La musica si fa parola e la parola diventa musica. L’edizione 2025 del Salone del Libro ha dimostrato come letteratura, storia e musica possano intrecciarsi e fondersi in un’unica esperienza.
Il 16 maggio, quattro incontri diversi tra loro hanno seguito un filo rosso comune, dando voce a temi ricorrenti e parole che, come un’eco, si sono ripetute cambiando forma.
L’IO E IL NOI: LUCIANO LIGABUE E MATTEO ZUPPI
Chi lo avrebbe mai detto che un rocker di Correggio e un cardinale avrebbero formato un duo irresistibile? Eppure, Luciano Ligabue e Matteo Zuppi hanno regalato all’auditorium del Lingotto, colmo di persone, una conversazione densa di riflessioni sulla vita, sulla musica, sulla necessità di raccontarsi, ma anche di sorrisi e risate.
«Per vivere la Storia, con la S maiuscola, bisogna ascoltare e leggere tante storie per capire quanto sia importante passare dall’Io al Noi». Da questa riflessione di Gigio Rancilio è cominciato il dialogo tra queste due figure unite dal bisogno di raccontare e condividere storie.
Ligabue, abituato a vivere i palchi, ha svelato quanto la parola cantata abbia un peso ben diverso da quella detta, «può essere più leggera o più pesante e profonda»; il cardinale ha ricordato che «chi canta prega due volte… la musica permette di raccontare ciò che non si riesce a dire. Mettere in circolo, è l’unico modo per relativizzare l’Io». Il potere della parola è infatti tema centrale nell’edizione 2025 del Salone che ha come slogan “Le parole tra noi leggere”.
Non è un caso che Ligabue abbia ripercorso la sua carriera parlando di responsabilità: «Quando ho cominciato non volevo lavorare… volevo esercitare una passione, volevo cantare. Ma quando ti rendi conto che ci sono persone che si tatuano una tua frase, vuol dire che non lo puoi più fare in maniera così leggera: si alza, per fortuna, un livello di responsabilità. Capisci che puoi essere utile, essere un sostegno e un supporto soprattutto per chi sta passando un momento difficile».
Come ha ricordato il cantautore, la musica ha cambiato forma e potenza: se una volta si cantava per il bisogno di dire qualcosa, questo bisogno oggi rischia e viene sopraffatto dalla necessità di apparire.

Il senso di comunità, quel Noi che per Zuppi è fondamentale per il benessere dell’Io, Ligabue lo ritrova nel legame con il suo pubblico: una fiducia incondizionata che i fan ripongono nel cantautore e che merita, in cambio, un’apertura emotiva autentica.
Nella sua autobiografia, Una storia, Ligabue apre il suo cuore e la sua vita ai lettori, condividendo anche il dolore più grande: la perdita del figlio appena nato.
«In pandemia, quando c’era una totale incertezza del futuro, e il presente era un limbo, non si poteva fare altro che guardare al passato. Ho capito che quella poteva essere l’occasione per fare chiarezza sulle emozioni che mi hanno accompagnato. Questo libro è l’atto più estremo di svelamento di me stesso».
Il dolore, per Zuppi, è difficile da classificare. Inizia da qui una riflessione su temi attuali che hanno toccato profondamente tutti.
«Come si fa a controllare il dolore quando i bambini muoiono di freddo? E quando muoiono nella Striscia di Gaza? Questa cosa ci deve fare paura! La guerra è la più grande paura. Oggi si parla di riarmo, si tracciano confini… è una follia. La paura deve diventare consapevolezza e speranza. L’individualismo non fa bene e il sovranismo non ha futuro».

“Chissà se Dio si sente solo”, brano del 2023, esplora le paure, quelle che ci rendono soli e che ci fanno perdere il senso del Noi, lasciandoci smarriti. Ligabue riflette su un decennio segnato da eventi drammatici, per citarne solo alcuni: la pandemia, la guerra in Ucraina, il conflitto a Gaza, gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Seppur laico, il cantautore esprime un profondo bisogno di spiritualità e ricerca e, nel tentativo di umanizzare Dio, si chiede «e se anche Dio si sentisse abbandonato da noi?». Un pensiero che va al di là della religione e che si lega alla necessità di ritrovare una dimensione collettiva, una comunità che restituisca speranza.
