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Fatoumata Diawara e la musica della liberazione: 25 aprile al Torino Jazz Festival

«Festeggiamo la liberazione dal nazifascimo ma i rigurgiti fascisti rimangono e dobbiamo continuare a combatterli» è la premessa con cui inizia la serata del 25 aprile al Teatro Regio: questa frase, pronunciata dal presidente regionale del Piemonte, un accenno all’art. 3 della Costituzione da parte dell’assessore alla cultura e un breve intervento di Adriana Cantore che la liberazione l’ha vissuta sulla sua pelle e ne conserva e tramanda l’impegno. Successivamente Sara D’amario legge alcuni passi di Dante di Nanni perché il concerto, in sua memoria e della gioventù resistente, è promosso con il sostegno del Comitato Resistenza e Costituzione.

Poi buio in sala e sul palco del teatro, illuminato da luci bluastre, si posizionano Juan Finger al basso, Jurandir Santana alla chitarra elettrica, Fernando Tejero alle tastiere e Willy Ombe alla batteria. Un paio di giri iniziali ed entra Fatoumata Diawara, bellissima, vestita di bianco con un copricapo tradizionale e la chitarra, anch’essa bianca, a tracolla.  

Fatoumata non è solo il simbolo della Resistenza, ma la sua musica diventa un modo per tradurre le battaglie per la conquista dei diritti nella sua Africa (l’artista è originaria del Mali) in momenti di gioia e speranza. Sul fondo del palco uno schermo che proietta video e grafiche che raccontano le donne africane, rafforzano i messaggi da lei portati.

Foto di Shelby Duncan dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il focus della serata, infatti, sono le donne: secondo Diawara esiste una complementarietà tra donne e uomini (come terra e cielo, fuoco e acqua) perché necessari gli uni agli altri, ma le prime non sono emancipate. È impressionante il coraggio con cui la cantante affronta alcuni temi davanti a un pubblico che, potenzialmente, non ha esperienza diretta di quello di cui sta parlando. Pur essendoci parecchie persone di origine africana − diverse delle quali vestite con i tradizionali abiti wax – che fanno sentire la loro presenza, la componente occidentale si aggiudica la percentuale più alta.

L’artista è ad esempio una delle prime a parlare in musica del tema della mutilazione genitale femminile: «don’t touch my flower, part of our body» introduce così “Sete”, il brano con cui si ribella a questa pratica ancora largamente diffusa. Afrobeat, jazz, pop, blues ed elettronica si intersecano per raccontare ancora meglio le storie di cui si fa portavoce.

È difficile immaginare il Teatro Regio spogliato dalla sua aura “classica”, eppure, ad un certo punto la platea viene incitata ad alzarsi in piedi e ballare per la libertà. Per questa sera il teatro cambia la sua destinazione d’uso, tra chi si alza e si lascia trascinare in una danza liberatoria e chi, in modo più temerario, lascia addirittura il proprio posto per scagliarsi sottopalco e ballare liberamente senza limitazioni di spazio.

Foto di Alun Be dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Per tutta la durata del concerto Diawara si dimena sul palco, suona, canta, esce e rientra con una maschera tradizionale, danza come a volersi liberare da un veleno che le scorre in corpo. Usa i suoi ritmi, quelli della sua gente, per innalzarsi spiritualmente e si serve dell’energia delle persone per elevarsi ancora di più. «Mi hanno detto che non potevate salire sul palco, perciò è come se lo stessimo condividendo». Lo spettacolo è potente perché lei stessa è potenza allo stato puro. Quasi a fine della serata Diawara dedica “Feeling Good” a tutte quelle donne che hanno tanto da dire in musica, le «sopravvissute», le chiama: Billy Holiday, Ella Fitzgerald e Nina Simone, per lei la più importante perché le ha insegnato a vedere la luce cambiandole la vita.

Alla fine la sua luce, la forza, i suoi messaggi arrivano come una diga che si è appena rotta e non riesce più a contenere acqua. E in una giornata come quella del 25 aprile è utile tornare a casa inondati di musica che suona di lotta sociale, attivismo ed emancipazione.

a cura di Alessia Sabetta

Torino Jazz Festival: Valeria Sturba al Castello di Rivoli

Torino Jazz Festival, dodicesima edizione: è il 21 aprile, la rassegna è stata inaugurata da un solo giorno e la polistrumentista abruzzese Valeria Sturba porta la sua musica al piccolo teatro del Castello di Rivoli. L’orario mattutino – sono passate da poco le 11:30 di una ventosa domenica – non ha scoraggiato il pubblico, per lo più non giovanissimo, che è riuscito a gremire la platea. Sul palco svettano da un lato un theremin, dall’altro un vero e proprio piano di lavoro, che lascia intravedere una strumentazione elettronica (tastiere e sequencer), un maialino giallo di gomma, un campanello e altri giocattoli. Manca poco allo one-woman show.

