Standing ovation al TJF: l’energia di John Zorn

Un altro concerto sold out per il Torino Jazz Festival, che per la prima volta collabora con il secondo festival jazzistico della città: Jazz Is Dead. La partnership ha consentito di realizzare un concerto di altissimo profilo, invitando il 28 aprile 2024 sul palco dell’Auditorium Agnelli del Lingotto il sassofonista John Zorn: artista poliedrico e figura chiave nel panorama della musica contemporanea, abile nello spaziare tra diversi generi musicali dal jazz al rock passando per l’hardcore punk e la sperimentazione. Ad accompagnarlo è il New Masada Quartet, nuova incarnazione di una delle formazioni di Zorn che dal 1994 ha registrato numerosi album riunendo musicisti affini alla sensibilità artistica del sassofonista, il quale a Torino coordina e dirige in modo innovativo, divertente ed energico il gruppo.

Il concerto è stato un turbinio di energia fin dalle primissime note. Senza tentennamenti, Kenny Wollesen ha suonato la sua batteria con colpi decisi e ad alto volume, che hanno impresso ritmi ballabili generando un groove ipnotico al cui stimolo non si poteva che rispondere muovendo qualche dito, gamba e testa. A sostenere la base ritmico-armonica anche nei momenti più free, c’era il contrabbasso di Jorge Roeder. Sul palco anche Julian Lage, il più giovane del gruppo, alla chitarra elettrica per creare un dialogo melodico con il sax di Zorn. Nelle sezioni più contrappuntistiche Lage non è riuscito molto ad emergere sui suoni potenti ed energici dei tre veterani dello strumento.

New Masada Quartet – foto da cartella stampa TJF

Zorn, oltre a suonare in maniera impeccabile il suo sax passando da suoni stridenti avanguardistici a melodie della tradizione ebraica, ha diretto magistralmente i suoi compagni. Avendo perfettamente in mente il sound che voleva generare, con semplici ma espressivi gesti riusciva a tradurre il suo pensiero di movimento rendendolo comprensibile ai componenti dell’ensemble i quali, quasi telepaticamente, rispondevano dimostrando quanto il quartetto fosse affiatato. Oltre a dirigere gli attacchi e le uscite dei vari strumenti, Zorn ha controllato anche il modo esecutivo dei musicisti al fine di creare un particolare tipo di timbro o di ambiente sonoro. La libertà del quartetto è comunque intrinseca alla musica suonata; le soluzioni armoniche espressive e fantasiose erano frutto di un’improvvisazione ricca che mescolava diverse influenze di generi musicali in un equilibrio energico. 

Composizioni ritmico-melodiche venivano accostate, o mescolate, a brani più sperimentali in cui i suoni si moltiplicavano a dismisura sfruttando gli strumenti in tutte le loro potenzialità. Quasi come se si stesse ascoltando musica da un apparecchio elettronico che permette il controllo del volume, il quintetto ha modulato le intensità dei suoni creando dei passaggi dinamici fluidi o repentini con grandissima abilità.

Un concerto adrenalinico non solo per i musicisti ma anche per il pubblico che non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: con una standing ovation la sala è esplosa in un lunghissimo applauso che non voleva lasciare nel silenzio la sala del Lingotto in cui ancora riverberavano i suoni del quintetto. 

A cura di Ottavia Salvadori

“Un Bel Dì vedremo…Puccini in Jazz” -Torino Jazz Festival

Nell’ampia offerta concertistica raccolta da Torino Jazz Festival, Andrea Tofanelli e Riccardo Arrighini hanno proposto un concerto accattivante: giovedì 25 Aprile, presso l’Educatorio della Provvidenza, il duo ha offerto una performance coinvolgente, unendo le suggestive melodie di Puccini con la vivacità e il colore del jazz.

L’ispirazione per questo progetto è nata da Riccardo Arrighini che, con una profonda passione per il grande compositore, ha saputo rielaborare le armonie e le melodie pucciniane in chiave jazzistica.È stato chiesto ad Arrighini come è stato accolto dal pubblico questo connubio musicale per la prima volta: l’esperimento è stato presentato nel 2005 in Australia, durante il bis di un concerto jazz per solo piano. Il medley pucciniano ha ricevuto un estremo apprezzamento, «Venne giù il teatro» ha detto Arrighini. La reazione lo ha spinto a mettere a punto quella che all’epoca era una semplice idea.

