Jazz is dead! e il mondo che brucia sotto la pioggia

Sotto al sole di un sabato torinese che si fa quasi miraggio, Jazz is Dead! apre la sua terza giornata tra loop infiniti, pioggia improvvisa e voci che reclamano spazio, identità, memoria. La domenica al Bunker è un atlante sonoro e umano. Ogni live è un territorio attraversato, ogni corpo sul palco diventa una frontiera abbattuta.

La giornata si apre con Ghosted, trio formato da Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che, nel caldo ancora opprimente del tardo pomeriggio, trasporta il pubblico in un viaggio ipnotico e minimalista. Un viaggio fatto di poche note di basso identiche e reiterate per più di quindici minuti, su cui la batteria danza tra controllo e abbandono mentre la chitarra si trasfigura tra effetti riverberati alla The Shadows – in perfetto pendant con il clima da vecchio Far West – e arpeggi robotici e metallici.

I brani – pochi, lunghissimi, quasi senza fine – costruiscono un loop sonoro che, complice le alte temperature, induce una vera e propria alterazione percettiva, data dal lavoro per accumulo. Un inizio silenziosamente travolgente prepara corpo e mente a lasciarsi andare per il resto della serata, che fa a questo punto ben sperare. 

Foto di Fabiana Amato

Subito dopo salgono Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly che portano un’idea sonora tanto fluida quanto le loro origini: Bolivia e Porto Rico, avant jazz, funk e noise. L’inizio è quieto: suoni semplici e chiari e atmosfere dilatate, poi all’improvviso l’impatto frontale con bassi distorti e tiratissimi, che fanno vibrare l’aria e costringono a spostare l’attenzione al palco. 

Il live si muove tra suggestioni latine e scosse elettriche, ma col passare dei minuti l’energia sprigionata dagli amplificatori inizia ad affievolirsi, non riuscendo a proporre un live colorato fino alla fine. Forse per colpa anche della pioggia, che arriva di colpo mettendo in fuga in poco tempo il folto pubblico pronto a fiondarsi sui poveri baristi sballottati sotto la tettoia. 

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’acquazzone, si materializza la figura di Alabaster De Plume, sassofonista inglese la cui musica è un viaggio tra atmosfere tremolanti e irregolari, che si muovono agilmente dal jazz più morbido e caldo ai territori più sperimentali e ruvidi. La musica di Alabaster non è solo un’esperienza sonora, ma una vera e propria narrazione emotiva: il sax dialoga con il basso e la batteria in un crescendo di tensione e rilascio, giocando con dinamiche contrastanti che tengono il pubblico sospeso, come in un grande rito collettivo. Le sue parole, scandite con calma e carica emotiva – mentre imbraccia una bandiera palestinese – si trasformano in mantra di autenticità, collettività e resistenza denunciando con forza le ingiustizie di Gaza in un lungo discorso di protesta. È un concerto che va ben oltre la musica, un’esperienza che lascia nel pubblico un segno profondo e vibrante.

Foto di Fabiana Amato

Dalla Palestina passiamo al Kurdistan, col duo HJirok, composto dalla cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e Andi Toma dei Mouse on Mars. Un progetto musicale che unisce suoni raccolti durante viaggi nel Kurdistan iracheno con registrazioni elaborate di ritmi di tamburi sufi e melodie di setar. Sul palco la cantante danza e ondeggia in un paesaggio sonoro ammaliante che non lascia indifferenti. La sua voce estesa e versatile, si amalgama all’elettronica e alla musica tradizionale, cercando di sfumare le differenze ed emancipandosi da ogni stile già consolidato. La tradizione curda si basa sulla trasmissione orale come forma di resistenza alle imposizioni dominanti, da questo punto di vista possiamo configurare il HJirok come un ulteriore gesto politico di sfida e proposta di un futuro utopico in cui coesistono pacificamente paesaggi sonori, culture e modi di vita diversi.

Foto di Fabiana Amato

L’ultimo concerto all’aperto di quest’edizione è l’esibizione dell’ensemble svizzero Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: dodici musicisti tra strumenti a fiato, a corde e percussioni. Un concerto colorato, luminoso, dall’ispirazione africana, sia per i ritmi che per certi canti corali che travolge con energia il pubblico in un centrifuga di rock, punk e folk. Abbiamo apprezzato l’equilibrio tra i vari musicisti fusi in un unico organico nonostante i tanti timbri e voci differenti. Una comune musicale fatta anche di ascoltatori che con i loro applausi hanno più volte richiamato la band sul palco per ulteriori brani. 

Foto di Fabiana Amato

Una giornata di celebrazioni collettive e di unione politica veicolate dalla musica in vari modi. Citando uno dei discorsi di De Plume possiamo dire che vivere in questo mondo è difficile, ma solo restando uniti ed umani possiamo farcela con coraggio.

Alessandro Camiolo e Marco Usmigli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *