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Jazz is dead!: dance yourself clean

Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals. 

Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.

L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.

Foto di Fabiana Amato

Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente. 

Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.

Foto di Fabiana Amato

A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.

Foto di Fabiana Amato

Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.

Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.

Alessandro Camiolo e Sofia De March

Jazz is dead! e il mondo che brucia sotto la pioggia

Sotto al sole di un sabato torinese che si fa quasi miraggio, Jazz is Dead! apre la sua terza giornata tra loop infiniti, pioggia improvvisa e voci che reclamano spazio, identità, memoria. La domenica al Bunker è un atlante sonoro e umano. Ogni live è un territorio attraversato, ogni corpo sul palco diventa una frontiera abbattuta.

La giornata si apre con Ghosted, trio formato da Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che, nel caldo ancora opprimente del tardo pomeriggio, trasporta il pubblico in un viaggio ipnotico e minimalista. Un viaggio fatto di poche note di basso identiche e reiterate per più di quindici minuti, su cui la batteria danza tra controllo e abbandono mentre la chitarra si trasfigura tra effetti riverberati alla The Shadows – in perfetto pendant con il clima da vecchio Far West – e arpeggi robotici e metallici.

I brani – pochi, lunghissimi, quasi senza fine – costruiscono un loop sonoro che, complice le alte temperature, induce una vera e propria alterazione percettiva, data dal lavoro per accumulo. Un inizio silenziosamente travolgente prepara corpo e mente a lasciarsi andare per il resto della serata, che fa a questo punto ben sperare. 

Foto di Fabiana Amato

Subito dopo salgono Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly che portano un’idea sonora tanto fluida quanto le loro origini: Bolivia e Porto Rico, avant jazz, funk e noise. L’inizio è quieto: suoni semplici e chiari e atmosfere dilatate, poi all’improvviso l’impatto frontale con bassi distorti e tiratissimi, che fanno vibrare l’aria e costringono a spostare l’attenzione al palco. 

Il live si muove tra suggestioni latine e scosse elettriche, ma col passare dei minuti l’energia sprigionata dagli amplificatori inizia ad affievolirsi, non riuscendo a proporre un live colorato fino alla fine. Forse per colpa anche della pioggia, che arriva di colpo mettendo in fuga in poco tempo il folto pubblico pronto a fiondarsi sui poveri baristi sballottati sotto la tettoia. 

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’acquazzone, si materializza la figura di Alabaster De Plume, sassofonista inglese la cui musica è un viaggio tra atmosfere tremolanti e irregolari, che si muovono agilmente dal jazz più morbido e caldo ai territori più sperimentali e ruvidi. La musica di Alabaster non è solo un’esperienza sonora, ma una vera e propria narrazione emotiva: il sax dialoga con il basso e la batteria in un crescendo di tensione e rilascio, giocando con dinamiche contrastanti che tengono il pubblico sospeso, come in un grande rito collettivo. Le sue parole, scandite con calma e carica emotiva – mentre imbraccia una bandiera palestinese – si trasformano in mantra di autenticità, collettività e resistenza denunciando con forza le ingiustizie di Gaza in un lungo discorso di protesta. È un concerto che va ben oltre la musica, un’esperienza che lascia nel pubblico un segno profondo e vibrante.

Foto di Fabiana Amato

Dalla Palestina passiamo al Kurdistan, col duo HJirok, composto dalla cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e Andi Toma dei Mouse on Mars. Un progetto musicale che unisce suoni raccolti durante viaggi nel Kurdistan iracheno con registrazioni elaborate di ritmi di tamburi sufi e melodie di setar. Sul palco la cantante danza e ondeggia in un paesaggio sonoro ammaliante che non lascia indifferenti. La sua voce estesa e versatile, si amalgama all’elettronica e alla musica tradizionale, cercando di sfumare le differenze ed emancipandosi da ogni stile già consolidato. La tradizione curda si basa sulla trasmissione orale come forma di resistenza alle imposizioni dominanti, da questo punto di vista possiamo configurare il HJirok come un ulteriore gesto politico di sfida e proposta di un futuro utopico in cui coesistono pacificamente paesaggi sonori, culture e modi di vita diversi.