Nel 2008, durante il centocinquantenario della nascita di Giacomo Puccini, Arrighini ha presentato gli arrangiamenti jazz in piano solo, ma sentiva il bisogno di qualcosa in più. «Volevo mettere qualcosa che più vicino potesse esserci a una voce, ma non volevo una voce lirica, non volevo una voce jazz. Volevo qualcosa che fosse un po’ il tutto», ha detto. Per poi continuare dicendo di aver trovato in Andrea Tofanelli (alla tromba) l’insieme di cui aveva bisogno: un musicista con una ferrea preparazione classica unita alla capacità di improvvisazione jazzistica, il tutto coronato da un notevole gusto melodico.

Il concerto è stato caratterizzato dalla straordinaria agilità con cui il duo ha eseguito le composizioni di Puccini, arricchendole con brillanti improvvisazioni. La capacità dei due di muoversi agilmente attraverso le complesse armonie e sfumature emotive delle melodie pucciniane ha dimostrato una profonda passione per il compositore. Notevole inoltre l’abilità del duo nel mantenere un equilibrio tra spontaneità e precisione rendendo l’ascolto piacevole e fluido.

Con piccoli interventi, aneddoti e pensieri, il concerto è durato circa due ore senza pause e ben poche presentazioni delle musiche, lasciando così fluire il susseguirsi dei brani: “Addio fiorito asil”, dalla Madama Butterfly, e il “Valzer di Musetta” dalla Bohème, hanno dato subito al pubblico un assaggio del coinvolgente concerto che ci attendeva. Arrangiamenti, a volte quasi riscritture, hanno arricchito i brani di Puccini. Tofanelli spiega: «La musica di Puccini, sembrava già pronta e paresse dire: aspetto solo qualcuno che mi tramuti in Jazz». Il “genio del male”, definizione amichevole con cui Tofanelli si riferisce ad Arrighini, ha preso l’aria “Vecchia Zimarra”, dalla Bohème, rivestendola di nuova importanza ed emozione. Il canto della tromba sul ritmo incalzante del pianoforte, ha reso questa musica simile ad una passeggiata adatta alla riflessione. Per dare una pausa alla tromba è arrivato un brano piano solo: l’arrangiamento dell’intermezzo di Manon Lescaut, che vive ancora con influenze wagneriane, di crescita e stasi. Superfluo dire che il talento rielaborativo del pianista ha incantato il pubblico, trasportandolo dalla giocosità di “Ma che gelida manina”, a una nuova atmosfera di un impetuoso pianoforte.

In chiusura è stato eseguito uno dei brani più belli di Puccini: il finale della Bohème, alla morte di Mimi. Tofanelli con la sua tromba unisce la melodiosità del canto con virtuosismi sulle scale e fraseggi di puro colore, creando un momento di raccoglimento attorno al canto di Mimi. Presentando un momento ludico di imitazione e “verso” l’uno l’altro, il duo si è spostato su un altro masterpiece di Puccini, l’intramontabile “Nessun dorma”, dalla Turandot, ovviamente senza far mancare i propri interventi di divertissement. La tromba trionfante ha intonato il culmine dell’aria “il nome suo nessun saprà…” sostenuto da un tremolo del pianoforte spingendo un forte crescendo, per poi andarsi ad addolcire sulla coda finale. wNell’ultimo brano proposto si è giocato molto anche con i timbri della tromba, dove Andrea Tofanelli ha dimostrato grande versatilità, usando sordine particolari per donare colori diversi al suo ottone.

Nel saluto è toccato anche al pubblico partecipare: battendo le mani a ritmo del pianoforte si è entrati nel groove e nel pieno spirito che ha accompagnato tutto il concerto. Un concerto senza dubbio apprezzato, applaudito e gioiosamente goduto, sia dagli intenditori che dai “profani” di entrambi i generi.

Puccini in jazz: la sua musica è in ottime mani.

a cura di Joy Santandrea

Fatoumata Diawara e la musica della liberazione: 25 aprile al Torino Jazz Festival

«Festeggiamo la liberazione dal nazifascimo ma i rigurgiti fascisti rimangono e dobbiamo continuare a combatterli» è la premessa con cui inizia la serata del 25 aprile al Teatro Regio: questa frase, pronunciata dal presidente regionale del Piemonte, un accenno all’art. 3 della Costituzione da parte dell’assessore alla cultura e un breve intervento di Adriana Cantore che la liberazione l’ha vissuta sulla sua pelle e ne conserva e tramanda l’impegno. Successivamente Sara D’amario legge alcuni passi di Dante di Nanni perché il concerto, in sua memoria e della gioventù resistente, è promosso con il sostegno del Comitato Resistenza e Costituzione.