Valeria Sturba al Torino Jazz Festival. Foto: Alessia Sabetta

La musicista sale in cattedra in un vestito variopinto, dopo una breve introduzione del direttore artistico Stefano Zenni. Tra le sue mani appare un violino elettrico blu: è una loop station a catturarne le note pizzicate, a cui si vanno ad addensare quelle del theremin e successivamente la voce. Il nome del progetto, “La musica diSturba”, denota la voglia di rivisitare le sonorità tradizionali – provenienti della musica classica, colta e popolare – in un riassemblaggio creativo e del tutto personale. “Little Big Move” è il primo brano, ispirato (e mutuato) dal violoncellista jazz Tristan Honsinger, in cui viene sviluppato con intensità sempre crescente l’iniziale riff di violino. Le suggestioni cinematografiche e teatrali saltano presto all’orecchio.

Sempre scritto da Honsinger è il secondo pezzo, Avevo Paura”, nel quale l’elettronica restituisce echi psicologici: la voce vola libera tra le ottave, si contorce, si produce in suoni e citazioni stranianti («Ho tante noci di cocco splendide»), mentre il sottofondo stride e inquieta. È poi il turno di una composizione propria, “Shake My Brain”, brano dai ritmi incalzanti e vagamente funk: al microfono compare anche il maialino di gomma (featuring un polletto dello stesso materiale), menzionato addirittura come coautore. Il gioco, di e con i suoni, sembra farla da padrone, soprattutto nella prima parte dello show.

È un crescendo di sperimentazioni ludiche e musicali. La scaletta procede con “Epiloghi”, pezzo le cui melodie utilizzano un’interessante scala di quarti di tono, per poi passare a un omaggio alla Sinfonia n. 4 di Tchaikovskij; in mezzo, c’è spazio anche per alcuni brani folk. Per questi ultimi prevalgono atmosfere intimiste – spesso con la sola voce più le corde del violino, pizzicate dolcemente, quasi volesse suonare un’arpa – ad accompagnare prima un testo popolare abruzzese, poi una composizione armena tratta dalle “Folk Songs” di Luciano Berio, “Loosin Yelav”. Di simile estrazione è anche l’ultimissimo brano suonato dall’artista, dopo essersi congedata dal pubblico e aver cambiato repentinamente idea: “Mi votu e mi rivotu”, a firma della cantautrice siciliana Rosa Balistreri. Tre quarti d’ora sono volati.

L’artista con i suoi giocattoli. Foto: Alessia Sabetta

Dopo la musica, c’è ancora tempo per una conversazione amichevole con Zenni e col pubblico: Sturba, che si occupa tra le altre cose di accompagnamenti per il teatro e di sonorizzazione di film muti, parla del rapporto tra la sua opera e il cinema (cita l’influenza di registi quali Fellini e Kaurismäki, nonché del compositore Nino Rota), del suo legame con Honsinger (scomparso di recente), della genesi dei suoi brani, della fascinazione per le tastiere anni ’80 e della sua singolare ricerca sonora: «Mi accorgo subito di quando un giocattolo può diventare uno strumento».

Entusiasmo e originalità pulsano dunque nella produzione della giovane compositrice, così come nell’intera esibizione; la sua è una presenza scenica essenziale, non esuberante di per sé, che lascia volentieri il campo alla forza e all’ecletticità dei contenuti. Il Torino Jazz Festival, nella dimora dell’arte contemporanea, ospita l’artista giusta, nel luogo giusto, al momento giusto.

A cura di Carlo Cerrato

Christian McBride al Teatro Colosseo tra i nomi più importanti del Torino Jazz Festival

Il foyer del teatro Colosseo nella serata del 23 aprile raccoglie tutta la gente che cerca riparo dall’acquazzone quasi improvviso in attesa del concerto di Christian McBride che, durante l’esibizione, tiene a sottolineare che la pioggia è una costante delle sue esibizioni torinesi raccontando che anche i suoi passaggi in città nel 1990 e 1994 erano stati nel segno del maltempo.

Sul palco, il contrabbassista si prende il centro della scena rimanendo in seconda fila, allineato con Mike Kings alle tastiere e Savanna Harris alla batteria; davanti, disposti a scacchiera, ci sono Nicole Glover al sax tenore e Ely Perlman alla chitarra elettrica. Questa la formazione della serata.

Savanna Harris – foto di Ottavia Salvadori

Le aspettative riguardo al concerto sono alte: annunciato tra i main della line up del TJF, McBride è considerato tra i jazzisti più importanti della sua generazione, oltre che essere uno dei più attivi (se non bastasse il fatto che ha vinto ben otto Grammy, tra le altre cose è anche direttore artistico del Newport Jazz Festival). L’attesa è stata ripagata.