Foto di Fabiana Amato

L’ultimo concerto all’aperto di quest’edizione è l’esibizione dell’ensemble svizzero Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: dodici musicisti tra strumenti a fiato, a corde e percussioni. Un concerto colorato, luminoso, dall’ispirazione africana, sia per i ritmi che per certi canti corali che travolge con energia il pubblico in un centrifuga di rock, punk e folk. Abbiamo apprezzato l’equilibrio tra i vari musicisti fusi in un unico organico nonostante i tanti timbri e voci differenti. Una comune musicale fatta anche di ascoltatori che con i loro applausi hanno più volte richiamato la band sul palco per ulteriori brani. 

Foto di Fabiana Amato

Una giornata di celebrazioni collettive e di unione politica veicolate dalla musica in vari modi. Citando uno dei discorsi di De Plume possiamo dire che vivere in questo mondo è difficile, ma solo restando uniti ed umani possiamo farcela con coraggio.

Alessandro Camiolo e Marco Usmigli

Jazz is dead!: prima giornata tra ritualità ed elettronica sintetica

Tra le mura grezze del Bunker, dove il cemento risuona di bassi profondi e laser accecanti, il jazz – se davvero è morto – ha risposto con un ghigno e sonorità distorte. La prima giornata di Jazz is Dead! è stata un rituale urbano che ha fatto vibrare Torino tra improvvisazioni, scariche elettroniche e sorprendenti ibridazioni.

Alle 18:30, con il sole ancora alto e una calura che farebbe sciogliere anche le intenzioni migliori, Skylla apre il festival sul palco esterno. Il pubblico è sparso; molti cercano rifugio all’ombra, ma basta poco perché l’attenzione si concentri su di loro: una batteria incalzante, il basso magnetico di Ruth Goller – mente del progetto – e due voci che si rincorrono tra acuti, glissati e sillabe inventate. Nessun testo: solo un canto che sembra provenire dai bassifondi. Il mix è originale e potente: jazz, lirica e post-rock che si fondono in un flusso sonoro continuo, senza pause, capace di ipnotizzare. Niente maschere, solo suono puro che si impone sull’afa e sul disorientamento iniziale. In pochi minuti, il pubblico è rapito. Si entra nel festival così, seguendo l’istinto. 

Dopo una breve pausa il programma prosegue. The Necks, trio jazz australiano, sale sul palco e dà inizio alla performance.

Il gruppo è composto da pianoforte, contrabbasso e batteria, strumenti che, grazie a microfoni posizionati in modo inusuale (ad esempio molto vicini alle corde del pianoforte), creano effetti sonori particolari e mutevoli. Gli strumenti non vengono suonati secondo la prassi tradizionale: il contrabbassista, ad esempio, talvolta utilizza l’archetto in modo pesante, quasi sgraziato, mentre il batterista preferisce bacchette con punte più grandi e morbide, che, usate sui piatti, producono un suono lieve e avvolgente.

La performance si sviluppa come un lungo flusso musicale dall’evoluzione graduale: si apre con un inizio etereo, caratterizzato da arpeggi del pianoforte che richiamano melodie orientali, che si evolve in una progressiva intensificazione, sempre più “caotica” ma ordinata allo stesso tempo.

Foto di Fabiana Amato

Dopo un’ora puramente strumentale, le voci tornano protagoniste sul palco con Tarta Relena, duo catalano composto dalle voci di Marta Torrella e Helena Ros, in grado di  creare un’atmosfera suggestiva e ancestrale. L’esecuzione di brani della tradizione mediterranea e di composizioni originali, arricchita da una base elettronica, contribuisce a costruire un ambiente suggestivo. Il repertorio spazia da un poema cantato del Seicento in latino rielaborato in forma polivocale – con due voci separate da un’ottava–fino a “Tamarindo”, una loro composizione nata da un errore in sala di registrazione con una traccia riprodotta al contrario, come spiegato poi sul palco.

Il rapporto tra sperimentazione e tradizione ha dato vita a un’esibizione capace di emozionare profondamente gli ascoltatori.

