Archivi categoria: Pop

Il club tour di Motta fa tappa all’Hiroshima

Un nuovo album porta con sé una buona dose di pressione e dei fan da convincere. Lo sa bene Motta, che ha iniziato il tour nei club italiani per presentare l’ultimo lavoro La musica è finita, uscito lo scorso ottobre. Il cantautore toscano ha voluto esprimersi, ancora una volta, nella sua dimensione preferita: il live. Venerdì 10 novembre un Hiroshima Mon Amour sold out lo ha accolto con grande affetto e curiosità.

Il palco si presenta ricco di strumenti, tra synth, basso, chitarre elettriche e acustiche. Lo sfondo è un pannello nero con una grande “M” stilizzata e graffiata. Motta sale sul palco accompagnato dalla sua band: Giorgio Maria Condemi alle chitarre, Francesco Chimenti al basso e al violoncello, Davide Savarese alla batteria e la grande novità di questo tour, ovvero Whitemary ai synth, che riassume al meglio alla sperimentazione elettronica ricercata in La musica è finita.

La scaletta si apre con due brani del nuovo album: un’intima versione al piano di “Anime perse” e successivamente l’energetica “La musica è finita”. Una dinamica di suoni e di emozioni fa da fil rouge al concerto, che risulta un continuo alternarsi di momenti emotivi ed energetici. Motta sul palco si sente a suo agio e si esprime liberamente: salta, si inginocchia, scuote la chioma riccia, incita il pubblico a cantare più forte. In scaletta non mancano alcuni dei brani più apprezzati dei fan, come “Del tempo che passa la felicità” e “Sei bella davvero”, dedicata ad una ragazza transgender. L’ospite della serata è Ginevra che, assieme al cantautore, intona “Maledetta voglia di felicità”, uno dei featuring all’interno del disco.

Motta, la sua band e l’ospite Ginevra (credits foto: Martina Caratozzolo)

Motta mostra le sue abilità ritmiche ai tamburi nell’esecuzione di tre brani: “Se continuiamo a correre” – suonata in crescendo –, “Roma Stasera” – in una rabbiosa versione rock – e “Ed è quasi come essere felice”. Dopo aver dato il tutto per tutto, il cantautore si prende l’applauso del pubblico e ringrazia la sua band, annunciando l’ultimo brano in scaletta: “Quello che ancora non c’è”.

Motta (credits foto: Martina Caratozzolo)

Ancora una volta, il cantautore toscano dimostra che la dimensione live è quella che gli si addice meglio. Al contrario di quanto suggerisce il titolo del suo ultimo album, la musica per Motta non finirà finché ad ogni concerto ci metterà così tanta anima e passione. Chi era all’Hiroshima in quella piovosa serata può confermare.

A cura di Martina Caratozzolo

Edoardo Bennato al Flowers Festival: il viaggio verso “L’Isola che non c’è”

“L’Isola che non c’è” esiste e l’ultima segnalazione è arrivata l’8 luglio dal Flowers Festival di Collegno, dove si è esibito Edoardo Bennato. Con lui sul palco della Certosa la BeBand, storica formazione che lo segue da anni, composta da Giuseppe Scarpato (chitarre), Raffaele Lopez (tastiere), Gennaro Porcelli (chitarre), Arduino Lopez (basso) e Roberto Perrone (batteria). 

Come per un inguaribile Peter Pan, il tempo per Bennato è come se si fosse fermato: nonostante i 76 anni, per tutte le due ore del concerto tiene il palco in modo ineccepibile − d’altra parte gli anni di carriera, in questo caso, si vedono. Il cantautore in jeans, scarpe da ginnastica e t-shirt con la scritta “Campi Flegrei 55”, si veste dei panni di un provetto cantastorie e il pubblico sembra essere stregato. Il parco della Certosa, infatti, è pieno e la platea  è abbastanza differenziata: nonostante la maggioranza di fan della vecchia guardia, molti sono anche i giovani e le famiglie con bambini che cantano, insieme a lui, nel nome del rock’n’roll. 

Foto di Alessia Sabetta

È proprio per il rock’n’roll il primo discorso che Bennato pronuncia appena salito sul palco, prima di cantare “Abbi cura”. C’è poi spazio per  delle dediche alla sua Napoli e alla sua infanzia, in particolare al “trio Bennato”, il gruppo che aveva da bambino con i suoi due fratelli. Durante il concerto compaiono anche  alcune canzoni del suo ultimo album, Non c’è, ma ovviamente non mancano i brani che lo hanno reso celebre e alcuni adattamenti inaspettati come per “Napoli 55”, quando  il chitarrista inizia un lunghissimo assolo, che confluisce in quello di “The Wall” dei Pink Floyd. C’è poi spazio per ricordare  Ugo Tognazzi, Mia Martini ed Enzo Tortora ai quali dedica un riadattamento de “La calunnia è un venticello” dal Barbiere di Siviglia. E poi rock, ska e blues, un accenno alla smorfia napoletana il tutto insieme alla sua inseparabile armonica e al kazoo.

Foto di Alessia Sabetta

Da bravo cantastorie, Bennato incanta con i suoi racconti con cui accompagna quasi ogni brano: nessun discorso superficiale e non solo narrazioni sul passato. Tanti gli spunti di riflessione e le critiche (non tanto) velate ai problemi sociali e politici che toccano la nostra quotidianità. Come dopo “Nisida” quando, oltre alla buonanotte, il musicista augura ai presenti di liberarsi dai pregiudizi e dalle convinzioni.