La pace e la speranza sono state cantate nel 1999 da Ligabue, insieme a Piero Pelù e Jovanotti, nel brano “Il mio nome è mai più”. «Oggi – afferma il cantautore – è più difficile far arrivare le canzoni: escono tantissime canzoni che mediamente hanno una vita più breve e, forse, non lasciano una traccia profonda. Quando ho iniziato guardavo a Francesco (Guccini) e a Fabrizio (De André)… cantare era un atto istintivo, cantare era una conseguenza dello scrivere».
Il brano, che denuncia la guerra, nasce dopo richieste esplicite da parte di figure politiche – presidente del consiglio e segretari di partito – che sollecitavano i musicisti a fare qualcosa. Ma Ligabue e i suoi colleghi hanno risposto chiaramente: «Non è la musica a dover fare qualcosa, ma è la politica che deve agire!».
Tuttavia il senso di responsabilità ha prevalso: hanno prodotto il brano e abbracciato la causa di Emergency, riuscendo a finanziare la costruzione di due ospedali in Afghanistan.
È un chiaro segnale che dimostra come la musica possa essere qualcosa di più di un mero intrattenimento, può diventare un atto di protesta, di presa di coscienza, di speranza ma che purtroppo non può sostituirsi alla politica: può evidenziare i problemi, farli risuonare nelle menti e nei cuori, creare opportunità e nutrire l’anima ma, alla fine, è la politica l’unica ad avere il potere di prendere decisioni e di agire concretamente.
UNA RIVOLUZIONE MUSICALE: STEFANO PISTOLINI E ODERSO RUBINI
Nel libro Qual è quello che canta? Resoconto di una band minore, Stefano Pistolini ci porta in un’epoca in cui la musica non era solo un mezzo di intrattenimento, ma un atto di resistenza culturale, una vera e propria esperienza collettiva. Negli anni ’70 e ’80 nacque un fermento musicale che si opponeva alle logiche dei cantautori: il punk e la new wave trasformavano il suono in un manifesto di ribellione e appartenenza.
Impossibile non trovare punti di contatto con il dialogo tra Ligabue e Zuppi: la musica è cambiata, il modo di produrla è cambiato e anche il rapporto tra musica e società.
Se negli anni ’70 e ’80 la musica si faceva per il piacere di farla, oggi – come sottolinea Pistolini– si tende a cercare la via più veloce per ottenere il successo. Afferma l’autore: «Fare musica era un’esperienza collettiva, i suoni avevano un valore trasgressivo, dissacrante e innovativo».
Pistolini ci porta in un’Italia di fine anni ’70, in particolare nella città di Bologna dove prende forma una scena musicale che mescola creatività, politica e sperimentazione.
In quel periodo Oderso Rubini diventò un catalizzatore della rivoluzione musicale che stava nascendo (è interessante anche ricordare come in quegli anni al Conservatorio di Bologna sia nato il primo corso di musica elettronica).
Rubini diede vita, insieme ad alcuni compagni di corso, ad un piccolo studio di registrazione in Via S. Felice che poi si trasformerà nella cooperativa Harpo’s Bazaar. Grazie alla produzione di una cassetta degli Skiantos, la cooperativa entrò in contatto con Gianni Sassi (capo della Cramps Records). Successivamente, la direzione artistica della Ricordi propose a Rubini un contratto che permise alla Harpo’s Bazar di diventare una vera casa discografica.
Dopo il successo del Bologna Rock, evento musicale organizzato nel 1979 che riunì gruppi allora sconosciuti e radunò seimila persone, Rubini fondò la Italian Records.
Il libro dipinge il ritratto di un’epoca che le nuove generazioni non hanno vissuto e probabilmente non avranno modo di sperimentare. Oggi la musica è sempre più accessibile, è presente ovunque e l’esperienza che un tempo accompagnava la creazione e la fruizione di musica, sembra dissolversi.
MUSICA E GIUSTIZIA IN DE ANDRÈ: FABRIZIO BARTELLONI
Esistono artisti che si limitano a raccontare il mondo, ma ci sono anche quelli che il mondo lo ribaltano, lo smontano, lo ricostruiscono guardandolo da un’altra prospettiva. Fabrizio De André appartiene a questa ultima categoria: è – come lo definisce Fabrizio Bartelloni – il più grande insinuatore di domande e non un dispensatore di certezze.
La sua musica invita a liberarsi dalle proprie maschere e strutture sociali per poter indossare i panni altrui, a comprendere e non giudicare.
Fabrizio Bartelloni, avvocato e scrittore, ha pubblicato in concomitanza con il Salone del Libro Al vostro posto non ci so stare: un testo che ripercorre la carriera del cantautore genovese, De André, con una particolare attenzione alla visione dell’artista sul tema della giustizia e sul suo rifiuto di mettersi nella posizione di chi giudica.
La Camera Penale di Pisa ha patrocinato il libro riconoscendo nella poetica di De André e nel testo di Bartelloni un potente veicolo di riflessione sulla giustizia e sulla pena.
Il cantautore, negli anni ’60, fu una figura rivoluzionaria e dirompente per l’epoca, tanto da essere spesso censurato. I temi dell’illegalità – come ricorda Bartelloni – erano stati sfiorati da altri autori come Fred Buscaglione, ma De André, ispirandosi al cantautorato francese di George Brassens, fu tra i primi a raccontare storie di personaggi marginali e marginalizzati. L’ossessione per la giustizia, l’emarginazione e la condizione umana è stata il filo conduttore della sua esistenza.
“Il pescatore”, secondo Bartelloni, è il brano in cui traspare maggiormente l’essenza della sua idea di giustizia: De Andrè/il pescatore rifiuta di prendere la posizione di giudice e accoglie l’essere umano per quello che è («versò il vino e spezzò il pane//per chi diceva ho sete ho fame»), saranno i gendarmi «in sella e con le armi» a giudicare la colpevolezza o l’innocenza dell’assassino che aveva «due occhi grandi da bambino//due occhi enormi di paura». De Andrè non riduce l’uomo al singolo gesto compiuto perché ritiene che il comportamento umano, attuato in un determinato momento, possa essere generato da mille ragioni. Il cantautore cerca di capire l’essere umano e il perché delle sue scelte.
Esiste una sproporzione tra il gesto e la punizione associata al punto da trasformare le carceri in luoghi di anime già morte. La società finisce per dimenticare coloro che stanno in carcere, relegando i detenuti a una condizione di abbandono. Invece di essere un luogo di rieducazione e reinserimento, diventa un limbo sociale, dove chi ha commesso un errore viene stigmatizzato.
“La Ballata del Miché” ne è un esempio: Michele Aiello, uomo dall’identità incerta trasferitosi a Genova dal sud dell’Italia, ha ucciso un uomo per salvare la sua amata, viene condannato a venti anni di carcere ma si toglie la vita per ottenere la libertà. Persino la sua morte viene disprezzata: «Nella fossa comune cadrà//senza il prete e la messa//perché di un suicida non hanno pietà». Per De André negare un funerale e una degna sepoltura è l’ultimo impietoso atto di una giustizia cieca.
«Il carcere negli anni ’60 è un luogo dove la vita finiva» ha affermato Bartelloni «questo è un messaggio rivoluzionario per gli anni ’60, ma lo è anche oggi nel 2025… e forse è questo il vero problema».
Negli anni ’90 De André visitò un carcere in Sardegna, e riconsiderò la sua posizione: il carcere, se pensato in modo diverso, può trasformarsi in un ambiente di reinserimento educativo. Il problema resta il sovraffollamento che impedisce agli strumenti di operare nell’ottica della risocializzazione.
In “Don Raffaè” il cantautore denuncia non solo le condizioni disumane delle carceri ma anche il vuoto lasciato dallo Stato nei territori in cui la criminalità organizzata diventa l’unica alternativa. Un tema attuale che riecheggia nelle parole di Ligabue quando afferma che la musica può evidenziare i problemi ma non può sostituirsi allo Stato.
Ancora una volta, anche con questa conferenza si evidenzia come le storie raccontate attraverso la musica si trasformino in un atto di denuncia e in una forma di presa di coscienza.
RACCONTI RESISTENTI: MODENA CITY RAMBLERS
Alzare il volume della musica dei Modena City Ramblers era quasi un rito in molte case: musica trascinante, sempre presente e che – diciamolo – faceva storcere il naso di qualche vicino… ma chi può lamentarsi di un po’ di sana musica folk-rock che racconta la lotta e la libertà? Se dobbiamo disturbare, meglio farlo con stile!