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’ipnotico inizio, l’atmosfera del festival si carica di elettricità con l’arrivo di Bendik Giske. Il sassofonista norvegese trasforma il palco in un rituale fisico e sensoriale, dove ogni respiro, ogni vibrazione dello strumento diventa parte del linguaggio corporeo. Con una tecnica impeccabile, Giske utilizza fiato continuo e microfonazioni creative per generare un suono percussivo e soffiato, costruito su arpeggi ripetuti, forte ritmicità e continui giochi di dinamiche. Il risultato è un’esperienza immersiva, dove la potenza del corpo e del gesto performativo si fondono in un atto di resistenza e bellezza. Tuttavia, nonostante le capacità tecniche e la presenza scenica, la performance tende col tempo a ripiegarsi su se stessa, sfumando in una continua dimostrazione stilistica che non amplia la modalità esecutiva già consolidata.

Foto di Fabiana Amato

Le esibizioni all’aperto si concludono con Loraine James, produttrice londinese di musica elettronica che in un’ora di live set ci ha colpiti con tracce intricate, piene di glitch, voci in loop che creano linee di suono costanti e momenti di rottura, in cui i bassi sferzano il ritmo. Flash di luci rosse fanno da sfondo al caldo serale, proviamo a stento a seguire il ritmo che è un continuo sali e scendi di BPM riempito di suoni sempre nuovi, che emergono di continuo come in un magma ribollente di emocore, ambient e IDM. 

La notte nel club inizia con il duo techno Dopplereffekt, direttamente da Detroit, sono marito e moglie: Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel. Entrambi indossano una maschera nera che annulla i loro volti e suonano due sintetizzatori Korg Triton, attraverso i quali creano suoni fantascientifici, simili a spade laser che vibrano nell’aria. La loro è techno minimale, ipnotica, che tende a una forma cerebrale quasi da canone infinito. I campioni e le sequenze utilizzati plasmano un percorso di accrescimento, si parte da materiale minimo, per tessere elaborazioni con sempre più ingredienti in un composto denso e multiforme. I visual che vengono proiettati lo confermano, vediamo prima un enorme volto grigio simile a quello umano, pieno di connessioni elettriche, per poi ampliare la visione al resto del corpo, ai suoi movimenti e infine decine di suoi simili che formano una grande tribù umanoide. Nel finale, tutto si spegne all’improvviso trovando equilibrio e quiete nell’immobilità dei corpi e del suono di cui possiamo solo sentire un’eco lontana nella nostra mente. 

Foto di Fabiana Amato

La serata prosegue con le esibizioni di Kreggo e Dualismo, che chiudono una giornata intensa, sperimentale e all’avanguardia, capace di esplorare i lati più opposti e affascinanti della musica. Un ottimo inizio per un festival che si preannuncia ricco di esperienze sonore uniche e coinvolgenti.

Marco Usmigli, Marta Miron e Alessandro Camiolo

Don Karate al Bunker: tra maschere e groove camaleontici

Siete stufi di dover sistemare sempre le vostre playlist di Spotify? Bene, probabilmente è stato così anche per Don Karate, e stanchi di questo, hanno deciso di assemblare diversi generi e panorami sonori e metterli tutti insieme tutti in un unico eclettico live. 

Il progetto Don Karate, nato come trio, prende vita dalla mente del batterista Stefano Tamborrino. Viene proposto al Torino Jazz Festival in versione rivisitata come sestetto composto da Simone Graziano (tastiere), Francesco Ponticelli (basso e synth), Nazareno Caputo (vibrafono), Annarita Cicoria (flauto) e Rebecca Sammartano (flauto e voce). 

La serata si è svolta all’interno del Bunker, alle 23 di giovedì 24 aprile. Una mossa strategica per avvicinare i giovani dell’ambiente al Festival. Questi però, evidentemente, vista la coda all’entrata per l’evento techno nell’area adiacente, sono stati per lo più attratti da quest’ultimo. 

Il live comincia con la salita sul palco scaglionata dei vari strumentisti, vestiti con tuniche colorate e copricapo a mo’ di maschera, marchio di fabbrica del gruppo. L’ultimo a calpestare il palco è Stefano Tamborrino, che si fa spazio tra la folla del Bunker per raggiungere la sua batteria. 

