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TJF 2023: Craig Taborn tra ripetizioni e sperimentazioni

Esistono musiche che ti proiettano in un mondo lontano, sconosciuto, e che ti fanno perdere il senso dell’orientamento. È quanto successo con Craig Taborn il 28 aprile 2023 al Torino Jazz Festival presso il Conservatorio «Verdi».

Pianista pluripremiato, Taborn ha debuttato professionalmente, ancora da studente, con il James Quartet. Da giovane inizia a suonare il pianoforte e il sintetizzatore, influenzato in particolare da un ambiente di musicisti che fanno dell’assenza di pregiudizi nei confronti degli stili la loro caratteristica principale.

Acclamato come uno dei pianisti più originali della sua generazione, è diventato un punto di riferimento per molti altri musicisti. La sua padronanza di tecniche di improvvisazione si unisce alla conoscenza jazzistica, alla sperimentazione elettronica, al rock e al soul. È proprio questo che gli permette di intrecciare mondi espressivi apparentemente molto distanti tra loro ma, allo stesso tempo, di introdurre in ciascuno di essi il suo stile distintivo.

Craig Taborn. Foto di Fabio Miglio

Unico elemento sul palcoscenico: un pianoforte. Niente sintetizzatori e niente musicisti accompagnatori. Utilizzando sequenze ripetitive e arpeggi di sapore minimalista, Taborn riesce a creare sonorità sorprendenti. Il pianoforte sembra trasformarsi in una grande orchestra o addirittura in un sintetizzatore elettronico ma non c’è nessun trucco e nessun pianoforte preparato: solo Taborn e il suo strumento.

Sfruttando sia l’acustica della sala del Conservatorio che le potenzialità del pianoforte, la musica di Taborn risuona per tutto il teatro: i suoni transitano dal registro grave a quello acuto, sono dapprima debolissimi, quasi impercettibili, e poi fortissimi. La potenza con la quale suona i tasti in alcuni momenti – aiutato dall’uso incalzante del pedale sustain – è in netto contrasto rispetto alla delicatezza di altri momenti nei quali, saltando da una nota all’altra, sembra non toccare nemmeno la tastiera.

La musica che ne risulta è densa acusticamente, ma caratterizzata da poche note reiterate che fungono da radici per creare percorsi che pian piano si espandono in strutture più grandi. La presenza di questi loop caratterizza tutto il concerto, immergendo il pubblico in un grande sogno. I brani inizialmente sono riservati, intimi, poi crescono di intensità fino ad esplodere in un momento di pura energia; a creare un ponte tra le diverse fasi del brano sono le cellule ritmiche o melodiche sulle quali Taborn si fissa.
La velocità di esecuzione di alcuni passaggi è straordinaria.

Craig Taborn e Stefano Zenni. Foto di Fiorenza Gherardi

Il pubblico, inizialmente un po’ disorientato, è esploso in un grandissimo applauso dopo aver richiesto un bis. L’ultimo brano è caratterizzato dagli stessi elementi dei precedenti ma allo stesso tempo si distingue da essi per la presenza di elementi più energici e di differenti sonorità: ogni cellula melodica dialoga con l’altra, e ciascuna sembra rappresentare un personaggio.

Dunque, ancora una volta, un grande successo per il Torino Jazz Festival. Anche questo concerto è andato velocemente sold out.

A cura di Ottavia Salvadori

TJF 2023: Hamid Drake omaggia Alice Coltrane

Per la seconda volta sul palco dell’Hiroshima Mon Amour per il Torino Jazz Festival, Hamid Drake si presenta con un omaggio ad Alice Coltrane, grande musicista americana del jazz spesso nascosta nell’ombra del compagno John Coltrane.
Per eliminare il senso di vuoto lasciato dalla morte del marito, Alice trova conforto nella musica e nella spiritualità. Convertitasi all’induismo, cambia il suo nome in Turiyasangitanda. “Turiya” deriva proprio dalla filosofia indù e denota lo stato supremo di coscienza pura. Esso è anche il nome del progetto portato in scena all’Hiroshima in una data, quella del 25 aprile, in cui un messaggio di pace, libertà e consapevolezza hanno un significato ancora più profondo.

«We are doing music of spirit and inspiration. Turiya represents the freedom of expression and freedom of consciousness. We are all Turiya, which is the highest state of consciousness». –

A dirlo è proprio Hamid Drake, uno dei più importanti batteristi del jazz contemporaneo. Con una carriera costellata da grandi collaborazioni, tra cui quella con Don Cherry, Drake è diventato un maestro nel fondere tra loro influenze musicali afro-cubane, indiane e africane. Oggi si esibisce con gruppi jazz europei suonando non solo la batteria ma anche il tamburo a cornice, le tabla e altre percussioni a mano.

Hamid Drake
Hamid Drake, foto dal profilo del Torino Jazz Festival

In “Turiya” spoken words, poesia, musica, gestualità, culture differenti e avanguardie si uniscono per creare uno spettacolo che va al di là di ogni limite, diventando un veicolo per comunicare una profonda spiritualità.
Sul palco c’è anche la danzatrice Ngoho Ange che, con la sua danza libera e la sua gestualità pronunciata cattura gli spettatori. Come impossessata da uno spirito (forse della stessa Alice Coltrane?), sembra quasi catapultarsi in uno stato di trance. Con i suoi movimenti ora fluidi, ora rigidi e scattanti, lo sguardo fisso e le espressioni facciali, Ange interiorizza i sentimenti espressi dalla musica e li proietta al di fuori del proprio corpo facendoli arrivare dritti al pubblico. Ad ogni gesto il corpo della danzatrice sembra prendere sempre di più consapevolezza della sua esistenza: sembrano esplicitare visivamente i contenuti musicali e mistici che hanno caratterizzato la vita di Alice Coltrane.
Ngoho Ange ha anche portato in scena la poesia attraverso un uso particolare della voce, sperimentando vari modi di emissione del suono a seconda della portata delle emozioni e del significato delle parole. È proprio qui che viene messo in risalto in grande ruolo che hanno avuto le avanguardie in questo progetto: il canto, che si riduce a pura declamazione enfatica, viene unito a versi emessi dall’apparato fonatorio, ricordando le sperimentazioni novecentesche di Luciano Berio. Elemento sostanziale di tutta questa performance è proprio il tema della ripetizione di parole, che restano incapsulate e immutate dal punto di vista letterale; anche la musica risulta costellata di cellule ritmiche ripetitive che permettono come di ricreare lo stato di estasi.

Ngoho Ange, foto dal profilo del Torino Jazz Festival

Pochi strumenti, ma differenti tra loro come l’organo Hammond, i sintetizzatori, la tromba, il contrabbasso, le tastiere e la batteria, riescono a creare una grande massa sonora che riempie lo spazio della sala. Per la maggior parte dello spettacolo è evidente il contrappunto tra la danza e la musica strumentale, ma anche tra gli strumenti stessi. Un vero e proprio concerto, nel senso letterale del termine: nonostante i suoni prodotti risultino indipendenti tra loro, la sonorità ricreata è uniforme. I musicisti sul palco si divertono, si scambiano sguardi complici e ballano. Assieme a loro il pubblico ondeggia sulle proprie gambe lasciandosi trasportare dal groove e dal ritmo della musica.

Ospite della serata Gianluca Petrella, fra i più apprezzati trombonisti a livello internazionale che ha collaborato con artisti di fama internazionale incidendo musica di diverso tipo, dalla sperimentazione al mainstream, dal jazz alla musica elettronica e techno. Petrella entra sul palco timidamente e dopo scherzi con Drake perché «He feels he is not dressed properly», sin dalla prima nota lascia tutti a bocca aperta. Integrato perfettamente nel gruppo la musica si fa sempre più energica e potente.