Poi buio in sala e sul palco del teatro, illuminato da luci bluastre, si posizionano Juan Finger al basso, Jurandir Santana alla chitarra elettrica, Fernando Tejero alle tastiere e Willy Ombe alla batteria. Un paio di giri iniziali ed entra Fatoumata Diawara, bellissima, vestita di bianco con un copricapo tradizionale e la chitarra, anch’essa bianca, a tracolla.  

Fatoumata non è solo il simbolo della Resistenza, ma la sua musica diventa un modo per tradurre le battaglie per la conquista dei diritti nella sua Africa (l’artista è originaria del Mali) in momenti di gioia e speranza. Sul fondo del palco uno schermo che proietta video e grafiche che raccontano le donne africane, rafforzano i messaggi da lei portati.

Foto di Shelby Duncan dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Il focus della serata, infatti, sono le donne: secondo Diawara esiste una complementarietà tra donne e uomini (come terra e cielo, fuoco e acqua) perché necessari gli uni agli altri, ma le prime non sono emancipate. È impressionante il coraggio con cui la cantante affronta alcuni temi davanti a un pubblico che, potenzialmente, non ha esperienza diretta di quello di cui sta parlando. Pur essendoci parecchie persone di origine africana − diverse delle quali vestite con i tradizionali abiti wax – che fanno sentire la loro presenza, la componente occidentale si aggiudica la percentuale più alta.

L’artista è ad esempio una delle prime a parlare in musica del tema della mutilazione genitale femminile: «don’t touch my flower, part of our body» introduce così “Sete”, il brano con cui si ribella a questa pratica ancora largamente diffusa. Afrobeat, jazz, pop, blues ed elettronica si intersecano per raccontare ancora meglio le storie di cui si fa portavoce.

È difficile immaginare il Teatro Regio spogliato dalla sua aura “classica”, eppure, ad un certo punto la platea viene incitata ad alzarsi in piedi e ballare per la libertà. Per questa sera il teatro cambia la sua destinazione d’uso, tra chi si alza e si lascia trascinare in una danza liberatoria e chi, in modo più temerario, lascia addirittura il proprio posto per scagliarsi sottopalco e ballare liberamente senza limitazioni di spazio.

Foto di Alun Be dalla cartella stampa del Torino Jazz Festival

Per tutta la durata del concerto Diawara si dimena sul palco, suona, canta, esce e rientra con una maschera tradizionale, danza come a volersi liberare da un veleno che le scorre in corpo. Usa i suoi ritmi, quelli della sua gente, per innalzarsi spiritualmente e si serve dell’energia delle persone per elevarsi ancora di più. «Mi hanno detto che non potevate salire sul palco, perciò è come se lo stessimo condividendo». Lo spettacolo è potente perché lei stessa è potenza allo stato puro. Quasi a fine della serata Diawara dedica “Feeling Good” a tutte quelle donne che hanno tanto da dire in musica, le «sopravvissute», le chiama: Billy Holiday, Ella Fitzgerald e Nina Simone, per lei la più importante perché le ha insegnato a vedere la luce cambiandole la vita.

Alla fine la sua luce, la forza, i suoi messaggi arrivano come una diga che si è appena rotta e non riesce più a contenere acqua. E in una giornata come quella del 25 aprile è utile tornare a casa inondati di musica che suona di lotta sociale, attivismo ed emancipazione.

a cura di Alessia Sabetta

Torino Jazz Festival: Valeria Sturba al Castello di Rivoli

Torino Jazz Festival, dodicesima edizione: è il 21 aprile, la rassegna è stata inaugurata da un solo giorno e la polistrumentista abruzzese Valeria Sturba porta la sua musica al piccolo teatro del Castello di Rivoli. L’orario mattutino – sono passate da poco le 11:30 di una ventosa domenica – non ha scoraggiato il pubblico, per lo più non giovanissimo, che è riuscito a gremire la platea. Sul palco svettano da un lato un theremin, dall’altro un vero e proprio piano di lavoro, che lascia intravedere una strumentazione elettronica (tastiere e sequencer), un maialino giallo di gomma, un campanello e altri giocattoli. Manca poco allo one-woman show.

Valeria Sturba al Torino Jazz Festival. Foto: Alessia Sabetta

La musicista sale in cattedra in un vestito variopinto, dopo una breve introduzione del direttore artistico Stefano Zenni. Tra le sue mani appare un violino elettrico blu: è una loop station a catturarne le note pizzicate, a cui si vanno ad addensare quelle del theremin e successivamente la voce. Il nome del progetto, “La musica diSturba”, denota la voglia di rivisitare le sonorità tradizionali – provenienti della musica classica, colta e popolare – in un riassemblaggio creativo e del tutto personale. “Little Big Move” è il primo brano, ispirato (e mutuato) dal violoncellista jazz Tristan Honsinger, in cui viene sviluppato con intensità sempre crescente l’iniziale riff di violino. Le suggestioni cinematografiche e teatrali saltano presto all’orecchio.

