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Articoli di dominio generale, senza alcuna specifica. Possono essere conferenze stampa, eventi che uniscono più discipline – es. mostra con musica – etc…

Bollani Day – parte II

Stefano Bollani Piano Solo

Dopo i due concerti di Stefano Bollani in Danish Trio e Eve Risser con la Red Desert Orchestra, la Giornata Internazionale del Jazz celebrata a Torino si conclude con il ritorno in solitaria di Stefano Bollani sul palcoscenico dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto.

Alcuni spettatori si aspettano che il pianista suoni i brani dell’ultimo album Blooming, uscito due giorni prima: il concerto si apre proprio con due di essi, “Vale a Cuba” e “All’inizio”, e Bollani spiega che il titolo si riferisce alla fioritura, vista da più punti di vista.

Le doti di showman del pianista – reduce dal programma televisivo Via dei Matti n. 0 – intrattengono come di consueto il pubblico, anche rendendolo partecipe dei titoli e della storia dei brani, che vengono sempre presentati . Essendo da solo sul palco, la vena comica di Bollani è accentuata, fino a regalare momenti di puro spasso tra aneddoti e sketch esilaranti. Tra i tanti il “momento educational”, in cui fa scoppiare le risate del pubblico con il racconto di un compositore fittizio, tal Oliver Ending, chiamato per tagliare composizioni lunghe che sarebbero potute finire molto prima.

Stefano Bollani, foto di Fiorenza Gherardi De Candei

Con il programma televisivo il pianista – racconta – ha avuto la possibilità in questo anno e mezzo di stare vicino a sua moglie, l’attrice e cantante Valentina Cenni, con cui conduceva, portando in televisione la vita di coppia quotidiana, fatta di rispetto reciproco e di stimoli. «E perché non stimolarci pure a Torino?», presenta sul palco la moglie (che qualcuno si aspetta). Ma chi si aspettava che avrebbero omaggiato la città raccontando dei Cantacronache, collettivo nato nel capoluogo piemontese nel 1957? E ancor più, che uno degli autori, Fausto Amodei, omaggiato con il suo brano “Il Tarlo”, fosse presente in sala? (occhiolino agli studenti del Dams).

Tra omaggi e colonne sonore varie, arriva il momento in cui chi è stato già a un concerto di Bollani sa essere quello del medley (ormai un must dei suoi spettacoli), dove il pianista raccoglie richieste di brani i più disparati dal pubblico. Più diversi sono l’uno dall’altro e più sarà assurdo il collegamento tra di essi – come le “Variazioni Goldberg” di Bach o la sigla di “Heidi”: Bollani parte con uno e inserisce all’interno la citazione di un altro, come solo lui riesce a fare.

Rispetto al trio, Bollani in solo può prendersi ovviamente molte più libertà sul piano del tempo, delle dinamiche e dei virtuosismi. Continua a suonare il pianoforte mentre il pubblico ride, batte le mani o ascolta in religioso silenzio in base a ciò che suona. Perfetto erede di Victor Borge, Stefano Bollani gioca e si diverte con la musica, mettendosi al suo servizio come intrattenitore, sempre come grato e umile giullare delle folle.

A cura di Luca Lops

Bollani Day – parte I

La Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO conclude l’XI edizione del TJF2023

Stefano Bollani Danish Trio

Da diversi anni, il 30 aprile, si festeggia la giornata dedicata al Jazz per i suoi valori di inclusività e comunicazione tra culture; al Torino Jazz Festival lo si celebra con un triplo appuntamento al Lingotto, con la marching band della Jazz School di Torino in apertura.

Sullo stesso palco dell’Auditorium dove qualche anno fa si era esibito con Chucho Valdés, questa volta il pianista Stefano Bollani sale insieme al suo famoso Danish Trio, composto da Jesper Bodilsen al contrabbasso e Morten Lund alla batteria.

Stefano Bollani, foto di Alessandro Bosio

Nonostante non suonino da un po’ di tempo, fin da subito si percepisce come i tre siano ben amalgamati: suonano, giocano e si divertono e, consapevoli di non essere chiusi in una sala prove, lanciano continuamente segnali al pubblico tra una citazione e una battuta.

Jesper Bodilsen, foto di Alessandro Bosio

Bollani balla, si snoda sul pianoforte, alza la gamba, il tutto con un’eleganza che farebbe quasi invidia a Keith Jarrett. Bodilsen fraseggia delicatamente, mai invadente, cantando le note insieme al contrabbasso. Lund dal canto suo trasforma anche il leggio in una parte della batteria e accompagna con il suo tocco leggerissimo, che mantiene, senza mai esagerare con il volume, anche durante i suoi soli. Tutti e tre in realtà suonano delicatamente, come accarezzando le orecchie degli ascoltatori e arrivando a livelli di quasi silenzio. Inoltre suonano per puro divertimento (e non per mero virtuosismo), ed è comprensibile dalle risate e dagli sguardi. Il punto di riferimento di pensiero del trio è il pianista Ahmad Jamal, scomparso lo scorso 16 aprile, a cui hanno dedicato il concerto e l’intera la giornata .

Morten Lund, foto di Alessandro Bosio

Il repertorio include qualche inedito, qualche brano proveniente dagli album registrati insieme dal trio, fino a “Legata ad uno scoglio” come omaggio a Lelio Luttazzi, con la voce di Bollani (che scherzosamente sostituisce nel testo della canzone il nome di “Bevilacqua Vinicio” con quello di Capossela).

Eve Risser & Red Desert Orchestra – “Eurythmia”

Terminato il concerto ci si sposta nella Sala 500, dove è previsto l’appuntamento con Eve Risser insieme alla Red Desert Orchestra.

Il progetto vede la pianista francese guidare una nuova formazione di musicisti europei e africani residenti in Francia, «mescolando musica africana, minimalismo e jazz» – citando il direttore artistico Stefano Zenni.

Eve Risser e Nils Ostendorf, foto di Alessandro Bosio

Dopo aver richiamato il paesaggio sonoro di un deserto attraversato dal vento, l’atmosfera diventa suggestiva grazie a un amalgama di strumenti “jazz” (tra cui batteria, chitarra elettrica, basso e fiati) con strumenti di tradizione africana quali djembe e due balafon, xilofono tipico dell’Africa Occidentale sub-sahariana. La sezione ritmica procede su ritmi sostenuti, in particolare su quelli conosciuti come afrocuban. Spicca su tutti il djembe, che – al centro dell’orchestra – ne diventa quasi lo strumento principe con i suoi ostinati ritmici.

Eve Risser & Red Desert Orchestra, foto di Alessandro Bosio

Verso metà concerto, Risser presenta i musicisti e, provando a descrivere i brani suonati senza soluzione di continuità, intenerisce la sala spiegando con qualche difficoltà linguistica «the first piece is about horses, the second is about snakes», rimpiangendo di non essersi preparata qualcosa in più da dire sulle composizioni. Con l’ultimo brano sull’amore, il gruppo riesce a strappare un rapido bis al pubblico, invitato a mettersi in piedi a ballare e scatenarsi, anche se è già ora di scappare all’appuntamento successivo.

«Grazie per averli portati qui!» urla qualcuno a Zenni, facendo scoppiare un fragoroso applauso degli spettatori infiammati dall’aria di festa.


A cura di Luca Lops

Steve Coleman and The Five Elements in una data straordinaria al Torino Jazz Festival

Il teatro è pieno: anche per la data del 25 aprile il Torino Jazz Festival ha registrato il sold out. Prima dell’entrata in scena degli artisti, sale sul palco Stefano Zenni (direttore artistico del Festival) per presentare Steve Coleman che di lì a poco riempirà il teatro con la sua musica, insieme ai Five Elements, gruppo con cui collabora dall’inizio degli anni ’80.

Zenni sottolinea il fatto che il musicista non venga in Italia da diversi anni: la sua esibizione di Torino è davvero straordinaria, anche perché il festival è riuscito a far anticipare l’inizio del tour. Coleman è – spiega ancora Zenni – uno dei musicisti più influenti della storia recente del jazz. Innovatore del jazz dagli ultimi vent’anni, propone una sorta di laboratorio musicale in cui innesta fantasie melodiche più lente − o per lo meno cantabili – a ritmi di matrice afroamericana più corporei e danzanti, ottenendo una musica dal carattere pienamente contemporaneo. 

Steve Coleman and The Five Elements
Steve Coleman and The Five Elements – foto dal profilo del TJF

Steve Coleman sale sul palco (con in mano il sax, la custodia e una busta di carta), seguito da Jonathan Finlayson alla tromba (con una macchinetta fotografica a tracolla, che posa subito sul palco), Rich Brown al basso elettrico e Sean Rickman alla batteria. Intervalla la presentazione degli artisti a delle cellule melodiche a cui si collegano subito il bassista, e poco dopo gli altri due musicisti. Non è previsto uno strumento prettamente armonico, motivo per cui l’intero concerto è sorretto dal tocco leggerissimo del batterista che si mescola ai ritmi composti del basso a sei corde di Brown, su cui si poggia il dialogo armonico dettato dal contrappunto tra sassofono e tromba. La ritmica, cadenzata, prende qualcosa dai ritmi hip hop underground, mentre le melodie sono per la maggior parte improvvisate. Non si tratta solo di free jazz o funk. È quel filone a cui Coleman è tanto legato e che si chiama M-Base – acronimo di Macro-Basic Array of Structured Extemporizations – in cui tutte le forme dell’universo sono connesse e hanno come obiettivo finale l’espressione artistica. Alla fine del concerto Coleman prova a raccontarlo: «When you play there’s a energy», e l’energia si sente davvero in platea, dove il pubblico continua a far ondeggiare la testa o muovere le gambe o i piedi, incapace di rimanere immobile. 

Poi, perentorio, continua: «We have to stay awake for you», spiegando che lui e i suoi musicisti sono stanchi a causa del jet lag, come se volesse giustificarsi di non essere propriamente in forma. Ma se il risultato già così è sbalorditivo, viene da chiedersi come sarebbe con i musicisti nel pieno delle loro possibilità…

a cura di Alessia Sabetta

Shabaka Hutchings / Majid Bekkas / Hamid Drake – TJF 2023

Tra jazz, musica gnawa e ritmi afroamericani

I festival, com’è noto, sono anche occasioni per creare esperimenti con produzioni originali che possono avere molteplici esiti. Nel caso del Torino Jazz Festival, la terza serata ha visto la composizione di un trio, si potrebbe dire, inusuale: il sassofonista inglese Shabaka Hutchings, il cantante e suonatore di guembri marocchino Majid Bekkas e il batterista e percussionista americano Hamid Drake.

Shabaka Hutchings, foto di Ottavia Salvadori

Inusuale perché i tre arrivano da background diversi, ma ciò non impedisce loro di trovare un’intesa, rendendo il concerto qualcosa di unico. I suoni emessi dal guembri – strumento tipico della musica degli Gnawa, gruppo etnico che discende dagli schiavi neri deportati nella zona sahariana – di Bekkas sono in un registro medio (tra chitarra e basso, leggermente più ovattato), tale da permettergli di essere il centro portante della performance. Bekkas suona dei riff che si ripetono, su cui canta la stessa melodia, ed è il perno su cui far avvicendare le personalità di Drake e Hutchings, con il loro arsenale di strumenti. Certi riff si sposano perfettamente con alcune delle sonorità afroamericane e afrocubane che il batterista porta avanti tra ritmi funk e tribali, trasformando la batteria in una sintesi di percussioni che spinge il pubblico a ballare. Dal canto suo, Shabaka improvvisa in un linguaggio abbastanza riconoscibile di provenienza jazzistica, spezzando le metriche su una poliritmia che si incastra perfettamente negli spazi dei suoni degli altri due. Hutchings, inoltre, cambia costantemente atmosfera passando dal sassofono ad altri strumenti a fiato di tradizione africana e nativo americana.

Majid Bekkas, foto di Ottavia Salvadori

Il momento più suggestivo della serata accade quando Hamid Drake si siede di fronte al pubblico e, suonando un tamburo a cornice e battendo i piedi nudi per terra, accompagna Shabaka Hutchings e il suo flauto doppio. Il pubblico ascolta con religioso silenzio il momento sacrale che si sta creando e al brano successivo si accoda anche Majid Bekkas, con una kalimba che suona con virtuosismo.

Hamid Drake, foto di Ottavia Salvadori

L’improvvisazione è il principio su cui si fonda tale esperimento: accostando la potenza prorompente di Drake e il fraseggio scomposto di Hutchings, entrambi guidati da Bekkas. In una serata che ha dato l’impressione di essere una jam session tra figure divergenti, il pubblico non ha fatto altro che ballare dall’inizio alla fine.

A cura di Luca Lops


Kenny Barron Trio – 80th Birthday Tour

La leggenda vivente del pianoforte jazz al Torino Jazz Festival

Sold out  per la seconda serata del Torino Jazz Festival, per la quale sono addirittura stati aggiunti ulteriori posti a visibilità ridotta. Sullo stesso palco dove la sera prima si è parlato dei grandi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ci è salito proprio uno di loro, il pianista Kenny Barron, in occasione del tour per il suo 80° compleanno. Insieme a lui, Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria.

Kiyoshi Kitagawa, foto di Ottavia Salvadori

Il pianista statunitense è parte della vecchia leva (avendo suonato con autorità come Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Stan Getz e tanti altri) e dimostra da subito un fraseggio e un linguaggio jazzistico molto raffinati, semplici e melodiosi. Senza perdere tempo, dopo un breve saluto Barron introduce il primo brano, “Teo”, «from the great Thelonious Monk». «Si comincia alla grande!» commenta qualcuno tra il pubblico. I due accompagnatori si rivelano immediatamente personalità molto diverse, ma nell’insieme diventano parte di una macchina ben oliata: tra Kitagawa che gioca molto con gli spazi e Blake che spinge con delicata velocità, Barron tiene le redini “tirando indietro” con lo swing, per rimanere fermo e inamovibile nella pulsazione di ogni brano. In circa un’ora e mezza, il trio esegue alcuni standard presi dal repertorio jazzistico, come “How Deep Is The Ocean” e “Nightfall” di Charlie Haden, passando per “The Surrey with the Fringe on Top” tratto dal musical di Broadway Oklahoma e in conclusione, una sua composizione originale, “Calypso”.

Jonathan Blake, foto di Ottavia Salvadori

Al momento del bis accade qualcosa di unico: il trio comincia a suonare “Poinciana” in modo sospeso e leggero, quasi fluttuante. Il brano è famoso per il suo ritmo sincopato atipico e quando la pioggia inizia a scrosciare sul tetto della sala rende l’atmosfera ancora più suggestiva, creando un contrappunto con il pianoforte che trasforma il gruppo in un quartetto. Al termine del brano, le luci si accendono e il pubblico sembra ridestarsi da un sogno, rimanendo ancora incantato da ciò a cui aveva appena assistito. «I hope to see you again!» saluta il pianista, tra i commenti di qualche spettatore che avrebbe voluto sentire ancora altri bis e di qualcun altro tristemente consapevole della sua stanchezza dovuta all’età. Noi, invece, speriamo di rivederlo al più presto, per un’altra umile lezione di swing.

A cura di Luca Lops

Kenny Barron, foto di Ottavia Salvadori

Natura morta con custodia di sax apre il Torino Jazz Festival

Alle OGR la produzione originale con Peppe Servillo & TJF All Stars

Marching band e ballerini di lindy hop invadono strade e piazze di Torino. Si respira aria di festa: il Torino Jazz Festival è iniziato.

Ad aprirlo ufficialmente una produzione originale sul palco delle OGR (come già annunciato durante la conferenza stampa ) che intende rendere omaggio al jazz attraverso brani scelti da Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer, raccolta di storie romanzate di alcuni grandi jazzisti, ma anche saggio-critico sulla poetica del jazz. A leggere è Peppe Servillo (attore e cantante), accompagnato da una jazz band formata ad hoc per l’occasione con nomi di prestigio internazionale: il trombettista Flavio Boltro, Emanuele Cisi al sax tenore e Helga Plankensteiner al sax baritono, il pianista Dado Moroni, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. 

Foto di Alessia Sabetta

L’attore e i musicisti entrano in scena pronti a suonare quando, dal fondo della sala, partono le note blue di un sassofono che richiamano “Sophisticated Lady” di Duke Ellington e spiazzano il pubblico: il sassofono che sentiamo è quello di Helga Plankesteiner, che per tutto lo spettacolo apparirà in punti diversi della sala, facendo da intermezzo alla narrazione dei musicisti sul palco. La serata vede alternarsi letture dal libro e alcuni degli standard più famosi del jazz, come “In a Sentimental Mood” o “Good Bye Pork Pie Hat”, (brano scritto dal contrabbassista Charles Mingus dedicato al sassofonista Lester Young dopo la sua morte) rivista in chiave soul, passando anche per un “Somewhere Over the Rainbow” capace di far fischiettare anche gli accompagnatori dei molti appassionati presenti, forse meno avvezzi alla musica jazz.

Sembra quasi un rituale liturgico: Servillo legge la Parola del Jazz, mentre i musicisti in piedi e immobili, con atteggiamento solenne, ascoltano le parabole dei grandi jazzisti del passato, per poi incarnarli in ogni standard con la partecipazione attiva dell’assemblea .

Foto di Alessia Sabetta

L’ultimo brano diventa una jam session per la personalità emergente di ogni musicista (nonostante l’audio non fosse dei migliori per un concerto di questo tipo). Il bis, invece, è una sorpresa per il pubblico: Peppe Servillo finalmente canta una canzone napoletana, “Presentimento” di Fausto Cigliano, accompagnato da Moroni. Nel farlo lascia il pubblico ammaliato e cullato dalla poesia di questa dedica. In conclusione: brani letti, standard suonati e soli di sax baritono risuonanti in platea, diventano pezzi sparsi di un puzzle. All’ascoltatore il compito di assemblarli.

A cura di Luca Lops

Esibizioni diffuse a Torino per la settima edizione del Premio Buscaglione

È tutto pronto per il Premio Buscaglione, che si svolgerà a Torino fra il 4 e il 6 maggio 2023 in alcuni degli spazi musicali più importanti della città: Spazio211, Off Topic e CAP 10100, che da anni accolgono festival e concerti soprattutto di artisti emergenti. Due le semifinali in programma, in cui si sfideranno dieci fra cantanti e band provenienti da tutta Italia, tra cui verranno scelti i quattro finalisti che si esibiranno nel corso dell’ultima serata. 

L’obiettivo dell’Associazione Culturale F.E.A., che organizza il Premio, è promuovere la musica dal vivo e trovare la Next Big Thing italiana all’interno di uno spazio di condivisione creato per band, cantanti e per il pubblico stesso, che partecipa attivamente  alla selezione degli artisti. 

Il Premio Buscaglione, “una proposta alternativa in contrasto con i format televisivi dei talent dove il successo è immediato ma non duraturo”, nel corso degli anni ha lanciato artisti come Eugenio in Via di Gioia, Lo Stato Sociale, La Municipal, e in questa settima edizione ha visto ben 561 artisti iscritti. I premi principali – il Premio della Critica e il Primo Premio – consisteranno in un contributo in denaro e in un tour che farà tappa in 16 festival italiani fra cui Apolide (Piemonte), Memorabilia (Marche), Sud Est Indipendente (Puglia), RockunMonte (Toscana). Headliner delle tre serate saranno rispettivamente i Post Nebbia [4 maggio], Yosh Whale [5 maggio] e Gazebo Penguins [6 maggio]. Di seguito il programma completo delle tre serate:

Giovedì 4 maggioSpazio211
Headliner: Post Nebbia
Semifinalisti: Candra [Toscana], Fonni [Toscana], Giøve [Piemonte], Ufo Blu [Lombardia], Tommi Scerd [Liguria]

Venerdì 5 maggioOff Topic 
Headliner: Yosh Whale 
Semifinalisti: Cassio [Toscana], Frenesi [Piemonte], Hey!Himalaya [Lombardia], Miglio [Emilia Romagna], MiVergogno [Marche]

Sabato 6 maggio – CAP 10100 
Headliner: Gazebo Penguins
Esibizioni dei 4 finalisti 
Consegna Targa Gran Torino al cantautore Dente 
Closing party con DJ Set

I biglietti per le tre serate sono disponibili su https://oooh.events . Per chi non potrà seguirla dal vivo, la finale verrà trasmessa in diretta streaming sul canale YouTube del Premio Buscaglione, in diretta radio su RadiOhm e in diretta radio + video su RBE – Radio & TV.

Per ascoltare i brani dei semifinalisti 2023:

Maggiori informazioni sul Premio Buscaglione sono disponibili al link: https://www.sottoilcielodifred.it

A cura di Ramona Bustiuc


Paolo Vaccaro, Margot e Pascal: la musica risuona nei giardini della Reggia

L’8 aprile, sotto un sole accecante e tra lo schiamazzare dei bambini, è apparso nell’orto di Levante dei giardini della Reggia di Venaria un totem autoalimentato, centro del progetto portato avanti da Open Stage e The Goodness Factory: nove artisti emergenti si sarebbero esibiti fino al 10 aprile, suddivisi in 3 gruppi, per presentare al pubblico i loro progetti.

L’evento si inserisce tra le iniziative della manifestazione “Venaria Reggia Aperta”, un insieme di attività realizzate in occasione delle feste pasquali da The Goodness Factory all’insegna della sostenibilità: infatti, gli spettacoli, organizzati sono quasi ad impatto zero in termini di consumo dell’energia elettrica. La collaborazione con Open Stage ha permesso di mettere in luce il lavoro di nuovi artisti, e a dare il via a questa serie di esibizioni sono stati Paolo Vaccaro, Margot e Pascal.

Paolo Vaccaro, musicista originario del Veneto, ha avuto la responsabilità di essere non solo il primo della giornata, ma anche di questa sezione della manifestazione: durante la mezz’ora a lui dedicata ha intrattenuto il pubblico con la sua chitarra e un repertorio di brani in italiano ed in inglese dalle influenze blues e folk, raccontando di canzone in canzone ciò che lo ispira a scrivere. A un mondo folkloristico di marinai e cowboy si alternano sprazzi di quotidianità, e la sua voce inizia ad attirare un consistente gruppetto di visitatori della Reggia.

Paolo Vaccaro (dal profilo Instagram: @paolovaccaromusic)

A seguire Margot, cantante torinese accompagnata dal piano digitale di Sara Sibona e dalla chitarra di Denis Chiatellino, che si è occupato anche dei cori. Una voce potente ma allo stesso tempo pulita, che passa da momenti di aggressività e sicurezza a giochi di note delicate, quasi sussurrate; gli arrangiamenti, sinuosi e a tratti cupi, donano una maggiore profondità al timbro della cantante. I pezzi suonati vengono accolti positivamente dai passanti, che alla fine di ogni pezzo applaudono con entusiasmo.

Margot (dal profilo Instagram: @margott.ig)

Arriva infine il turno di Pascal, musicista toscano che con la sua chitarra suona la conclusione della prima giornata dell’evento: canta di Sarajevo sotto il sole primaverile e presenta una canzone di protesta che usa per coinvolgere il pubblico, invitandolo ad accompagnarlo mentre canta un’ultima volta il ritornello. Il suo approccio intimo e rilassato rende il suo set l’ideale colonna sonora per un tardo pomeriggio tra i giardini della residenza.