Poi buio e silenzio. Ed emozioni che combattono con nuove consapevolezze. Come quella che un cantautore, di quasi ottant’anni, in due ore ha regalato un’istantanea del mondo che ci circonda in modo secco e duro, ma addolcito con quelle che (non) “Sono solo canzonette”. Per questo “L’Isola che non c’è” esiste. Ed è Bennato stesso a dimostrarlo.

a cura di Alessia Sabetta

Olly e Rosa Chemical al Flowers Festival 2023

È il primo luglio e il sole sta tramontando sul Parco della Certosa: questo lo scenario della terza serata del Flowers Festival 2023, che vede protagonisti Olly e Rosa Chemical. Entrambi reduci dall’ultima edizione di Sanremo (hanno partecipato rispettivamente con “Polvere”, certificato disco d’oro, e “Made in Italy”, disco di platino), i due cantanti hanno intrattenuto il pubblico di Collegno con due set durati all’incirca un’ora ciascuno.

Olly al Flowers Festival 2023. Foto di Clarissa Missarelli.

A dare il via alla serata è Olly con il suo brano “Una vita”, traccia di apertura dell’album Gira, il mondo gira. Sin da subito il cantante genovese sottolinea il suo legame con Torino, città dove ha iniziato la collaborazione con il produttore JVLI: questa connessione è ulteriormente consolidata dalla presenza sul palco di Oliver Green, rapper di Nichelino con cui canta “Non ho paura”.

Durante lo spettacolo Olly mantiene un approccio affabile e goliardico con il pubblico, trattando i suoi fan come se fossero amici di vecchia data; a loro volta gli spettatori non si sprecano con i regali, e nel giro di un’ora il cantante riceve tre reggiseni, un paio di sigarette e una bandiera della Liguria. A metà concerto arriva anche una richiesta dalla prima fila: una fan chiede un “balletto” e, dopo un breve scambio di battute, l’intraprendenza della ragazza viene premiata con un invito sul palco durante l’esibizione di “Bianca”. Al termine dello show, concluso con “Polvere”, Olly scende dal palco e dedica qualche minuto ai fan per foto e autografi.

Olly al Flowers Festival 2023. Foto di Clarissa Missarelli.

Breve pausa prima dell’arrivo di Rosa Chemical, che viene chiamato con calore dal pubblico: il rapper, nato a Rivoli e cresciuto ad Alpignano, inizia il suo set con “Polka 3”. Gli spettatori saltano e rappano con lui, non mancando di completare i versi delle sue canzoni quando viene loro porto il microfono. Accompagnato da due musiciste e da una pole dancer, Rosa Chemical alterna alle sue hit alcune cover tra cui “America” di Gianna Nannini, “COMINCIA TU” (la versione di “A far l’amore comincia tu” di Raffaella Carrà proposta durante la serata delle cover di Sanremo 2022 come ospite di Tananai) e “50 Special” dei Lunapop.

Rosa Chemical al Flowers Festival 2023. Foto di Clarissa Missarelli.

Rosa Chemical si prende un momento durante il concerto per leggere una lettera scritta prima dell’inizio della tournée estiva: il discorso inizia con un ringraziamento generale per chi l’ha sostenuto in questi mesi e termina con l’incoraggiamento a essere sempre noi stessi, senza badare a occhiatacce e commenti negativi. La serata si conclude con “Polka” e con un bis di “Made in Italy”, già eseguita nella prima parte dello spettacolo. Prima di lasciare il palco, il rapper fa un saluto speciale alla madre e alla nonna, che hanno assistito al concerto dietro le quinte.

Alcuni fan temporeggiano prima di uscire, nella speranza che Rosa Chemical si fermi a scambiare due parole con loro; altri si fermano per prendere qualcosa da mangiare, e c’è chi riguarda i video della serata. Ciò che colpisce di questo pubblico è quanto sia variegato: due cantanti che potrebbero essere associati ad un mondo di giovanissimi, vengono seguiti con veemenza anche durante persone più adulte, che durante lo show ballano e si scatenano.

Rosa Chemical al Flowers Festival 2023. Foto di Clarissa Missarelli.

Con l’arrivo della mezzanotte il Parco della Certosa si svuota, ma nonostante la fine della serata, rimane nell’aria un’atmosfera tutta rosa, sesso e libertà, pronta a cedere il passo agli artisti che si prenderanno la scena nei giorni a venire.

Foto in evidenza di Clarissa Missarelli.

A cura di Giulia Barge

Stupinigi Sonic Park: gli Interpol alle OGR di Torino

Officine Grandi Riparazioni, un’afosa serata di inizio estate: il 26 giugno, a Torino, suonano gli Interpol, band newyorkese attiva da ben 25 anni, che inaugura l’edizione 2023 dello Stupinigi Sonic Park. Un pubblico nutrito, formato da persone di ogni età, varca i cancelli alle 20:15 per riversarsi nella Sala Fucine, dove l’aria condizionata dona grande refrigerio: l’occasione ha attirato i fan del complesso, che qui, a differenza di altri eventi – come il 24 giugno agli I-Days di Milano, dove aveva aperto il concerto di Paolo Nutini – è headliner della serata.