Il pubblico a gran voce, tra fischi e applausi, richiede un bis. Una lunga introduzione pianistica con lunghe scale ascendenti e discendenti, un po’orientali, fa da ponte per l’ingresso in scena degli altri strumentisti che cominciano a suonare note che poco a poco si discostano dalla melodia del piano. Inizialmente il brano risulta cantabile, poi l’ingresso della batteria dà energia, introducendo una pulsazione che richiama le sonorità del blues e quelle afro-cubane. La linea del piano talvolta sembra ricordare attraverso una piccola cellula melodica la canzone Sound of Silence di Simon & Garfunkel.
Ancora una volta al centro del brano la ripetizione, udibile sia nella voce di Ange che nella linea strumentale.

Unendo avanguardie e musica afroamericana, Turiya si è rivelato un miscuglio molto ben riuscito di jazz e blues, classicità e avanguardia energia e calma.

A cura di Ottavia Salvadori

TJF 2023: Louis Sclavis e Federica Michisanti Trio

La vigilia della Festa della Liberazione vede la città assorbita nell’undicesima edizione di un Festival ricco di musicisti e proposte culturali; clima e temperatura sono in linea con le medie stagionali, l’ora è quella dell’aperitivo – le 18 in punto – e al Teatro Vittoria di via Gramsci va in scena il frutto del sodalizio artistico tra il noto clarinettista lionese Louis Sclavis e la contrabbassista e compositrice romana Federica Michisanti, accompagnata dal violoncello di Salvatore Maiore e dalla batteria di Emanuele Maniscalco.

La collaborazione tra i due artisti è del tutto inedita, così come la formazione del quartetto. L’età media del pubblico non è delle più giovani, e i ragazzi presenti sono pochi, ma non mancano certo; si ha la sensazione di trovarsi attorniati da ascoltatori appassionati del genere, nonostante la grande presa esercitata dalla manifestazione anche su semplici curiosi e onnivori musicali.

Louis Sclavis
Louis Sclavis. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Michisanti coglie qui l’occasione per presentare il suo nuovo progetto, del quale introduce i brani intervallandoli a brevi “note d’autore” riguardo le ispirazioni che hanno dato loro vita. La musicista modella una commistione tra jazz “classico” e influssi più eterogenei, derivati soprattutto dalla musica classica contemporanea. I due brani di apertura (il titolo del primo è “Two”, mentre quello del secondo è ancora da definire, anche se avrà a che fare con l’ambiente in cui è stato composto – una mansarda), eseguiti senza presentazione, danno da subito l’idea di un incastro efficace: l’intesa tra gli artisti è palpabile, e nell’insieme si può ben cogliere la sensibilità propria di ciascun elemento. Le linee melodiche sono affidate soprattutto a Sclavis, che alterna clarinetto e clarinetto basso, e a Michisanti, con il suo contrabbasso spesso caratterizzato da fraseggi rapidi e guizzanti.

federica Michisanti Torino Jazz Festival
Federica Michisanti. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Diverso spazio è concesso anche a parti improvvisative più o meno larghe, in cui risalta il frizzante drumming di Maniscalco. Quest’ultimo si destreggia tra bacchette, spazzole e mazzuole, con uno stile originale; la batteria presenta un kit abbastanza essenziale, dal quale scaturiscono fantasiose sezioni ritmiche (e poliritmiche). E forse è con il violoncello di Maiore che si apprezzano maggiormente gli accenti di musica contemporanea; le sonorità tipiche dello strumento vengono infatti alternate a pratiche non convenzionali, come l’utilizzo dell’archetto tra ponticello e cordiera – che genera un suono stridente, smorzato – o addirittura un approccio percussivo sulle corde.

Salvatore Maiore Torio Jazz Festival
Salvatore Maiore. Credits: Pagina Facebook Torino Jazz Festival

Una componente evocativa è imprescindibile per l’opera di Michisanti, che intitola uno dei suoi brani “B4PM”, ovvero “Prima delle quattro [del pomeriggio]”, con riferimento a una “luce particolare” percepita nel suddetto orario della giornata; da menzionare anche “Floathing”, una sorta di neologismo inglese dedicato a una composizione che “cambia continuamente il suo centro tonale”. Proprio durante “B4PM” Sclavis si produce in un lungo assolo col quale, sfoggiando la sua esperienza e il suo talento, strappa un applauso spontaneo ai presenti.

Dopo essersi assentati per pochi secondi dal palco e avere eseguito un ultimo pezzo, gli artisti si congedano dal pubblico con ripetuti inchini, chiudendo un’ora abbondante di concerto. Un jazz che lascia in chi ascolta il sentore di un lavoro profondo, intimo, condotto con l’amore di chi in questa musica sente la propria casa.

A cura di Carlo Cerrato

Steve Coleman and The Five Elements in una data straordinaria al Torino Jazz Festival

Il teatro è pieno: anche per la data del 25 aprile il Torino Jazz Festival ha registrato il sold out. Prima dell’entrata in scena degli artisti, sale sul palco Stefano Zenni (direttore artistico del Festival) per presentare Steve Coleman che di lì a poco riempirà il teatro con la sua musica, insieme ai Five Elements, gruppo con cui collabora dall’inizio degli anni ’80.

Zenni sottolinea il fatto che il musicista non venga in Italia da diversi anni: la sua esibizione di Torino è davvero straordinaria, anche perché il festival è riuscito a far anticipare l’inizio del tour. Coleman è – spiega ancora Zenni – uno dei musicisti più influenti della storia recente del jazz. Innovatore del jazz dagli ultimi vent’anni, propone una sorta di laboratorio musicale in cui innesta fantasie melodiche più lente − o per lo meno cantabili – a ritmi di matrice afroamericana più corporei e danzanti, ottenendo una musica dal carattere pienamente contemporaneo. 

Steve Coleman and The Five Elements
Steve Coleman and The Five Elements – foto dal profilo del TJF

Steve Coleman sale sul palco (con in mano il sax, la custodia e una busta di carta), seguito da Jonathan Finlayson alla tromba (con una macchinetta fotografica a tracolla, che posa subito sul palco), Rich Brown al basso elettrico e Sean Rickman alla batteria. Intervalla la presentazione degli artisti a delle cellule melodiche a cui si collegano subito il bassista, e poco dopo gli altri due musicisti. Non è previsto uno strumento prettamente armonico, motivo per cui l’intero concerto è sorretto dal tocco leggerissimo del batterista che si mescola ai ritmi composti del basso a sei corde di Brown, su cui si poggia il dialogo armonico dettato dal contrappunto tra sassofono e tromba. La ritmica, cadenzata, prende qualcosa dai ritmi hip hop underground, mentre le melodie sono per la maggior parte improvvisate. Non si tratta solo di free jazz o funk. È quel filone a cui Coleman è tanto legato e che si chiama M-Base – acronimo di Macro-Basic Array of Structured Extemporizations – in cui tutte le forme dell’universo sono connesse e hanno come obiettivo finale l’espressione artistica. Alla fine del concerto Coleman prova a raccontarlo: «When you play there’s a energy», e l’energia si sente davvero in platea, dove il pubblico continua a far ondeggiare la testa o muovere le gambe o i piedi, incapace di rimanere immobile. 

Poi, perentorio, continua: «We have to stay awake for you», spiegando che lui e i suoi musicisti sono stanchi a causa del jet lag, come se volesse giustificarsi di non essere propriamente in forma. Ma se il risultato già così è sbalorditivo, viene da chiedersi come sarebbe con i musicisti nel pieno delle loro possibilità…

a cura di Alessia Sabetta

Shabaka Hutchings / Majid Bekkas / Hamid Drake – TJF 2023

Tra jazz, musica gnawa e ritmi afroamericani

I festival, com’è noto, sono anche occasioni per creare esperimenti con produzioni originali che possono avere molteplici esiti. Nel caso del Torino Jazz Festival, la terza serata ha visto la composizione di un trio, si potrebbe dire, inusuale: il sassofonista inglese Shabaka Hutchings, il cantante e suonatore di guembri marocchino Majid Bekkas e il batterista e percussionista americano Hamid Drake.