Capire di essere di fronte a dei maestri assoluti del proprio strumento non è difficile, anche se non si è grandissimi estimatori del genere e McBride non prova in nessun modo a nasconderlo. Nel corso della serata si alterna, quasi divincola, tra basso elettrico e contrabbasso con un tocco forsennato ma sempre leggerissimo. Pur non volendo scomodare troppo Aristotele, viene immediato parlare di catarsi: il suo approccio con gli strumenti è catartico perché sembra essere lì solo per liberare la sua anima per conto della musica. Allo stesso tempo è una catarsi per gli spettatori che sembrano stregati dall’esibizione: nessuno ha il coraggio di muoversi durante e, a parte gli applausi tra un assolo e l’altro, il resto del tempo nella platea regna il silenzio.

Christian McBride al contrabbasso, Ely Perlman alla chitarra – foto di Ottavia Salvadori

La scaletta prevede pochi brani (un po’ meno di dieci) per le quasi due ore di concerto, tutti molto lunghi e strutturati quasi sempre in tre parti: una parte iniziale con l’esposizione dei temi, un momento centrale di improvvisazione e la ripresa conclusiva. Alcuni di questi sono stati composti dai musicisti della band (come “More is” di Savanna Harris o “Elevation” di Ely Perlman), altri invece dallo stesso Mc Bride come “A morning story”, o standard come “Dolphine Dance”, riarrangiata da Mike Kings. Se è scontato riferire della bravura dei musicisti sul palco, una cosa degna di nota è il supporto reciproco durante o al termine dei rispettivi assoli: McBride per primo sorride o contorce il viso in espressioni di stupore e approvazione per la performance dei suoi compagni.

Il rischio, in questi casi, è di risultare troppo tecnici e ricadere in incastri armonici e passaggi perfettamente eseguiti, ma poveri emotivamente. Mc Bride e i suoi compagni, invece, riescono a fare sfoggio di virtuosismo ma anche a far trasparire le emozioni che stanno provando e che vogliono far arrivare al pubblico.

A fine concerto nella sala del teatro rimane il silenzio di quando bisogna metabolizzare quello a cui si è appena assistito e la promessa, da parte di McBride, di tornare presto a Torino – con o senza la pioggia.

a cura di Alessia Sabetta

Un trio affiatato al TJF: Dave Holland Trio

Dopo due giorni di anteprima, inizia il programma più intenso della dodicesima edizione del Torino Jazz Festival con il primo dei diciassette concerti main: il 22 aprile sale sul palco del Teatro Alfieri il Dave Holland Trio, formato dallo stesso Dave Holland al contrabbasso, Eric Harland alla batteria e il sassofonista Jaleel Shaw – che sostituisce il chitarrista Kevin Eubanks.
Il trio apre le danze a una settimana intensa e ricca di eventi che avvicinano il pubblico ad un genere musicale mai uguale a sé stesso. 

Dave Holland, tra i maggiori protagonisti del jazz inglese, viene invitato nuovamente al Torino Jazz Festival dopo dieci anni dal concerto con Kenny Barron. Una città conosciuta dal grande contrabbassista sin dagli anni ’70 quando venne con il sassofonista Sam Rivers e un paese, l’Italia, che per Holland offre un panorama comunitario molto forte e ampio, che permette di raggiungere generazioni, luoghi e sensibilità diverse. Holland è musicista e compositore che incorpora in sé stili e territori musicali diversi: dalla collaborazione stabile con Miles Davis alle sperimentazioni con Chick Corea e Anthony Braxton fino ad arrivare a mescolare sonorità afroamericane con musiche arabe e flamenco.

Foto da cartella stampa TJF

«I am here with two wonderful musicians and really great people. We had so much fun on the road, not just on stage but off stage too» così esordisce Holland per presentare i due musicisti e amici che lo accompagnano in un viaggio di esplorazione sonora.

Harland è uno dei batteristi più ricercati nel panorama jazzistico; ha collaborato con diversi musicisti, tra cui Terence Blanchard e Charles Lloyd ottenendo tre nomination ai Grammy Awards. Sul palco i suoni creati da Harland e Holland formano un connubio ritmico-melodico che crea tensioni stimolanti. L’intesa dei due musicisti è visibilissima agli occhi e alle orecchie del pubblico: basso e batteria si inseguono e si intrecciano alla ricerca di ritmi ballabili che presto virano in atmosfere rasserenanti. Le dinamiche mutano in continuazione, e il duo è abilissimo nel passare da sonorità leggerissime, quasi impercepibili ad una densità sonora che risuona nella sala e nei corpi del pubblico.
Il batterista porta grande vitalità nella formazione. Si avverte chiaramente come senta la musica dentro di sé: le movenze del suo corpo e la sua mimica facciale mostrano una totale immersione nel gioco ritmico e melodico spingendolo, così, a creare mille sfumature e suoni al punto da sembrare di avere quattro mani e quattro piedi. 

