e della controcultura hippie, ma la potenza trainante degli Eugenio sembra rappresentare il nuovo orizzonte del cambiamento.

a cura di Alessia Sabetta

Skunk anansie @ Flowers Festival con “Celebrating 25 Years” tour

Il 1° luglio si è tenuta l’ultima delle date italiane degli Skunk Anansie che, in occasione del tour celebrativo per i 25 anni di carriera, si sono esibiti al Parco della Certosa di Collegno per il Flowers Festival.

Ad aprire il concerto sono stati i Manitoba (duo fiorentino già conosciuto per la partecipazione a XFactor 2020) e r.y.f. (pseudonimo di Francesca Morello, cantautrice portavoce della comunità queer) che hanno iniziato a scaldare la serata in attesa dell’arrivo sul palco della band britannica.

Poi le luci stroboscopiche hanno tinto di rosso il palco, su cui si sono posizionati Cass Lewis (basso), Mark Richardson (batteria), Martin Kent (chitarra) ed Erika Footman (cori, tastiere e percussioni). I quattro hanno iniziato a suonare “Yes Is Fucking Political”. Sui primi accordi, che hanno mandato il pubblico in visibilio, è arrivata Skin con una giacca arancione, dei pantaloni di velluto neri e un copricapo che ricordava i capelli della Gorgone Medusa.

Skin con il suo copricapo e Martin Kent (foto di Alessia Sabetta)

Già dai primi secondi sul palco, Skin sembrava intenzionata a tuffarsi sulla folla, proposito rimasto tuttavia irrealizzato. Nonostante ciò, già sul secondo brano in scaletta, “Here I stand”, è riuscita con pochi gesti a incitare al pogo i fan, che non si sono lasciati sfuggire l’occasione.

Dopo essere sparita giusto il tempo necessario per togliere l’ingombrante copricapo, Skin ritorna in scena sulle note di “Because of You”, per poi scendere dal palco su “I can Dream”, scavalcando le transenne e facendosi spazio tra la folla, incredula di averla accanto. Anche gli altri membri del gruppo – che si muovevano su una passerella montata appositamente sulla scena o si sporgevano sul bordo del palco, quasi a voler farsi osservare per bene – hanno saputo da subito creare una sinergia con il pubblico.

Foto di Alessia Sabetta

La scaletta prevedeva alcuni dei brani più famosi della band e il concerto è proseguito con ritmi serratissimi, senza particolari pause tra un brano e il successivo. Un momento estremamente toccante è stata l’introduzione del brano “Love Someone Else”, in cui Skin si è presa un momento per fare un discorso legato alla libertà degli esseri umani e al principio di uguaglianza, urlando diverse volte «My Body My Choice» (“Il mio corpo, la mia scelta”, celebre slogan nella lotta per il diritto all’aborto) prima di iniziare a cantare.

Al termine, dopo essere uscita di scena per qualche minuto, la band è riapparsa di fronte al pubblico, che non aveva alcuna intenzione di andare via. Nonostante la stanchezza e il caldo evidentemente accusati dai componenti, gli Skunk Anansie hanno continuato a cantare, esibendosi con alcuni dei brani più attesi tra cui le cover di “Higway to hell” degli AC/DC e “Best of You” dei Foo Fighters. 

La band saluta i fan (foto di Alessia Sabetta)

Si chiude così una serata che lascia l’adrenalina di un concerto hard rock, ma anche una nostalgia inspiegabile che sembra aver riportato tutti indietro nel tempo, agli anni ’90, quando la band dominava le scene. Complice forse anche il pubblico, composto per lo più da persone adulte (all’epoca poco più che ventenni), accorse per rivivere quei momenti.

a cura di Alessia Sabetta

Galea e Galeffi ospiti a Cantautori in Canottiera

Galea e Galeffi sono saliti sul palco di Cantautori in Canottiera come due scolaretti al primo giorno di scuola, ma appena seduti hanno rotto il ghiaccio dimostrando, con gli strumenti tra le mani, una grande padronanza del palco. 

Cantautori in Canottiera è una rassegna musicale estiva ideata e prodotta da The Goodness Factory, che dal 2016 a questa parte ha visto diversi cantautori avvicendarsi sul palco dell’Off Topic. Quest’anno gli appuntamenti sono iniziati il 21 giugno e si concluderanno il 26 luglio. 

Nella serata del 28 giugno si sono incontrati Galeffi (pseudonimo di Marco Cantagalli, cantautore romano classe 1991) e Galea (nome d’arte di Claudia Guaglione, cantautrice pugliese classe 2000), che hanno chiacchierato con i moderatori e musicisti Marco Di Brino e Anna Viganò.

Galeffi e Galea con Marco Di Brino e Anna Viganò (credit foto: Alessia Sabetta)

Ad aprire la serata è stato Galeffi con il brano “In questa casa”, tratto dal suo nuovo album Belvedere, uscito lo scorso maggio; a seguire Galea interpreta “Femminuccia”, uno dei singoli contenuti nell’album Come gli americani al ballo di fine anno, pubblicato lo scorso gennaio. Il “salottino musicale” è proseguito con i due che hanno raccontato il programma dei prossimi mesi, molto simile per entrambi i cantautori che, oltre alla scrittura, prevedono un tour-premio post pandemia (così come lo ha inteso Galeffi), per avvertire l’energia di cui sentono di aver bisogno. 