Shabaka Hutchings, foto di Ottavia Salvadori

Inusuale perché i tre arrivano da background diversi, ma ciò non impedisce loro di trovare un’intesa, rendendo il concerto qualcosa di unico. I suoni emessi dal guembri – strumento tipico della musica degli Gnawa, gruppo etnico che discende dagli schiavi neri deportati nella zona sahariana – di Bekkas sono in un registro medio (tra chitarra e basso, leggermente più ovattato), tale da permettergli di essere il centro portante della performance. Bekkas suona dei riff che si ripetono, su cui canta la stessa melodia, ed è il perno su cui far avvicendare le personalità di Drake e Hutchings, con il loro arsenale di strumenti. Certi riff si sposano perfettamente con alcune delle sonorità afroamericane e afrocubane che il batterista porta avanti tra ritmi funk e tribali, trasformando la batteria in una sintesi di percussioni che spinge il pubblico a ballare. Dal canto suo, Shabaka improvvisa in un linguaggio abbastanza riconoscibile di provenienza jazzistica, spezzando le metriche su una poliritmia che si incastra perfettamente negli spazi dei suoni degli altri due. Hutchings, inoltre, cambia costantemente atmosfera passando dal sassofono ad altri strumenti a fiato di tradizione africana e nativo americana.

Majid Bekkas, foto di Ottavia Salvadori

Il momento più suggestivo della serata accade quando Hamid Drake si siede di fronte al pubblico e, suonando un tamburo a cornice e battendo i piedi nudi per terra, accompagna Shabaka Hutchings e il suo flauto doppio. Il pubblico ascolta con religioso silenzio il momento sacrale che si sta creando e al brano successivo si accoda anche Majid Bekkas, con una kalimba che suona con virtuosismo.

Hamid Drake, foto di Ottavia Salvadori

L’improvvisazione è il principio su cui si fonda tale esperimento: accostando la potenza prorompente di Drake e il fraseggio scomposto di Hutchings, entrambi guidati da Bekkas. In una serata che ha dato l’impressione di essere una jam session tra figure divergenti, il pubblico non ha fatto altro che ballare dall’inizio alla fine.

A cura di Luca Lops


Kenny Barron Trio – 80th Birthday Tour

La leggenda vivente del pianoforte jazz al Torino Jazz Festival

Sold out  per la seconda serata del Torino Jazz Festival, per la quale sono addirittura stati aggiunti ulteriori posti a visibilità ridotta. Sullo stesso palco dove la sera prima si è parlato dei grandi musicisti che hanno fatto la storia del jazz, ci è salito proprio uno di loro, il pianista Kenny Barron, in occasione del tour per il suo 80° compleanno. Insieme a lui, Kiyoshi Kitagawa al contrabbasso e Jonathan Blake alla batteria.

Kiyoshi Kitagawa, foto di Ottavia Salvadori

Il pianista statunitense è parte della vecchia leva (avendo suonato con autorità come Dizzy Gillespie, Lee Morgan, Stan Getz e tanti altri) e dimostra da subito un fraseggio e un linguaggio jazzistico molto raffinati, semplici e melodiosi. Senza perdere tempo, dopo un breve saluto Barron introduce il primo brano, “Teo”, «from the great Thelonious Monk». «Si comincia alla grande!» commenta qualcuno tra il pubblico. I due accompagnatori si rivelano immediatamente personalità molto diverse, ma nell’insieme diventano parte di una macchina ben oliata: tra Kitagawa che gioca molto con gli spazi e Blake che spinge con delicata velocità, Barron tiene le redini “tirando indietro” con lo swing, per rimanere fermo e inamovibile nella pulsazione di ogni brano. In circa un’ora e mezza, il trio esegue alcuni standard presi dal repertorio jazzistico, come “How Deep Is The Ocean” e “Nightfall” di Charlie Haden, passando per “The Surrey with the Fringe on Top” tratto dal musical di Broadway Oklahoma e in conclusione, una sua composizione originale, “Calypso”.