I primi brani scelti per la serata preparano la tavola per i piatti forti, mantenendo sonorità leggere e semplici che la batteria movimenta con accenti sul levare e un forte groove che a tratti diventa sincopato. 

Foto di Ottavia Salvadori

Le atmosfere, da qui, iniziano a intrecciarsi in un continuo groviglio a tratti confuso, ma che funziona proprio perché stupisce, porta a muoversi e a divertirsi. 

Si passa dai suoni percussivi di “You Don’t Know Me” ai colori viola vaporwave di “Plinsky 1988”, che pare un’ode al mondo dei videogame arcade di quegli anni. 

La prassi esecutiva rimane praticamente simile per tutto il concerto. I flauti traversi, il vibrafono e le tastiere creano motivi che entrano nella testa e non se ne vanno più, mentre il basso e, soprattutto, la batteria decidono quanto e come far muovere i fianchi degli ascoltatori. 

Fianchi che vengono mossi e scossi specialmente durante l’esecuzione di “Bubinga”, brano dai suoni mediterranei e dalle forti influenze afro-funk, e dalla stilisticamente opposta “Monte Wolf”, proposta in una versione live che si discosta leggermente da quella registrata: cassa dritta e atmosfera da club tech house. 

Per non farci mancare niente, all’interno dell’eclettico caleidoscopio che è la matrice salda del pensiero musicale di Don Karate, non poteva mancare il rimando politico e satirico di “Ice Age” (2020).  

Sulla base ritmica hip-hop scuola East Coast viene inserito il celebre motivo di “Kalinka”, famosa canzone popolare russa, unendo in qualche modo l’ex URSS e gli Stati Uniti in una specie di messaggio premonitore del contemporaneo. 

L’effetto evocativo viene reso esplicito, inoltre, dall’uso dei visuals di Daniele Biondi, che proietta alle spalle del collettivo le facce distorte di Trump e Putin. 

Il gruppo, e specialmente Tamborrino, si diverte, gioca e fa ballare, portando in scena un live che sembra – appunto – una playlist esplosa sul palco, ma non una qualsiasi: una che dimostra che non serve avere i paraocchi su un solo genere musicale. 

Foto di Ottavia Salvadori

Jazz, techno, hip-hop, afro-funk, elettronica: nel mondo di Don Karate tutto può convivere, contaminarsi e sorprendere. 

Un concerto che, più che chiedere di scegliere, invita ad ascoltare tutto assieme e a goderselo. 

Perché, a volte, la miglior playlist è proprio quella che non hai bisogno di sistemare. 

Marco Usmigli

Jazz is Dead, serata finale: il Bunker nel segno della musica

Terzo appuntamento del Jazz is Dead, pomeriggio del 28 maggio: il clima decisamente instabile, fatto di rannuvolamenti e piogge passeggere, non scoraggia i presenti, accorsi all’evento gratuito per godersi l’ennesima giornata di musica. Teatro della kermesse, giunta ormai alla sesta edizione, è il Bunker; la line-up è molto variegata, in accordo con le giornate precedenti e lo spirito del festival (la tematica di quest’anno ragiona sull’identità: “Chi sei?”). Tantissimi gli artisti coinvolti, così come le proposte, i generi, addirittura gli strumenti che figurano sui diversi palchi. Insomma, ce n’è per tutti i gusti, come sottolinea nei suoi interventi il direttore artistico della rassegna, Alessandro Gambo.

Ad aprire le danze all’interno del tendone, primo di due scenari, è l’orchestra Pietra Tonale. Le temperature, elevate in quello che è uno spazio ristretto e stracolmo di gente, non impediscono di godersi lo spettacolo: l’ensemble porta in scena una musica che combina i suoni della tradizione orchestrale con la sperimentazione moderna e contemporanea. Grande enfasi sulla componente ritmica (le batterie sono ben due) e sulla genesi sonora, che culmina in momenti di notevole apertura melodica. L’esibizione è apprezzabile sia per l’originalità dei contenuti che per l’atmosfera creata, a un tempo raccolta e suggestiva, con la proiezione sullo sfondo di immagini vagamente psichedeliche.

