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Jazz is dead!: dance yourself clean

Un lunedì di festa chiude il festival: una giornata speciale, realizzata in collaborazione con Jazz:Re:Found, con al centro la musica dub in tutte le sue varie declinazioni. Tutto si svolge nella sala del Bunker, in cui per l’occasione è stato allestito il sound system della crew veneta Bassi Gradassi, una configurazione imponente di ben venti altoparlanti, tra subwoofers, kick bins e vocals. 

Il pomeriggio inizia con un viaggio in Giamaica guidato dal dj Teeta (Alessandro Cussotto) e MC Galas che ci fanno attraversare la storia del genere partendo dalle origini: il reggae e il rocksteady.

L’arrivo di Mad Professor, veterano produttore con più di quarant’anni di carriera alle spalle, è la perfetta congiunzione tra la tradizione e l’evoluzione. Lui è nato in Guyana, ma ha sviluppato la sua carriera a Londra, dove ha incrociato la jungle e il trip hop negli anni novanta. Le basse frequenze calde e pulsanti del dub giamaicano hanno avvolto la folla, creando un effetto rilassante ma al tempo stesso coinvolgente. Molleggiando sul posto, i presenti hanno potuto godere di un set raffinato che ha preparato l’udito e il corpo ai suoni più duri che avrebbero dominato la restante parte della serata. È stata una transizione perfettamente calibrata tra il relax immersivo e l’energia carismatica del produttore.

Foto di Fabiana Amato

Abbandoniamo spiagge, sole e riposo spesso associati al genere per passare a suoni oscuri con i set di Ghost Dubs e The Bug. Il primo è un produttore tedesco che unisce dub techno e ambient drone, bassi profondi e costanti che creano un effetto quasi ipnotico. Un’immersione che richiede predisposizione e tanta resistenza non solo uditiva, il suo album non a caso si intitola Damaged. Il set sembra non aver mai fine, per quanto tutto sia rallentato e intermittente. 

Al contrario The Bug, produttore inglese che qui presenta il progetto The Machine, spinge sull’acceleratore. In una nube di fumo rischiarata solo da fasci di luce viola, sentiamo l’aria vibrare addosso, tutto il corpo è travolto da un’ondata di basse frequenze che creano una sorta un vuoto interiore. Sembra la colonna sonora di un mondo in cui le macchine hanno preso il sopravvento, percepiamo le pulsazioni come dei passi di giganti che ci calpestano fino a schiacciarci producendo degli acutissimi crepitii. Il rapporto tra luce e suono sembra quello tra la visione di fulmine e il boato di tuono che distrugge tutto ciò che ci sta intorno. A conclusione un lungo rumore rosa, tutto ciò che ancora riusciamo a sentire appiattisce completamente ogni sensazione uditiva e ci lascia intorpiditi.

Foto di Fabiana Amato

A chiudere il festival, come da tradizione, è stato Gambo, direttore artistico, sotto lo pseudonimo di Dj Free Chu Lyn. I più fedeli si sono radunati sotto cassa, ballando senza sosta e creando un’atmosfera fatta di sorrisi, sudore e pura adrenalina, con il suo set finale ha regalato ai presenti un finale degno di un festival indimenticabile.

Foto di Fabiana Amato

Jazz is Dead!: dove suoni e lotte si fondono in un unico grande messaggio di resistenza e consapevolezza.

Conclusa l’ottava edizione del festival, possiamo affermare con certezza che si sia riconfermato come uno degli eventi più significativi di Torino. Ancora una volta, ha saputo mantenere intatta la propria identità, distinguendosi dagli altri festival e creando un ambiente sicuro e inclusivo, in cui il pubblico ha potuto sentirsi libero di divertirsi ed esprimersi senza barriere. Jazz is Dead! non ha lasciato spazio a equivoci sulla sua anima sociopolitica: le numerose bandiere della Palestina, sventolate tra la folla e perfino appese vicino ai palchi, hanno reso evidente il profondo legame tra musica e attivismo. Un’edizione che non solo ha celebrato la musica, ma anche il diritto di esprimere idee e valori attraverso di essa.

Alessandro Camiolo e Sofia De March

Jazz is dead! e il mondo che brucia sotto la pioggia

Sotto al sole di un sabato torinese che si fa quasi miraggio, Jazz is Dead! apre la sua terza giornata tra loop infiniti, pioggia improvvisa e voci che reclamano spazio, identità, memoria. La domenica al Bunker è un atlante sonoro e umano. Ogni live è un territorio attraversato, ogni corpo sul palco diventa una frontiera abbattuta.

La giornata si apre con Ghosted, trio formato da Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che, nel caldo ancora opprimente del tardo pomeriggio, trasporta il pubblico in un viaggio ipnotico e minimalista. Un viaggio fatto di poche note di basso identiche e reiterate per più di quindici minuti, su cui la batteria danza tra controllo e abbandono mentre la chitarra si trasfigura tra effetti riverberati alla The Shadows – in perfetto pendant con il clima da vecchio Far West – e arpeggi robotici e metallici.

I brani – pochi, lunghissimi, quasi senza fine – costruiscono un loop sonoro che, complice le alte temperature, induce una vera e propria alterazione percettiva, data dal lavoro per accumulo. Un inizio silenziosamente travolgente prepara corpo e mente a lasciarsi andare per il resto della serata, che fa a questo punto ben sperare. 

Foto di Fabiana Amato

Subito dopo salgono Ibelisse Guardia Ferragutti e Frank Rosaly che portano un’idea sonora tanto fluida quanto le loro origini: Bolivia e Porto Rico, avant jazz, funk e noise. L’inizio è quieto: suoni semplici e chiari e atmosfere dilatate, poi all’improvviso l’impatto frontale con bassi distorti e tiratissimi, che fanno vibrare l’aria e costringono a spostare l’attenzione al palco. 

Il live si muove tra suggestioni latine e scosse elettriche, ma col passare dei minuti l’energia sprigionata dagli amplificatori inizia ad affievolirsi, non riuscendo a proporre un live colorato fino alla fine. Forse per colpa anche della pioggia, che arriva di colpo mettendo in fuga in poco tempo il folto pubblico pronto a fiondarsi sui poveri baristi sballottati sotto la tettoia. 

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’acquazzone, si materializza la figura di Alabaster De Plume, sassofonista inglese la cui musica è un viaggio tra atmosfere tremolanti e irregolari, che si muovono agilmente dal jazz più morbido e caldo ai territori più sperimentali e ruvidi. La musica di Alabaster non è solo un’esperienza sonora, ma una vera e propria narrazione emotiva: il sax dialoga con il basso e la batteria in un crescendo di tensione e rilascio, giocando con dinamiche contrastanti che tengono il pubblico sospeso, come in un grande rito collettivo. Le sue parole, scandite con calma e carica emotiva – mentre imbraccia una bandiera palestinese – si trasformano in mantra di autenticità, collettività e resistenza denunciando con forza le ingiustizie di Gaza in un lungo discorso di protesta. È un concerto che va ben oltre la musica, un’esperienza che lascia nel pubblico un segno profondo e vibrante.

Foto di Fabiana Amato

Dalla Palestina passiamo al Kurdistan, col duo HJirok, composto dalla cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e Andi Toma dei Mouse on Mars. Un progetto musicale che unisce suoni raccolti durante viaggi nel Kurdistan iracheno con registrazioni elaborate di ritmi di tamburi sufi e melodie di setar. Sul palco la cantante danza e ondeggia in un paesaggio sonoro ammaliante che non lascia indifferenti. La sua voce estesa e versatile, si amalgama all’elettronica e alla musica tradizionale, cercando di sfumare le differenze ed emancipandosi da ogni stile già consolidato. La tradizione curda si basa sulla trasmissione orale come forma di resistenza alle imposizioni dominanti, da questo punto di vista possiamo configurare il HJirok come un ulteriore gesto politico di sfida e proposta di un futuro utopico in cui coesistono pacificamente paesaggi sonori, culture e modi di vita diversi.

Foto di Fabiana Amato

L’ultimo concerto all’aperto di quest’edizione è l’esibizione dell’ensemble svizzero Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp: dodici musicisti tra strumenti a fiato, a corde e percussioni. Un concerto colorato, luminoso, dall’ispirazione africana, sia per i ritmi che per certi canti corali che travolge con energia il pubblico in un centrifuga di rock, punk e folk. Abbiamo apprezzato l’equilibrio tra i vari musicisti fusi in un unico organico nonostante i tanti timbri e voci differenti. Una comune musicale fatta anche di ascoltatori che con i loro applausi hanno più volte richiamato la band sul palco per ulteriori brani. 

Foto di Fabiana Amato

Una giornata di celebrazioni collettive e di unione politica veicolate dalla musica in vari modi. Citando uno dei discorsi di De Plume possiamo dire che vivere in questo mondo è difficile, ma solo restando uniti ed umani possiamo farcela con coraggio.

Alessandro Camiolo e Marco Usmigli

Jazz is dead! Day2: un viaggio musicale tra suoni e impegno sociale

Dopo un primo giorno carico di aspettative e adrenalina, il secondo ha consolidato l’entusiasmo e confermato la qualità del festival. 

Dagli headliner ai talenti emergenti, passando per la risposta del pubblico e l’organizzazione impeccabile, Jazz is Dead! non solo ha mantenuto le promesse, ma ha persino superato le aspettative.

Ad aprire la seconda giornata del Jazz is Dead! troviamo il collettivo Orchestra Pietra Tonale, ormai presenza fissa al festival da quattro anni. L’esibizione ha mescolato improvvisazione e materiali dal nuovo album del gruppo , uscito il 16 maggio, e ha avuto come filo conduttore l’esplorazione di territori sonori unici e innovativi, uno dei tratti distintivi del collettivo. Fase importante della performance, rappresentativa dello spirito sperimentale del gruppo, è stata l’orchestrazione improvvisata sotto la direzione di Simone Farò che ha lasciato il pubblico col fiato sospeso in balia di suoni di guerriglia, a volte disorientanti e frammentati, altre rassegnati alle mani di chi li dirige.

Subito dopo l’esibizione dell’Orchestra Pietra Tonale, il festival si è spostato sul palco all’aperto. Qui è salito ShrapKnel, duo americano composto da PremRock e Curly Castro, membri della Wreckin’ Crew di Philadelphia. Il loro set ha inaugurato il palco esterno trasportando il pubblico in un viaggio attraverso l’hip-hop/rap più visionario e sperimentale, arricchito da sonorità elettroniche.
Nonostante l’orario ancora poco affollato, gli ShrapKnel sono  riusciti a coinvolgere tutti i presenti: in pochi minuti il pubblico si è avvicinato sotto il palco, riempiendo velocemente lo spazio e creando un’atmosfera carica di energia. Il loro live, caratterizzato da rime taglienti e un sound ruvido e contemporaneo, ha dato il via ufficiale alla serata, mostrando la forza del rap underground americano.

È poi l’ora dei Funk Shui Project che per chiudere in bellezza il tour del loro ultimo album Polvere hanno scelto di tornare a casa, Torino. Il live è stato un susseguirsi di sorprese e ospiti d’eccezione, sin dalle prime canzoni. A salire sul palco per primo è stato Willie Peyote, che ha regalato al pubblico due brani iconici: “Anestesia Totale” e “SoulFul”. L’atmosfera si è poi accesa con l’arrivo di Ensi, maestro del freestyle e simbolo della scena rap italiana, che ha sfoderato il suo flow impeccabile e l’energia contagiosa che lo contraddistingue. Un’altra sorpresa della serata è stata Davide Shorty, artista dalla voce soul inconfondibile. A rendere il momento ancora più speciale è stato l’arrivo di Johnny Marsiglia, uno dei liricisti più raffinati della scena siciliana.

A chiudere il concerto, grazie agli scratch di Frank Sativa, tutti gli artisti si sono riuniti per una jam memorabile, rappando alcune delle loro barre più celebri su strumentali che hanno segnato la storia dell’hip hop: un vero e proprio omaggio alla cultura del rap. 

Dopo la celebrazione del rap underground,  il festival  ha lasciato spazio a un ambiente più elettronico e all’esibizione di Herbert e Momoko, intimae sperimentale. I due artisti, Matthew Herbert produttore e musicista di musica elettronica e la cantante e batterista Momoko Gill, hanno presentato alcuni brani del loro prossimo album Clay, in uscita il 27 giugno, offrendo un’anteprima delle nuove sonorità elettriche e sognanti che lo caratterizzano. La performance si è sviluppata in un’atmosfera giocosa, con palle da basket a tenere il tempo, e raccolta, come se sul palco ci fossero due bambini a divertirsi dopo scuola. Nonostante la natura della loro esibizione, c’era una forte sintonia con il pubblico, diventato quasi parte attiva del processo creativo dentro il quale i due musicisti stavano viaggiando.

A seguire c’è stato l’arrivo di Meg, voce inconfondibile dei 99 Posse negli anni Novanta e icona della musica alternativa italiana: ha festeggiato i suoi 30 anni di carriera con un live intenso e carico di emozioni, portando sul palco il suo nuovo EP da solista Maria e i brani più conosciuti come “Sfumature” e “L’anguilla.”

Oltre alla musica, Meg ha scelto di usare il palco per parlare di temi urgenti e delicati. L’artista si è esposta riguardo al femminicidio di Martina Carbonaro ad Afragola, ribadendo l’importanza di educare le nuove generazioni sulla violenza di genere e sulla necessità di un cambiamento culturale. Un gesto potente, che ha dato ancora più valore al suo live e alla sua figura di musicista impegnata.

Un impegno che, forse, sarebbe stato ancora più significativo se anche alcuni colleghi uomini avessero preso posizione nei concerti successivi, facendo sentire la propria voce su un tema che riguarda tutti.

Ormai a notte inoltrata, l’ultimo artista a salire sul palco esterno è stato Egyptian Lover, autentico caposaldo e pioniere dell’hip-hop electro. Con un set alla console, ha chiuso la serata regalando bassi potenti, momenti vocali e sorprendenti incursioni di melodie mediorientali sapientemente remixate.

La sua performance, semplice ma estremamente efficace, si è distinta per una mimica minimalista ricca di carisma, perfettamente in linea con il suo personaggio. I ritmi travolgenti hanno coinvolto il pubblico, che nonostante le molte ore di festival alle spalle, si è lasciato trasportare dalla musica e si è scatenato fino all’ultimo beat grazie anche alla scelta di orientare le casse verso l’interno ha garantito una diffusione del suono equilibrata e avvolgente.

La giornata si è conclusa con i dj set di Los Hermanos, che hanno proposto una coinvolgente techno latina, seguiti da Andrea Passenger per chiudere la serata. 

Anche il secondo giorno si è così concluso, confermando pienamente le aspettative del festival.

Sofia De March, Marta Miron e Claudia Meli

Jazz is dead!: prima giornata tra ritualità ed elettronica sintetica

Tra le mura grezze del Bunker, dove il cemento risuona di bassi profondi e laser accecanti, il jazz – se davvero è morto – ha risposto con un ghigno e sonorità distorte. La prima giornata di Jazz is Dead! è stata un rituale urbano che ha fatto vibrare Torino tra improvvisazioni, scariche elettroniche e sorprendenti ibridazioni.

Alle 18:30, con il sole ancora alto e una calura che farebbe sciogliere anche le intenzioni migliori, Skylla apre il festival sul palco esterno. Il pubblico è sparso; molti cercano rifugio all’ombra, ma basta poco perché l’attenzione si concentri su di loro: una batteria incalzante, il basso magnetico di Ruth Goller – mente del progetto – e due voci che si rincorrono tra acuti, glissati e sillabe inventate. Nessun testo: solo un canto che sembra provenire dai bassifondi. Il mix è originale e potente: jazz, lirica e post-rock che si fondono in un flusso sonoro continuo, senza pause, capace di ipnotizzare. Niente maschere, solo suono puro che si impone sull’afa e sul disorientamento iniziale. In pochi minuti, il pubblico è rapito. Si entra nel festival così, seguendo l’istinto. 

Dopo una breve pausa il programma prosegue. The Necks, trio jazz australiano, sale sul palco e dà inizio alla performance.

Il gruppo è composto da pianoforte, contrabbasso e batteria, strumenti che, grazie a microfoni posizionati in modo inusuale (ad esempio molto vicini alle corde del pianoforte), creano effetti sonori particolari e mutevoli. Gli strumenti non vengono suonati secondo la prassi tradizionale: il contrabbassista, ad esempio, talvolta utilizza l’archetto in modo pesante, quasi sgraziato, mentre il batterista preferisce bacchette con punte più grandi e morbide, che, usate sui piatti, producono un suono lieve e avvolgente.

La performance si sviluppa come un lungo flusso musicale dall’evoluzione graduale: si apre con un inizio etereo, caratterizzato da arpeggi del pianoforte che richiamano melodie orientali, che si evolve in una progressiva intensificazione, sempre più “caotica” ma ordinata allo stesso tempo.

Foto di Fabiana Amato

Dopo un’ora puramente strumentale, le voci tornano protagoniste sul palco con Tarta Relena, duo catalano composto dalle voci di Marta Torrella e Helena Ros, in grado di  creare un’atmosfera suggestiva e ancestrale. L’esecuzione di brani della tradizione mediterranea e di composizioni originali, arricchita da una base elettronica, contribuisce a costruire un ambiente suggestivo. Il repertorio spazia da un poema cantato del Seicento in latino rielaborato in forma polivocale – con due voci separate da un’ottava–fino a “Tamarindo”, una loro composizione nata da un errore in sala di registrazione con una traccia riprodotta al contrario, come spiegato poi sul palco.

Il rapporto tra sperimentazione e tradizione ha dato vita a un’esibizione capace di emozionare profondamente gli ascoltatori.

Foto di Fabiana Amato

Dopo l’ipnotico inizio, l’atmosfera del festival si carica di elettricità con l’arrivo di Bendik Giske. Il sassofonista norvegese trasforma il palco in un rituale fisico e sensoriale, dove ogni respiro, ogni vibrazione dello strumento diventa parte del linguaggio corporeo. Con una tecnica impeccabile, Giske utilizza fiato continuo e microfonazioni creative per generare un suono percussivo e soffiato, costruito su arpeggi ripetuti, forte ritmicità e continui giochi di dinamiche. Il risultato è un’esperienza immersiva, dove la potenza del corpo e del gesto performativo si fondono in un atto di resistenza e bellezza. Tuttavia, nonostante le capacità tecniche e la presenza scenica, la performance tende col tempo a ripiegarsi su se stessa, sfumando in una continua dimostrazione stilistica che non amplia la modalità esecutiva già consolidata.

Foto di Fabiana Amato

Le esibizioni all’aperto si concludono con Loraine James, produttrice londinese di musica elettronica che in un’ora di live set ci ha colpiti con tracce intricate, piene di glitch, voci in loop che creano linee di suono costanti e momenti di rottura, in cui i bassi sferzano il ritmo. Flash di luci rosse fanno da sfondo al caldo serale, proviamo a stento a seguire il ritmo che è un continuo sali e scendi di BPM riempito di suoni sempre nuovi, che emergono di continuo come in un magma ribollente di emocore, ambient e IDM. 

La notte nel club inizia con il duo techno Dopplereffekt, direttamente da Detroit, sono marito e moglie: Gerald Donald e Michaela To-Nhan Bertel. Entrambi indossano una maschera nera che annulla i loro volti e suonano due sintetizzatori Korg Triton, attraverso i quali creano suoni fantascientifici, simili a spade laser che vibrano nell’aria. La loro è techno minimale, ipnotica, che tende a una forma cerebrale quasi da canone infinito. I campioni e le sequenze utilizzati plasmano un percorso di accrescimento, si parte da materiale minimo, per tessere elaborazioni con sempre più ingredienti in un composto denso e multiforme. I visual che vengono proiettati lo confermano, vediamo prima un enorme volto grigio simile a quello umano, pieno di connessioni elettriche, per poi ampliare la visione al resto del corpo, ai suoi movimenti e infine decine di suoi simili che formano una grande tribù umanoide. Nel finale, tutto si spegne all’improvviso trovando equilibrio e quiete nell’immobilità dei corpi e del suono di cui possiamo solo sentire un’eco lontana nella nostra mente. 

Foto di Fabiana Amato

La serata prosegue con le esibizioni di Kreggo e Dualismo, che chiudono una giornata intensa, sperimentale e all’avanguardia, capace di esplorare i lati più opposti e affascinanti della musica. Un ottimo inizio per un festival che si preannuncia ricco di esperienze sonore uniche e coinvolgenti.

Marco Usmigli, Marta Miron e Alessandro Camiolo

La bellezza della scoperta: Jazz Is Dead! raccontato da Alessandro Gambo

Dietro ogni festival c’è una visione, un’identità che prende forma attraverso scelte artistiche, intuizioni audaci e tanta passione. Alessandro Gambo, mente creativa del Jazz Is Dead!, ci porta dietro le quinte di un evento che non è solo musica.

Qual è la visione artistica dietro l’ottava edizione di Jazz Is Dead? Come è cambiata la direzione nel corso degli anni? È necessario reinventarsi per restare rilevanti? 

La visione di Jazz Is Dead, come ogni anno, è quella di esplorare la musica d’avanguardia a tutto campo: jazz, elettronica ma anche rock e pop. L’identità del festival è fortemente legata alla sua direzione artistica, perché lo stesso artista può trasmettere sensazioni diverse se ascoltato in un club o su un grande palco.

Costruiamo la line up seguendo tre grandi filoni, in base alle giornate: il venerdì la sperimentazione e l’avanguardia, il sabato suoni più accessibili con dei ritmi coinvolgenti e poi la domenica sonorità post-jazz. Visto che il jazz è morto andiamo a cercare quello che è successo dopo! (ride, ndr)

Quest’anno abbiamo aggiunto un quarto giorno, in collaborazione con Jazz:Re:found, dedicato alle sonorità dub, prettamente Oltremanica. Ci saranno artisti come Ghost Dubs, Mad Professor e The Bug, imperdibili!

Ogni anno seguiamo questi tre filoni e, in base a quello che ascolto e scopro durante i mesi precedenti, costruisco una line-up coerente e la propongo. 

A prima vista, il programma del festival può sembrare un “caos calmo”, un elenco di artisti senza apparente connessione. Qual è il filo rosso che li lega?

Io sono un DJ, quindi ho sempre immaginato e cercato suoni che stessero bene l’uno con l’altro indipendentemente dal fatto che un brano sia una hit o un pezzo sconosciuto. Lo stesso principio vale per gli artisti di Jazz Is Dead.

Un grande ringraziamento va al negozio di musica Ultrasuonisound, il mio pusher di fiducia di dischi da 25 anni (ride, ndr). Conosce le sonorità che cerco e spesso mi propone dischi in anteprima, addirittura ragioniamo insieme: da grandi consigli nascono grandi line-up.

Fino ad adesso il pubblico è stato sempre molto contento perché abbiamo affiancato nomi storici come Charlemagne Palestine, Godflesh e William Basinski a talenti emergenti, con la bellezza della scoperta. Proprio oggi, un nostro follower ci ha ringraziato per avergli fatto conoscere nuovi artisti, tornando a casa con un bagaglio di ascolti completamente nuovi.

Cosa rende speciale Jazz Is Dead?

La forza sta nella sua credibilità e nell’atmosfera unica che si crea. Le persone non vengono solo per i singoli artisti o per gli headliner, ma per vivere 3-4 giorni immersi in suoni sempre diversi.

La direzione artistica combacia con le esigenze del pubblico, ma non è solo la musica a far vivere il festival: c’è un mood di cui andiamo molto fieri.

Se potessi scegliere un artista impossibile—vivo, morto, fittizio—chi inviteresti al festival? C’è un artista che avete sempre sognato di avere nel festival?

Ho letto una frase che diceva «A meno che tu non sia John Lennon, Michael Jackson o James Brown, non aspettarti risposte per il booking!» credo che valga come risposta. (ride, ndr) 

Sono un beatlesiano, quindi la produzione di Harrison l’ho sempre trovata molto interessante, sicuro un Lennon o un Harrison non sarebbe male.

Mi piacerebbe portare Parliament-Funkadelic, George Clinton è ancora vivo…più o meno! (ride, ndr)

Adesso porterei volentieri Mondo Cane, un progetto bellissimo di Mike Patton in cui interpreta canzoni italiane anni ‘60. Sarebbe fantastico! Magari lo propongo a Stefano Zenni per il Torino Jazz Festival.

Come si costruisce un’esperienza coinvolgente per il pubblico? Hai notato un cambiamento negli anni nel modo in cui il pubblico vive il festival?

Il pubblico è rimasto sempre lo stesso, tra chi è cresciuto e chi è arrivato ex novo. La nostra idea è quella di rendere il festival accessibile: fino all’anno scorso era gratuito, quest’anno i prezzi sono calmierati, 15€ al giorno, per garantire un’esperienza alla portata di tutti. 

Essendo organizzato da tre associazioni: Arci, Magazzino sul Po e Tum, il festival ha un forte senso di convivialità, di accessibilità di fruibilità e questo ci distingue da quelli più commerciali. Non abbiamo interessi economici, il nostro obiettivo è che tutto stia in piedi, ma senza perdere libertà artistica e spirito inclusivo.

Se dovessi descrivere l’atmosfera e l’ambiente del festival con una sola canzone, quale sarebbe?

Direi “Yellow Submarine”, nei giorni di festival sembra davvero di essere dentro un gran bel sottomarino giallo, mentre il mondo fuori continua la sua routine e noi dentro ci divertiamo e facciamo festa. 

Quali sono gli album che ti hanno accompagnato durante i tuoi anni universitari?

Ho avuto la fortuna di nascere nel 1980, di conseguenza, quando sono diventato teenager dai 13 ai 19 sono usciti gli album più fighi della storia della musica alternativa.  Mtv passava in heavy rotation: “Smells Like Teen Spirit”, “Firestarter” dei Prodigy, Homework dei Daft Punk, “Black Hole Sun” dei Soundgarden e così via. 

Sono cresciuto in questo ambiente e mi sono subito legato alla musica alternativa, al reggae e all’hip hop. Secondo me non puoi non aver ascoltato SxM dei Sangue Misto o Marley. Credo che siano testi e suoni che sono la base della mia identità: mi ci ritrovo politicamente all’interno di questi suoni. Poi, nel 96 ho scoperto i rave ed ho iniziato a partecipare ai free party, da quella scena è uscito un mondo, come gli Underworld. 

Come immagini questo festival tra dieci anni? Qual è il sogno a lungo termine per questo festival?

Non me lo immagino tra dieci anni, perché lo costruisco anno dopo anno, in base a ciò che è successo nelle edizioni precedenti. Non so cosa succederà ma, come ho già detto dal comunicato stampa, posso dirti che sarà l’ultima edizione per come lo conosciamo.  

Stiamo entrando in delle logiche di mercato che non ci appartengono: non voglio giocare al rialzo per ottenere artisti, né trasformare il festival in una compravendita di nomi. 

Preferisco fare un downgrade preservando l’anima Jazz Is Dead: giorni di festa, di convivialità, accessibilità dove tutti possono avere il proprio spazio e tanta musica bella senza aver bisogno di rincorrere la moda o l’artista del momento.

Un consiglio che vorresti dare a chi vorrebbero lavorare nell’ambito musicale?

Il mio consiglio? Fate festa. Dalle feste nascono incontri, idee e progetti incredibili. È proprio quello che è successo a me: all’università ho conosciuto un amico con cui ho aperto il Magazzino sul Po.

Non aspettate che qualcuno dei “grossi” venga a pescarvi: l’auto-organizzazione è la chiave. Costruite qualcosa di vostro, e quando avrete una base solida, potrete collaborare con i grandi e imparare da loro. 

Guardate anche la video – intervista sul nostro profilo Instagram

di Sofia De March e Joy Santandrea

Stefano Zenni: direttore artistico del Torino Jazz Festival

In occasione della conferenza stampa per la presentazione della nuova edizione del Torino Jazz Festival 2025 dal motto “libera la musica”, abbiamo avuto l’occasione di intervistare Stefano Zenni, direttore artistico del festival.

Foto da cartella stampa

Arrivato a questa edizione al TJF come direttore artistico, è cambiato qualcosa nel suo approccio sia in ambito curatoriale che nei confronti delle istituzioni della città di Torino?

È una domanda interessante. Col passare del tempo, le persone tendono a maturare e la loro conoscenza della musica si approfondisce. Si inizia a scoprire aspetti che prima non si conoscevano, e man mano che il Festival si consolida, cresce anche la fiducia reciproca.  

Questo processo facilita il dialogo con i musicisti, il che è fondamentale. La maturazione generale aiuta molto, permettendo di lavorare su un raggio d’azione molto più ampio, su orizzonti più vasti. 

Dal punto di vista delle istituzioni, ho la fortuna di collaborare con la Fondazione per la Cultura di Torino, che è l’ente responsabile dell’organizzazione del Festival. All’interno di essa ci sono tutte le persone che si occupano della realizzazione dell’evento. Pertanto, lavoro direttamente con la Fondazione e con i suoi membri, che sono persone straordinarie. Non potrei dire altro. 

L’interazione è sempre fluida, senza attriti. Certamente, ci sono delle problematiche che emergono, ma vengono affrontate e discusse.  

Tuttavia, ciò che caratterizza davvero il nostro lavoro insieme è il piacere di creare e realizzare qualcosa di importante in modo condiviso. 

Quali sono i dettagli che un fruitore di jazz fermo al solo ascolto delle registrazioni, potrebbe perdersi in un live? e ci sono aspetti che secondo lei dal vivo emergono più in un concerto jazz che in qualsiasi altro concerto di musica pop o classica?

La musica va ascoltata dal vivo, sempre. Viviamo nell’epoca della riproduzione da circa centocinquant’anni, ma per 100.000 o addirittura 200.000 anni, da quando siamo una specie culturale, la musica è sempre stata un’esperienza condivisa, fatta con le persone in presenza, un termine che in realtà non dovremmo nemmeno usare, perché “in presenza” è un concetto superfluo, perché d’altronde siamo sempre presenti

Un Festival rappresenta l’occasione di vivere insieme questa esperienza, di vivere la musica non in solitudine con una cuffia, ma di condividerla fisicamente, percependo la vibrazione diretta. Perché la musica è composta da onde, onde sonore che partono da uno strumento o da un corpo e arrivano fino al nostro. 

È un’esperienza straordinaria, una comunicazione che avviene fra corpi, trasmessa attraverso la vibrazione dell’aria. 

La scelta di convergere maggiormente su nuove produzioni inedite da cosa nasce?

Un Festival ha una vocazione ben precisa: da un lato, è chiamato a presentare la musica che circola, dall’altro, ha anche la missione di offrire ai musicisti l’opportunità di esprimersi. Il Festival fornisce i mezzi economici e logistici necessari per permettere loro di dare vita a idee nuove; allo stesso tempo, è fondamentale che offra al pubblico l’opportunità di scoprire cose che prima non esistevano.

