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Teatro Regio: presentata la stagione 2023

Poche produzioni, ma molto meditate, per la nuova stagione del Teatro Regio di Torino. Con artisti del panorama internazionale e nazionale che danno una nuova luce alle grandi opere del repertorio. Alla conferenza stampa del 28 ottobre, presso il Foyer del Toro, a riempire la moltitudine di sedie troviamo non solo giornalisti con le loro telecamere e microfoni, ma anche abbonati pronti a conoscere tutte le novità della prossima stagione intitolata “Passaggi”.

Al tavolo dei relatori il sindaco della città Stefano Lo Russo, il sovrintendente Mathieu Jouvin e il direttore artistico Sebastian F. Schwarz che a breve cederà la sua carica a Cristiano Sandri, attualmente responsabile della programmazione artistica del Festival Verdi e del Teatro Regio di Parma. “Passaggi”, il titolo appunto della nuova stagione, deriva dal francese antico passage, un insieme di tanti significati che è simbolo di cambiamento, apertura e espansione. Dopo le chiusure per la pandemia e la ristrutturazione, si avverte una forte voglia di ripresa. Sul libretto della stagione appare la giovane fotografa Deka Mohamed Osman che ha potuto ritrarre, secondo una sua personale visione, l’architettura di Carlo Mollino.

Nel suo intervento il direttore artistico si concentra sulle particolarità delle produzioni che uniscono nazioni estere, come Francia e Germania, non dimenticando personalità russe e ucraine per poi ritornare alla centralità del panorama italiano. Il programma spazia dal 1768 al 1995, con una scelta di cantanti studiata minuziosamente secondo le capacità di repertorio.

In foto Ex Sovrintendente Mathieu Jouvin, Sindaco Stefano Lo Russo, Direttore artistico Sebastian F. Schwarz durante la conferenza. Foto di Chiara Vecchiato

La stagione si apre il 24 gennaio con Il barbiere di Siviglia nella versione colorata di Pierre Emmauel Rousseau; a dirigere è Diego Fasolis, grande esperto del Settecento e primo Ottocento, con un cast ricco di giovani cantanti. L’allestimento è in coproduzione con l’Opéra de Rouen.
Dal 25 febbraio all’8 marzo andrà in scena Aida, nella versione delpremio oscar William Friedkin, con la direzione del giovane Michele Gamba alla testa di un cast di rinomati interpreti verdiani: Angela Meade e Erika Grimaldi  che si alterneranno nel ruolo di Aida, Silvia Beltrami e Stefano La Colla  nei ruoli di Amneris e Radamès.
Dal 31 marzo al 14 aprile il Flauto magico di W. A. Mozart nella versione del regista operistico del teatro di Berlino Barrie Kosky e Suzanne Andrade: il libretto resta in lingua tedesca, ma i dialoghi saranno sostituiti da proiezioni ispirate al cinema muto, con le quali gli interpreti interagiranno. Il direttore d’orchestra sarà Sesto Quatrini con un cast giovane e internazionale.
Dal 13 al 23 maggio, in coproduzione con il Teatro la Fenice di Venezia, andrà in scena La figlia del reggimento di Gaetano Donizetti, opera ricca di marce sfavillanti e virtuosismi vocali che sin dalla sua scrittura, nel 1840, conquista i cuori del popolo francese. Sul podio Evelino Pidò con un cast specialista del repertorio: Giuliana Gianfaldoni, John Osborn, Manuela Custer e Roberto de Candia.
L’ultimo titolo (dal 13 al 27 giugno) a prendere posto in forma scenica nella sala grande del Regio è Madama Butterfly di Puccini, nell’allestimento di Damiano Michieletto, un’opera non certo sconosciuta, ma che in quanto grande classico potrà di certo essere una grande occasione per i giovani che ancora non hanno avuto modo di goderne la fruizione.

Negli spazi del Piccolo Regio Puccini, che prende vita a seguito di una grande opera di ristrutturazione, avremo due prime esecuzioni per la città di Torino; Powder Her Face (di Thomas Adès) che si presenta come un’opera da camera (dal 10 al 18 marzo) e La Sposa dello Zar (26 e 28 aprile), in versione da concerto, titolo del grande repertorio russo diretto da Valentin Uryupin (ex direttore del teatro di Mosca che a seguito della sua opposizione al regime venne esonerato dall’incarico).

La stagione dei concerti (dall’8 gennaio al 21 giugno) dell’Orchestra e coro del Teatro Regio e della Filarmonica Teatro Regio Torino, sarà aperta dalla Messa da Requiem di Verdi diretta da Andrea Battistoni.

Tra le novità rivolte ai giovani, che diventano di primo interesse per l’amministrazione, si segnala la possibilità di assistere a una delle due prove generali delle opere, che saranno riservate al pubblico under 30 per un costo di 10€. Per i nati tra il 1988 e il 2005 ci sarà la possibilità di fare la Regio Card Giovani 18-35 che darà accesso a promozioni e anteprime; per la community ci saranno sconti dedicati, tariffe speciali per i concerti e per i giovani under 30, biglietti last minute al costo di 10€. Per tutti gli spettatori, inoltre, sarà possibile richiedere la Regio Card che dà diritto a sconti del 10% sui biglietti.

Sono molte le iniziative che il Regio offre al suo pubblico, vuole concentrarsi sui giovani per uno sguardo al futuro, consigliando produzioni che non spiccano per l’innovazione nei titoli, ma di certo nella messa in scena.

L’invito è quindi a teatro con la scoperta delle grandi opere storiche e dei grandi artisti contemporanei.

A cura di Milena Sanfilippo

Magic Bus: un viaggio into the Hiroshima Mon Amour

Una delle frasi che più riecheggiano tratte dal film Into the Wild recita: «Chiama le cose con il loro vero nome». Eppure diventa difficile definire quello che è successo lo scorso 21 ottobre a Hiroshima Mon Amour: non un semplice concerto, non soltanto una cover band di Eddie Vedder.

Sui social e sulle locandine Magic Bus viene presentato come uno spettacolo itinerante ispirato al film e alla produzione solista di Eddie Vedder, compositore della colonna sonora del film. La giovanissima produzione dell’agenzia creativa Popcorn Gang fa la sua seconda tappa a Torino di fronte a un pubblico amante del film che rimane seduto a terra per buona parte del concerto. L’atmosfera sembra essere quella di una serata tranquilla tra amici.

Davide Genco in apertura concerto. Foto: Alessia Sabetta

La sala è illuminata di rosso, riprendendo le grafiche della locandina e lo stile dei filmati. Il tocco in più è dato da una serie di video inediti – che comprendono spezzoni del film, letture tratte dal libro, animazioni e brevi video-testimonianze di un ragazzo che in Alaska, a vedere il magic bus, ci è andato davvero – proiettati alle spalle della band per tutto il concerto. Ad accrescere il clima intimo e l’atmosfera avvolgente in cui si ha la sensazione di totale coesione ci pensa la scelta di iniziare il concerto con dei brani eseguiti solo dal cantante (Davide Genco)  e dal suo ukulele in una sala semibuia. Si aggiunge poi il chitarrista (Marco Settanni) che, tra le varie canzoni, esegue la celebre “Society” e infine, il bassista (Marco Chiodi) e il batterista (Enrico Pirola) che danno alla serata una svolta più rock.

Davide Genco (voce e chitarra) e Marco Settanni (chitarra). Foto: Alessia Sabetta

L’esecuzione integrale della colonna sonora è intervallata da una scelta filologica di brani aventi a che fare con Eddie Vedder e con i concetti capisaldi del film: la libertà e il viaggio. I brani selezionati spaziano tra cover dei Beatles, dei Pearl Jam, e “Follow The Sun” suonata con chitarra e armonica, sottolineando quell’immaginario cinematografico del viaggiatore solitario che si tiene compagnia con la musica. D’altra parte, il patto non scritto stipulato tra la band e il pubblico è quello di voler fuggire per una serata da «questo mondo così triste».

Esattamente come accade in un viaggio appena iniziato, in alcuni momenti si percepisce la necessità di un motore che deve carburare, complice il fatto che lo spettacolo sia alle prime esecuzioni e abbia bisogno di essere ben collaudato. Nonostante ciò, il prodotto confezionato è piacevole. 

Magic Bus. Foto Alessia Sabetta

La serata si conclude in modo tranquillo e anche se le temperature sono tutt’altro che glaciali come in Alaska, per tutto il concerto sembra di essere nel vero Magic bus, con Alexander Supertamp a ripetersi che «La felicità è reale solo se condivisa».

a cura di Alessia Sabetta

La Resurrezione di Mahler per la prima dell’OSN

Inizio esaltante per la stagione concertistica dell’Orchestra Sinfonica Nazionale 2022-23. L’auditorium “A. Toscanini”, tempio locale della musica di repertorio, riapre i cancelli per inaugurare un nuovo e ricco ciclo di eventi, e lo fa in grande stile sulle note di un’epica Sinfonia n.2 di Gustav Mahler. Dal podio, Fabio Luisi, oltre la compagine orchestrale, di cui è direttore emerito, dirige il Coro Teatro Regio Torino, preparato da Andrea Secchi, e le due soliste, il soprano Valentina Farcas e il contralto Wiebke Lehmkuhl. L’evento, in più, viene trasmesso in diretta sui canali radiotelevisivi RAI, godendo così di una copertura completa e accessibile a tutti.

credits: OSN

È possibile oltrepassare il confine posto da Beethoven con la sua mastodontica Nona Sinfonia? Questo era il dilemma che affliggeva le menti dei compositori tardo ottocenteschi successori del santone tedesco. L’opera magna beethoveniana sembrava, in effetti, una vetta insormontabile per chiunque si cimentasse in quel genere. Evidentemente, Mahler non poneva limiti alla sua creatività e si impegnò, temerario, nell’impresa. Dopo anni di lavoro e fatiche, non senza fasi di stallo creativo, portò alla luce un imponente poema sinfonico di ben cinque movimenti per soli, coro e orchestra. Il titolo Resurrezione suggerisce un profondo connotato spirituale che l’autore necessitava di esprimere sul pentagramma, mosso da esperienze del suo personale vissuto.

Si sviluppa, nel corso delle varie sezioni, un’ascesa tanto sofferta quanto catartica che culmina nel grandioso movimento finale. L’intervento delle voci soliste, nei tempi centrali, addolcisce il flusso melodico; quello del coro misto, più tardi, restituisce invece vigore e corpo sonoro. Se l’idea di un corale conclusivo risente, con evidenza, del modello beethoveniano, è l’organico strumentale “allargato” ad accentuare ancor più la magnitudine in atto: una ricca sezione di ottoni (molti, persino, fuori scena), unita ad un ruolo primeggiante delle percussioni, produce all’ascolto un impatto dirompente.

credits: OSN

Lo stile di direzione di Luisi, diretto e carismatico, sposa appieno il carattere dell’opera. Una semplice bacchetta non sarebbe stata sufficiente, così si serve di tutto il suo corpo per guidare gli orchestrali verso l’esecuzione desiderata. Il podio stesso sembra non contenerlo: si affaccia ai primi violini quasi fino ai loro leggii, li accarezza nei momenti più leggeri e li incita quando l’intensità aumenta. Con il solo sguardo, gestisce anche fiati e percussioni nelle retrovie, mentre, per introdurre il coro, si unisce lui stesso al canto, nel pieno del coinvolgimento emotivo. In definitiva, il direttore riesce a trainare con sé l’intero organico al suo cospetto, gesticolando con grinta e passione dall’inizio alla fine.

La performance dell’orchestra, di conseguenza, non può che essere convincente. Grazie ad un’attenta cura delle dinamiche, l’OSN valorizza quei picchi di tensione, prima incalzanti e poi statici, su cui l’opera intera poggia le fondamenta strutturali ed espressive. Gli archi sanno essere all’occorrenza aggressivi o moderati; gli ottoni, con le loro cavalcate decise, irrobustiscono il suono; le percussioni (ben tre gli schieramenti disposti) intervengono per marcare gli accenti delle frasi. Quando, poi, il coro solenne si impone sulla scena, la sinfonia raggiunge il suo apice drammatico.

credits: OSN

Gli spalti, colmi per il consueto appuntamento d’apertura, restituiscono tutta l’energia ricevuta con una corposa ovazione in chiusura di serata. Luisi e l’OSN non deludono le orecchie fini che abitualmente frequentano l’Auditorium, alle quali, per l’occasione, si è aggiunta una ricca rappresentanza di giovani spettatori tra studenti appassionati, aspiranti musicisti e semplici curiosi. La tradizione, dunque, prosegue con successo e si preannuncia anche quest’anno, sul palco del “Toscanini”, un’avvincente stagione concertistica. 

A cura di Ivan Galli

Gianluca Petrella e Cosmic Renaissance al Magazzino sul Po: un jazz visionario e moderno

I Murazzi tornano protagonisti nella notte torinese. 20 ottobre, Magazzino sul Po: arriva Gianluca Petrella con il progetto Cosmic Renaissance. Il musicista con il suo gruppo presenta l’ultimo album Universal Language, uscito lo scorso 14 ottobre, nell’ambito del festival internazionale Jazz Is Dead, in una delle dodici date del suo tour autunnale, che lo vede attraversare il nostro Paese e numerose città europee. L’ultimo evento italiano sarà infatti il prossimo 28 ottobre 2022 in quel di Bologna.

Fra l’ingresso del pubblico – molto variegato, anche se la percezione è quella di avere a che fare con diversi appassionati del genere – e l’inizio del concerto passa un’abbondante ora e mezza, scandita dalle musiche del dj set di Andrea Passenger, il quale, in una proposta che interseca elettronica e sonorità percussive di ispirazione afroamericana, dipinge un clima propedeutico al jazz atipico ed eclettico che rappresenta il marchio di fabbrica del trombonista barese, collaboratore, fra gli altri, di Elisa e Jovanotti. Intorno alle 22:25 i Cosmic Renaissance, dopo essere stati annunciati, entrano sul palco in un florilegio di camicie dalle fantasie affascinanti e colori decisamente accesi.

Gianluca Petrella al sintetizzatore. Foto: Elisabetta Ghignone

Gli strumenti sono synth, trombone (suonati entrambi dallo stesso Petrella), tromba(Mirco Rubegni), basso elettrico (Riccardo Di Vinci), batteria – acustica, basi e pad elettronici (Federico Scettri) e percussioni (Simone Padovani): l’assenza di chitarre altro non è che un dettaglio, che viene spontaneo notare. Dopo un lungo dialogo iniziale tra le tastiere e la tromba Gianluca emerge con energia, coadiuvato dalla base ritmica, a conquistare i presenti tra armonie ariose e frizzanti intrecci affidati ai due ottoni.

Cosmic Renaissance (da sinistra: Federico Scettri, Gianluca Petrella, Riccardo Di Vinci, Simone Padovani). Foto: Elisabetta Ghignone

Da menzionare le costruzioni poliritmiche tra la vivace batteria di Scettri e le congas – combinate a piccoli piatti, campanacci, chimes e altri originali strumenti (di cui uno a base di tappi di plastica!) – di uno scatenato Padovani, che spesso ruba la scena ai colleghi, così come le guizzanti linee del basso di Di Vinci. Petrella incalza i suoi uomini, avvicinandosi faccia a faccia e lasciandosi assorbire dal flow del divertimento musicale.

Simone Padovani e la sua strumentazione. Foto: Elisabetta Ghignone

Circa a metà dell’esibizione prende posto sul palco il primo di due ospiti, i quali hanno tra l’altro partecipato alla registrazione dell’album: si tratta del sassofonista Pasquale Calò, che si inserisce nel brano “Nomads”. Il musicista si unisce al discorso con grande apporto – e trasporto – personale, in un’atmosfera sempre più satura delle sfumature sul genere portante. Il secondo ospite è l’apprezzatissima cantante Anna Bassy, che entra poco dopo: la sua voce, specie in “Wonder” e in “Connection”, calza a pennello, intima ma prorompente, con la declinazione più soft del corredo strumentale. Scelta azzeccatissima.

Anna Bassy. Foto: Elisabetta Ghignone

L’evento si avvia verso il crescendo finale, attraverso duetti melodici avvincenti e la sfida, quasi solistica, di ognuno dei musicisti a spingersi oltre il limite, a dare il meglio di sé. Il pubblico, in modo più o meno timido, si lascia andare muovendosi a tempo sul posto, sazio per aver assistito dal vivo a tanta buona musica.

Ancora Padovani, Pasquale Calò e Mirco Rubegni. Foto: Elisabetta Ghignone

Dopo l’agognato bis, di nuovo in compagnia di Anna, Petrella e i Cosmic Renaissance salutano calorosamente Torino, prima di bere qualcosa nel locale e godersi gli ultimi scampoli di serata. C’è da sperare che non passi molto tempo prima di rivederli da queste parti, a ispirare chiunque apprezzi la loro arte.

A cura di Carlo Cerrato

Al via con Schubert la nuova stagione di Lingotto Musica

Si riaccendono le luci sul palco dell’auditorium “G. Agnelli” di Torino per la serata inaugurale della stagione concertistica di Lingotto Musica 2022-23. Anche quest’anno, come quello passato,  l’onore spetta all’orchestra Le concert des Nations ed al suo direttore nonché fondatore Jordi Savall. La formazione, nata allo scopo di salvaguardare e riprodurre con fedeltà i repertori storici, riunisce specialisti internazionali nell’interpretazione della musica antica su strumenti originali. Dopo il successo del ciclo sinfonico beethoveniano proposto nel corso degli ultimi due anni, si passa ora a Franz Schubert, di cui vengono eseguite, per l’occasione, la Sinfonia n.8 “Incompiuta” e la Sinfonia n.9 “Grande”.

credits: Lingotto Musica

L’autore viennese prosegue il cammino tracciato da Beethoven, conducendo la musica dallo stile settecentesco verso nuovi canoni formali ed espressivi che culmineranno con la stagione romantica a venire. Mentre Beethoven termina la sua ultima “Corale”, Schubert è impegnato nella stesura dell’ottava sinfonia, che, tuttavia, non porterà mai a termine, consegnandola alla storia come “Incompiuta”. L’incompiutezza formale, data dalla presenza di soli due tempi, ne sottintende una più ideale: il turbamento emotivo dell’autore si trasfigura in un irrisolto dualismo tra un nucleo tematico tetro e drammatico ed uno più soave e disteso. Fin dal lamento strisciante d’apertura di violoncelli e contrabbassi, un velo di tensione avvolge il pubblico tenendolo in ostaggio, tra un picco e l’altro, fino alla tregua raggiunta nel secondo movimento. 

Il tempo di riprendere fiato con il canonico intervallo di metà concerto, e si riparte con la “Grande”. Scritta pochi mesi prima della morte, l’ultimo lavoro sinfonico di Schubert sembra chiudere il cerchio del suo processo evolutivo interiore. A coronamento della ricerca irrequieta avviata nella “Incompiuta”, il compositore sviluppa su quattro movimenti un pensiero riflessivo più maturo, dando libero sfogo ai suoi stati d’animo. Al termine di un’intensa ora di ascolto, il nutrito pubblico si lascia andare ad un lungo applauso liberatorio per la buona riuscita del concerto.

credits: Lingotto Musica

Le concert des nations fornisce un’esibizione convincente e di qualità, mantenendo fede alla propria reputazione sui repertori ottocenteschi. Grande merito va alla direzione oculata di Jordi Savall, che, con gesti chiari, misurati ed efficaci, trasmette sicurezza ai propri fedeli orchestrali, ottenendo una resa espressiva ottimale. Punto di forza: la gestione delle dinamiche. Frasi secche e decise si alternano ad altre più dolci e melodiche, secondo un’altalena di emozioni che consente di apprezzare al meglio l’ascolto. Gli stessi esecutori godono del momento, scambiandosi cenni d’intesa, occhiate complici e sorrisi compiaciuti. Si percepisce una stretta alchimia tra gli orchestrali che si diffonde poi per tutta la sala, riscuotendo consensi convinti dagli spalti.

A chiosa della serata, il direttore, pronunciato un discorso toccante e sincero sui dolori che affliggono la civiltà odierna, offre ancora il secondo tempo della celebre “Italiana” di Mendelssohn come omaggio per tutte le vittime nel Mondo, e riserva una dedica d’eccezione alla compianta Francesca Gentile Camerana, la fondatrice, tra le altre, della stessa associazione Lingotto Musica, tristemente scomparsa da pochi mesi.

credits: Lingotto Musica

A cura di Ivan Galli

MITO 2022: il pianoforte di Beethoven

Nuovo appuntamento a Torino per il festival musicale MiTo 2022. La sera del 23 settembre, presso l’Auditorium grattacielo Intesa San Paolo, Andrea Lucchesini al pianoforte omaggia Ludwig van Beethoven. Quattro le sonate del compositore tedesco eseguite per l’occasione: la n.1 in fa minore op. 2 n. 1, la n. 14 in do diesis minore op. 27 n. 2, la n. 30 in mi maggiore op. 109 e la n. 31 in la bemolle maggiore op. 110.

Il programma, fedele alla linea del tempo, ripercorre l’evoluzione dello stile compositivo beethoveniano. Un filo conduttore lega l’intero percorso: una cura meticolosa, spesso logorante ed esasperata, per la stesura della partitura in ogni minimo dettaglio. Le sue opere, specchio dei suoi turbamenti interiori, trasudano ingegno, fatica e pàthos.

credits: MITO Settembre Musica

La Sonata n. 1, dedicata al maestro Haydn, rispetta ancora molti canoni della tradizione classica viennese, anche se il Prestissimo finale sembra già preannunciare la vera cifra stilistica del compositore di Bonn, più violenta e sfrenata. Il tocco al pianoforte di Lucchesini è ben ponderato, talvolta leggero, talvolta più energico come richiesto dai passaggi eseguiti.

L’ipnotico Adagio introduttivo della Sonata n. 14 (meglio conosciuta come “Al chiaro di luna”) raccoglie l’intera platea in un silenzio quasi contemplativo. Dopo un breve Allegretto intermedio, l’incanto viene bruscamente spezzato dal travolgente Presto agitato finale, uno dei vertici del pianismo beethoveniano per tecnica e carica emotiva.

credits: MITO Settembre Musica

La restante coppia di sonate proposte (nell’ordine, la n. 30 e la n. 31), risalenti al tardo stile, sembrano suggerire un sofferto equilibrio interiore finalmente raggiunto dal compositore. Anche qui, Andrea Lucchesini offre saggio della sua perizia espressiva, confermandosi specialista in questo tipo di repertorio.

Si congeda, infine, con altri brevi frammenti tratti dal ricco corpus beethoveniano, strappando ulteriori applausi a un pubblico compiaciuto. In fin dei conti, risulta difficile, specie dopo una performance convincente dell’esecutore, rimanere indifferenti all’ascolto di un qualsiasi capolavoro escogitato dal genio di Ludwig van Beethoven.

credits: MITO Settembre Musica

A cura di Ivan Galli

MITO 2022: Il pianoforte di Rachmaninov

Il festival musicale MiTo 2022 trova sede anche presso il Teatro Cardinal Massaia di Torino, dove, nella serata del 20 settembre, si è tenuto un concerto per pianoforte solo dedicato a Sergej Rachmaninov ed interpretato da Alessandro Taverna. Il programma era composto dai nove Ètudes tableaux op.39 e la Sonata n.2 in si bemolle minore op.36

Un breve discorso d’apertura del presentatore ha ricordato il valore unico dell’autore russo, anello di congiunzione tra una tradizione romantica in declino ed una moderna, d’avanguardia, che si faceva spazio nella musica, nelle arti e nelle menti del Novecento. Il passaggio di consegne è eclatante: Rachmaninov nasce nel 1873 quando Manzoni, uno dei padri della cultura ottocentesca, emette il suo ultimo respiro, e muore nel 1943, mentre il secondo conflitto mondiale macchia il XIX secolo

credits: MITO Settembre Musica – Simone Tonnicodi

Tutto ciò trova conferma nella scelta del repertorio proposto in sala, a partire dall’Allegro agitato in do minore con cui si è aperta la serata . L’autore russo, meglio noto per Sonate, Sinfonie e Concerti, era poco votato alle forme brevi come gli Studi. Questi dell’op. 39, scritti negli ultimi anni di permanenza in patria, portano con sé evidenti strascichi romantici (si pensi a Chopin e Čajkovskij, di cui Rachmaninov era fervido seguace) pur affacciandosi già alle sonorità della stagione novecentesca.

La Sonata, proposta nella seconda parte dello spettacolo, infatti esprime chiaramente questa nuova direzione avanguardista. Il brano, eseguito nella versione del 1931 (rimaneggiata dallo stesso autore rispetto all’originale del 1913), si sviluppa su armonie complesse, ritmi altalenanti, suoni prolungati che vibrano nelle orecchie e nell’anima di chi ascolta.

credits: MITO Settembre Musica – Simone Tonnicodi

L’esecuzione di Alessandro Taverna rende giustizia alle note del compositore russo, grazie ad una sensibilità ben calibrata che segue il flusso sonoro, ora dirompente e deciso, ora delicato e maestoso. Incitato dagli apprezzamenti degli spettatori, il pianista ha infine concesso un bis degno di nota: la dolce cantata di Bach “Schafe können sicher weiden” ridotta per pianoforte, ed una “Play piano play” da saloon western, di Friedrich Gulda.

Il nutrito pubblico (teatro sold out per l’occasione) non risparmia gli omaggi alla performance pianistica ed apprezzamenti per l’evento nel suo complesso, a testimonianza di un interesse superstite per un repertorio, quello novecentesco, tanto denso e sofisticato quanto affascinante.

credits: MITO Settembre Musica – Simone Tonnicodi

A cura di Ivan Galli

Nella nicchia: VOLA live a Milano

Ogni fanbase ha dei gusti in comune. Nulla di più vero per i patiti del progressive metal: una nicchia – sì – ma che si presenta puntuale per i propri beniamini, trasformando i concerti in raduni, dove le facce sono ricorrenti. Non stupisce, infatti, che il pubblico approdato sabato 17 settembre al Legend Club di Milano per i VOLA sia lo stesso degli ultimi live dei Leprous, Haken (dove la band faceva da supporto) o dei TesseracT.  Quartetto danese, i VOLA si sono ritagliati in poco tempo un posto d’onore della comunità prog, forti di passaggi radiofonici anche in Italia (alcuni brani sono in rotazione su Radiofreccia e affini). Il tour attuale è incentrato su Witness, disco uscito lo scorso anno, per molti il loro lavoro migliore.

I VOLA si esibiscono sul palco del Legend Club di Milano (foto: Mattia Caporrella)

Oltre ai VOLA è prevista l’esibizione di altri due gruppi: primi in scaletta i Four Stroke Baron, band americana a cavallo tra Devin Townsend e Tears for Fears. Nonostante le canzoni ripetitive, il gruppo riesce a intrattenere grazie al bassista, che tra piroette e headbanging cattura l’attenzione del pubblico. Seguono gli australiani Voyager: il loro progressive metal di matrice synth-pop fa scatenare il parterre del Legend. La band racconta della loro mancata partecipazione all’Eurovision Song Contest di quest’anno con “Dreamer”, un brano dance pop, ma con chitarre distorte a sette corde. Sono loro la sorpresa della serata: il set è festaiolo e spiritoso, fra cori dedicati a Piero Pelù (data la somiglianza del vocalist Daniel Estrin al cantante toscano) e a Roberto Giacobbo, presentatore, appunto, di Voyager su Rai 2.

I Voyager all’opera. No, non è Piero Pelù. (foto: Dario Vignudini)

Il palco si fa blu: i VOLA entrano sulle note di “24 Light Years”. Si nota subito il batterista Adam Janzi, che si esibisce con grande intensità. La scaletta è una montagna russa: la partenza in crescendo culmina con “Stray The Skies”, un brano piuttosto aggressivo, dove il pubblico, fra moshpit e pogo, si fa sentire. Tuttavia questi durano poco, forse per la stessa natura della band: i VOLA sono specializzati nell’alternare riff di chitarra baritona sincopati che ricordano i Meshuggah, a ritornelli in pieno stile new-wave: Asger Mygind, come vocalist, viene spesso paragonato a Dave Gahan dei Depeche Mode. La band prosegue nel segno di questa dialettica, riuscendo a trasporre dal vivo il proprio sound in maniera ineccepibile. Particolare anche il light show, caratterizzato da neon e LED sincronizzati con la ritmica dei riff.

Il batterista Adam Janzi e il particolare light show al neon dei VOLA. (foto: Dennis Radaelli)

Si chiude con “Inside Your Fur”: ormai il Legend sta esplodendo di calore. Poco dopo si creano code per il merch, dove le band accolgono i fan tra saluti e foto. La serata finisce così: tanta stanchezza per lo show intenso, ma tanta ammirazione per i musicisti. I fan escono dal locale consci di poter ritrovare lo stesso ambiente al prossimo concerto “di nicchia”, sempre contenti di essere pochi, ma buoni.

Immagine in evidenza: Mattia Caporrella

A cura di Mattia Caporrella


Modestia a parte: Biffy Clyro live a Milano

Lo scorso giugno il trio scozzese dei Biffy Clyro aveva chiuso l’ultima giornata del Download Festival, uno dei festival di maggior rilevanza nel panorama della musica live britannica. La band, capitanata da Simon Neil alla chitarra e alla voce, assieme ai gemelli Ben e James Johnston batteria e basso – riscuote da anni di un successo clamoroso in madrepatria; al pari di gruppi come Foo Fighters o Muse, i Biffy Clyro hanno ampiamente dimostrato di saper riempire gli stadi. Lo stesso non si può dire dei loro concerti all’estero, dove la production è molto più modesta.

I Biffy Clyro sul palco di Carroponte (foto: Mattia Caporrella)

É questo il tipo di spettacolo che il gruppo sta portando in giro per l’Europa da qualche settimana, a sostegno dei due album “fratelli” A Celebration of Endings e The Myth of the Happily Ever After. Mercoledì 14 settembre tocca all’Italia: siamo vicino a Milano, al Carroponte di Sesto San Giovanni. I fan si sono radunati, nonostante il tempo molto incerto, fin dalla notte prima, creando un’atmosfera più simile ad un campeggio (complice anche l’area adibita) che alla fila di un concerto. Alle 20:15 si spengono le luci: gli olandesi De Staat irrompono sul palco, scatenandosi all’insegna di un dance-rock eccentrico, con riferimenti all’immaginario dei Talking Heads nella loro presenza scenica.