Pietra Tonale. Foto: Amalia Fucarino

È dunque il turno del trio del trombettista Gabriele Mitelli, accompagnato dal contrabbassista John Edwards e dal batterista Mark Sanders. Sempre all’interno del tendone, il jazz eclettico dei musicisti incontra sonorità sintetiche ed elettroniche; da questa combinazione traspare la volontà precisa di esplorare, in senso letterale, ogni possibilità esecutiva offerta dalla strumentazione. E soprattutto, di divertirsi nel farlo. Piatti suonati con l’archetto, corde pizzicate sopra e sotto il ponticello, trombe stridenti e trasfigurate, voci solo accennate, quasi suggerite; tutto indirizza a una ricerca condotta sul suono, e lo sviluppo dei brani pare descrivere un vero e proprio flusso di coscienza, intrigante e imprevedibile.

Da sinistra: Gabriele Mitelli, John Edwards, Mark Sanders. Foto: Roberto Remondino

Ci spostiamo poi all’interno del club, ovvero lo spazio interno del Bunker, dove si esibisce Brandon Seabrook, chitarrista e banjoista americano, accompagnato da due musicisti d’eccezione quali il batterista Gerard Cleaver e il pianista e compositore Cooper-Moore. Quest’ultimo è impegnato con uno strumento molto particolare, ovvero il diddley bow, monocordo originario dell’Africa. Gli intrecci melodico-armonici, spesso rapidi e frenetici, sono i protagonisti assoluti dello show: ne risultano suoni singolari, talvolta aspri, insoliti, apprezzabili anche per il carattere sperimentale e improvvisativo. A farla da padrone sono la grana sonora – materica – delle corde e un dialogo musicale a dir poco acceso, soddisfacente da vedere e ascoltare.

Da sinistra: Cooper-Moore, Gerard Cleaver e Brandon Seabrook. Foto: Amalia Fucarino

I quarti artisti della serata sono i Moin, progetto musicale che vede la collaborazione tra la band londinese Raime e la batterista pugliese Valentina Magaletti. Con i Moin si entra in un terreno del tutto nuovo, lasciandosi alle spalle quasi ogni cenno del jazz finora suonato, così come di quello citato nel nome del festival: il marchio di fabbrica del complesso è un sound elettronico cupo, dove il sintetizzatore si unisce a chitarre distorte e a potenti riff di basso e batteria, con sembianze di matrice post-rock e post-punk. Interessante – anche un po’ inquietante – l’ingresso sul palco del gruppo, con alcune basi di voce registrata in loop; il prosieguo dell’esibizione sviluppa la scaletta sul suddetto mood, muovendo spesso verso un’atmosfera satura di suono e marcando uno stile definito, quasi ritagliato su misura.

Moin. Foto: Roberto Remondino

Ultimo gruppo in programma sono i giapponesi Boris, band attiva da più di trent’anni, che infiamma l’evento in modo definitivo. Protagonisti di una fusione musicale che accosta il metal a generi quali ambient, noise rock e hardcore punk, i musicisti esprimono da subito la loro natura di animali da palcoscenico. Il bassista e chitarrista Takeshi Ōtani sfoggia entrambi gli strumenti in uno, a doppio manico, il che già di per sé ruba la scena; dietro la batteria si staglia un grandioso gong, percosso spesso e volentieri dal batterista nella successione di ritmi serratissimi; il cantante, Atsuo Mizuno, si scatena senza soluzione di continuità, coinvolgendo il pubblico in modo costante e facendosi addirittura portare in trionfo dalla folla a più riprese. A completare la formazione è la chitarrista Wata, la quale si occupa anche delle tastiere, in particolare in “[not] Last Song”. Neanche a dirlo, i presenti si abbandonano a un folle pogo lungo tutta la durata del concerto, facendo sentire il loro entusiasmo specie in pezzi come “Question 1” oppure “Loveless”. Il climax giusto per chiudere la serata e la rassegna.

Boris. Foto: Amalia Fucarino

Il Jazz is Dead si conclude col botto, confermandosi un’importante realtà della scena torinese, aperta più che mai all’incontro tra generi differenti, alla ricerca e alla sperimentazione artistica, dal respiro e dalla portata a tutti gli effetti internazionale. Un appuntamento da non perdere, insomma, che fa dell’inclusione e dell’accessibilità i suoi punti di forza, suggellando il tutto con un’interessante selezione musicale.

