Archivi tag: Sax

Lakecia Benjamin al Teatro Colosseo: energia e lotta a suon di sax

Lunedì 28 aprile, ore 21, Teatro Colosseo. Nel pieno svolgimento del Torino Jazz Festival Lakecia Benjamin sale sul palco con la sua band.

Sassofonista newyorkese di origine e spirito, Benjamin porta con sé non solo la musica dell’album Phoenix, ma un’energia viva, bruciante, che si muove tra jazz, hip hop, gospel e ritmi funk. È difficile starle dietro, e ancora più difficile non farsi travolgere.

Apre la serata con il brano “Amerikkan Skin”. Prima di suonare, la musicista prende il microfono: «We have to go back to love and peace and joy and respect», dice al pubblico, ricordando che «we do not live in fear».

Mentre la band crea un tappeto sonoro pulsante, con stupore dei presenti Benjamin comincia a rappare, come se la sua voce, e poi il suo sax, fossero strumenti per dire ciò che spesso viene ignorato. È la New York dell’hip hop, delle lotte razziali, dei sogni e delle paure, che prende vita in teatro.

Foto di Ottavia Salvadori

Il sax parla, urla, s’infiamma, mentre sullo sfondo la band apparecchia uno sfondo limpido, melodico a tinte multietniche. Poi ritorna il flow anni ’90, ancora parole, ancora battiti lanciati contro la violenza e il razzismo.

Lakecia non è sola. Sul palco con lei una band affiatatissima: John Chin al pianoforte e alle tastiere, Elias Bailey al contrabbasso e Dorian Phelps alla batteria. E proprio la batteria è protagonista di un momento memorabile. Durante uno dei brani Phelps giovanissimo, da soli quattro mesi nella formazione, si prende il centro della scena con un assolo lunghissimo, energico, travolgente. Ho sentito male alle braccia per lui. Un’esplosione di tecnica e passione che lascia il pubblico senza fiato.

Quando arriva il turno di “My Favorite Things”, si avverte subito l’influenza della versione di Coltrane, che Benjamin omaggia con un tocco personale vivace, colorato, febbrile. I fraseggi si allungano in una sezione di grande espressione tecnica, eseguita tutta d’un fiato. Il pubblico applaude a scena aperta, trascinato da un’ovazione spontanea. Dopo una pausa di recupero, la performer grida al pubblico, aizzando ancor più la folla presente.

Foto di Ottavia Salvadori

L’atmosfera cambia ancora. Un brano si apre con una trama di pianoforte blues/gospel, su cui la leader e il pianista dialogano con dolcezza e intensità. È un momento intimo, spirituale, che ricorda quanto il jazz sappia essere anche preghiera, invocazione, conforto e comunità.

Verso la fine, la serata prende di nuovo una piega funky, con un brano trascinante, in cui Benjamin torna a rappare, chiudendo il cerchio iniziato con il primo brano.

Il finale è esplosivo: “Higher Ground” di Stevie Wonder, che trasforma il teatro in una pista da ballo. Nessuno può restare fermo, nemmeno sulle poltrone imbottite.

Foto di Ottavia Salvadori

Durante tutto il concerto, Lakecia lascia moltissimo spazio agli altri musicisti. E meno male: sono tutti straordinari, e la loro bravura contribuisce a rendere il live qualcosa di molto più grande della somma delle sue parti. Ma quando prende il centro della scena, lo fa senza mezze misure. Le sue note sono lunghe, ruvide, feroci. Il sax grida, si fa sentire, pretende attenzione. È una dichiarazione d’amore e una chiamata alla lotta. Durante tutto il concerto, Lakecia lascia moltissimo spazio agli altri musicisti. E meno male: sono tutti straordinari, e la loro bravura contribuisce a rendere il live qualcosa di molto più grande della somma delle sue parti. Ma quando prende il centro della scena, lo fa senza mezze misure. Le sue note sono lunghe, ruvide, feroci. Il sax grida, si fa sentire, pretende attenzione. È una dichiarazione d’amore e una chiamata alla lotta. 

Si mostra in tutta la sua voglia di condividere, di incantare, di vibrare, e – come ha detto almeno dieci volte – anche di bere vino. Ed è proprio per questi motivi che abbiamo amato Lakecia Benjamin.

Si è donata  completamente, con tutta la sua energia feroce, ipnotica, e con una passione che si sente addosso anche dopo che il concerto è finito.

Marco Usmigli

Maat Saxophone Quartet e le mille sfumature del sax

La Fondazione Renzo Giubergia e la De Sono nel corso degli anni sono riuscite a creare una solida famiglia che si impegna a dare un supporto ai talenti della scena musicale. 
La Fondazione Giubergia dal 2012 sostiene i giovani musicisti assegnando annualmente il Premio «Renzo Giubergia» a solisti e, dall’anno scorso, ad ensembles da camera: un premio in denaro ma il cui valore va ben oltre quello materiale, perché l’onore e il prestigio che vengono riconosciuti a questi giovani è ciò che lo rende speciale ed importante.

Con il 20 novembre 2023 si conclude anche quest’anno un intenso e appassionato lavoro che ha visto la commissione raccogliere novanta ore di musica, selezionare quattro gruppi che si sono sfidati in una diretta streaming e, infine, premiare presso il Conservatorio «Giuseppe Verdi» il vincitore di questo premio, ormai giunto alla sua decima edizione: il Maat Saxophone Quartet.

A inizio serata, la presidente della fondazione Paola Giubergia e il direttore artistico Andrea Malvano, annunciano le novità apportate durante l’anno: l’apertura di un sito della Fondazione che funge da archivio degli eventi passati e le nuove modalità di partecipazione al Premio. Da quest’anno il bando si estende anche a talenti internazionali under 26 permettendo alla Fondazione di ottenere credibilità anche fuori dall’Italia e consentendo a giovani – proprio come l’ensemble portoghese/olandese Maat Quartet – di aderire all’iniziativa.

Foto da ufficio stampa De Sono

Continua così la stagione 2023-24 della De Sono – dopo un grande concerto di apertura realizzato insieme a Lingotto Musica – con una collaborazione con la Fondazione Giubergia in un concerto più intimo che vede protagonista della scena una formazione quartettistica diversa da quella consueta: sassofono soprano, sassofono contralto, sassofono tenore e sassofono baritono.

Il Maat Quartet è un gruppo di giovani musicisti di origine portoghese il cui sodalizio nasce nel 2018 ad Amsterdam in seguito agli studi di sassofono al conservatorio. Ottengono sin da subito grandi riconoscimenti: nel 2018 vincono il prestigioso Prémio “Jovens Músicos” e nel 2022 il Dutch Classical Talent Award. L’ensemble ha una visione della propria produzione di ampio respiro: ha collaborato con una compagnia teatrale per la produzione di uno spettacolo per bambini e ha lavorato a stretto contatto con importanti compositori della scena contemporanea olandese come Nuno Lobo e Arnold Marinissen. 
Non stanco di perfezionare il proprio lavoro, il gruppo ancora oggi frequenta la NSKA (Accademia olandese del quartetto d’archi), dove lavora sul repertorio per quartetto d’archi con gli opportuni arrangiamenti.

Foto da ufficio stampa De Sono

Il giro del mondo in Sax, così viene intitolato da Andrea Malvano il concerto del 20 novembre. E cosa se non meglio di queste parole può raccontare ciò a cui il pubblico ha assistito durante la serata. Per la prima volta in Italia con questo concerto di premiazione, il gruppo ricorda quale è la poetica che sta alla base del loro lavoro: “mostrare tutto ciò che un quartetto di sassofoni può fare” utilizzando repertori che attraversano i secoli e tutti i territori del mondo.
Il programma ha toccato culture differenti: dall’operetta viennese al folk iraniano fino ad arrivare al fado portoghese. Dunque, un repertorio con il quale il pubblico – fedele e affezionato delle due associazioni – non è particolarmente avvezzo.

Sin dall’inizio, con il primo brano, si capisce quali sono le sonorità più classiche che l’ensemble vuole approfondire. Con un arrangiamento per sassofoni, realizzato dal sassofonista soprano Daniel Ferreira, portano in scena l’Overture dell’operetta Dichter und Bauer di Suppè. Sembra aprirsi sul palco una vera e propria scena teatrale, in un ambiente ottocentesco romantico attraverso una melodia lirica iniziale di grandissimo effetto espressivo, pieno di sentimento, che si unisce ad un leggero valzer aggraziato.
Con soli quattro ottoni, sono riusciti abilmente a creare suoni leggerissimi e, allo stesso tempo, una grande massa sonora portando lo spettatore ad immaginare una vera e propria orchestra sul palco. Il Maat Quartet dimostra come lo strumento sia capace di creare un timbro del tutto singolare a seconda dell’utilizzo che se ne fa. Complice di questa atmosfera suggestiva, sicuramente è la straordinaria sinergia e maestria del quartetto di amalgamare perfettamente le quattro voci.

Foto da ufficio stampa De Sono

Il Maat Quartet è riuscito a raccontare una storia attraverso ogni brano, materializzando diversi sentimenti ed emozioni, da quelle più allegre e festose a quelle più malinconiche e introverse, trasformando anche i silenzi in momenti pieni di significato. La profondità espressiva con la quale sono riusciti ad entrare in ogni singola nota ha fatto sì che il pubblico si immedesimasse e immaginasse veri e propri quadri scenici. 

Dall’Asia all’Europa, questo è il viaggio nel quale ci hanno trasportato con gli ultimi due brani. Con un lavoro originale, composto dal giovane amico e compositore iraniano Ramin Amin Tafreshie, emergono le sonorità più particolari e contemporanee che forse lasciano più interdetto quella parte del pubblico abituato solo a sonorità “classiche”. Con glissando e suoni instabili, in continuo movimento, sembra addirittura di non avere più sul palco quattro sassofoni ma gli strumenti tipici della cultura iraniana e curda, come il duduk. Anche con questo brano il quartetto dimostra la sua abilità e apertura nei confronti di tutte le sonorità possibili.

Ancora una volta, dunque, la commissione del Premio Giubergia non delude. Nonostante non tutti gli spettatori siano riusciti a cogliere la sensibilità e la bravura dei giovani sassofonisti, il concerto ha rivelato le numerose sfumature che la musica può assumere, confermando l’importanza della commistione di differenti culture.

A cura di Ottavia Salvadori