Sempre scritto da Honsinger è il secondo pezzo, Avevo Paura”, nel quale l’elettronica restituisce echi psicologici: la voce vola libera tra le ottave, si contorce, si produce in suoni e citazioni stranianti («Ho tante noci di cocco splendide»), mentre il sottofondo stride e inquieta. È poi il turno di una composizione propria, “Shake My Brain”, brano dai ritmi incalzanti e vagamente funk: al microfono compare anche il maialino di gomma (featuring un polletto dello stesso materiale), menzionato addirittura come coautore. Il gioco, di e con i suoni, sembra farla da padrone, soprattutto nella prima parte dello show.

È un crescendo di sperimentazioni ludiche e musicali. La scaletta procede con “Epiloghi”, pezzo le cui melodie utilizzano un’interessante scala di quarti di tono, per poi passare a un omaggio alla Sinfonia n. 4 di Tchaikovskij; in mezzo, c’è spazio anche per alcuni brani folk. Per questi ultimi prevalgono atmosfere intimiste – spesso con la sola voce più le corde del violino, pizzicate dolcemente, quasi volesse suonare un’arpa – ad accompagnare prima un testo popolare abruzzese, poi una composizione armena tratta dalle “Folk Songs” di Luciano Berio, “Loosin Yelav”. Di simile estrazione è anche l’ultimissimo brano suonato dall’artista, dopo essersi congedata dal pubblico e aver cambiato repentinamente idea: “Mi votu e mi rivotu”, a firma della cantautrice siciliana Rosa Balistreri. Tre quarti d’ora sono volati.

L’artista con i suoi giocattoli. Foto: Alessia Sabetta

Dopo la musica, c’è ancora tempo per una conversazione amichevole con Zenni e col pubblico: Sturba, che si occupa tra le altre cose di accompagnamenti per il teatro e di sonorizzazione di film muti, parla del rapporto tra la sua opera e il cinema (cita l’influenza di registi quali Fellini e Kaurismäki, nonché del compositore Nino Rota), del suo legame con Honsinger (scomparso di recente), della genesi dei suoi brani, della fascinazione per le tastiere anni ’80 e della sua singolare ricerca sonora: «Mi accorgo subito di quando un giocattolo può diventare uno strumento».

Entusiasmo e originalità pulsano dunque nella produzione della giovane compositrice, così come nell’intera esibizione; la sua è una presenza scenica essenziale, non esuberante di per sé, che lascia volentieri il campo alla forza e all’ecletticità dei contenuti. Il Torino Jazz Festival, nella dimora dell’arte contemporanea, ospita l’artista giusta, nel luogo giusto, al momento giusto.

A cura di Carlo Cerrato

Christian McBride al Teatro Colosseo tra i nomi più importanti del Torino Jazz Festival

Il foyer del teatro Colosseo nella serata del 23 aprile raccoglie tutta la gente che cerca riparo dall’acquazzone quasi improvviso in attesa del concerto di Christian McBride che, durante l’esibizione, tiene a sottolineare che la pioggia è una costante delle sue esibizioni torinesi raccontando che anche i suoi passaggi in città nel 1990 e 1994 erano stati nel segno del maltempo.

Sul palco, il contrabbassista si prende il centro della scena rimanendo in seconda fila, allineato con Mike Kings alle tastiere e Savanna Harris alla batteria; davanti, disposti a scacchiera, ci sono Nicole Glover al sax tenore e Ely Perlman alla chitarra elettrica. Questa la formazione della serata.

Savanna Harris – foto di Ottavia Salvadori

Le aspettative riguardo al concerto sono alte: annunciato tra i main della line up del TJF, McBride è considerato tra i jazzisti più importanti della sua generazione, oltre che essere uno dei più attivi (se non bastasse il fatto che ha vinto ben otto Grammy, tra le altre cose è anche direttore artistico del Newport Jazz Festival). L’attesa è stata ripagata.

Capire di essere di fronte a dei maestri assoluti del proprio strumento non è difficile, anche se non si è grandissimi estimatori del genere e McBride non prova in nessun modo a nasconderlo. Nel corso della serata si alterna, quasi divincola, tra basso elettrico e contrabbasso con un tocco forsennato ma sempre leggerissimo. Pur non volendo scomodare troppo Aristotele, viene immediato parlare di catarsi: il suo approccio con gli strumenti è catartico perché sembra essere lì solo per liberare la sua anima per conto della musica. Allo stesso tempo è una catarsi per gli spettatori che sembrano stregati dall’esibizione: nessuno ha il coraggio di muoversi durante e, a parte gli applausi tra un assolo e l’altro, il resto del tempo nella platea regna il silenzio.