Generazioni intere si sono ritrovate, volenti o nolenti, a canticchiare le loro canzoni, a ballare sui ritmi trascinanti che mescolano tradizione e ribellione. È difficile toglierseli dalla testa e dalle orecchie e, forse, è giusto così perché certe storie vanno raccontate e tramandate. Anche ad anni di distanza, le loro musiche risuonano forti perché la Resistenza non è solo quella di ieri ma anche quella di oggi.
Al Salone del Libro, però, le parole hanno preso il posto delle note. In occasione dell’80° anniversario della liberazione dell’Italia e il 20° anniversario dell’album Appunti Partigiani, i MCR hanno deciso di assumere le vesti di scrittori (anche se lo sono sempre stati – ricordiamo la frase citata sopra: «cantare era una conseguenza dello scrivere»). Hanno scritto un libro intitolato Nati per la libertà. Racconti resistenti: un’opera corale letteraria che unisce fantasia e memoria.
Presentati da Carlo Greppi, storico e scrittore torinese, Davide (Dudu) Morandi, Franco D’Aniello, Francesco (Fry) Monetti, Leonardo Sgavetti e Massimo Ghiacci hanno raccontato la genesi del libro, rivelando piccoli squarci delle storie che lo compongono.

Il progetto ha preso forma in modo spontaneo, gli autori non hanno concordato preventivamente i contenuti specifici: ciascuno ha scritto con il proprio stile senza influenzare gli altri in alcun modo, dando vita, così, ad un’opera che riflette la diversità di approcci ma che mantiene – secondo Greppi e gli autori – una straordinaria coerenza narrativa. Proprio come accade quando compongono le loro canzoni: idee diverse che alla fine convergono in un unico racconto.
Questa armonia nella diversità è una delle cose che rende il libro affascinante. La scelta di non firmare i racconti singolarmente, lasciando solo un riferimento nei titoli di coda, rafforza il senso comunitario del progetto; unisce la voci degli autori creando un’opera scritta da dieci mani ma con un’unica penna.
La profonda ricerca che ha accompagnato la scrittura dei racconti ha fatto riferimento alla Resistenza emiliana recuperando non solo documenti storici, ma anche testimonianze familiari e racconti tramandati oralmente.
Carlo Greppi ha evidenziato come la partecipazione di stranieri alla Resistenza italiana, sia stata spesso trascurata da molti storici e non. Il libro e i MCR, al contrario, hanno messo in luce figure che per anni sono rimaste ai margini della narrazione ufficiale perché «anche l’Italia ha avuto i suoi “Che Guevara”».
Prigionieri di guerra evasi, combattenti scozzesi, il comandante Vladimiro… uomini venuti dall’estero ma che hanno combattuto per la libertà. «La libertà non ha colore, non ha appartenenza politica… è al di sopra di tutto. Si lotta per la libertà ovunque. Lontano da casa tu lotti per la libertà anche a casa tua» ha affermato Dudu, perché la lotta per la libertà non ha confini.

Raccontare la guerra è difficile; raccontare la morte, la distruzione, storie di bambini uccisi e storie di bambini e ragazzi che imbracciano le armi lo è ancora di più. Per trovare una voce adatta a queste storie, gli autori hanno sperimentato soluzioni narrative diverse: dare voce ai morti, agli oggetti e agli animali.
«Non riuscivo a mettermi nei panni degli uomini e donne che vivono e hanno vissuto queste cose. Ho scelto di immedesimarmi in un cane, solo così sono riuscito a raccontare questa cosa. È una cosa attuale, che vediamo anche in questi giorni e non capisco come non si possa provare empatia. Se oggi dovessi parlare di Gaza, lo farei fare ad un cane».
Ciò che più ferisce gli autori è il dolore nel vedere l’infanzia e l’adolescenza negata, la mancanza di empatia nei confronti dei bambini perché «i potenti che governano sanno che i loro figli non andranno mai a fare la guerra, ed è più facile mandare a morire gli altri». Franco ribadisce un pensiero comune «Se il mondo, nel 2025, pensasse di più ai bambini, non ci sarebbero guerre».
E così, tra parole, memoria e attualità, il Salone del Libro ha confermato che la musica e i musicisti da sempre lanciano gridi di protesta, ci costringono a sentire e ad aprire gli occhi, a riflettere e ad avere coraggio di prendere una posizione.
La musica e la parola sono strumenti di libertà, fili invisibili che intrecciano storie e che si faranno per sempre interpreti di emozioni e sentimenti e, soprattutto, terranno viva la Resistenza.
Ottavia Salvadori