Petrol. Da sinistra: Nino Azzarà, Valerio Alessio (batteria), Franz Goria, Dan Solo. Foto: Elisabetta Ghignone

Alle 20:30 sul palco salgono i Petrol, gruppo torinese che torna live dopo ben 12 anni dall’ultimo concerto. La band propone una breve scaletta di brani tratti dal primo album, “Dal fondo” (2007), e da “L’amore è un cane” (2009): il suono è quello di un energico rock alternativo italiano, orientato verso il grunge, attento alla qualità dei testi e alla potenza quasi oscura delle musiche. Alla voce troviamo Franz Goria, già membro dei Fluxus; al basso c’è invece Dan Solo, ex musicista dei Marlene Kuntz. Completano il quadro Valerio Alessio alla batteria e Nino Azzarà alla chitarra. I Petrol si fanno apprezzare sia da chi già li conosce e li segue dagli esordi, sia da chi li scopre questa sera: da segnalare il brano d’apertura, “Nel buio”, e soprattutto “Il nostro battito del cuore”, dove i versi di denuncia sociale incontrano una parete sonora melodica e al tempo stesso poderosa. Per loro, un ritorno efficace sulla scena e un concerto davvero meritevole, per quanto breve.

Il frontman degli Interpol, Paul Banks. Foto: Elisabetta Ghignone

È ancora presto: sono le 21 in punto quando la band libera il palco, inaugurando un’attesa di più di mezz’ora per gli Interpol. Quando le luci finalmente si spengono, Paul Banks e i suoi fanno il loro ingresso; il cantante, occhiali scuri e capelli pettinati all’indietro, porge un rapidissimo saluto alla folla («Ciao! Grazie!»), prima che il chitarrista Daniel Kessler, adattato al piano per il primo brano, attacchi l’intro di “Toni”, tratta dall’ultimo album “The Other Side of Make-Believe” (2022). Il gruppo introduce subito un’atmosfera cupa, peculiare del suo stile: spesso l’illuminazione posteriore – dove a dominare è il colore rosso – risalta la silhouette dei musicisti, che suonano con una freddezza e un’eleganza ricercate. Il secondo brano è “Obstacle 1”, tratto dal primo e celebratissimo lavoro “Turn On the Bright Lights” (2002), ed è qui che la serata sembra promettere un crescendo. Promessa mantenuta?

Da sinistra: Brandon Curtis, Paul Banks, Brad Truax. Foto: Elisabetta Ghignone

La musica, naturalmente, è espressa nella sua qualità dagli interpreti: oltre alle chitarre (divise tra lo stesso Banks e un concentrato Kessler, che gli ruba la scena), sono notevoli i riff quasi solistici del basso suonato da Brad Truax. Le parti strumentali sanno essere a tratti incisive, come nelle coppie di note della drammatica “Pioneer to the Falls” o come nell’intro di “Narc”, a tratti ancorate a intrecci più elaborati, come in “Fables” o “Leif Erikson”; a completare la sezione melodica, le tastiere di Brandon Curtis. Nonostante le premesse e il calore dei presenti, scatenati soprattutto su pezzi di vecchia data tra cui “Evil”, “C’mere” o “Rest My Chemistry”, il concerto non decolla del tutto e quasi pare che manchi qualcosa. È un po’ come se il mood austero degli Interpol avesse soggiogato anche la platea: di certo la loro produzione nasce per un ascolto impegnato – come testimoniano, tra le altre cose, i complessi testi ad opera di Banks – eppure, a prescindere dal buon livello dell’esibizione, si avverte tra il pubblico un vago sentore di pesantezza.

Il batterista Sam Fogarino. Foto: Elisabetta Ghignone

Una postilla a parte merita il batterista, Sam Fogarino. Nulla da dire, se non di positivo, rispetto al talento e alla creatività dell’artista (specie con i tempi dispari e il groove articolato di “Into the Night”); impossibile però non notare le pericolose oscillazioni metronomiche in cui ogni tanto incappa. Si sa, la musica dal vivo è tutt’altra cosa rispetto a quella registrata in studio (e va benissimo così), ma qui la mancanza di equilibrio risulta evidente e alcune canzoni ne escono di molto velocizzate – è il caso di “Stella was a diver and she was always down”, sulla quale qualcuno addirittura riesce a pogare – oppure in bilico tra rallentamenti e accelerazioni improvvise. Le quali, se non altro, rendono più umano un live dominato da una compostezza indomita, che sembra non potersi e non volersi sciogliere.

La band in rosso e nero. Sulla sinistra il chitarrista Daniel Kessler. Foto: Elisabetta Ghignone

Dopo una breve pausa, il gruppo torna sul palco con gli ultimi tre pezzi: a chiudere la serata, intorno alle 23, è “Slow Hands”, altro celebre brano dal secondo album “Antics” (2004). Solo sul finale la folla dà l’impressione di accendersi, chi saltando, chi muovendo le mani a tempo, a manifestare la propria partecipazione e rendere omaggio a una band di caratura internazionale e di indiscusso valore. Nel complesso, si può parlare di uno show piacevole, di un’opportunità da non perdere per incontrare gli Interpol e godere di persona della loro opera: opportunità che i numerosi presenti hanno colto con gioia, anche se forse non tutti sono usciti con addosso la stessa soddisfazione. Il prossimo appuntamento con Stupinigi Sonic Park è segnato al 4 luglio, quando alla Palazzina di Caccia suoneranno i Simply Red.

A cura di Carlo Cerrato

Lucio Corsi: artista, alieno, necessario

Un viaggio intergalattico annaffiato nella birra: il racconto del live all’Hiroshima Mon Amour

Per due ore di un venerdì fradicio di maggio l’Hiroshima Mon Amour è l’astronave di Lucio Corsi. Un pianoforte, una tastiera, chitarre, maracas, una valigetta di cuoio e due Tuborg pericolosamente in bilico sul bordo del palco: è un rebus ancora da svelare, il mondo live di questo alieno gentile mutaforma. Così lontano, così terrestre, italiano, toscano. E pure i suoi musicisti sembrano assolutamente fuori posto, assortiti in maniera bizzarra, nell’accezione più positiva del concetto.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Mentre scintillano i riflettori veloci nella sala Majakovskij, sembra di scorgere quell’Iggy Pop del ‘72, che si contorce a torso nudo, tutine attillate e scarponcini di vernice che pestano i cavi. Ma Lucio Corsi non gioca a fare la rockstar. È un alieno gentile, animalesco, timido, nascosto dietro i capelli lunghi e una spennellata di cerone. La sua verità è lì da qualche parte, tra una sensibilità musicale raffinata, dalle liriche, agli arrangiamenti, alle costruzioni armoniche. È avvolto da un candore inafferrabile, una purezza tutta da preservare, prima che rimanga incastrata tra le grinfie di qualche salotto Rai.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Corsi si lancia in lunghi assoli elettrici senza mai sfociare nel virtuosismo vuoto, sale e scende dal palco, cambia outfit, suona cover di Dalla e Battisti, legge poesie. Ma nonostante tutto, lo spettacolo non c’è. Non c’è spazio per il cabaret, le frasi trite da animali da palcoscenico: Corsi sul palco sembra che ci sia appena atterrato da chissà dove. Tra un pezzo e l’altro accorda le chitarre, non sa che dire, improvvisa qualche spiegazione impacciata priva di qualsiasi irritante snobismo pretenzioso. E chi non ha pensato ad un certo cantautorato indie italiano scagli la prima pietra.

Lucio Corsi live all’Hiroshima Mon Amour – Foto di Alessia Sabetta

Quello che rimane, sotto il cerone sciolto e le birre rovesciate sulla scaletta, è un solenne e totale rispetto per la musica, che è suonata, è vissuta, è costruita in studio con uno sforzo collettivo, è la reale protagonista del tutto. Ancora più di Lucio Corsi stesso, che non c’è dubbio eserciti un naturale fascino magnetico sul suo pubblico e sui suoi fan, ma che non si mette mai davanti alle sue canzoni. Che sia il delicato universo fiabesco di Bestiario musicale, la dolcezza di Cosa faremo da grandi? o il più maturo La gente che sogna, l’ultimo album uscito lo scorso 21 aprile, Corsi ti parla del vento, della luna, della ragazza trasparente, del ragazzo altalena, delle stelle e le navi spaziali; disegna quadri impressionisti intimi e lontani, con un occhio un po’ bambino, che osserva la vita e le cose del mondo scoprendole per la prima volta.

La canzone italiana riparta da Lucio Corsi, dalle sue astronavi giradisco, che suonano musica aliena che non è mai stata così reale, così umana.

Premio Buscaglione, finale: Torino celebra la musica emergente italiana

La finale della settima edizione del Premio Buscaglione è arrivata: dopo essere stati allo sPAZIO211 e all’Off Topic, il 6 maggio siamo sulle sponde del Po, al CAP10100, in una sera fresca ma gradevole. Il concorso ha visto arrivare a Torino diverse band da tutta Italia (sei gli artisti per ciascuna serata, e questa non fa certo eccezione), a contendersi il plauso della critica e a mostrarsi ai presenti, affamati di musica nuova di zecca; è giunto il momento di decretare quale, tra le tante proposte, conquisterà la prestigiosa posta in palio.

Quest’anno i presentatori sono la speaker radiofonica Claudia Losini e l’autore televisivo Sebastiano Pucciarelli, che introducono la serata con un programma leggermente diverso dalle precedenti: se in queste, infatti, le band emergenti a esibirsi erano cinque, seguite da un ospite (Post Nebbia il 4 maggio e Yosh Whale il 5), nella finale si sfidano le due band selezionate in ciascuna serata, per un totale di quattro progetti emergenti. A chiudere l’evento, fuori concorso, ci saranno il cantautore emiliano Dente e i corregionali Gazebo Penguins.

UFO BLU. Foto: Elisabetta Ghignone

I primi a salire sul palco sono i bergamaschi UFO BLU, originale quartetto caratterizzato da un sound ibrido, che fonde elementi di rock e funk, con qualche richiamo più o meno esplicito al dream pop. Il frontman si muove sul palco scanzonato, e canta i suoi versi con tono ironico ed autoironico, avvolto nel suo look anni ’70 (impossibile non menzionare la sua canotta bianca e soprattutto quei baffi). I musicisti, tutti giovani studenti di ingegneria, ottengono l’apprezzamento e le simpatie dei presenti; come da prassi, reinterpretano inoltre un brano dell’artista cui il premio è dedicato, ovvero “Una sigaretta”. Tra gli inediti, è di sicuro da segnalare il primo brano “Cresci bambino”; l’esibizione, complice la breve durata dei pezzi, termina rapidamente, ma lascia il segno per la carica trasmessa in apertura dell’evento.