Oggi ci sono anche bandi di supporto, come nel caso del gruppo di Zoe Pia che presenteremo, il quale ha vinto un bando SIAE. Quindi, il progetto nasce grazie a un sostegno economico pubblico, ma, sostanzialmente, questo è ciò che un Festival dovrebbe fare: dare opportunità sia ai musicisti che al pubblico, muovendosi attraverso una logica culturale precisa.  

Non si tratta di “cose a caso”, ma di un programma pensato con una visione culturale chiara e significativa. 

Le collaborazioni con Jazz Is Dead e i club della città sono un chiaro segnale di promozione del territorio urbano e verso i giovani. Perché ritiene utile espandere il jazz su questi due livelli specifici?

In linea di massima, non ha alcun senso che un’istituzione si isoli, come se fosse l’unica a fare le cose nel mondo. Una posizione del genere è sterile, non porta da nessuna parte. 

È sterile per il Festival, che non cresce senza un dialogo continuo. È sterile per il pubblico, che si trova davanti a un muro. È sterile per i musicisti, che non possono esprimersi in un contesto vivo e dinamico. E, in ultima analisi, è sterile per la città stessa. 

Credo che qualsiasi istituzione, soprattutto un Festival, debba, per vocazione e per sua natura, dialogare con altre realtà, senza pregiudizi. Perché sono dal confronto e dalla condivisione che nascono le idee.  

Questo vale per tutte le età: per i giovani, ma anche per le persone più mature, che magari devono essere incoraggiate a uscire di casa, a entrare in contatto con qualcosa di nuovo. Al contrario, i giovani hanno già la tendenza ad uscire, a cercare esperienze diverse. 

Il Festival, dunque, dovrebbe essere qualcosa di fluido, che si espande negli spazi della città, che in qualche modo invade ogni angolo e diventa parte della vita quotidiana. Mi piace immaginarlo come una piscina: ti trovi a nuotare in essa e poi decidi tu dove andare, dove goderti l’esperienza. L’importante è che ci sia un dialogo continuo, perché è nel confronto con gli altri che nascono le idee migliori. 

Che cosa cerca maggiormente negli artisti che contatta per il festival? 

La qualità è fondamentale. La qualità e la capacità di suscitare emozioni negli ascoltatori.  

Per me, l’idea centrale è che l’artista ti porti in luoghi inaspettati, che ti faccia vivere esperienze nuove, cambiandoti emotivamente e culturalmente. L’artista esprime le sue idee, e queste idee entrano in dialogo con le mie. Così, sia l’artista che l’ascoltatore, attraverso questo scambio, cambiano. Ogni volta che scelgo un artista, per ogni singolo artista che invito, mi chiedo sempre quale effetto avrà sul pubblico, incluso me stesso, che sono anch’io parte del pubblico. 

Se l’effetto dell’esperienza è quello di toccare qualcosa di profondo, di scoprire un nervo scoperto, o anche semplicemente qualcosa che è in superficie ma che ti costringe a guardare le cose sotto una luce diversa, allora quell’artista è giusto per il Festival. In sostanza, deve essere capace di suscitare una reazione, di spingere a vedere o sentire il mondo in un modo nuovo.

C’è qualche artista che avrebbe voluto venisse quest’anno ma che non ha potuto portare?

Ci sono per esempio dei cantanti importanti come Kurt Ellings, Cécile McLorin Salvant, che non sono riuscito ancora a portare a Torino per problemi logistici legati al Tour. Inoltre, mi piacerebbe portare al festival anche il chitarrista Bill Frisell. Altri artisti invece, sono molto sfuggenti, ma con un po’ di pazienza si riesce a convincerli. Jason Moran ne è un esempio. L’ho raggiunto a un suo concerto e gli ho parlato del Festival, e alla fine sono riuscito a portarlo quest’anno a Torino.

Se dovesse consigliare degli artisti a un pubblico giovane e inesperto per farli avvicinare al jazz quali sarebbero?

Innanzitutto, credo che la prima cosa sia coltivare la curiosità verso ciò che non si conosce. Personalmente, sono un fermo oppositore degli algoritmi di Spotify o YouTube, perché ti spingono a conoscere solo ciò che già conosci. Quindi il mio consiglio è: parla con qualcuno che ascolta jazz o musica che tu non conosci, e lasciati guidare dalla sua esperienza. 

Poi, inizia a esplorare e scopri cosa ti piace. 

Certo, se ti avventuri nei capolavori, non solo quelli classici del passato, ma anche quelli del presente, di musicisti contemporanei che producono musica di altissimo livello, non sbagli.  

In ogni caso, finirai per trovarti di fronte a qualcosa di validissimo, riconosciuto come tale. Naturalmente, alcune cose ti piaceranno di più, altre di meno, ma invece di seguire l’algoritmo, meglio seguire i consigli di qualcuno che ti invita a scoprire mondi che non avresti mai immaginato. È un modo per uscire dalla tua zona di comfort e aprirsi a nuove esperienze musicali. 

Guardate anche la video – intervista sul nostro profilo Instagram

a cura di Marco Usmigli e Joy Santandrea

Torino Jazz Festival 2025: libera la musica

Il Torino Jazz Festival torna nel 2025 con la sua XIII edizione, portando con sé tutta l’energia del jazz live nelle sue forme più varie, promuovendo nuovamente l’idea originale, come ha ricordato in conferenza stampa il sindaco Lorusso, del compianto ex assessore alla Cultura Maurizio Braccialarghe. Sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, il festival si svolgerà dal 23 al 30 aprile, anticipato da un’anteprima diffusa nei jazz club torinesi dal 15 al 22 aprile. Quest’anno, il tema scelto è un invito chiaro e potente: “Libera la musica” un’esortazione a superare i confini dei generi e a lasciar fluire le contaminazioni, oltre che a ricondurci alla mente l’80° anniversario della Liberazione.

Una città che risuona di jazz

Otto giorni di programmazione, 71 concerti, 289 artisti e 58 luoghi sparsi per Torino: il TJF 2025 non ha un centro, ma si espande ovunque, dalle sale prestigiose come l’Auditorium Giovanni Agnelli e il Teatro Colosseo ai club indipendenti come l’Hiroshima Mon Amour e il Magazzino sul Po. Ogni parte della città fa da palco per gli artisti, ponendo una forte attenzione ai giovani che per il direttore artistico devono avere il loro spazio nei main stage «per dar loro stessa dignità, stesso spazio e stessa importanza», sottolineando a proposito che «solitamente, purtroppo, i giovani hanno il loro palco separato, il loro ghetto».