Gli eccentrici De Staat durante la sfuriata finale del loro set con “Witch Doctor” (foto: Mattia Caporrella)

Esattamente un’ora dopo, i Biffy Clyro accompagnano dolcemente il pubblico verso il loro show con “Dum Dum”, per poi strattonarlo con prepotenza con “A Hunger in Your Haunt”, grazie alla sua energia prorompente. La scaletta è satura di stili diversi: dal punk rock al cardiopalma (“That Golden Rule”), all’AOR da cori da stadio (“Biblical”), esperimenti progressive (“Slurpy Slurpy Sleep Sleep”), fino al pop puramente commerciale (“Re-arrange”). Il concerto culmina con, in qualche modo, la crasi di tutti questi elementi: oltre al classico “Many of Horror”, nel bis c’è “Cop Syrup”, un brano caratterizzato dalle sue impennate, discese, crescendo orchestrali, parti confinanti con lo shoegaze, urla punk e arpeggi di chitarra non troppo lontani dai Genesis. Il pubblico è estasiato: in sole due ore i Biffy Clyro hanno dimostrato di saper coinvolgere con qualsiasi genere proposto, suonando un greatest hits (con l’adeguato spazio agli ultimi lavori) con un’energia spiazzante.

Il trio in uno dei tanti momenti “a raccolta” durante il concerto. Si notano anche i turnisti, tra cui due violiniste. (foto: Lorenzo Roy)

Di poche parole, la band lascia piuttosto parlare il repertorio, limitandosi a ringraziamenti sparsi in un italiano molto improvvisato (colpisce il “grazie mille Milano tutti” di Neil). Il light show particolarmente ispirato riesce a massimizzare la resa del modesto impianto. Niente effetti pirotecnici, mega schermi, coriandoli o scenografie: tre ragazzi (sette contando i turnisti), la loro musica, e un pubblico di appassionati. Quello dei Biffy Clyro è uno spettacolo intimo, vivace, creativo, imprevedibile, e non c’è schermo LED di ultima generazione che regga il confronto.

Immagine in evidenza: Lorenzo Roy

A cura di Mattia Caporrella

MITO per la Città 2022: la musica come cura delle sofferenze

Il 5 settembre è stata presentata al Distretto Sociale Barolo la quattordicesima edizione di MITO per la Città, rassegna legata al festival principale che è stato inaugurato la sera stessa con lo spettacolo Luci Immaginarie. Alla conferenza hanno preso parte il direttore artistico del festival Nicola Campogrande, la consigliera del Distretto Sociale Barolo Anna Maria Poggi e l’Assessora alla Cultura Rosanna Purchia, che ha sottolineato quanto la musica sia importante per alleviare le nostre sofferenze; questo concetto è stato ripreso anche nei brevi interventi effettuati dai presidenti degli enti partner del festival (Intesa Sanpaolo, Iren, Fondazione CRT e la charity partnership con l’Istituto di Candiolo per la ricerca al cancro).

Dopo una breve visita all’Ufficio della Pastorale Migranti e all’Istituto Figlie di Gesù Buon Pastore la conferenza ha avuto inizio. Inizialmente si è discusso degli obbiettivi principali di MITO per la Città: la normalizzazione dell’uso della musica nelle discipline mediche, promossa anche da un lavoro di collaborazione con i medici di base della regione, la presentazione di esibizioni musicali come momento di collettività e comunicazione universale e la valorizzazione di giovani talenti.

Foto: Gianluca Platania

A suonare durante gli 85 appuntamenti musicali saranno gli allievi del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, gli allievi di Obiettivo Orchestra e due formazioni giovanili selezionate con il bando dell’Associazione Sistema Musica: i concerti dureranno circa mezz’ora e saranno realizzati da piccole formazioni.

Numerosi e significativi i luoghi in cui sentiremo suonare questi giovani talenti: dalle scuole primarie ai nidi e alle materne, dai centri di accoglienza a quelli di assistenza per chi soffre di patologie invalidanti, dagli ospedali alle residenze per anziani fino ad arrivare ai centri legati al sostegno per la salute mentale. Ci saranno appuntamenti speciali anche al Mercato Centrale, alle Gallerie d’Italia, al Castello Cavour di Santena, nelle sedi dei Musei Scolastici, alla casa Circondariale Lorusso e Cotugno e all’Istituto di Candiolo IRCCS.

La conferenza è terminata con un’esibizione del duo di violini Başak e Irene, che prenderà parte a diversi appuntamenti della rassegna dal 19 al 23 settembre: le ragazze hanno eseguito il primo movimento dell’op. 57 di de Bériot, un movimento tratto dall’op. 5 di Boccherini e il primo movimento di K. 223 di Mozart, deliziando il pubblico con una performance che ha reso ancora più magica la cornice del Giardino della Magnolia.

Foto: Gianluca Platania

Per maggiori informazioni sulla rassegna, che durerà fino al 24 settembre, sui luoghi in cui si terranno gli appuntamenti e gli artisti che suoneranno è possibile consultare il sito di MITO per la Città: http://www.mitoperlacitta.it/.

Immagine in evidenza: Gianluca Platania

A cura di Giulia Barge