A cura di Carlo Cerrato

Torino esoterica: Messa + Ponte del Diavolo

Chi abita a Torino sa del suo particolare legame con la magia bianca e nera, essendo essa il punto condiviso tra i due triangoli formati rispettivamente con Praga e Lione per la prima, mentre per la seconda troviamo Londra e San Francisco. Questa manichea opposizione che idealmente divide bene e male troverebbe nella città una sorta di equilibrio in cui queste due forze coesistono pacificamente. Ora, volendo compiere un salto logico abbastanza articolato e astratto, persino forzato se vogliamo, ritroviamo questa contrapposizione anche in campo artistico: l’esempio recente più evidente della scorsa settimana. Infatti, mentre il capoluogo piemontese era sotto i riflettori internazionali dalle luci sgargianti, colorate e gaie dell’Eurovision, altrove – e nello specifico al Bunker – è andata in scena l’oscura e pagana esibizione dei veneti Messa e dei torinesi Ponte del Diavolo.

Il motivo per cui i Messa stanno ottenendo così tanti consensi da pubblico e critica nostrana ed estera è presto detto. Questi quattro ragazzi hanno tutto: atmosfera, potenza, carica emotiva, gusto nella composizione e soprattutto hanno le canzoni, elemento imprescindibile che però molto spesso viene messo in secondo piano per privilegiare – a torto – altri fattori secondari come l’immagine o il gossip. Ecco, con i Messa tutto ciò non avviene e anzi, la musica è davvero la protagonista di un flusso sia fisico che mentale capace di trasportare in luoghi remoti sia geografici che dell’anima. Il loro doom metal è infatti di difficile classificazione e si può ben dire che è solo una componente di uno stile ben più composito e ricercato che ingloba suggestioni dark jazz e lunghe divagazioni strumentali orientaleggianti. C’è un senso rituale, spirituale, trascendentale ed ipnotico nei momenti in cui la musica si fa esclusivamente strumentale, ma anche una componente estremamente d’impatto che fa capolino ogni qual volta la band spinge sulla distorsione e i riff pachidermici. L’atteggiamento sul palco dei musicisti è attitudinalmente vicino allo shoegaze, con i singoli membri concentrati sui rispettivi strumenti ed effetti, ma ciò non toglie che la performance complessiva sia tanto impeccabile tecnicamente quanto sudata e fisica.

Discorso a parte per Sara Bianchin, la cantante, autrice di una performance di altissimo livello pur rimanendo praticamente ferma innanzi al microfono a occhi chiusi, totalmente concentrata e assorta nell’interpretazione dei brani. Bianchin ha una grande potenza, tecnica e un timbro che a tratti ricorda le grandi interpreti femminili di certa black music, che immersa in questo contesto estremo impreziosisce i brani addolcendoli e dando loro un’ulteriore eleganza. Quando non canta, sa mettersi in disparte, accovacciandosi tra le due spie in mezzo al palco per bere e far riposare le corde vocali, lasciando lo spazio ai suoi sodali di portare avanti la liturgia doom. Il paradosso, nonché peculiarità diffusa tra molti metallari è che, se da un lato la cantante mostra un evidente talento, carisma da vendere e una voce notevole e penetrante, dall’altro sembra essere altrettanto timida, specialmente quando mormora i titoli dei brani al microfono. Eppure al pubblico questo sembra quasi non importare tanto è assorto dalla musica. Tolte le giuste ovazioni tributate tra una canzone l’altra, il Bunker cala in un silenzio innaturale, concentrandosi nell’ascolto dei Messa come se fosse in trance. Insomma, se non c’eravate, vi siete realmente persi qualcosa.