Jonathan Blake, foto di Ottavia Salvadori

Al momento del bis accade qualcosa di unico: il trio comincia a suonare “Poinciana” in modo sospeso e leggero, quasi fluttuante. Il brano è famoso per il suo ritmo sincopato atipico e quando la pioggia inizia a scrosciare sul tetto della sala rende l’atmosfera ancora più suggestiva, creando un contrappunto con il pianoforte che trasforma il gruppo in un quartetto. Al termine del brano, le luci si accendono e il pubblico sembra ridestarsi da un sogno, rimanendo ancora incantato da ciò a cui aveva appena assistito. «I hope to see you again!» saluta il pianista, tra i commenti di qualche spettatore che avrebbe voluto sentire ancora altri bis e di qualcun altro tristemente consapevole della sua stanchezza dovuta all’età. Noi, invece, speriamo di rivederlo al più presto, per un’altra umile lezione di swing.

A cura di Luca Lops

Kenny Barron, foto di Ottavia Salvadori

Natura morta con custodia di sax apre il Torino Jazz Festival

Alle OGR la produzione originale con Peppe Servillo & TJF All Stars

Marching band e ballerini di lindy hop invadono strade e piazze di Torino. Si respira aria di festa: il Torino Jazz Festival è iniziato.

Ad aprirlo ufficialmente una produzione originale sul palco delle OGR (come già annunciato durante la conferenza stampa ) che intende rendere omaggio al jazz attraverso brani scelti da Natura morta con custodia di sax di Geoff Dyer, raccolta di storie romanzate di alcuni grandi jazzisti, ma anche saggio-critico sulla poetica del jazz. A leggere è Peppe Servillo (attore e cantante), accompagnato da una jazz band formata ad hoc per l’occasione con nomi di prestigio internazionale: il trombettista Flavio Boltro, Emanuele Cisi al sax tenore e Helga Plankensteiner al sax baritono, il pianista Dado Moroni, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. 

Foto di Alessia Sabetta

L’attore e i musicisti entrano in scena pronti a suonare quando, dal fondo della sala, partono le note blue di un sassofono che richiamano “Sophisticated Lady” di Duke Ellington e spiazzano il pubblico: il sassofono che sentiamo è quello di Helga Plankesteiner, che per tutto lo spettacolo apparirà in punti diversi della sala, facendo da intermezzo alla narrazione dei musicisti sul palco. La serata vede alternarsi letture dal libro e alcuni degli standard più famosi del jazz, come “In a Sentimental Mood” o “Good Bye Pork Pie Hat”, (brano scritto dal contrabbassista Charles Mingus dedicato al sassofonista Lester Young dopo la sua morte) rivista in chiave soul, passando anche per un “Somewhere Over the Rainbow” capace di far fischiettare anche gli accompagnatori dei molti appassionati presenti, forse meno avvezzi alla musica jazz.

Sembra quasi un rituale liturgico: Servillo legge la Parola del Jazz, mentre i musicisti in piedi e immobili, con atteggiamento solenne, ascoltano le parabole dei grandi jazzisti del passato, per poi incarnarli in ogni standard con la partecipazione attiva dell’assemblea .

Foto di Alessia Sabetta

L’ultimo brano diventa una jam session per la personalità emergente di ogni musicista (nonostante l’audio non fosse dei migliori per un concerto di questo tipo). Il bis, invece, è una sorpresa per il pubblico: Peppe Servillo finalmente canta una canzone napoletana, “Presentimento” di Fausto Cigliano, accompagnato da Moroni. Nel farlo lascia il pubblico ammaliato e cullato dalla poesia di questa dedica. In conclusione: brani letti, standard suonati e soli di sax baritono risuonanti in platea, diventano pezzi sparsi di un puzzle. All’ascoltatore il compito di assemblarli.