Hey!Himalaya. Foto: Elisabetta Ghignone

È poi il turno degli Hey!Himalaya, un gruppo di ragazzi lecchesi ritrovatisi a Bologna, i quali propongono un intreccio musicale eterogeneo. I loro pezzi si muovono tra il folk rock e l’elettronica – anche qui sono presenti suggestioni dream pop – marcando subito una cifra stilistica propria, oltre a evidenziare una certa maturità artistica ed esecutiva. Anche l’immagine fa la sua parte: il cantante sfida le temperature indossando un dolcevita; il tastierista ci tiene invece a suonare rigorosamente a piedi scalzi. Il finale, con le atmosfere cangianti della loro “Cantilena violenta”, corona l’esibizione nel migliore dei modi; la cover di Buscaglione in questo caso è “Lontano da te”, che viene resa quasi irriconoscibile, a testimonianza della grande inventiva dei musicisti.

Miglio. Foto: Elisabetta Ghignone

Ad andare in scena è in seguito la bresciana Miglio, e subito le vibrazioni della serata slittano verso il pop e l’elettronica vera e propria, che assume spesso sfumature più cupe; la cantautrice si presenta in duo con un polistrumentista, il quale alterna i sintetizzatori e il basso, occupandosi anche delle basi dei pezzi. Il punto di forza dell’artista, oltre che nella qualità dell’interpretazione e della voce, risiede nei testi, dove si percepisce un’autorialità ben delineata: la sua scrittura, come peraltro riferito da Losini nella breve intervista post-esibizione, combina infatti serie di immagini a tratti evocative, a tratti vivide e sensuali (l’esempio perfetto è “Techno Pastorale”). Il brano di Buscaglione stavolta è “Buonasera signorina”, con sola voce e chitarra; una performance di livello, condotta con grande personalità e consapevolezza dei propri mezzi lirici e musicali.

Candra. Foto: Elisabetta Ghignone

Ultimo finalista è Candra, artista proveniente da Livorno, che riporta la piega dello show nella sfera del rock. Con una vocalità graffiante, il cantautore alterna brani più distesi, in cui chitarra elettrica e piano sono spesso gli unici strumenti accompagnatori, a una cover dal piglio quasi sognante (“Che bella cosa sei”), per poi arrivare al gran finale, con “Zitti”. Il pezzo inizia quasi in sordina, per poi liberare le sue sembianze punk nel potente e orecchiabile ritornello, uno di quelli che rimangono in testa per davvero. Candra si distingue per il modo genuino e convincente col quale mette in musica tematiche delicate, trattate con testi che colgono nel segno e ne evidenziano il peso e la portata personale.

Dente. Foto: Elisabetta Ghignone

È ora la volta del primo dei due artisti fuori gara: Losini, Pucciarelli e Gigi Giancursi, ex membro dei Perturbazione, introducono sul palco Dente, cui viene consegnata la Targa Gran Torino, destinata a un autore che abbia, citando Pucciarelli, «incarnato la natura migliore del cantautorato italiano». L’artista originario di Fidenza si esibisce in solitaria con la sua chitarra acustica: il primo pezzo suonato è “Saldati”, ormai di lunga data, mentre “Allegria del tempo che passa” è una nuova e frizzante uscita. Tra le canzoni, tutte ammantate di una piacevole leggerezza, scappa qualche fugace scambio di battute col pubblico; l’omaggio a Buscaglione non lo salta neppure lui, e la sua versione di “Guarda che luna” – tra le più celebri ballads dello showman torinese – conquista tutti i presenti, forse anche per la spontaneità informale restituita.

Gazebo Penguins. Foto: Elisabetta Ghignone

Ospiti d’eccezione, a chiudere questa lunga traversata, i Gazebo Penguins. Il quartetto di Correggio si presenta al culmine dell’attesa dei numerosi fan: adesso è il momento di scatenarsi. La musica spazia tra l’emo, il punk e soprattutto l’hardcore, anche se non mancano nemmeno qui i sentori elettronici; la scaletta è naturalmente più estesa delle precedenti, e il pubblico più caldo coglie l’occasione per darsi a un pogo forsennato durante la maggior parte dei brani (come in “Soffrire non è utile” o “Cpr14”, per citarne qualcuna). I riff aggressivi, le parti vocali cantate in coppia e il muro sonoro, generato anche grazie a un’importante quantità di amplificatori, caratterizzano un concerto grintoso, che chiude sulle note di una delle canzoni più conosciute del gruppo: “Senza di te”.

La premiazione ha così luogo dopo una sostanziosa scorpacciata musicale: a vincere la settima edizione del Premio Buscaglione sono gli Hey!Himalaya, i quali si aggiudicano il titolo di Next Big Thing italiana. Loro anche il Premio Booster; a Miglio vanno invece il Premio della Critica, il Premio Sold-Out e il Premio Riflettori. È la degna conclusione di una rassegna scoppiettante, piena zeppa di talenti che hanno saputo mettersi in mostra, farsi conoscere e soprattutto divertirsi, illuminando per tre serate consecutive la scena torinese e tagliando l’ennesimo nastro della nuova musica italiana.

A cura di Carlo Cerrato

Niccolò Fabi incanta il pubblico torinese al Teatro Colosseo

Al Teatro Colosseo, San Salvario, c’è tanta gente. È il 28 aprile, una di quelle serate in cui fa piacere uscire di casa vestiti più leggeri del solito. C’è una fila lunga, per quanto scorrevole, composta da persone di generazioni differenti. E c’è un evento per il quale probabilmente è da un po’ di tempo che si aspetta, che si fa il conto alla rovescia: Niccolò Fabi approda a Torino con il suo Meno per meno Tour, il ciclo di concerti che celebra l’omonimo album, uscito lo scorso 2 dicembre, in cui figurano diversi brani inediti, oltre alla reinterpretazione in chiave orchestrale di numerose canzoni dal repertorio dell’artista.

Il cantautore romano, che festeggia i 25 anni di carriera, fa il suo ingresso in solitaria, introducendo lo show con un breve discorso: è evidente il desiderio di creare un’atmosfera raccolta, quasi volesse partire per un viaggio, al tempo stesso intimo e condiviso, da compiere insieme ai presenti (scherza: «in questi momenti mi sento un po’ un assistente di volo»). Fabi ha bisogno di immergersi nella dimensione giusta, per familiarizzare con il palco, coabitare lo spazio con il pubblico (il concerto, neanche a dirlo, è andato sold out) ed esprimersi al meglio delle sue possibilità; si percepisce da subito il rispetto della platea per la sua volontà, attraverso un ascolto devoto e – almeno all’inizio – del tutto silenzioso. La prima canzone è “Tradizione e tradimento”, che dà il titolo al disco del 2019.

Ci sono solo lui e la sua chitarra – anzi, le sue chitarre: ne alterna almeno un paio; la scaletta annovera brani del passato più recente (come “Una somma di piccole cose”, 2016) così come i successi degli esordi, tra cui “Rosso” (1997). Partono qui rapide digressioni, in cui Fabi sorride del mood danzereccio del pezzo, che faceva scatenare gli spettatori negli anni Novanta, e del suo contenuto (parla di un sogno in cui lui è morto, e la sua amata al funerale non è vestita a lutto, ma indossa appunto un abito rosso). “Facciamo finta”, annunciata da poche parole che ne suggeriscono l’importanza, lascia una commozione amara, originata da un atroce lutto personale, effuso qui in forma d’arte. L’artista suona anche il pianoforte, accompagnando pezzi quali “Meraviglia” e “Ora e qui”.

Tra un brano e l’altro, Fabi continua a parlare in modo semplice, con tono delicato, verrebbe da dire confidenziale. La finestra aperta sul suo vissuto, sul disagio di stare al centro dell’attenzione (di cui racconta in una recente intervista a Sky TG24), sull’animo sensibile che traspare dai suoi versi, è il risultato di una ricerca continua, che corona il lavoro di un autore – e soprattutto di un uomo – più che maturo. Con “Lontano da me” si chiude la prima parte dell’esibizione, e gli strumenti in ombra sul palco infine si animano.

Niccolò Fabi
Niccolò Fabi – foto dal suo profilo instagram

Oltre a musicisti quali Roberto Angelini alle chitarre, Alberto Bianco al basso – anche loro cantautori – e Filippo Cornaglia alla batteria, collaboratori stabili di Fabi, ad andare in scena è ora l’Orchestra Notturna Clandestina, protagonista dei brani di Meno per meno, arrangiati dal suo fondatore Enrico Melozzi. La prima canzone suonata in questa veste è “Andare oltre”, presente tra gli inediti dell’album. L’altissimo livello della musica sposa la profondità dei testi, e allo spettacolo partecipa l’intero contesto del teatro e della platea, che pian piano inizia – senza entusiasmi eccessivi – a lasciarsi andare.

Il prosieguo del concerto attinge in primis dagli ultimi album (ad esempio con “A prescindere da me”), dando nuova linfa ai pezzi proposti: “Ha perso la città” è da citare come uno degli esempi più riusciti di riarrangiamento. Da Meno per meno è tratta anche “Al di fuori dell’amore”, con la sua toccante riflessione sulle possibilità di «fare la vita che abbiamo scelto»; subito dopo c’è “Filosofia agricola” (da Una somma di piccole cose), a ricordarci la nostra natura di esseri umani, spesso attaccata alle memorie, ai periodi, alle persone, mentre tutto cambia e fluisce.

Ci si avvia poi verso la conclusione, e non può che essere un crescendo. Fabi torna al piano con “Una mano sugli occhi”, prima di eseguire il brano che forse più di tutti racchiude la sua poetica e le sue peculiarità di artista: “Costruire” mette in musica il ruolo chiave della pazienza e dell’imperfezione nella vita di ognuno, dove a contare non sono le destinazioni, ma i percorsi. “Una buona idea” è il penultimo pezzo, e qua sì: si canta a squarciagola – dulcis in fundo – e qualcuno si alza in piedi, colto dalla sua contagiosa orecchiabilità. A chiudere, una canzone che «proprio non vi potete immaginare»: il grande classico “Lasciarsi un giorno a Roma”, che andò a Sanremo nel ’98, lo intonano proprio tutti, anche quelli che addirittura accennano a un ballo, nei limiti e nelle possibilità dello spazio; tutti hanno lasciato la sedia e battono le mani, giunti forse alla meta, dopo un paio d’ore, di quel viaggio voluto, cercato e ottenuto da Fabi. Un finale da standing ovation, che libera tutto l’apprezzamento e l’affetto dei presenti: questo viene raccolto e onorato dal cantautore, il quale saluta e ringrazia Torino insieme a tutti gli altri interpreti.