Una menzione d’onore va sicuramente ai Ponte del Diavolo, che avevano il difficile compito di scaldare la platea. Missione che può dirsi compiuta in virtù dell’interessante miscellanea metal derivata dall’improbabile, ma azzeccata, unione di doom e black metal, voci femminili e scorie grunge: in altre parole una vera e propria riscoperta degli anni novanta aggiornata in chiave moderna. L’aspetto più interessante del gruppo è senz’altro la presenza di ben due bassisti in formazione votati a sovvertire il più rassicurante dominio della doppia chitarra. Una scommessa vinta perché le frequenze dei due bassi non si sovrappongono e l’equalizzazione dei rispettivi strumenti, uniti all’unica chitarra ritmica presente nel quintetto, crea un muro sonoro di tutto rispetto dalla pasta densa, plumbea, asfittica. L’esecuzione dei brani – tutti estratti dei due EP Mystery of Mystery (2020) e Sancta Mentuis (2022) – ha il giusto tiro e trasporto e sopperisce una presenza scenica a tratti un po’ statica, ma che nel complesso ha intrattenuto a dovere il pubblico fungendo da ottimo antipasto prima della portata principale.

Immagine in evidenza: Sergio Bertani de Lama

A cura di Stefano Paparesta

Moor Mother in concerto al Bunker di Torino

Un viaggio attraverso scenari alternativi realizzati con lo scopo di fare luce su una nuova identità nera, lontana da un passato di schiavitù e di discriminazioni razziali, un’epopea che a partire dalla musica di Sun Ra e di George Clinton prosegue fino ai giorni nostri unendo l’iconografia africana, la fantascienza e l’avanguardia: un’odissea in un’Africa 2.0 che comprende l’esposizione di copertine di album tratti dalla storia della musica afroamericana.

Ecco cosa è stato proposto durante la mostra con aperitivo Visioni Soniche. Cover Afrofuturiste a cura di Juanita Apráez Murillo, tenutasi sabato 7 maggio dalle 18:00 presso i locali nell’area Jigeenyi del Bunker come preludio al concerto di Moor Mother per la seconda anteprima di Jazz is Dead festival.

Le danze iniziano alle 22:00 con il gruppo di apertura SabaSaba; il pubblico affluisce timidamente e, dopo qualche minuto, la sala si riempie. Il sound che vede come protagonisti il mellotron, campioni di suoni rielaborati attraverso filtri e la batteria, si basa sulla riproduzione di rumori, atmosfere distorte e repentini sbalzi di volume che simulano bene l’ira della natura in grado di generare maremoti, esplosioni vulcaniche, scontri tra placche.

Foto: Eleonora Iamonte

E se il viaggio dei SabaSaba termina con un terremoto, è con il cinguettio degli uccellini, simulati dai fischietti del percussionista Dudù Kouate, che comincia quello di Moor Mother. La voce calda della poetessa sembra sostituirsi a quella della coscienza dei presenti, mentre gli slogan da lei pronunciati riecheggiano nella mente anche nei giorni a seguire. Oltre all’elemento etnico proposto da Dudù con i suoi strumenti a percussione tipici della tradizione afroamericana si affianca quello sperimentale e futuristico di Camae Ayewa – vero nome di Moor Mother –, che grazie all’ausilio di un tablet e di un computer seleziona campioni di rumori e di suoni elettronici. È una musica che si potrebbe ascoltare anche senza il senso dell’udito: il giro di basso attivato riesce ad entrare dritto nel petto dell’ascoltatore fino a sostituirsi al battito cardiaco e in un attimo sembra che tutti i cuori presenti nella sala battano allo stesso tempo. Un evento ipnotico, onirico, avvolto dal mistero; una sorta di rituale, forse una lode alla vita – come suggerisce il simbolo egiziano Ankh stampato sulla sua camicia –.

Foto: Eleonora Iamonte

Dopo circa un’ora e mezza, il silenzio di fine concerto viene interrotto dagli applausi di un pubblico rapito che richiamano sul palco l’artista. Moor Mother ora si dirige verso gli spettatori, li guarda negli occhi, tocca le persone nelle prime file mentre interpreta l’ultimo brano, l’unico fra quelli proposti ad avvicinarsi alla forma canzone, forse al genere hip hop, ma che rimane ancora una volta impossibile da etichettare.

La serata si conclude con i dj set di Stefania Vos, DOPS e Sense Fracture aka Birsa.

A cura di Eleonora Iamonte