Il festival si articola in diverse sezioni: i Main Events, con artisti di calibro internazionale, e il Jazz Cl(h)ub, che anima i 19 club coinvolti sul territorio di Torino attraverso 26 concerti. E poi ci sono le incursioni urbane dei Jazz Blitz, tanto desiderati e promossi da Zenni, che portano la musica là dove spesso la musica non riesce ad arrivare: scuole, ospedali, case circondariali, carceri. Altri incontri interessanti sono i  Jazz Talks, che offrono spazio a dialoghi e riflessioni in collaborazione con il Salone OFF.

Foto da cartella stampa

Voci, strumenti e incontri

Il TJF 2025 apre il sipario il 23 aprile al Teatro Juvarra con uno spettacolo che intreccia poesia e ritmo: Domenico Brancale e Roberto Dani daranno vita a un dialogo tra parola e percussione. La stessa sera, al Teatro Colosseo, Enrico Rava e il suo quintetto Fearless Five saranno protagonisti di un’esibizione che sarà accompagnata dalla consegna al trombettista torinese della targa Torri Palatine della Città di Torino, un riconoscimento alla sua carriera internazionale e al legame con la scena jazz locale.

Il cartellone prosegue con i Calibro 35 e il loro progetto Jazzploitation (24 aprile), un tuffo nelle colonne sonore italiane della golden age, e con Vijay Iyer, che il 25 aprile porterà sul palco del Conservatorio Giuseppe Verdi il suo Piano Solo. Il 28 aprile sarà la volta del Koro Almost Brass Quintet, che rileggerà Kurt Weill in Lonely House. Gran finale il 30 aprile con Il Big Bang del Jazz di Jason Moran e la TJF All Stars: un viaggio musicale che rievoca la storia di James Reese Europe e degli Harlem Hellfighters, rimescolando blues, ragtime e sonorità contemporanee.

25 Aprile a tutto ballo

Il TJF non dimentica le sue radici. Il 25 aprile, in occasione dell’80º anniversario della Liberazione, si terrà Il ballo della Liberazione al MAUTO: un duello musicale tra le big band di Gianpaolo Petrini e Valerio Signetto, richiamando le sfide swing dell’Harlem degli anni ’30.

Ma il festival guarda anche avanti, sostenendo la candidatura di Torino a Capitale Europea della Cultura 2033 con eventi come il Jang Bang Sextet “Alighting” all’Hiroshima Mon Amour, una produzione originale TJF che unisce tradizione e sperimentazione.

Vivi il TJF 2025

Il segretario generale della Fondazione per la Cultura Torino, Alessandro Isaia, ci tiene a premere sul valore inclusivo del festival, che traspare dal costo contenuto dei biglietti e dai numerosi eventi gratuiti. Biglietti che saranno disponibili dall’11 marzo su torinojazzfestival.it. Inoltre per i nati dal 2011, ogni concerto costerà solo 1 euro. Sarà possibile acquistarli anche direttamente nei luoghi degli spettacoli, fino a esaurimento posti.

Stefano Zenni, in conclusione, invita a tuffarsi di testa nella ricchezza del programma, tenendo presente che il jazz non è solo uno, ma ce ne sono mille, e a Torino questi “mille” saranno tutti presenti.

Segui il Torino Jazz Festival su Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e Flickr. Usa gli hashtag ufficiali #TJF #TJF2025 #torinojazzfestival per rimanere aggiornato e condividere le tue esperienze.

a cura di Marco Usmigli e Joy Santandrea

Standing ovation al TJF: l’energia di John Zorn

Un altro concerto sold out per il Torino Jazz Festival, che per la prima volta collabora con il secondo festival jazzistico della città: Jazz Is Dead. La partnership ha consentito di realizzare un concerto di altissimo profilo, invitando il 28 aprile 2024 sul palco dell’Auditorium Agnelli del Lingotto il sassofonista John Zorn: artista poliedrico e figura chiave nel panorama della musica contemporanea, abile nello spaziare tra diversi generi musicali dal jazz al rock passando per l’hardcore punk e la sperimentazione. Ad accompagnarlo è il New Masada Quartet, nuova incarnazione di una delle formazioni di Zorn che dal 1994 ha registrato numerosi album riunendo musicisti affini alla sensibilità artistica del sassofonista, il quale a Torino coordina e dirige in modo innovativo, divertente ed energico il gruppo.

Il concerto è stato un turbinio di energia fin dalle primissime note. Senza tentennamenti, Kenny Wollesen ha suonato la sua batteria con colpi decisi e ad alto volume, che hanno impresso ritmi ballabili generando un groove ipnotico al cui stimolo non si poteva che rispondere muovendo qualche dito, gamba e testa. A sostenere la base ritmico-armonica anche nei momenti più free, c’era il contrabbasso di Jorge Roeder. Sul palco anche Julian Lage, il più giovane del gruppo, alla chitarra elettrica per creare un dialogo melodico con il sax di Zorn. Nelle sezioni più contrappuntistiche Lage non è riuscito molto ad emergere sui suoni potenti ed energici dei tre veterani dello strumento.

New Masada Quartet – foto da cartella stampa TJF

Zorn, oltre a suonare in maniera impeccabile il suo sax passando da suoni stridenti avanguardistici a melodie della tradizione ebraica, ha diretto magistralmente i suoi compagni. Avendo perfettamente in mente il sound che voleva generare, con semplici ma espressivi gesti riusciva a tradurre il suo pensiero di movimento rendendolo comprensibile ai componenti dell’ensemble i quali, quasi telepaticamente, rispondevano dimostrando quanto il quartetto fosse affiatato. Oltre a dirigere gli attacchi e le uscite dei vari strumenti, Zorn ha controllato anche il modo esecutivo dei musicisti al fine di creare un particolare tipo di timbro o di ambiente sonoro. La libertà del quartetto è comunque intrinseca alla musica suonata; le soluzioni armoniche espressive e fantasiose erano frutto di un’improvvisazione ricca che mescolava diverse influenze di generi musicali in un equilibrio energico. 

Composizioni ritmico-melodiche venivano accostate, o mescolate, a brani più sperimentali in cui i suoni si moltiplicavano a dismisura sfruttando gli strumenti in tutte le loro potenzialità. Quasi come se si stesse ascoltando musica da un apparecchio elettronico che permette il controllo del volume, il quintetto ha modulato le intensità dei suoni creando dei passaggi dinamici fluidi o repentini con grandissima abilità.