A completare e arricchire il panorama sonoro sono le note di Jaleel Shaw, sassofonista vincitore nel 2008 del “Young Jazz Composer Award” e membro del World Saxophone Quartet. Con il suo sax Shaw colora la base ritmico-armonica di Holland e Harland creando un sound ricco di microvariazioni, ritmi asimmetrici e un continuo gioco tra i tre strumenti, che si legano in un contrappunto mai prevedibile.

Con un concerto di quasi due ore, senza soluzione di continuità, i tre musicisti hanno proposto al pubblico delle composizioni firmate da Holland e dal batterista Eric Harland che hanno lasciato ampio spazio a momenti di improvvisazione, mettendo in luce la capacità comunicativa del trio.

Per concludere la serata un momento più sperimentale, in cui Holland esplora le sonorità del suo strumento utilizzando l’archetto e il tallone dell’archetto come elementi percussivi sulle corde. 

Il pubblico entusiasta dell’esibizione e non stanco di ascoltare il trio, chiama a gran voce – tra applausi e fischi – un bis che conclude la serata mescolando jazz e blues in una composizione rilassata ma giocosa che rimanda alle sonorità tipiche dei jazz club.

A cura di Ottavia Salvadori

Bollani Day – parte II

Stefano Bollani Piano Solo

Dopo i due concerti di Stefano Bollani in Danish Trio e Eve Risser con la Red Desert Orchestra, la Giornata Internazionale del Jazz celebrata a Torino si conclude con il ritorno in solitaria di Stefano Bollani sul palcoscenico dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.

Alcuni spettatori si aspettano che il pianista suoni i brani dell’ultimo album Blooming, uscito due giorni prima: il concerto si apre proprio con due di essi, “Vale a Cuba” e “All’inizio”, e Bollani spiega che il titolo si riferisce alla fioritura, vista da più punti di vista.

Le doti di showman del pianista – reduce dal programma televisivo Via dei Matti n. 0 – intrattengono come di consueto il pubblico, anche rendendolo partecipe dei titoli e della storia dei brani, che vengono sempre presentati . Essendo da solo sul palco, la vena comica di Bollani è accentuata, fino a regalare momenti di puro spasso tra aneddoti e sketch esilaranti. Tra i tanti il “momento educational”, in cui fa scoppiare le risate del pubblico con il racconto di un compositore fittizio, tal Oliver Ending, chiamato per tagliare composizioni lunghe che sarebbero potute finire molto prima.

Stefano Bollani, foto di Fiorenza Gherardi De Candei

Con il programma televisivo il pianista – racconta – ha avuto la possibilità in questo anno e mezzo di stare vicino a sua moglie, l’attrice e cantante Valentina Cenni, con cui conduceva, portando in televisione la vita di coppia quotidiana, fatta di rispetto reciproco e di stimoli. «E perché non stimolarci pure a Torino?», presenta sul palco la moglie (che qualcuno si aspetta). Ma chi si aspettava che avrebbero omaggiato la città raccontando dei Cantacronache, collettivo nato nel capoluogo piemontese nel 1957? E ancor più, che uno degli autori, Fausto Amodei, omaggiato con il suo brano “Il Tarlo”, fosse presente in sala? (occhiolino agli studenti del Dams).

Tra omaggi e colonne sonore varie, arriva il momento in cui chi è stato già a un concerto di Bollani sa essere quello del medley (ormai un must dei suoi spettacoli), dove il pianista raccoglie richieste di brani i più disparati dal pubblico. Più diversi sono l’uno dall’altro e più sarà assurdo il collegamento tra di essi – come le “Variazioni Goldberg” di Bach o la sigla di “Heidi”: Bollani parte con uno e inserisce all’interno la citazione di un altro, come solo lui riesce a fare.

Rispetto al trio, Bollani in solo può prendersi ovviamente molte più libertà sul piano del tempo, delle dinamiche e dei virtuosismi. Continua a suonare il pianoforte mentre il pubblico ride, batte le mani o ascolta in religioso silenzio in base a ciò che suona. Perfetto erede di Victor Borge, Stefano Bollani gioca e si diverte con la musica, mettendosi al suo servizio come intrattenitore, sempre come grato e umile giullare delle folle.

A cura di Luca Lops

Bollani Day – parte I

La Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO conclude l’XI edizione del TJF2023

Stefano Bollani Danish Trio

Da diversi anni, il 30 aprile, si festeggia la giornata dedicata al Jazz per i suoi valori di inclusività e comunicazione tra culture; al Torino Jazz Festival lo si celebra con un triplo appuntamento al Lingotto, con la marching band della Jazz School di Torino in apertura.

Sullo stesso palco dell’Auditorium dove qualche anno fa si era esibito con Chucho Valdés, questa volta il pianista Stefano Bollani sale insieme al suo famoso Danish Trio, composto da Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria.

Stefano Bollani, foto di Alessandro Bosio

Nonostante non suonino da un po’ di tempo, fin da subito si percepisce come i tre siano ben amalgamati: suonano, giocano e si divertono e, consapevoli di non essere chiusi in una sala prove, lanciano continuamente segnali al pubblico tra una citazione e una battuta.

Jesper Bodilsen, foto di Alessandro Bosio

Bollani balla, si snoda sul pianoforte, alza la gamba, il tutto con un’eleganza che farebbe quasi invidia a Keith Jarrett. Bodilsen fraseggia delicatamente, mai invadente, cantando le note insieme al contrabbasso. Lund dal canto suo trasforma anche il leggio in una parte della batteria e accompagna con il suo tocco leggerissimo, che mantiene, senza mai esagerare con il volume, anche durante i suoi soli. Tutti e tre in realtà suonano delicatamente, come accarezzando le orecchie degli ascoltatori e arrivando a livelli di quasi silenzio. Inoltre suonano per puro divertimento (e non per mero virtuosismo), ed è comprensibile dalle risate e dagli sguardi. Il punto di riferimento di pensiero del trio è il pianista Ahmad Jamal, scomparso lo scorso 16 aprile, a cui hanno dedicato il concerto e l’intera la giornata .

Morten Lund, foto di Alessandro Bosio

Il repertorio include qualche inedito, qualche brano proveniente dagli album registrati insieme dal trio, fino a “Legata ad uno scoglio” come omaggio a Lelio Luttazzi, con la voce di Bollani (che scherzosamente sostituisce nel testo della canzone il nome di “Bevilacqua Vinicio” con quello di Capossela).

Eve Risser & Red Desert Orchestra – “Eurythmia”

Terminato il concerto ci si sposta nella Sala 500, dove è previsto l’appuntamento con Eve Risser insieme alla Red Desert Orchestra.

Il progetto vede la pianista francese guidare una nuova formazione di musicisti europei e africani residenti in Francia, «mescolando musica africana, minimalismo e jazz» – citando il direttore artistico Stefano Zenni.

Eve Risser e Nils Ostendorf, foto di Alessandro Bosio

Dopo aver richiamato il paesaggio sonoro di un deserto attraversato dal vento, l’atmosfera diventa suggestiva grazie a un amalgama di strumenti “jazz” (tra cui batteria, chitarra elettrica, basso e fiati) con strumenti di tradizione africana quali djembe e due balafon, xilofono tipico dell’Africa Occidentale sub-sahariana. La sezione ritmica procede su ritmi sostenuti, in particolare su quelli conosciuti come afrocuban. Spicca su tutti il djembe, che – al centro dell’orchestra – ne diventa quasi lo strumento principe con i suoi ostinati ritmici.

Eve Risser & Red Desert Orchestra, foto di Alessandro Bosio

Verso metà concerto, Risser presenta i musicisti e, provando a descrivere i brani suonati senza soluzione di continuità, intenerisce la sala spiegando con qualche difficoltà linguistica «the first piece is about horses, the second is about snakes», rimpiangendo di non essersi preparata qualcosa in più da dire sulle composizioni. Con l’ultimo brano sull’amore, il gruppo riesce a strappare un rapido bis al pubblico, invitato a mettersi in piedi a ballare e scatenarsi, anche se è già ora di scappare all’appuntamento successivo.

«Grazie per averli portati qui!» urla qualcuno a Zenni, facendo scoppiare un fragoroso applauso degli spettatori infiammati dall’aria di festa.


A cura di Luca Lops

TJF 2023: Craig Taborn tra ripetizioni e sperimentazioni

Esistono musiche che ti proiettano in un mondo lontano, sconosciuto, e che ti fanno perdere il senso dell’orientamento. È quanto successo con Craig Taborn il 28 aprile 2023 al Torino Jazz Festival presso il Conservatorio «Verdi».

Pianista pluripremiato, Taborn ha debuttato professionalmente, ancora da studente, con il James Quartet. Da giovane inizia a suonare il pianoforte e il sintetizzatore, influenzato in particolare da un ambiente di musicisti che fanno dell’assenza di pregiudizi nei confronti degli stili la loro caratteristica principale.

Acclamato come uno dei pianisti più originali della sua generazione, è diventato un punto di riferimento per molti altri musicisti. La sua padronanza di tecniche di improvvisazione si unisce alla conoscenza jazzistica, alla sperimentazione elettronica, al rock e al soul. È proprio questo che gli permette di intrecciare mondi espressivi apparentemente molto distanti tra loro ma, allo stesso tempo, di introdurre in ciascuno di essi il suo stile distintivo.