L’evento ripaga l’attesa e conferma in pieno le elevate aspettative. La sensazione è quella di aver assistito al concerto di un autore eclettico, capace di riscoprirsi in ogni nuova opera, di unire il gusto e l’esperienza musicale a una particolare qualità dell’animo: quella di sapersi ascoltare, per poi entrare in contatto con chi è in grado di cogliere il frutto di tanto lavoro, che sia nel quotidiano o in occasioni come questa.

A cura di Carlo Cerrato

Da Let Go a Love Sux: 20 anni di Avril Lavigne al Mediolanum Forum

Un filmato celebrativo e la silhouette della cantante con dei palloncini in mano: così si è aperta la data milanese del Love Sux Tour di Avril Lavigne il 24 aprile, secondo spettacolo italiano del tour che ha portato sui palcoscenici d’Europa l’ultimo lavoro dell’artista (l’album Love Sux, uscito a febbraio 2022), senza tralasciare i singoli di maggior successo della sua carriera.

L’emozione del pubblico era già evidente nel momento in cui i musicisti hanno iniziato a suonare “Bite Me”, primo singolo estratto dall’ultimo album. La vera esaltazione si è però raggiunta quando Avril Lavigne ha iniziato a cantare: da quel punto si è creata una non scontata intesa tra l’artista e il pubblico, che ogni volta che veniva chiamato a cantare i cori o intere strofe dei brani non si faceva trovare impreparato e rispondeva con sempre più forza e vigore.

Foto di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.

Il concerto è proseguito saltando nel passato, e indubbiamente le hit della Avril Lavigne dei primi anni 2000 sono quelle che più hanno entusiasmato gli spettatori: da “Complicated” a “When You’re Gone”, passando per “Girlfriend”, era impossibile trovare qualcuno all’interno del Mediolanum Forum che rimanesse impassibile di fronte a quei versi che hanno accompagnato la nostra infanzia e/o adolescenza.

E se per gli spettatori è stato come viaggiare su una macchina del tempo per un’ora e mezza, per Avril Lavigne stessa il tempo sembra non essere mai passato: vista da lontano sembra la stessa di venti anni fa, una principessa pop punk appassionata ed energica. Suona la chitarra e la batteria, spara coriandoli, calcia palloni giganti tra il pubblico e dà vita anche ad un simpatico siparietto a metà concerto in cui beve il Limoncello insieme alla sua band e agli artisti di apertura, Phem e i Girlfriends, mentre propongono una cover di “All The Small Things” dei Blink-182.

Foto di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.

Tra i momenti più memorabili del concerto ci sono una performance speciale di “Nobody’s Home”, singolo del 2004 che non veniva cantato dal vivo da ben nove anni, ma eseguito solamente nelle date italiane del tour in corso, e la conclusione sulle note di “I’m With You”, brano estratto dall’album d’esordio Let Go che ha visto il palazzetto accendersi e cantare il ritornello a ripetizione.

Una volta riaccese le luci, il pubblico lascia soddisfatto l’arena e a sentire i commenti è chiaro che l’obbiettivo di Avril Lavigne sia stato centrato: ricordare al pubblico chi è stata e quanto la sua musica degli esordi abbia lasciato un’impronta non indifferente (del resto è stata una delle maggiori esponenti del pop punk, genere ritornato con prepotenza negli ultimi anni), ma che ha ancora i suoi assi nella manica e tanto da offrire, come dimostrano le reazioni degli spettatori ai suoi brani più recenti. Sul palco ha dichiarato di star già lavorando al suo prossimo album, augurandoci che sia un’ulteriore occasione per riportarla in Italia e vivere ancora una sera la magia della Sk8er Girl per eccellenza.

Immagine in evidenza di Francesco Prandoni, dal profilo Facebook del Mediolanum Forum.

A cura di Giulia Barge

Eugenio Finardi, Raffaele Casarano e Mirko Signorile in un’ “Euphonia” al teatro Colosseo

Euphonia Suite nasce nell’ ottobre 2022 dalla collaborazione tra Eugenio Finardi, Mirko Singorile e Raffaele Casarano. Già dallo scorso dicembre, i tre artisti stanno girando l’Italia in un tour dedicato − Euphonia Suite Tour − che ha visto la sua conclusione il 19 aprile al Teatro Colosseo di Torino, città molto cara all’artista milanese, come lui stesso ribadisce durante la serata.

Bisogna fare un passo indietro per entrare al meglio nello spirito della serata: il punto di partenza riguarda l’ascolto dell’album. Non c’è da aspettarsi l’energia rock dei lavori più famosi di Finardi, farlo significherebbe non apprezzare interamente il lavoro, ma soprattutto perdersi tutta la bellezza contenuta in questi nuovi arrangiamenti. L’incontro (frutto di un progetto ormai decennale) si realizza tra la voce calma e distesa di Finardi, il virtuosismo di Signorile al pianoforte e l’accompagnamento pastoso e suadente del sax di Casarano. Tutto si fonde in un unicum musicale che racconta perfettamente quel concetto di “vita lenta”, come in una lava lamp in cui il risultato è un amalgama omogena.