A cura di Luca Lops

TORINO JAZZ FESTIVAL 2023

Presentati i main events dell’XI edizione

Dopo cinque anni, il Torino Jazz Festival torna sotto la direzione artistica di Stefano Zenni, uno dei massimi esponenti italiani della divulgazione jazzistica. È proprio per questo che si respira una certa curiosità nella sala del Municipio di Torino dove il 3 marzo alle 11.00 è prevista la conferenza.

Dopo i vari ringraziamenti, Zenni freme dalla voglia di raccontare cosa il Festival abbia in serbo per la città. Dopo il teaser preparato per l’occasione, il direttore può finalmente raccontare il programma del Festival, che avrà luogo dal 22 al 30 aprile, facendo notare che non è un caso che l’ultima data corrisponda alla Giornata Internazionale del Jazz promossa dall’UNESCO.

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Ozmotic con Elusive Balance: la musica elettronica arriva anche a teatro

Come può la musica dialogare con altre arti? A questa domanda risponde bene il duo Ozmotic, accolto dall’Unione Musicale al teatro Vittoria il 18 febbraio 2023.

Portando in scena Elusive Balance, primo album italiano ad entrare nel catalogo dell’etichetta londinese Touch, esplorano il rapporto tra esseri umani e natura. Sette pezzi in cui musica elettronica, jazz, sperimentazione e visual art si fondono per creare un flusso continuo che trasporta gli spettatori in un lungo viaggio. L’equilibrio elusivo è destinato a rompersi per creare nuovi contrasti e provvisorie stabilità attraverso nuovi orizzonti sonori generati da accostamenti musicali di elementi che sembrano essere quasi incompatibili tra loro: oggetti di uso quotidiano, microfoni, computer, un sassofono soprano, superfici di controllo, strumenti percussivi e uno schermo nel quale sono state proiettate immagini che interagivano con i diversi suoni.

Screenshot dal video: http://www.ozmotic.it/works/elusive-balance/

L’atmosfera in cui il duo Ozmotic ha immerso il pubblico è stata fin dall’inizio stupefacente: un susseguirsi di stabilità e instabilità emotiva che ha generato molta curiosità in tutto il pubblico presente. Nonostante il duo non abbia mai rivolto uno sguardo verso gli spettatori, è riuscito a catturare i loro occhi e a raccontare la sua visione del rapporto tra l’uomo e la natura, creando un viaggio quasi fantascientifico.

Immagini, luci, musica e musicisti si sono amalgamati perfettamente per creare uno spettacolo in cui gli elementi hanno trovato un equilibrio audiovisivo alquanto efficace. La scelta di iniziare e concludere l’esibizione con le luci semi accese in platea ha permesso al pubblico di immergersi completamente in questo viaggio e di prendervi parte. Allo stesso modo il surround sound ha avvolto gli spettatori catapultandoli in un’altra dimensione fino a fargli perdere il contatto con la realtà.

Presenti in sala alcuni degli assidui frequentatori del teatro ma anche, e soprattutto, giovani, probabilmente appassionati di musica elettronica e/o visual art: un pubblico insolito per la sala del teatro Vittoria. Peccato, però, per le numerose sedie vuote. Forse ciò che risulta distante dalla classica idea di “musica” non è ancora campo di interesse di un pubblico più legato alla canonica idea di sala da teatro?

Il duo Ozmotic dimostra come esista la possibilità per la musica di unire mondi che sembrano diversi ma in realtà appartenenti ad uno stesso universo.

A cura di Ottavia Salvadori e Roberta Durazzi

Immagine in evidenza:   https://cloud.unionemusicale.it/index.php/s/3knF33n3zjsox6D

Gianluca Petrella e Cosmic Renaissance al Magazzino sul Po: un jazz visionario e moderno

I Murazzi tornano protagonisti nella notte torinese. 20 ottobre, Magazzino sul Po: arriva Gianluca Petrella con il progetto Cosmic Renaissance. Il musicista con il suo gruppo presenta l’ultimo album Universal Language, uscito lo scorso 14 ottobre, nell’ambito del festival internazionale Jazz Is Dead, in una delle dodici date del suo tour autunnale, che lo vede attraversare il nostro Paese e numerose città europee. L’ultimo evento italiano sarà infatti il prossimo 28 ottobre 2022 in quel di Bologna.