Craig Taborn. Foto di Fabio Miglio

Unico elemento sul palcoscenico: un pianoforte. Niente sintetizzatori e niente musicisti accompagnatori. Utilizzando sequenze ripetitive e arpeggi di sapore minimalista, Taborn riesce a creare sonorità sorprendenti. Il pianoforte sembra trasformarsi in una grande orchestra o addirittura in un sintetizzatore elettronico ma non c’è nessun trucco e nessun pianoforte preparato: solo Taborn e il suo strumento.

Sfruttando sia l’acustica della sala del Conservatorio che le potenzialità del pianoforte, la musica di Taborn risuona per tutto il teatro: i suoni transitano dal registro grave a quello acuto, sono dapprima debolissimi, quasi impercettibili, e poi fortissimi. La potenza con la quale suona i tasti in alcuni momenti – aiutato dall’uso incalzante del pedale sustain – è in netto contrasto rispetto alla delicatezza di altri momenti nei quali, saltando da una nota all’altra, sembra non toccare nemmeno la tastiera.

La musica che ne risulta è densa acusticamente, ma caratterizzata da poche note reiterate che fungono da radici per creare percorsi che pian piano si espandono in strutture più grandi. La presenza di questi loop caratterizza tutto il concerto, immergendo il pubblico in un grande sogno. I brani inizialmente sono riservati, intimi, poi crescono di intensità fino ad esplodere in un momento di pura energia; a creare un ponte tra le diverse fasi del brano sono le cellule ritmiche o melodiche sulle quali Taborn si fissa.
La velocità di esecuzione di alcuni passaggi è straordinaria.

Craig Taborn e Stefano Zenni. Foto di Fiorenza Gherardi

Il pubblico, inizialmente un po’ disorientato, è esploso in un grandissimo applauso dopo aver richiesto un bis. L’ultimo brano è caratterizzato dagli stessi elementi dei precedenti ma allo stesso tempo si distingue da essi per la presenza di elementi più energici e di differenti sonorità: ogni cellula melodica dialoga con l’altra, e ciascuna sembra rappresentare un personaggio.

Dunque, ancora una volta, un grande successo per il Torino Jazz Festival. Anche questo concerto è andato velocemente sold out.

A cura di Ottavia Salvadori

TJF 2023: Hamid Drake omaggia Alice Coltrane

Per la seconda volta sul palco dell’Hiroshima Mon Amour per il Torino Jazz Festival, Hamid Drake si presenta con un omaggio ad Alice Coltrane, grande musicista americana del jazz spesso nascosta nell’ombra del compagno John Coltrane.
Per eliminare il senso di vuoto lasciato dalla morte del marito, Alice trova conforto nella musica e nella spiritualità. Convertitasi all’induismo, cambia il suo nome in Turiyasangitanda. “Turiya” deriva proprio dalla filosofia indù e denota lo stato supremo di coscienza pura. Esso è anche il nome del progetto portato in scena all’Hiroshima in una data, quella del 25 aprile, in cui un messaggio di pace, libertà e consapevolezza hanno un significato ancora più profondo.

«We are doing music of spirit and inspiration. Turiya represents the freedom of expression and freedom of consciousness. We are all Turiya, which is the highest state of consciousness». –

A dirlo è proprio Hamid Drake, uno dei più importanti batteristi del jazz contemporaneo. Con una carriera costellata da grandi collaborazioni, tra cui quella con Don Cherry, Drake è diventato un maestro nel fondere tra loro influenze musicali afro-cubane, indiane e africane. Oggi si esibisce con gruppi jazz europei suonando non solo la batteria ma anche il tamburo a cornice, le tabla e altre percussioni a mano.

Hamid Drake
Hamid Drake, foto dal profilo del Torino Jazz Festival

In “Turiya” spoken words, poesia, musica, gestualità, culture differenti e avanguardie si uniscono per creare uno spettacolo che va al di là di ogni limite, diventando un veicolo per comunicare una profonda spiritualità.
Sul palco c’è anche la danzatrice Ngoho Ange che, con la sua danza libera e la sua gestualità pronunciata cattura gli spettatori. Come impossessata da uno spirito (forse della stessa Alice Coltrane?), sembra quasi catapultarsi in uno stato di trance. Con i suoi movimenti ora fluidi, ora rigidi e scattanti, lo sguardo fisso e le espressioni facciali, Ange interiorizza i sentimenti espressi dalla musica e li proietta al di fuori del proprio corpo facendoli arrivare dritti al pubblico. Ad ogni gesto il corpo della danzatrice sembra prendere sempre di più consapevolezza della sua esistenza: sembrano esplicitare visivamente i contenuti musicali e mistici che hanno caratterizzato la vita di Alice Coltrane.
Ngoho Ange ha anche portato in scena la poesia attraverso un uso particolare della voce, sperimentando vari modi di emissione del suono a seconda della portata delle emozioni e del significato delle parole. È proprio qui che viene messo in risalto in grande ruolo che hanno avuto le avanguardie in questo progetto: il canto, che si riduce a pura declamazione enfatica, viene unito a versi emessi dall’apparato fonatorio, ricordando le sperimentazioni novecentesche di Luciano Berio. Elemento sostanziale di tutta questa performance è proprio il tema della ripetizione di parole, che restano incapsulate e immutate dal punto di vista letterale; anche la musica risulta costellata di cellule ritmiche ripetitive che permettono come di ricreare lo stato di estasi.