Foto: Alessia Sabetta

Tutti gli stadi di tranquillità percepiti ascoltando l’album ritornano nell’esibizione dal vivo. Tanto per iniziare la scenografia è spoglia: solo le quinte, nere e gli spot che illuminano il telone attribuendo un colore diverso a ogni brano. Sul palco seduti in riga i tre musicisti vestiti di nero (ognuno con il proprio stile, che in qualche modo rispecchia anche la propria musica), che quasi per tutta la durata del concerto non si spostano dal loro posto. Insomma, un’asciuttezza che catalizza tutta l’attenzione sulla musica. Gli spettatori, immersi in un’atmosfera irreale, come fluttuante, sono persino in dubbio sul momento in cui applaudire per non spezzare l’incanto, e si infastidiscono quando il clic compulsivo degli scatti dei fotografi in sala rompe il silenzio.

Il live (che riprende il concetto alla base della produzione, ovvero la suite) si srotola brano per brano senza interruzioni: nella maggior parte dei casi il collegamento viene creato musicalmente da Signorile, nei restanti si fa giusto una pausa prima di riprendere. Finardi, centrale, si passa il microfono da una mano all’altra e con quella libera crea dei giochi di movimento con cui accompagna la sua voce o le melodie dei due colleghi. Sorride al pubblico quando ne percepisce maggiormente il calore e prova a enfatizzare i momenti in cui Casarano e Singorile si liberano in assoli che non sconfinano mai nell’esuberanza.

Foto: Alessia Sabetta

Regala, oltre al consueto bis in cui introduce al pianoforte la celebre “Extraterrestre” mentre gli altri due utilizzano la coda come fossero delle percussioni, un tris.Infatti, dopo essere usciti di scena per la seconda volta, mentre il pubblico in sala è intento a rivestirsi per lasciare il teatro, rientrano tutti e tre e concedono la scelta ai fan che prontamente richiedono “Musica ribelle”. Lui esita un momento, ma dopo essersi giustificato sulla natura musicale del brano nato per un certo tipo di strumentazione, si lascia trasportare e inizia a cantare. Tra intere strofe dimenticate su cui ride di sé stesso e un ritornello in chiave mozartiana riesce a guadagnarsi un nuovo fragoroso applauso del pubblico che si alza per cantare con lui.

a cura di Alessia Sabetta

Paolo Vaccaro, Margot e Pascal: la musica risuona nei giardini della Reggia

L’8 aprile, sotto un sole accecante e tra lo schiamazzare dei bambini, è apparso nell’orto di Levante dei giardini della Reggia di Venaria un totem autoalimentato, centro del progetto portato avanti da Open Stage e The Goodness Factory: nove artisti emergenti si sarebbero esibiti fino al 10 aprile, suddivisi in 3 gruppi, per presentare al pubblico i loro progetti.

L’evento si inserisce tra le iniziative della manifestazione “Venaria Reggia Aperta”, un insieme di attività realizzate in occasione delle feste pasquali da The Goodness Factory all’insegna della sostenibilità: infatti, gli spettacoli, organizzati sono quasi ad impatto zero in termini di consumo dell’energia elettrica. La collaborazione con Open Stage ha permesso di mettere in luce il lavoro di nuovi artisti, e a dare il via a questa serie di esibizioni sono stati Paolo Vaccaro, Margot e Pascal.

Paolo Vaccaro, musicista originario del Veneto, ha avuto la responsabilità di essere non solo il primo della giornata, ma anche di questa sezione della manifestazione: durante la mezz’ora a lui dedicata ha intrattenuto il pubblico con la sua chitarra e un repertorio di brani in italiano ed in inglese dalle influenze blues e folk, raccontando di canzone in canzone ciò che lo ispira a scrivere. A un mondo folkloristico di marinai e cowboy si alternano sprazzi di quotidianità, e la sua voce inizia ad attirare un consistente gruppetto di visitatori della Reggia.

Paolo Vaccaro (dal profilo Instagram: @paolovaccaromusic)

A seguire Margot, cantante torinese accompagnata dal piano digitale di Sara Sibona e dalla chitarra di Denis Chiatellino, che si è occupato anche dei cori. Una voce potente ma allo stesso tempo pulita, che passa da momenti di aggressività e sicurezza a giochi di note delicate, quasi sussurrate; gli arrangiamenti, sinuosi e a tratti cupi, donano una maggiore profondità al timbro della cantante. I pezzi suonati vengono accolti positivamente dai passanti, che alla fine di ogni pezzo applaudono con entusiasmo.

Margot (dal profilo Instagram: @margott.ig)

Arriva infine il turno di Pascal, musicista toscano che con la sua chitarra suona la conclusione della prima giornata dell’evento: canta di Sarajevo sotto il sole primaverile e presenta una canzone di protesta che usa per coinvolgere il pubblico, invitandolo ad accompagnarlo mentre canta un’ultima volta il ritornello. Il suo approccio intimo e rilassato rende il suo set l’ideale colonna sonora per un tardo pomeriggio tra i giardini della residenza.

Pascal (dal profilo Instagram: @iosonopascal)

Il progetto che Open Stage e The Goodness Factory realizzano a Venaria mette a segno diversi obbiettivi: portare in scena uno spettacolo con impatto ambientale minimo, fornire una vetrina interessante per giovani artisti ed arricchire con buona musica l’esperienza dei visitatori. Un’occasione che dopo queste tre giornate, ci auguriamo possa tornare con più frequenza.

Immagine in evidenza dal profilo Instagram @openstage.it.

A cura di Giulia Barge