Un concerto adrenalinico non solo per i musicisti ma anche per il pubblico che non è riuscito a trattenere l’entusiasmo: con una standing ovation la sala è esplosa in un lunghissimo applauso che non voleva lasciare nel silenzio la sala del Lingotto in cui ancora riverberavano i suoni del quintetto. 

A cura di Ottavia Salvadori

Jazz is Dead! 2023: gli Irreversible Entanglements al Cinema Massimo

La sera del 3 giugno nella sala 1 del Cinema Massimo si è tenuto lo spettacolo Irreversible Entanglements: Men at Work, evento nato dalla collaborazione tra il festival Jazz is Dead! e il Museo Nazionale del Cinema. Dopo l’anteprima al Cap10100 e le serate del 26, 27 e 28 maggio al Bunker, la sesta edizione del festival torinese è proseguita con una produzione volta a valorizzare una parte del Fondo Vittorio Zumaglino dedicata al lavoro nella Torino degli anni ’30 e ’40, con l’accompagnamento musicale del collettivo free jazz americano Irreversible Entanglements.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Solo un paio di riflettori e la luce dello schermo del cinema illuminano la band, che inizia a suonare quasi in punta di piedi mentre viene proiettato il montaggio delle immagini di Vittorio Zumaglino curato da Nadia Zanellato: l’intensità della performance aumenta gradualmente e segue pari passo lo sviluppo del montaggio, che più diventa serrato e più porta la musica a creare un’atmosfera ipnotica e affascinante, dando vita a percorsi sonori apparentemente infiniti.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Gli Irreversible Entanglements portano sul palco testi dedicati alla centralità dell’amore nella nostra vita e all’importanza delle proprie radici, rivolgendo inoltre uno sguardo al futuro: le parole vengono pronunciate dalla voce perentoria e decisa di Moor Mother, leader del gruppo, che con un piglio da predicatrice si rivolge al pubblico e si lascia andare ai suoni del resto del collettivo, formato da Luke Stewart, Keir Neuringer, Aquiles Navarro e Tcheser Holmes.

Al termine dell’esibizione, gli organizzatori dell’evento, con il sostegno del pubblico, chiedono un piccolo bis, immediatamente concesso: Moor Mother chiede di pronunciare con lei la frase “We can be free”, e su queste quattro parole si chiude ufficialmente lo spettacolo della band.

Foto di Elisabetta Ghignone.

Si conclude tra gli applausi del pubblico e anche alcuni gridi di approvazione l’iniziativa extra del Jazz is Dead! 2023, che è riuscita a creare un paesaggio sonoro assolutamente inedito unendo l’immagine di una Torino lontana e a noi sconosciuta a suoni appartenenti ad un altro mondo e ad un’altra epoca, ancora poco familiari nel mainstream italiano odierno. Sicuramente, coloro che hanno avuto modo di vedere gli Irreversible Entanglements all’opera non potranno fare a meno di desiderare di immergersi ancora una volta nel loro mondo: un’occasione perfetta per farlo sarà l’uscita del loro nuovo progetto a settembre, annunciato in esclusiva proprio durante la serata.

Foto in evidenza di Elisabetta Ghignone.

A cura di Giulia Barge

Jazz is Dead – Chi sei? Prima serata

Quest’anno, alla sua sesta edizione, Jazz is dead si conferma festival che sa proporre una musica di confine, poco definibile, e che nella sua ecletticità sa coinvolgere un pubblico ampio, eterogeneo per l’età, ma anche per i differenti interessi musicali. Così un appassionato di jazz in cerca di nuovi orizzonti può incontrare un ventenne che è lì per ballare sotto cassa della buona musica elettronica. Lo stesso vale per gli artisti chiamati a suonare. Jazz is dead fa dello spazio del Bunker, stracolmo di persone, il luogo di possibili incontri inaspettati. Il titolo scelto per questa edizione è “Chi sei?”, dove il punto interrogativo può anche riferirsi al festival stesso, diventando un invito a chiedersi quale sia il filo conduttore che porta così tante persone a partecipare, che cosa sia la musica che ogni anno Jazz is dead accoglie e propone.

Jazz is dead
Jazz is Dead, prima serata – foto di Elisabetta Ghignone

Ad aprire la prima serata di festival, venerdì 26 maggio, sono i Leya, duo formato da Marilu Donovan (arpa) e Adam Markiewicz (violino e voce) che hanno debuttato nel 2018 con l’album The fool. I due artisti rileggono in chiave contemporanea due strumenti antichi come il violino e l’arpa, creando nuove possibilità sonore. A partire dalle 18.30 nel tendone del Bunker la loro musica ha immerso il pubblico in un’atmosfera intensa e magnetica.

La serata poi ha continuato nello spazio al chiuso alle 21 con il live di Sarah Davachi, che in un loop infinito di droni ha reso il tempo e lo spazio quasi impercettibili, trasportando gli spettatori in un viaggio surreale. Seduti sulle loro sedie, tutti rimangono immobili, quasi ipnotizzati, per circa un’ora.

jazz is dead
Jazz is Dead, prima serata – foto di Elisabetta Ghignone

A seguire sale sul palco Pan Daijing. L’artista originaria del sud-ovest della Cina, ma di stanza a Berlino, confida al pubblico di volersi prendere una pausa e sarà per tanto una delle ultime occasioni in cui assistere a un suo concerto.

Dopo una breve pausa, il pubblico attende con calore Nziria, che appare tra le luci avvolta in un ampio impermeabile nero, la testa rasata e una presenza scenica che sprigiona energia. Nziria, che in napoletano significa “capriccio molto ostinato e fastidioso, spesso senza un motivo preciso”, è l’ultimo progetto di Tullia Benedicta, musicista di origine partenopea e cresciuta in Romagna. La sua musica sembra lasciarsi contaminare dalle diverse esperienze vissute, ma mantenendo sempre una forte e sotterranea presenza; un personale punto di vista gli permette di rivisitare la musica napoletana e neo-melodica creando un nuovo immaginario di riferimento, svincolato da cliché e categorizzazioni.

Jazz is Dead, prima serata – foto di Elisabetta Ghignone

I djset di Upsammy e Stefania Vos chiudono la prima serata del festival, lasciando il pubblico più che soddisfatto e con la voglia di partecipare anche nei giorni successivi.

A cura di Stefania Morra