Ngoho Ange, foto dal profilo del Torino Jazz Festival

Pochi strumenti, ma differenti tra loro come l’organo Hammond, i sintetizzatori, la tromba, il contrabbasso, le tastiere e la batteria, riescono a creare una grande massa sonora che riempie lo spazio della sala. Per la maggior parte dello spettacolo è evidente il contrappunto tra la danza e la musica strumentale, ma anche tra gli strumenti stessi. Un vero e proprio concerto, nel senso letterale del termine: nonostante i suoni prodotti risultino indipendenti tra loro, la sonorità ricreata è uniforme. I musicisti sul palco si divertono, si scambiano sguardi complici e ballano. Assieme a loro il pubblico ondeggia sulle proprie gambe lasciandosi trasportare dal groove e dal ritmo della musica.

Ospite della serata Gianluca Petrella, fra i più apprezzati trombonisti a livello internazionale che ha collaborato con artisti di fama internazionale incidendo musica di diverso tipo, dalla sperimentazione al mainstream, dal jazz alla musica elettronica e techno. Petrella entra sul palco timidamente e dopo scherzi con Drake perché «He feels he is not dressed properly», sin dalla prima nota lascia tutti a bocca aperta. Integrato perfettamente nel gruppo la musica si fa sempre più energica e potente.

Il pubblico a gran voce, tra fischi e applausi, richiede un bis. Una lunga introduzione pianistica con lunghe scale ascendenti e discendenti, un po’orientali, fa da ponte per l’ingresso in scena degli altri strumentisti che cominciano a suonare note che poco a poco si discostano dalla melodia del piano. Inizialmente il brano risulta cantabile, poi l’ingresso della batteria dà energia, introducendo una pulsazione che richiama le sonorità del blues e quelle afro-cubane. La linea del piano talvolta sembra ricordare attraverso una piccola cellula melodica la canzone Sound of Silence di Simon & Garfunkel.
Ancora una volta al centro del brano la ripetizione, udibile sia nella voce di Ange che nella linea strumentale.

Unendo avanguardie e musica afroamericana, Turiya si è rivelato un miscuglio molto ben riuscito di jazz e blues, classicità e avanguardia energia e calma.

A cura di Ottavia Salvadori

TJF 2023: Louis Sclavis e Federica Michisanti Trio

La vigilia della Festa della Liberazione vede la città assorbita nell’undicesima edizione di un Festival ricco di musicisti e proposte culturali; clima e temperatura sono in linea con le medie stagionali, l’ora è quella dell’aperitivo – le 18 in punto – e al Teatro Vittoria di via Gramsci va in scena il frutto del sodalizio artistico tra il noto clarinettista lionese Louis Sclavis e la contrabbassista e compositrice romana Federica Michisanti, accompagnata dal violoncello di Salvatore Maiore e dalla batteria di Emanuele Maniscalco.

La collaborazione tra i due artisti è del tutto inedita, così come la formazione del quartetto. L’età media del pubblico non è delle più giovani, e i ragazzi presenti sono pochi, ma non mancano certo; si ha la sensazione di trovarsi attorniati da ascoltatori appassionati del genere, nonostante la grande presa esercitata dalla manifestazione anche su semplici curiosi e onnivori musicali.

Louis Sclavis
Louis Sclavis. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Michisanti coglie qui l’occasione per presentare il suo nuovo progetto, del quale introduce i brani intervallandoli a brevi “note d’autore” riguardo le ispirazioni che hanno dato loro vita. La musicista modella una commistione tra jazz “classico” e influssi più eterogenei, derivati soprattutto dalla musica classica contemporanea. I due brani di apertura (il titolo del primo è “Two”, mentre quello del secondo è ancora da definire, anche se avrà a che fare con l’ambiente in cui è stato composto – una mansarda), eseguiti senza presentazione, danno da subito l’idea di un incastro efficace: l’intesa tra gli artisti è palpabile, e nell’insieme si può ben cogliere la sensibilità propria di ciascun elemento. Le linee melodiche sono affidate soprattutto a Sclavis, che alterna clarinetto e clarinetto basso, e a Michisanti, con il suo contrabbasso spesso caratterizzato da fraseggi rapidi e guizzanti.