Christian McBride al contrabbasso, Ely Perlman alla chitarra – foto di Ottavia Salvadori

La scaletta prevede pochi brani (un po’ meno di dieci) per le quasi due ore di concerto, tutti molto lunghi e strutturati quasi sempre in tre parti: una parte iniziale con l’esposizione dei temi, un momento centrale di improvvisazione e la ripresa conclusiva. Alcuni di questi sono stati composti dai musicisti della band (come “More is” di Savanna Harris o “Elevation” di Ely Perlman), altri invece dallo stesso Mc Bride come “A morning story”, o standard come “Dolphine Dance”, riarrangiata da Mike Kings. Se è scontato riferire della bravura dei musicisti sul palco, una cosa degna di nota è il supporto reciproco durante o al termine dei rispettivi assoli: McBride per primo sorride o contorce il viso in espressioni di stupore e approvazione per la performance dei suoi compagni.

Il rischio, in questi casi, è di risultare troppo tecnici e ricadere in incastri armonici e passaggi perfettamente eseguiti, ma poveri emotivamente. Mc Bride e i suoi compagni, invece, riescono a fare sfoggio di virtuosismo ma anche a far trasparire le emozioni che stanno provando e che vogliono far arrivare al pubblico.

A fine concerto nella sala del teatro rimane il silenzio di quando bisogna metabolizzare quello a cui si è appena assistito e la promessa, da parte di McBride, di tornare presto a Torino – con o senza la pioggia.

a cura di Alessia Sabetta

Un trio affiatato al TJF: Dave Holland Trio

Dopo due giorni di anteprima, inizia il programma più intenso della dodicesima edizione del Torino Jazz Festival con il primo dei diciassette concerti main: il 22 aprile sale sul palco del Teatro Alfieri il Dave Holland Trio, formato dallo stesso Dave Holland al contrabbasso, Eric Harland alla batteria e il sassofonista Jaleel Shaw – che sostituisce il chitarrista Kevin Eubanks.
Il trio apre le danze a una settimana intensa e ricca di eventi che avvicinano il pubblico ad un genere musicale mai uguale a sé stesso. 

Dave Holland, tra i maggiori protagonisti del jazz inglese, viene invitato nuovamente al Torino Jazz Festival dopo dieci anni dal concerto con Kenny Barron. Una città conosciuta dal grande contrabbassista sin dagli anni ’70 quando venne con il sassofonista Sam Rivers e un paese, l’Italia, che per Holland offre un panorama comunitario molto forte e ampio, che permette di raggiungere generazioni, luoghi e sensibilità diverse. Holland è musicista e compositore che incorpora in sé stili e territori musicali diversi: dalla collaborazione stabile con Miles Davis alle sperimentazioni con Chick Corea e Anthony Braxton fino ad arrivare a mescolare sonorità afroamericane con musiche arabe e flamenco.

Foto da cartella stampa TJF

«I am here with two wonderful musicians and really great people. We had so much fun on the road, not just on stage but off stage too» così esordisce Holland per presentare i due musicisti e amici che lo accompagnano in un viaggio di esplorazione sonora.

Harland è uno dei batteristi più ricercati nel panorama jazzistico; ha collaborato con diversi musicisti, tra cui Terence Blanchard e Charles Lloyd ottenendo tre nomination ai Grammy Awards. Sul palco i suoni creati da Harland e Holland formano un connubio ritmico-melodico che crea tensioni stimolanti. L’intesa dei due musicisti è visibilissima agli occhi e alle orecchie del pubblico: basso e batteria si inseguono e si intrecciano alla ricerca di ritmi ballabili che presto virano in atmosfere rasserenanti. Le dinamiche mutano in continuazione, e il duo è abilissimo nel passare da sonorità leggerissime, quasi impercepibili ad una densità sonora che risuona nella sala e nei corpi del pubblico.
Il batterista porta grande vitalità nella formazione. Si avverte chiaramente come senta la musica dentro di sé: le movenze del suo corpo e la sua mimica facciale mostrano una totale immersione nel gioco ritmico e melodico spingendolo, così, a creare mille sfumature e suoni al punto da sembrare di avere quattro mani e quattro piedi. 