Pascal (dal profilo Instagram: @iosonopascal)

Il progetto che Open Stage e The Goodness Factory realizzano a Venaria mette a segno diversi obbiettivi: portare in scena uno spettacolo con impatto ambientale minimo, fornire una vetrina interessante per giovani artisti ed arricchire con buona musica l’esperienza dei visitatori. Un’occasione che dopo queste tre giornate, ci auguriamo possa tornare con più frequenza.

Immagine in evidenza dal profilo Instagram @openstage.it.

A cura di Giulia Barge

Nient’altro che le nostre paure e il release party dei Breathe Me In

Una location suggestiva, qualcosa da bere e un gruppo di amici fanno una festa. Se poi tra questi amici qualcuno ti invita per presentare, quasi come un figlio, una creazione musicale, il party si trasforma in un release party: il 31 marzo allo Ziggy club (locale situato nel cuore del quartiere torinese di San Salvario) c’è lo scenario perfetto per quello di Nient’altro che le nostre paure, il nuovo album dei Breathe Me In

L’atmosfera è intima e informale: non sono molte le persone nella piccola sala del circolo, ma si conoscono tutti. E cosa più bella, molti di loro sono musicisti della scena torinese underground e accorsi per supportare gli amici sul palco. La restante parte sono i fan della prima ora che aggiungono quella nota di frizzantezza e l’orgoglio di chi sa di essere tra i primi ad averli scoperti. Alessandro Vagnoni (in arte Drovag) e gli Psychokiller scaldano l’atmosfera in attesa dei protagonisti della serata. I Breathe Me In salgono sul palco dopo circa un’ora dall’inizio del concerto, dopo essersi intrattenuti con gli ospiti e aver scambiato qualche parola con quasi tutti.

Foto: Alessia Sabetta

Nient’altro che le nostre paure, uscito per Pan Music Production lo scorso 17 marzo, viene presentato sui canali social come un viaggio tra paure, insicurezze e fragilità affrontate dalla band nel corso di questi anni… che sono state ampiamente superate, visto il risultato. La band − formata dal frontman Vittorio Longo, Federico Spagnoli alla batteria, Ludovico Guzzo e Paris Konstantis alle chitarre − di chiaro stampo rock, ha delle influenze metal, punk ed elettroniche, ben riscontrabili nella nuova produzione. “MacLean”, “Animali feriti” o “Prigionia”, hanno raggiunto tra i 15mila e i 20mila ascolti su Spotify in poco tempo. Tutto l’album presenta canzoni ben arrangiate, con una diversificazione sia ritmica che accordale: i giri di accordi non sono i soliti mainstream, ma anche quando sono un po’ più classici progrediscono in modo da sembrare particolarmente originali. Anche la struttura dei brani è eterogenea e non presenta sempre la classica costruzione pop. Inoltre, ogni arrangiamento è arricchito da una parte elettronica dal punto di vista ritmico e musicale (come in “Doppler”) e di effettistica per la voce (nel caso di “Resta”). Nonostante non si tratti di un genere troppo radiofonico, queste decisioni determinano una buona riuscita del prodotto musicale e benché le scelte stilistiche presentino soluzioni non molto convenzionali, le canzoni risultano piacevoli già al primo ascolto.

Foto: Alessia Sabetta

L’album nasce come lavoro di addio della band che sembrava si stesse sgretolando travolta dalla quotidianità. Eppure, dopo aver radunato tutte le paure del giudizio, delle aspettative, del fallimento i quattro amici hanno dato vita a qualcosa che segna una sorta di nuovo inizio. I Breathe me In sembrano legati da un collante che li tiene ben saldi gli uni agli altri: si percepisce la sinergia tra di loro e la si ritrova nella connessione che riescono a creare con il pubblico. Per interagire con i presenti scelgono di esprimersi tramite la loro musica, senza dilungarsi in troppi discorsi introduttivi ai brani e questa scelta risulta vincente perché il risultato è come un detonatore a rilascio immediato.