Fra l’ingresso del pubblico – molto variegato, anche se la percezione è quella di avere a che fare con diversi appassionati del genere – e l’inizio del concerto passa un’abbondante ora e mezza, scandita dalle musiche del dj set di Andrea Passenger, il quale, in una proposta che interseca elettronica e sonorità percussive di ispirazione afroamericana, dipinge un clima propedeutico al jazz atipico ed eclettico che rappresenta il marchio di fabbrica del trombonista barese, collaboratore, fra gli altri, di Elisa e Jovanotti. Intorno alle 22:25 i Cosmic Renaissance, dopo essere stati annunciati, entrano sul palco in un florilegio di camicie dalle fantasie affascinanti e colori decisamente accesi.

Gianluca Petrella al sintetizzatore. Foto: Elisabetta Ghignone

Gli strumenti sono synth, trombone (suonati entrambi dallo stesso Petrella), tromba(Mirco Rubegni), basso elettrico (Riccardo Di Vinci), batteria – acustica, basi e pad elettronici (Federico Scettri) e percussioni (Simone Padovani): l’assenza di chitarre altro non è che un dettaglio, che viene spontaneo notare. Dopo un lungo dialogo iniziale tra le tastiere e la tromba Gianluca emerge con energia, coadiuvato dalla base ritmica, a conquistare i presenti tra armonie ariose e frizzanti intrecci affidati ai due ottoni.

Cosmic Renaissance (da sinistra: Federico Scettri, Gianluca Petrella, Riccardo Di Vinci, Simone Padovani). Foto: Elisabetta Ghignone

Da menzionare le costruzioni poliritmiche tra la vivace batteria di Scettri e le congas – combinate a piccoli piatti, campanacci, chimes e altri originali strumenti (di cui uno a base di tappi di plastica!) – di uno scatenato Padovani, che spesso ruba la scena ai colleghi, così come le guizzanti linee del basso di Di Vinci. Petrella incalza i suoi uomini, avvicinandosi faccia a faccia e lasciandosi assorbire dal flow del divertimento musicale.

Simone Padovani e la sua strumentazione. Foto: Elisabetta Ghignone

Circa a metà dell’esibizione prende posto sul palco il primo di due ospiti, i quali hanno tra l’altro partecipato alla registrazione dell’album: si tratta del sassofonista Pasquale Calò, che si inserisce nel brano “Nomads”. Il musicista si unisce al discorso con grande apporto – e trasporto – personale, in un’atmosfera sempre più satura delle sfumature sul genere portante. Il secondo ospite è l’apprezzatissima cantante Anna Bassy, che entra poco dopo: la sua voce, specie in “Wonder” e in “Connection”, calza a pennello, intima ma prorompente, con la declinazione più soft del corredo strumentale. Scelta azzeccatissima.

Anna Bassy. Foto: Elisabetta Ghignone

L’evento si avvia verso il crescendo finale, attraverso duetti melodici avvincenti e la sfida, quasi solistica, di ognuno dei musicisti a spingersi oltre il limite, a dare il meglio di sé. Il pubblico, in modo più o meno timido, si lascia andare muovendosi a tempo sul posto, sazio per aver assistito dal vivo a tanta buona musica.

Ancora Padovani, Pasquale Calò e Mirco Rubegni. Foto: Elisabetta Ghignone

Dopo l’agognato bis, di nuovo in compagnia di Anna, Petrella e i Cosmic Renaissance salutano calorosamente Torino, prima di bere qualcosa nel locale e godersi gli ultimi scampoli di serata. C’è da sperare che non passi molto tempo prima di rivederli da queste parti, a ispirare chiunque apprezzi la loro arte.

A cura di Carlo Cerrato