A completare e arricchire il panorama sonoro sono le note di Jaleel Shaw, sassofonista vincitore nel 2008 del “Young Jazz Composer Award” e membro del World Saxophone Quartet. Con il suo sax Shaw colora la base ritmico-armonica di Holland e Harland creando un sound ricco di microvariazioni, ritmi asimmetrici e un continuo gioco tra i tre strumenti, che si legano in un contrappunto mai prevedibile.

Con un concerto di quasi due ore, senza soluzione di continuità, i tre musicisti hanno proposto al pubblico delle composizioni firmate da Holland e dal batterista Eric Harland che hanno lasciato ampio spazio a momenti di improvvisazione, mettendo in luce la capacità comunicativa del trio.

Per concludere la serata un momento più sperimentale, in cui Holland esplora le sonorità del suo strumento utilizzando l’archetto e il tallone dell’archetto come elementi percussivi sulle corde. 

Il pubblico entusiasta dell’esibizione e non stanco di ascoltare il trio, chiama a gran voce – tra applausi e fischi – un bis che conclude la serata mescolando jazz e blues in una composizione rilassata ma giocosa che rimanda alle sonorità tipiche dei jazz club.

A cura di Ottavia Salvadori

Un viaggio psichedelico sulle rive del Po

In una fredda serata di aprile al Magazzino sul Po si suona dal vivo. Giovedì 18, in uno dei locali più gettonati dei Murazzi torinesi, un doppio live vede gli Electric Circus e gli Psyché regalare alcune ore di ottima musica strumentale. Il locale si riempie poco prima dell’inizio, alcuni conoscono i progetti presenti, altri meno. Ma alla fine il risultato è lo stesso: l’intera platea presente, sin dalla prima nota, viene trasportata in un viaggio fatto di suoni e sensazioni.

Electric Circus – foto di Erika Musarò

Ad aprire ci pensano gli Electric Circus, band nata in Trentino e attualmente di base a Torino, formata da Francesco Cretti, Paolo Urbani, Paolo Pilati, Giuliano Buratti e Gabriele Perrero. Sul palco hanno portato vecchi singoli come “Malibu” dall’album Canicola o “Boogaloo”, ma anche nuovi inediti. Infatti la band, durante la serata, ha annunciato la pubblicazione di un nuovo album. La loro esibizione abbatte i confini dei generi musicali: jazz, funk e blues si fondono con la world music. I loro arrangiamenti elaborati e suoni di influenza psichedelica rapiscono il pubblico, che estasiato li congeda prima di una piccola pausa.

Psyché – foto di Erika Musarò

Poi è stata la volta degli Psyché, progetto “parallelo” dei Nu Genea nato nel 2018. Marcello Giannini, Andrea De Fazio e Paolo Petrella, infatti, fanno parte della sezione ritmica del duo composto da Massimo Di Lena e Lucio Aquilina; oltre ad essere musicisti attivi nella scena musicale napoletana da diversi anni. Il nome, che in greco significa “anima” o “mente”, è un riferimento all’amore per il funk psichedelico, ma anche all’ampia gamma di influenze mediterranee. Il loro live è un viaggio sonoro che parte dall’Italia, per poi arrivare nella penisola balcanica, in Anatolia e nel Maghreb. Portano sul palco il loro omonimo album d’esordio, regalando un’esibizione quasi onirica, di quelle che difficilmente possono essere dimenticate.

Psyché – foto di Erika Musarò

A cura di Erika Musarò

In copertina: Electric Circus (foto di Erika Musarò)

Le Invisibili Signore della Musica: un tributo alla creatività femminile

L’8 marzo 2024 presso la nuova sede della Steinway & Sons a Milano, in occasione della Festa della Donna, è stato portato in scena un concerto tutto al femminile richiamando tanti appassionati e i pochi posti resi disponibili dalla Steinway sono andati subito ad esaurirsi.

Grazie alla determinazione di un affiatato gruppo di pianiste e pianisti, formatosi su Facebook durante la pandemia, e con la cura della pianista e musicologa (e narratrice del concerto) Ilaria Borraccetti, nasce il programma “Le Invisibili Signore della Musica”: un viaggio musicale che ci ha portati nel genio di compositrici rimaste ingiustamente nell’ombra della storia della musica.

Attraverso le biografie e le musiche di Mel Bonis, Amy Beach, Cécile Chaminade, musiciste e compositrici a cavallo tra XIX e XX secolo, veniamo guidati in un programma che vuole raccontare la loro vita, la loro musica e la lotta per ottenere un meritato riconoscimento.