Galea e Galeffi sembrano provenire da due mondi differenti: lui vestito con un paio di pantaloni di velluto, i calzettoni di spugna e l’immancabile cappellino marrone; accompagnato dalla tastiera, nelle sue canzoni racconta la malinconia quotidiana con un pizzico di romanticismo retrò. Lei più sofisticata, magliettina bianca sotto ad un vestitino con spalline sottili sui toni dell’azzurro, avvolge il pubblico con il suo timbro di voce caldo e la sua chitarra acustica. Galea racconta di non aver mai avuto un’epifania che le facesse capire di avere una voce da utilizzare per cantare, perché lo fa da quando ha ricordi. Galeffi, invece, confessa di aver «costruito» pian piano la sua vocalità dopo un primo approccio alla produzione musicale, risalente ad un duo rap con un suo amico delle scuole superiori. L’esperienza è stata utile a fargli capire di provare piacere cercando di scrivere qualcosa su un foglio bianco. 

Galea (credit foto: Alessia Sabetta)

Molto diverso anche l’esordio di entrambi infatti, per il romano è stato frutto di scrittura d’istinto. Mentre per la pugliese, le prime produzioni pubblicate sulle piattaforme sono state più studiate e strutturate, a differenza delle canzoni iniziali, ascoltate solo da pochissime persone a lei vicine, frutto di un approccio (a sua detta un po’ prematuro) avvenuto nel periodo dell’adolescenza.

Tra una canzone e l’altra è stata posta loro la domanda «Se il vostro ultimo disco fosse un film, quale sarebbe?” Anche in questo caso viene rimarcata la provenienza da due mondi totalmente diversi. Galeffi da buon cinefilo cita Il favoloso mondo di Amelie per alcune sonorità che indubbiamente riconducono alle atmosfere parigine un po’ sognanti; cita anche La dolce Vita, come il titolo della seconda traccia del suo album e The Dreamers di Bertolucci. Galea, colta un po’ alla sprovvista, afferma di essere in difficoltà e molto candidamente parla di High School Musical e di «sonorità alla Disney Channel» come concept dell’album.

Galeffi (credit foto: Alessia Sabetta)

All’ultima domanda prima della chiusura, «Cosa faresti se non fossi qui?», Galea risponde di immaginarsi con una laurea magistrale in lettere e Galeffi sceneggiatore di qualche film. Poi hanno concluso cantando e suonando insieme “Occhiaie” (brano con cui Galeffi ha esordito nel 2017) accompagnati dal pubblico.

a cura di Alessia Sabetta

Remix Tour: Roy Paci in concerto al Cap10100

Domenica 29 maggio 2022, il Cap10100 ha ospitato la prima data del Remix Tour di Roy Paci e la sua formazione, rinnovata appositamente, che si propone di girare l’Italia con una selezione del repertorio Roy Paci & Aretuska

Nella sala si sono riunite persone di ogni età, contesto e gruppo sociale: dai giovani alternativi vestiti con abiti oversize, ai cinquantenni in camicia bianca, passando per coloro che hanno scambiato il concerto per una serata come un’altra in discoteca, fino ad arrivare ai reduci dei party anni ’70 muniti di jeans e chiodo.  Il palco, colorato  di verde dalle luci, subito si riempie con il suono distorto della chitarra di Marco Di Martino, che ha introdotto il brano “Grande la Media Noche” con cui si è aperto il concerto. 

Foto: Alessia Sabetta

Il gruppo è dirompente, gli artisti si divertono sul palco e saltano e ballano al suono dei ritmi proposti brano dopo brano, che spaziano dal reggae al mambo e accompagnando un Roy Paci che, destreggiandosi tra il canto e la sua tromba – appesa all’asta del microfono – si dichiara grato di trovarsi di fronte ad un pubblico che si diverte insieme a lui, dopo anni di silenzio.

Diversi sono stati i momenti di riflessione personale, che hanno coinvolto anche Raphael (seconda voce), in cui sono stati toccati temi differenti sotto forma di introduzione ai vari brani. 

Uno in particolare ha colpito più di tutti il pubblico che è esploso in un applauso collettivo, tra le urla di consenso dei più anziani presenti in sala. Prima del brano, Paci ha affermato «Conta capire dove nasci e sapere che prima o poi le battaglie che hai fatto trovano un senso. Non solo al sud. Se un giorno dovessi smettere di fare musica tornerei a fare volentieri quello che facevo con mio padre, il contadino». E poi ha subito afferrato la tromba, stringendola a sé, come a sottolineare il suo legame con lo strumento.

Foto: Alessia Sabetta

Una brevissima pausa per poi tornare sul palco e concludere con gli ultimi brani, tra cui “Toda Joia toda beleza”, brano del 2007 conosciuto anche dai fan meno assidui del gruppo, che aveva visto la collaborazione degli Aretuska con Manu Chao.

Musica esplosiva, un pubblico entusiasta, una band divertita (e divertente) sono stati gli ingredienti del primo live di un tour che si preannuncia capace di unire varie generazioni, sotto il segno di stili che mescolano diversi mondi e sonorità.

Immagine in evidenza: Alessia Sabetta

a cura di Alessia Sabetta