federica Michisanti Torino Jazz Festival
Federica Michisanti. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Diverso spazio è concesso anche a parti improvvisative più o meno larghe, in cui risalta il frizzante drumming di Maniscalco. Quest’ultimo si destreggia tra bacchette, spazzole e mazzuole, con uno stile originale; la batteria presenta un kit abbastanza essenziale, dal quale scaturiscono fantasiose sezioni ritmiche (e poliritmiche). E forse è con il violoncello di Maiore che si apprezzano maggiormente gli accenti di musica contemporanea; le sonorità tipiche dello strumento vengono infatti alternate a pratiche non convenzionali, come l’utilizzo dell’archetto tra ponticello e cordiera – che genera un suono stridente, smorzato – o addirittura un approccio percussivo sulle corde.

Salvatore Maiore Torio Jazz Festival
Salvatore Maiore. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Una componente evocativa è imprescindibile per l’opera di Michisanti, che intitola uno dei suoi brani “B4PM”, ovvero “Prima delle quattro [del pomeriggio]”, con riferimento a una “luce particolare” percepita nel suddetto orario della giornata; da menzionare anche “Floathing”, una sorta di neologismo inglese dedicato a una composizione che “cambia continuamente il suo centro tonale”. Proprio durante “B4PM” Sclavis si produce in un lungo assolo col quale, sfoggiando la sua esperienza e il suo talento, strappa un applauso spontaneo ai presenti.

Dopo essersi assentati per pochi secondi dal palco e avere eseguito un ultimo pezzo, gli artisti si congedano dal pubblico con ripetuti inchini, chiudendo un’ora abbondante di concerto. Un jazz che lascia in chi ascolta il sentore di un lavoro profondo, intimo, condotto con l’amore di chi in questa musica sente la propria casa.

A cura di Carlo Cerrato

Steve Coleman and The Five Elements in una data straordinaria al Torino Jazz Festival

Il teatro è pieno: anche per la data del 25 aprile il Torino Jazz Festival ha registrato il sold out. Prima dell’entrata in scena degli artisti, sale sul palco Stefano Zenni (direttore artistico del Festival) per presentare Steve Coleman che di lì a poco riempirà il teatro con la sua musica, insieme ai Five Elements, gruppo con cui collabora dall’inizio degli anni ’80.

Zenni sottolinea il fatto che il musicista non venga in Italia da diversi anni: la sua esibizione di Torino è davvero straordinaria, anche perché il festival è riuscito a far anticipare l’inizio del tour. Coleman è – spiega ancora Zenni – uno dei musicisti più influenti della storia recente del jazz. Innovatore del jazz dagli ultimi vent’anni, propone una sorta di laboratorio musicale in cui innesta fantasie melodiche più lente − o per lo meno cantabili – a ritmi di matrice afroamericana più corporei e danzanti, ottenendo una musica dal carattere pienamente contemporaneo. 

Steve Coleman and The Five Elements
Steve Coleman and The Five Elements – foto dal profilo del TJF

Steve Coleman sale sul palco (con in mano il sax, la custodia e una busta di carta), seguito da Jonathan Finlayson alla tromba (con una macchinetta fotografica a tracolla, che posa subito sul palco), Rich Brown al basso elettrico e Sean Rickman alla batteria. Intervalla la presentazione degli artisti a delle cellule melodiche a cui si collegano subito il bassista, e poco dopo gli altri due musicisti. Non è previsto uno strumento prettamente armonico, motivo per cui l’intero concerto è sorretto dal tocco leggerissimo del batterista che si mescola ai ritmi composti del basso a sei corde di Brown, su cui si poggia il dialogo armonico dettato dal contrappunto tra sassofono e tromba. La ritmica, cadenzata, prende qualcosa dai ritmi hip hop underground, mentre le melodie sono per la maggior parte improvvisate. Non si tratta solo di free jazz o funk. È quel filone a cui Coleman è tanto legato e che si chiama M-Base – acronimo di Macro-Basic Array of Structured Extemporizations – in cui tutte le forme dell’universo sono connesse e hanno come obiettivo finale l’espressione artistica. Alla fine del concerto Coleman prova a raccontarlo: «When you play there’s a energy», e l’energia si sente davvero in platea, dove il pubblico continua a far ondeggiare la testa o muovere le gambe o i piedi, incapace di rimanere immobile. 

Poi, perentorio, continua: «We have to stay awake for you», spiegando che lui e i suoi musicisti sono stanchi a causa del jet lag, come se volesse giustificarsi di non essere propriamente in forma. Ma se il risultato già così è sbalorditivo, viene da chiedersi come sarebbe con i musicisti nel pieno delle loro possibilità…

a cura di Alessia Sabetta