L’incipit è venuto da Mel Bonis (1858-1937): compositrice francese. Talento straordinario fin dall’infanzia studiò al Conservatorio di Parigi, dove ebbe come insegnante César Franck. La sua musica, varia e complessa, spazia dal pianoforte alle composizioni orchestrali, dalle opere corali alla musica da camera. Nonostante le difficoltà dell’epoca riservate alle donne-artiste, Bonis è riuscita ad emergere come compositrice di grande talento. Il pianista Cristian Mari al suo debutto, nonostante la visibile emozione, ha eseguito la Berceuse immergendoci in questa ninna nanna cullata.

A seguire qualche brano di Amy Beach (1867-1944): compositrice e pianista americana. Anche lei infant-prodige: già a cinque anni componeva semplici valzer, tant’è che la sua carriera decollò molto presto. Beach divenne una delle prime compositrici americane ad ottenere riconoscimento internazionale per il suo lavoro nella musica colta senza aver studiato in Europa. I suoi lavori spaziano da opere orchestrali e da camera a pezzi per pianoforte e coro. La maestria di Cecilia Ferrari nell’eseguire Desdèmona ha saputo trasmette la drammaticità ispirata dal personaggio shakespeariano e catturata da Amy Beach col suo innovativo gusto musicale e le sue sonorità.

In chiusura di concerto, Cécile Chaminade (1857-1944): compositrice e pianista francese. Iniziò a studiare pianoforte con la madre. Perfezionatasi al Conservatorio di Parigi con Benjamin Godard e Martin Pierre Marsick, presto attirò l’attenzione, e divenne nota sia come pianista virtuosa che come compositrice. Chaminade viaggiò ampiamente in Europa e negli Stati Uniti, e fu la prima donna a ricevere la Légion d’honneur, per il suo contributo alla musica. Nonostante la fama e il successo in vita, il lavoro di Chaminade è stato in parte oscurato nel corso del tempo. Tuttavia, il suo corposo contributo alla musica francese, in particolare per pianoforte, è stato riscoperto e apprezzato da nuove generazioni di musicisti e appassionati. Tutte esecuzioni all’altezza della bellezza dei brani proposti. In particolare Angela Gallaccio e Raffaella Nardi con Sérénade d’automne (op. 55), una perla nascosta della musica pianistica romantica a 4 mani, hanno saputo portare l’ascoltatore in una passeggiata d’autunno di foglie cadenti e melodie giocose.

A cura di Joy Santandrea

Presentata la 18ª edizione di MiTo Settembre Musica

«È difficile scrivere musica in un momento in cui ci sono tante incertezze e paure; la musica non può cambiare il mondo ma la funzione di un operatore culturale, come un festival, è di far riflettere, mettere in comunicazione e suggerire connessioni»

Con queste parole Giorgio Battistelli – nuovo direttore artistico del biennio 2024-2025 – apre la conferenza stampa del festival MiTo Settembre Musica, tenutasi il 27 marzo presso il museo Rai della radio e della televisione. Un festival che dal 6 al 22 settembre connette le città di Milano e Torino: storie urbane diverse che cercano dialogo e mescolano le loro identità. Uno dei temi è proprio quello dei “MOTI”: gioco di parole per trasformare MiTo in elemento provocatorio che muove le menti, le scuote e le porta alla riflessione. MiTo crea relazioni tra città e connette musica e vita quotidiana.

Il 6 settembre si inaugura a Torino la diciottesima edizione in Piazza San Carlo con la Nona Sinfonia di Beethoven eseguita da orchestra e coro del Teatro Regio. La rassegna continua poi con altri trentaquattro appuntamenti che mescolano musica contemporanea e musica classica in un programma ricco e differenziato tra le due città – come nelle prime edizioni – per creare un palcoscenico condiviso e permettere uno scambio di idee e creare relazioni. Cinque sono i filoni tematici su cui si sviluppa il cartellone. Quest’anno grande punto fermo della programmazione sono le orchestre, non poteva dunque mancare il format “Mitologie Orchestrali” che porta sui palchi alcune grandi formazioni come la Filarmonica della Scala, l’orchestra dell’Opéra de Lyon e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Nella sezione “Artistiche Imprese” Stefano Massini racconterà con due monologhi la storia di due aziende storiche di Milano e Torino.
Il rapporto con la contemporaneità, dice Battistelli, è spesso problematico ma con “Ascoltare con gli occhi” si vuole dimostrare che è possibile far convivere queste apparenti dissonanze attraverso una proposta di ascolto che transita verso l’aspetto visuale e immaginifico.
Entrambe le città hanno una grande storia calcistica; pertanto sembrava doveroso, a 75 anni dalla tragedia di Superga, omaggiare questo tipo di cultura con “Musica su due piedi”.  Un altro anniversario caratterizza il 2024, il centenario dalla morte di Puccini, e “Puccini, la musica, il mondo” vuole proprio rendere omaggio a questo grande operista con tredici incontri: anche Toni Servillo interverrà con una narrazione degli aspetti più intimi di Giacomo Puccini.

Sarà un festival intenso e vario, che guarda al presente, al passato e al futuro creando legami ma anche scuotendo gli animi.

Per maggiori informazioni cliccare qui

A cura di Ottavia Salvadori

Vercelli celebra Viotti con un indimenticabile pomeriggio musicale in Duomo

Il 4 marzo 2024, Vercelli ha reso omaggio a uno dei suoi figli più illustri, in occasione del bicentenario della morte: il celebre musicista Giovan Battista Viotti, con una sontuosa celebrazione nel Duomo che ha segnato un momento memorabile nella storia della città. La giornata è stata caratterizzata da una grande affluenza di persone, nonostante la pioggia battente.

(G.B. Viotti, monumento Fontanetto Po)

Il Festival Viotti, nato agli inizi degli anni ’90, rappresenta un omaggio vivo al genio musicale del virtuoso violinista e compositore vissuto nel XVIII secolo. Fondato inizialmente come un modesto evento locale a Vercelli, città natale di Viotti, il Festival ha gradualmente guadagnato fama e prestigio nel panorama musicale italiano. Sin dalle sue prime edizioni, ha proposto una selezione eclettica di concerti che spaziano dalla musica da camera ad eventi sinfonici, dalle esibizioni solistiche ai recital di violino.

Il violinista e direttore d’orchestra Guido Rimonda, dopo gli studi al Conservatorio di Torino e la specializzazione con Corrado Romano a Ginevra, ha affinato le sue abilità musicali sotto la guida di eminenti maestri come Giuliano Carmignola e Franco Gulli presso la Scuola di Alto Perfezionamento di Saluzzo. Successivamente ha dedicato la sua carriera alla valorizzazione dell’eredità musicale di Giovanni Battista Viotti, con riconoscimenti nazionali e internazionali. Nel 1992 costituisce la Camerata Ducale e due anni dopo fonda il Viotti Festival dove copre il ruolo di direttore musicale. Col suo strumento, lo Stradivari del 1721 Jean Marie Leclair, Rimonda continua a portare avanti la missione di far risuonare la “voce di un angelo” attraverso la musica di Viotti.

Rimonda assieme a don Luciano Condina, ex-flautista e direttore d’orchestra della Camerata Ducale, coinvolgendo monsignor Denis Silano, direttore della Cantoria Eusebiana e musicologo, ha organizzato quest’evento richiamando un folto pubblico costituito anche da famiglie e appassionati. Le celebrazioni sono iniziate a metà pomeriggio sotto il portico della facciata del Duomo, causa mal tempo, con un omaggio a Viotti della banda musicale di Fontanetto Po. L’evento è proseguito all’interno del Duomo dove è stata eseguita la Messa di Mozart “Dell’Incoronazione”; eseguita impeccabilmente dalla Camerata Ducale, assieme alla Cappella Musicale Eusebiana e al Coro da Camera di Torino diretto da Dario Tabia.

Riproporre la KV 317 nei sontuosi interni del Duomo ha contribuito a esaltare il carattere solenne dell’opera, anche dal punto di vista meramente visivo: gli elaborati interni del Duomo, i colori e soprattutto il tamburo della cupola, sono stati suggestivi. Inoltre, sotto il profilo acustico, i naturali riverberi dell’edificio hanno reso la musica più spazializzata e coinvolgente. Doveroso per la splendida esecuzione citare i quattro solisti: Arianna Stornello (soprano), Giulia Taccagni (contralto), Bekir Serbest (tenore) e Davide Sacco (basso).

Al termine del “Dona Nobis” è seguita la funzione liturgica celebrata dall’arcivescovo Arnolfo. Interessanti gli interventi musicali di composizioni da vari autori, tra cui: Orlando di Lasso (Oculi mei semper ad Dominum, 6 voci), Pierluigi da Palestrina (Justitiae Domini) e Francesco Antonio Vallotti (Ave Regina caelorum). Nonostante la densità del programma, questi interventi musicali hanno reso più scorrevole la funzione.

In serata, al termine della liturgia, ci viene dato il commiato dal Concerto per violino e orchestra n. 29 in mi minore di Viotti, dove Guido Rimonda (in veste di violino solista) ha fatto cantare il suo Stradivari sulle note del compositore vercellese, accolte da un grande applauso.

A cura di Joy Santandrea

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