Foto: Alessia Sabetta

Vittorio Longo continua a rivolgere il microfono al pubblico che canta insieme a lui tra una ripresa video e un po’ di pogo. Il live funziona molto bene: sono incisivi, graffianti e si fanno trasportare dalla musica e dalle sensazioni che stanno vivendo, lasciano trasparire la concentrazione e le emozioni. Si vede che si divertono e che probabilmente non vedevano l’ora di mettersi a nudo per raccontare, insieme alle paure, la conquista di tante consapevolezze. Una, la più importante, la scrivono su Instagram: «la musica è, e farà parte di noi».

A cura di Alessia Sabetta

Il Flauto Magico in un allestimento che strizza l’occhio all’impressionismo cinematografico in scena al Regio

Die Zauberflöte, IlFlauto magico, Singspiel di Mozart su libretto di Emanuel Schikaneder, è tra le dieci opere più rappresentate al mondo e dal 31 marzo (dal 30 con anteprima giovani) al 14 aprile, sarà in scena al Teatro Regio di Torino, con regia di Tobias Ribitzki, animazioni di Paul Barritt ideate da «1927», la squadra supervisionata da Suzanne Andrade e dallo stesso Paul Barritt. Alla direzione d’orchestra Sesto Quatrini e Andrea Secchi alla guida del coro, completando i nomi dietro questa produzione.

La trama, ambientata in un favoloso Egitto, racconta la storia d’amore tra Tamino (interpretato da Joel Prieto e Giovanni Sala) e Pamina (Ekaterina Bakanova e Gabriela Legun) e il viaggio dell’eroe che lui deve intraprendere per liberare l’amata aiutato dal fedele Papageno, anch’esso alla ricerca di “ein Mädchen oder Weibchen” (una ragazza o una donna). 

In realtà, parlare in questo modo dell’intreccio alla base del Flauto magico è molto riduttivo: l’opera è eclettica, contraddittoria, ricca di significati e forse, proprio per tale motivo, tanto apprezzata dal pubblico. Il rischio che si corre per questo genere di messinscena è di raccontare la vicenda in modo razionale non risultando all’altezza di un racconto che ha il surrealismo come caratteristica principale: le menti creatrici dell’allestimento hanno compreso molto bene questo aspetto. Lasciandosi ispirare dal cinema muto (in particolare quello impressionista), dai fumetti e da altre numerose influenze, hanno ideato una scenografia che sembra prendere vite grazie alle animazioni proiettate sulle quinte del palco.

In un flusso di immagini animate che dialogano costantemente con gli attori sul palco, lo spettatore si ritrova all’interno di un’esperienza immersiva e deve fare i conti con una nuova concezione di opera. Proprio questa necessità di rivalutazione sembra turbare il pubblico dei giovani torinesi presenti all’anteprima. Così come molti alla fine dello spettacolo sembrano entusiasti di vedere finalmente la ricerca di uno “svecchiamento”, molti altri sembrano sbigottiti. Tra i commenti più sostenuti c’è il fatto che un’opera classica debba rimanere tale anche nell’apparato scenico e che un allestimento del genere risulti addirittura troppo azzardato per il maestro del classicismo viennese. 

Ma lo spettacolo, nato a Berlino nel 2012, ha già festeggiato il suo decennale riscuotendo successo tra Europa, Usa e Cina nonostante la sua peculiarità provocatoria. Motivo per cui questo allestimento è sintomatico di tantissimo coraggio da parte di coloro che hanno deciso di sfidare le convenzioni sociali: già solo per questo merita una possibilità.

Come dopo ogni anteprima lo spettacolo si è spostato nel foyer del teatro per la rassegna Contrasti. La scelta per questa data è ricaduta su Napoleone (cantautore di origini campane, ormai stabile a Torino) è stato presentato sui social del format come portatore di magia grazie al dialetto campano e la tradizione del funk partenopeo. L’artista già noto ai più grazie a un duetto con Guè, durante la sua esibizione ha presentato in anteprima il suo nuovo singolo “Il giardino di Maddalena”, insieme a Kaze, in uscita a mezzanotte. A differenza del Flauto magico il cantautore ha ottenuto il consenso di tutte le persone presenti, concludendo degnamente uno spettacolo che lascerà parlare ancora molti.

A cura di Alessia Sabetta